14 giugno 2008 Ugento (LE). Assassinato Peppino Basile, 61 anni, amministratore pubblico, per il suo impegno politico contro la mafia.

Foto da:  change.org Petizione per “Verità e giustizia per Peppino Basile, vittima innocente di mafia.”

Peppino Basile, 61 anni, era un amministratore pubblico e parte della commissione provinciale Ambiente, impegnato in diverse battaglie politiche, amministrative e ambientali del Masaniello di Ugento. Ucciso con 19 coltellate la notte tra il 14 e il 15 giugno 2008 davanti al cancello della sua abitazione. La Procura di Lecce non ha individuato né esecutori né mandanti dell’assassinio di Peppino. Indagava sulle infiltrazioni delle mafie nella gestione rifiuti, sul pcb, su rifiuti radioattivi dentro la discarica di Burgesi, e su un centro di stoccaggio rifiuti realizzato con soldi pubblici, vandalizzato e mai utilizzato. Un omicidio efferato, che accese i riflettori su Ugento e sui suoi segreti e che scosse l’intero Salento
Fonte:  vivi.libera.it

 

 

Fonte: iltaccoditalia.info
Peppino Basile: omicidio di mafia

Peppino Basile è stato ucciso nella notte tra il 14 e 15 giugno 2008 con 19 coltellate, sulla soglia di casa sua.

Consigliere provinciale e comunale all’opposizione di Ugento, eletto tra le fila dell’Italia dei valori (il partito fondato dal magistrato Antonio Di Pietro) era un rompiscatole dal cuore d’oro.

Dopo aver accusato e tenuto in prigione per molto tempo i vicini di casa, un anziano e un minorenne, poi assolti con formula piena per non aver commesso il fatto, la Procura di Lecce ad oggi non ha individuato né esecutori né mandanti dell’assassinio di Peppino.

Peppino Basile era un fonte riservata del Tacco: la prima importante collaborazione con lui risale al 2005, per l’inchiesta sull’ecomostro all’interno del parco regionale di Ugento. La redazione del Tacco ha condotto un’inchiesta investigativa sul suo assassinio, dimostrando che le piste seguite dalla Procura portavano verso vicoli ciechi, come in effetti è poi accaduto, ed evidenziando alcuni nuovi spunti investigativi.

La redazione del Tacco mise a disposizione una piattaforma web per commenti e segnalazioni anonime, dove arrivarono migliaia di messaggi (e documenti riservati) da parte dei cittadini, che innescarono un serrato dibattito anche sul futuro del territorio (un esperimento antesignano del citizen journalism). Si rinsaldò il legame tra i lettori ed il giornale, tutt’oggi molto solido.

Il libro “Il sistema”, a cura della direttora Marilù Mastrogiovanni, con la prefazione di Antonio di Pietro, ripercorre le inchieste giornalistiche realizzate dal Tacco grazie anche alla collaborazione di Peppino Basile.

Ancora oggi a Ugento si respira omertà sulla morte di Peppino Basile: il Comitato “Io conto” che chiedeva giustizia si è disgregato. Il prete scomodo, don Stefano Rocca, che esortava i fedeli a rompere il muro di omertà con fiaccolate, cortei, omelie, è stato allontanato dal Vescovo in un’altra provincia.

Solo da morire” (n. 49 – Luglio 2008)

L’affare rifiuti” (n. 54 – Febbraio 2009)

Violentate – Abusi nel Salento. Aguzzini in casa e vittime silenziose” (n. 55 – Marzo 2009)

Incazzati verdi” (n. 56 – Aprile 2009)

Basile anno secondo” (n. 74 – Giugno 2010)

 

 

Fonte: vivavoceweb.com
Articolo del 2 aprile 2015
Delitto Basile: assoluzione Colitti Senior. Un delitto senza colpevoli di un grande “personaggio”
Comitato Pro Basile: Ora più che mai Verità e Giustizia per Peppino!

“Così come abbiamo sempre sostenuto, per il grande rispetto che abbiamo nei confronti della magistratura e degli organi inquirenti, ci limitiamo a chiedere ancora una volta ed ora più che mai: Verità e Giustizia per Peppino Basile!” A dichiararlo in una nota congiunta Gianfranco Coppola, ex consigliere provinciale e comunale di Ugento che aveva sostituito il consigliere Basile sui due scranni istituzionali e Giovanni D’Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti” – e che erano stati i primi a costituire il “Comitato Pro Basile” – sull’assoluzione giunta nella giornata di ieri di Vittorio Colitti senior dall’accusa di omicidio nei confronti del politico dell’IDV ucciso la notte tra il 14 e 15 giugno del 2008.

Si tratta, quindi, di un epilogo che conferma quanto da tempo preannunciato dopo la precedente assoluzione del nipote Vittorio Colitti, ossia che l’omicidio di Peppino Basile rischia di rimanere senza colpevoli.

Un caso che sin da subito, purtroppo, pare sia stato troppo frettolosamente fatto sparire dalla ribalta nazionale quando avrebbe meritato una maggiore attenzione non solo per il calibro del “personaggio” Peppino Basile, amato dal popolo e odiato da molti suoi detrattori, ma anche per la serie di eventi che sono ruotati attorno a questo drammatico fatto che ha sconvolto l’intera comunità e non solo quella di Ugento.

Non possiamo, infatti, dimenticare quanti, anche fra i politici locali nell’immediatezza di quei giorni del giugno 2008, volevano far “archiviare” il caso come un fatto passionale o comunque per futili motivi e che quindi si sarebbe risolto in poco tempo, mentre ora a distanza di quasi sette anni il sipario sembra sia stato ancora una volta calato senza che nè la famiglia di Peppino nè i suoi amici o la cittadinanza possano sapere con certezza chi è stato ed i motivi di quell’orribile fatto criminale.

Per Coppola e D’Agata, dunque, “Con la lettura del dispositivo della sentenza di assoluzione si chiude l’ennesimo capitolo giudiziario ma se ne apre un altro che getta ulteriori ombre su un fatto drammatico e sconfortante: non è possibile che la morte di una personalità così importante, così nota nella comunità ugentina e salentina tutta rimanga un caso irrisolto e senza alcun colpevole.Proprio per questo non possiamo che rivolgere il nostro invito agli organi inquirenti affinché facciano un ulteriore sforzo dopo il notevole ed egregio lavoro d’indagine già svolto dopo l’omicidio, affinché quello di Peppino non passi alla storia come uno dei tanti omicidi di politici rimasti senza il nome dei colpevoli ”.

 

 

Fonte: iltaccoditalia.info 
Peppino Basile riconosciuto vittima innocente di mafia
Articolo del 15 marzo 2019
di Marilù Mastrogiovanni
Il Tacco d’Italia ha portato avanti in totale solitudine una campagna d’informazione durata 11 anni. Oggi passiamo la staffetta ai piccoli “figli di Peppino”

Chi ha ucciso Peppino Basile?
Chi sono i mandanti, chi sono gli esecutori? In quale contesto è maturato il suo assassinio? A chi ha dato fastidio? Adesso con più forza possiamo pronunciare, tutti insieme, queste domande, Peppino Basile è stato riconosciuto da Libera come “vittima innocente di mafia” e inserito nel lungo elenco dei nomi che saranno letti il 21 marzo prossimo a Padova, in occasione della Giornata della memoria e dell’impegno”.

Con il mio giornale, il Tacco d’Italia, non ho mai smesso di chiedere Verità e Giustizia per Peppino Basile, ucciso con decine di pugnalate dinanzi alla porta di casa sua, nella notte tra il 14 e il 15 giugno di 11 anni fa.
Quello che ho pubblicato dopo, è stato il frutto di un impegno costante e fastidioso: una spina nel fianco della Procura di Lecce.

Ho pubblicato numeri speciali monotematici, un libro, servizi televisivi. Ho fatto arrivare nel Salento colleghi da tutta Italia, di tutti i network. Più di recente, ho lanciato una petizione che ha raccolto quasi 35.000 firme.
Le persone attorno al Tacco e attorno a me, via via si sono rese evanescenti, i rapporti si sono sfilacciati. Chi chiedeva Verità e Giustizia ha cominciato a chiedere un “favore” ai politici, e quando il favore è stato ottenuto, la mente s’è distratta a tal punto da dimenticare Peppino.

C’è invece chi non si è piegato, come Gianni D’Agata e Francesco D’Agata del “Comitato Pro Basile”, che hanno mantenuto l’impegno “per non dimenticare” con azioni forti, chiedendo al Ministero di Grazie e Giustizia sindacati ispettivi presso la Procura di Lecce. Come Vito Rizzo, portavoce del Comitato Io Conto, nato all’indomani dell’omicidio di Peppino, che non ha mai smesso di ricordare e di chiedere “conto”: ogni anno in occasione dell’anniversario della morte ha tappezzato tutto il paese di Peppino, Ugento, con dei manifesti in cui chiedeva Verità e Giustizia.
Vito Rizzo ha pagato caro il suo impegno, ma può guardarsi allo specchio e può guardare negli occhi le sue figlie. Come caro l’ha pagato don Stefano Rocca, infangato con accuse inesistenti, isolato, esiliato dalla chiesa solo perché durante la messa chiedeva ai suoi cittadini di parlare, di rompere il muro di omertà.

Gli altri invece hanno portato fiori sulla tomba, nella speranza di sotterrare anche la memoria.
Non sapendo che la memoria e le inchieste, quando si fondano sulla Verità dei fatti, hanno gambe proprie.
Quella memoria è stata alimentata da tante ragazze e ragazzi del Salento: nelle scuole, nelle piazze, da diversi anni si approfondisce la storia di Peppino, si leggono le inchieste che noi del Tacco d’Italia abbiamo fatto con la sua collaborazione. Perché Peppino, da consigliere comunale d’opposizione (nelle liste di Italia dei Valori) era un whistleblower, una fonte qualificata e nascosta del Tacco: con Peppino abbiamo realizzato inchieste investigative importanti, per cui ci siamo fatti non pochi nemici e abbiamo pagato prezzi altissimi. Quello che è accaduto in quegli anni, le difficoltà, le minacce, l’ostinazione, gli scoop, li trovate nel documentario di Rai1 “Cose nostre – Scacco al Tacco”.

Per anni siamo rimasti inascoltati, finché un po’ di polvere depositata sui fatti li ha fatti brillare ancora più vividi, come quando un improvviso raggio di luce colpisce i granelli di pulviscolo sospesi nell’aria e tu vedi quello che prima non vedevi, ma era lì.

Le studentesse e gli studenti del Liceo Rita Levi Montalcini di Casarano (Le) due anni fa per la manifestazione del 21 marzo hanno sfilato con il nome di Peppino Basile sugli striscioni, riconoscendolo vittima innocente di mafia. L’anno dopo altre scuole, anche scuole medie ed elementari, hanno studiato le sue battaglie, hanno parlato di speculazioni edilizie nel parco regionale di Ugento, hanno parlato della discarica di Burgesi, di smaltimento di rifiuti pericolosi e tossici quale il pcb fatto per le aziende del nord da altre aziende riconducibili ai clan della sacra corona unita.
Attraverso la memoria di Peppino le scuole stanno riuscendo a lavorare sul senso civico dei bambini e sul concetto di “bene comune”, facendo sì che il bene comune venga riconosciuto nella quotidianità, nel vissuto, nelle spiagge, nel mare, negli ulivi, nei beni architettonici. In una parola: nella Bellezza.
Nei suoi comizi Peppino diceva che “qui non c’è la mafia, c’è il sistema”. “Il Sistema” è il libro in cui ho raccolto le inchieste realizzate dal Tacco con la collaborazione di Peppino Basile.

All’indomani della sua morte siamo andati alla ricerca delle sue piste, ripercorrendole, analizzandole tutte con occhi nuovi. Con Ada Martella e Giancarlo Colella abbiamo passato al setaccio appalti, bandi, incarichi. Abbiamo aperto armadi della vergogna grandi quanto l’intero palazzo comunale ugentino. Mi sono riletto i verbali dei consigli comunali dell’ultimo anno prima della sua morte e ho pubblicato i passaggi più inquietanti: dialoghi densi di frasi minacciose, denigratorie, con cui si irrideva “il masaniello di Ugento”.

La sua è stata una morte annunciata e le piste, per chi ha occhi per vedere, arrivano fin dentro al Palazzo. Ho analizzato oltre 300 verbali di persone sentite dagli inquirenti per avere sommarie informazioni su quello che stavano facendo in quei pochi minuti subito prima e subito dopo l’assassinio. Per vedere quanto fosse verosimile il quadro accusatorio della Procura, tracciando un puzzle degli spostamenti degli abitanti del paese da cui emergeva che l’ipotesi non reggeva.

“Dovrete passare sul mio cadavere”, disse Peppino in uno dei suoi ultimi discorsi pubblici. Quindici giorni prima della sua morte comparvero sui muri di Ugento le frasi “Peppino devi morire”, “Peppino morte”, e lui la sera prima di essere ucciso fece un sopralluogo all’impianto di stoccaggio realizzato con soldi pubblici e mai utilizzato, vandalizzato dopo la sua morte, ma integro e pronto per partire quando l’abbiamo fotografato noi. Abbiamo anche pubblicato le foto dei camion dell’allora Geotec, la ditta della famiglia Rosafio-Scarlino, la famiglia del boss Pippi Calamita, che usava quell’impianto, chiuso e inagibile, come fosse roba sua.

Da oggi si cambia passo.
Da oggi tutti devono chiedere senza paura Verità e Giustizia per Peppino. Come già da anni fanno tanti bambini e bambine, studenti e studentesse con i loro docenti.
Senza paura loro lo fanno da anni.
Peppino non aveva figli.
Quei bambini e quelle bambine possono a pieno diritto essere considerati gli eredi naturali delle sue battaglie per il bene comune. E non credo che quei piccoli “figli di Peppino” si faranno zittire.

Il futuro è loro.
E oggi è anche venerdì #FridayforFuture

 

 

 

 

 

 

Marilù Mastrogiovanni a Cose Nostre – Rai 1
Il Tacco d’Italia – Pubblicato il 13 nov 2016

 

 

 

Fonte: mafie.blogautore.repubblica.it
Articolo del 16 marzo 2020
Peppino Basile, fra silenzi e mezze verità
di Carla Nassisi

Il sogno, un mio sogno. Veder questa terra crescere. Sarei pronto al sacrificio della mia vita, purché questa terra cresca. Per il domani dei nostri figli.

Giuseppe Basile, detto “Peppino”, quel sogno lo difendeva sempre. Nelle sale del Consiglio comunale, seduta dopo seduta. Nelle piazze. Tra le campagne e i viali della sua città, la salentina Ugento arsa dal sole, tra luoghi splendidi e abbandonati, dove ecomostri e discariche di rifiuti tossici spuntavano come funghi.
Peppino Basile era uno che non sapeva starsene fermo e zitto. Un “guerriero”, lo definiva in un’intervista l’antico compagno di scuola Stefano Carluccio. Carluccio soffriva di problemi di motricità fin dalla nascita. Peppino lo prendeva in braccio, insieme a un altro amichetto, e lo accompagnava da casa a scuola e viceversa. Tutti i giorni, facendolo “crepare di risate”, tra battute e scherzi ai passanti. Con quelle gesta, si era guadagnato persino un premio scolastico.

Dopo gli anni della scuola, Peppino aveva preso in mano il suo futuro, dapprima perseguendo una carriera nell’ambito delle costruzioni edili. Le sue antiche passioni, tuttavia, non avevano tardato a riaccendersi. Lo avevano condotto fatalmente verso una strada da lui fino a quel momento poco battuta, quella della politica: Peppino aveva trovato nell’adesione al partito l’Italia dei Valori, di Antonio Di Pietro, la chiave d’accesso per un mondo oscuro ed elettrizzante. A 61 anni, Peppino era ormai consigliere comunale a Ugento e alla provincia di Lecce.

Nel tempo, Peppino era rimasto lo stesso ragazzino che non sapeva starsene zitto e fermo. Alle sette del mattino era già al bar del municipio a ordinare “Caffè per tutti”; e poi via, con le critiche all’amministrazione. I suoi avversari politici lo avevano inquadrato fin dal primo momento: non poteva essere altrimenti. Gli davano del “predicatore”, del “Masaniello di Ugento”. Apposizioni che non sembravano dispiacergli troppo. Come proclamava lui stesso a gran voce, in Consiglio, il 25 febbraio 2008: “Io sono un predicatore che posso predicare anche un pensiero non condiviso da te, ma che sono convinto di ciò che predico, essendo che sono quel predicatore basato su legalità, su diritti dei cittadini e sulla trasparenza delle amministrazioni. Questo è il mio predicare (…) allora continuo a predicare.” “Voglio rimanere quella voce isolata nel deserto, ma continuo a predicare”, aveva concluso, poco prima che un altro Consigliere lo stroncasse con una battuta raggelante: “Volevo dire al consigliere Basile: il profeta, il predicatore nel deserto, poi Giovanni Battista finì con la testa mozzata. A volte può anche essere pericoloso, scomodo, avere questo ruolo”.

Nella stessa arena politica, quella del Comune di Ugento, dove aveva esordito per la prima volta come candidato nel Novembre del 1998, Peppino faceva spesso i conti in tasca al Consiglio. E non esitava a farsi sentire, quando quei conti non tornavano. Era puntiglioso, faceva domande, soprattutto sulla gestione dei soldi pubblici. Gli uffici della Polizia municipale avevano richiesto due nuove Punto: “se fossero soldi tuoi, li spenderesti 20.500 euro per una Punto, Francesco?”. E ancora, incalzava affinché non fosse approvato quel “mostro di piano regolatore”; s’infuriava nel leggere le carte di un bilancio che era la fotocopia di quello dell’anno prima. Denunciava con spavalda ostinazione i troppi debiti fuori bilancio del Comune. Peppino era pressante; gli altri consiglieri, per metterlo a tacere, spesso lo umiliavano, gli dicevano che non capiva le leggi.

Credevano forse di colpirlo nell’orgoglio, ricordandogli che non era all’altezza: per non aver proseguito gli studi, per non essersi guadagnato nessun “quadro di Picasso”, come chiamava lui i diplomi di laurea. Ma Peppino tirava avanti senza vergogna. Si autodefiniva il “re degli ignoranti”, brandendo l’arma dell’ironia, e affermava che, anche se non era un gran dottore, lui le carte le leggeva fino in fondo e le leggeva tutte, fino a capirci qualcosa. Spessissimo s’infiammava: allora usciva platealmente dall’aula per protesta. “I vostri pastrocchi e imbrattamenti approvateveli da voi”.
Peppino Basile era, infine, un “rompicoglioni”.

Così lo ricorda anche Marilù Mastrogiovanni, direttrice del Tacco D’Italia, celebre per le sue inchieste sulla criminalità organizzata pugliese. Marilù non perde mai l’occasione per raccontare le più grandi battaglie di Peppino. Quella contro un grosso parco eolico che avrebbe deturpato il paesaggio. Quella, più difficile, contro l’edificazione di una struttura ricettiva, resa possibile da una perizia falsa su un terreno dichiarato “seminativo” ma interessato, in realtà, da protezione ambientale. Una battaglia, questa, che purtroppo Peppino aveva perso. L’ecomostro era stato costruito, il progetto approvato in Regione senza un’opportuna valutazione dell’impatto ambientale.

Infine, la battaglia contro lo sversamento di rifiuti tossici in una regolare discarica che serviva tutto il basso Salento: una manovra dietro a cui si celava, a detta di Marilù Mastrogiovanni, la mano lunga della Sacra Corona Unita. Quello della discarica “Burgesi” è un nodo considerato fondamentale per la comprensione degli ultimi passi politici di Peppino Basile, così come per gli eventi che vi seguirono.

Amico leale, politico per passione, whistleblower del Tacco, cittadino in prima linea. Peppino pareva instancabile. Lo conoscevano tutti molto bene, a Ugento, in Consiglio, nel Partito. Nel bene e nel male. Peppino sembrava essere consapevole dei sentimenti che suscitava: come alcuni suoi conoscenti riferirono alla magistratura, soleva dire “Mi fermerà sulu lu chiumbu…” (“mi fermerà solo il piombo”). In effetti, c’erano state delle minacce. L’ex magistrato ed esponente dell’Italia dei Valori Carlo Madaro aveva successivamente riferito di un’intimidazione ai danni di Peppino. Egli aveva, nel 2008, rinvenuto una testa di cavallo mozzata davanti all’uscio di casa propria. Per di più, nello stesso anno, alcuni ignoti avevano tappezzato i muri di Ugento di scritte minatorie: “Peppino sei nulla, Peppino devi morire”.

Il 14 giugno quei tetri auspicii sembrano concretizzarsi. È circa l’una meno un quarto: Peppino è di ritorno dalla vicina località di Torre Pali in compagnia di Silvio Fersini. I due amici hanno fatto serata; Peppino ha incontrato la signora Quintina Greco, sua nuova fiamma, e ha ballato a lungo con lei. Silvio è di Gemini, e Peppino lo riaccompagna a casa: durante il tragitto, ricorda Fersini, i due quasi tamponano un’opel corsa di colore grigio. Prima di giungere a Gemini, Peppino mostra a Fersini un impianto di stoccaggio di rifiuti: “presto farò scoppiare una bomba”, annuncia, mantenendosi sul vago. L’amico coglie il riferimento a una nuova denuncia politica.

Dopo aver acquistato delle sigarette da un distributore automatico, Peppino si dirige, da solo, verso casa propria. Fersini non è più con lui. A quel punto la vicenda è ricostruita grazie al racconto di diversi testimoni: una ragazza che abita nella strada parallela riferisce di aver udito la voce di Peppino esclamare “uei”, come un cenno di saluto. Poi, vari rumori, un calpestio: infine, le urla. “Aiuto, aiuto. Cummara Tetta, compare, aiutatemi”. È l’una e trentacinque. Il corpo di Peppino viene ritrovato dai vicini, riverso al suolo, esanime, in una pozza di sangue. Le coltellate lo hanno quasi sventrato. Quando arrivano i soccorsi è già troppo tardi. Quel rompicoglioni, quel predicatore di Peppino Basile non c’è più, e lascia attorno a sé solo l’arsura di una placida serata d’estate di un quartiere residenziale di Ugento.

“Ad Ugento c’è il “sistema”, lo confermo in quest’aula”: tuonava così Peppino solo qualche mese prima, il 15 Febbraio dello stesso anno. Lui con quel “sistema” era ossessionato. Forse era questo che lo spingeva a recitare la parte del pazzo, in Consiglio, mentre i suoi colleghi sogghignavano e asserivano di non sopportare il suo tono di voce, sempre sopra le righe. Ma quella del “sistema”, la pista politica, è solo una delle tante opzioni passate al vaglio dagli inquirenti. A suffragarla ci sarebbero le rivelazioni del pentito collaboratore di giustizia Vaccaro, che accusa l’imprenditore Bove di essere il mandante dell’omicidio, eseguito materialmente da due extracomunitari assoldati appositamente per commettere il delitto. Il movente? L’ennesimo malaffare edilizio scoperto da Peppino. Nonostante la verosimiglianza della testimonianza, Vaccaro viene ritenuto inattendibile da inquirenti a magistratura. L’assenza di ulteriori prove fa sì che l’ipotesi di omicidio a stampo mafioso sia presto abbandonata.

Si diffondono quindi ipotesi alternative. Tra queste, aleggia quella del “delitto passionale”, costruita avallando l’immagine di un Peppino “sciupafemmine” che, a sessant’anni, se ne andava ancora in giro, a detta di alcuni, a sedurre e abbandonare. Ma la svolta giunge a pochi mesi dalle indagini, quando inizia a prendere forma la pista del “delitto d’impeto” a opera dei vicini di casa: i Colitti, la famiglia a cui appartengono quel “compare Vittorio e cummara Tetta” che quella sera la testimone sente chiamare a gran voce da Peppino stesso. Ed è, sorprendentemente, proprio questa la pista più battuta dagli inquirenti. “Volevano chiudere”. Così riporta Vittorio Colitti junior, nipote dell’anziano “compare” e vicino di casa Vittorio Colitti. Sono proprio loro, nonno e nipote, a finire nel mirino delle indagini. A incastrarli è soprattutto la testimonianza di una bambina di soli cinque anni, la piccola Valentina, svegliata dal rumore della colluttazione mentre dorme a casa di sua nonna, collocata di fronte all’abitazione dei Colitti, con vista diretta sulla scena del delitto.

La bambina, interrogata una prima volta in presenza della madre e di un assistente sociale, riferisce di aver assistito con sua nonna, dalla finestra, a un pestaggio. Alla richiesta di identificare gli autori, la piccola parla di un uomo basso e anziano e di un ragazzo più alto e giovane e li associa a “il nonno e il fratello di Luca”, suo compagno di giochi, anch’esso nipote di Vittorio e Antonia “Tetta” Colitti. Quest’unica testimonianza fa scattare l’arresto di nonno e nipote; quest’ultimo, un ragazzone dagli occhi gentili, all’epoca dei fatti è ancora minorenne. Secondo la linea della difesa, la bambina sarebbe stata manipolata in sede d’interrogatorio.

Valentina viene sentita nuovamente nel 2009 e nel 2010: la testimonianza resta praticamente invariata, fatta eccezione per il riconoscimento dei Colitti quali autori materiali del delitto. In particolare, è vivo nella bambina il ricordo dell’intimazione della nonna alla piccola di non fare parola con nessuno di quanto aveva visto. La mancanza di coerenza nella testimonianza della bambina fa sì che nonno e nipote, dopo aver affrontato rispettivamente il primo e il primo e secondo grado di giudizio, siano assolti per non aver commesso il fatto.

Esclusa questa testimonianza, emersa solo in un secondo momento, l’impianto accusatorio contro i Colitti appare evanescente. Le quasi trecento persone ascoltate riferiscono che i rapporti tra Peppino e i Colitti erano ottimi, fatta eccezione per una testimone, la quale dichiara che Peppino le avrebbe parlato di frequenti alterchi e pettegolezzi tra vicini: si tratta di illazioni che, da sole, difficilmente spiegherebbero un’azione così estrema. Ancora, la casa dei Colitti, analizzata dalla scientifica nell’immediatezza delle ore seguenti il delitto, non presenta alcuna traccia ematica riconducibile a Basile; le tempistiche non combaciano; non si capisce perché Peppino avrebbe invocato il nome degli stessi vicini che lo stavano ammazzando chiedendo aiuto; infine, è lo stesso Stefano Colitti, figlio di compare Vittorio, a rinvenire per primo il cadavere e a chiamare i soccorsi. La pista dell’“omicidio d’impeto” si rivela un vicolo cieco. Con un unico lascito: una famiglia Colitti distrutta e chiusa in un doppio dolore, quello degli anni rubati, tra carceri, tribunali e riformatori, a un anziano e a un ragazzino; ma anche quello, sempre profondo, della perdita di Peppino.

Oggi, Vittorio Colitti junior non riesce ancora a parlare di lui senza trattenere le lacrime. In una recente intervista televisiva, afferma: “Noi con Basile avevamo rapporti familiari. Era una persona di tutto rispetto, amico, compare. Basile mi ha cresciuto. Lui lavorava all’epoca, mi trattava come un figlio. Io lo rispettavo come un genitore”. E subito aggiunge, l’espressione segnata dalla vergogna: “mi sento un po’ in colpa perché non ho fatto niente per aiutarlo”.

Le vicissitudini dei Colitti sono solo una delle storie dai contorni opachi che portano Ugento al centro delle cronache regionali. A meno di un anno dalla morte di Peppino, il 14 gennaio 2009, il Quotidiano di Puglia titola: “Rifiuti cancerogeni ritrovati a Ugento. La bonifica della discarica abusiva: estratti 260 quintali di rifiuti tossici”. Ha così inizio una stagione velenosa per il clima politico della piccola località salentina. Il partito di Peppino, l’Italia dei Valori, parte all’attacco contro l’amministrazione comunale. Eugenio Ozza, allora primo cittadino di Ugento, minimizza. Da lì, è tutto un susseguirsi di accuse pubbliche, minacce, querele. Ma il fondo non è ancora stato toccato. Il 25 febbraio, una bottiglia incendiaria non esplosa viene ritrovata sotto l’auto del sindaco Ozza. Il 12 marzo un masso di 17 chili viene scagliato contro la vettura del giovane geometra e tesserato nell’Italia dei Valori Simone Colitti. Il 13 marzo una bomba carta appicca il fuoco nella residenza estiva di un altro Colitti, Bruno, imprenditore che aveva denunciato la presenza di rifiuti tossici nella discarica Burgesi. E ancora, a marzo, si susseguono raid nelle sedi di alcuni partiti politici. Nello stesso periodo, l’auto di un consigliere comunale, Angelo Minenna, viene presa a sprangate.

Nonostante l’atteggiamento difensivo del sindaco, i media attribuiscono a Ugento un’atmosfera omertosa: nessuno può più ignorare l’escalation di attentati a breve distanza dall’omicidio di Peppino. I fatti del 14 giugno s’intrecciano con vicende ancora più oscure, legate al ruolo di altri personaggi. Tra queste, spicca quella del parroco del paese, don Stefano Rocca. Fin dall’assassinio di Peppino, don Rocca si fa portavoce di istanze di verità. Nelle sue omelie, don Stefano incalza sul movente politico per l’omicidio di Peppino, attaccando il clima omertoso del paesino; riprende in mano le invettive di Peppino contro “il sistema”. Don Stefano finisce sotto il riflettore mediatico anche grazie ai suoi plateali attriti col sindaco Ozza: il primo cittadino di “mafia” non ne vuol sentir parlare, e attacca il parroco per le sue velleità politiche. Come se non bastasse, Don Stefano dichiara ai giornali di aver raccolto una confessione su Basile nel segreto della sacrestia.

Inaspettatamente, nel 2010, Don Stefano Rocca finisce al centro di uno scandalo di ben altra natura. Una serie di lettere anonime fa piombare il parroco al centro di un vortice di accuse. La più grave, quella di pedofilia. Don Rocca confessa i rapporti, ma dichiara che si trattava di incontri consenzienti tra maggiorenni. Le accuse saranno archiviate nel 2011. Anche in questo caso, la verità fatica a emergere: dopo due anni dai fatti del 14 giugno, nel 2010, Don Stefano si reca a Perugia in ritiro spirituale. Il portavoce dell’ufficio diocesano di Ugento, Luigi Russo, afferma che l’allontanamento non è frutto di alcun provvedimento, ma soltanto della scelta libera e volontaria di don Stefano.

Forse Ugento non è ancora salva. La messa a norma della discarica Burgesi non è sufficiente a colmare le falle di anni di depistaggi, menzogne, non detti. E pesa ancora su Ugento quel bollino di città “omertosa”, quell’omertà che don Stefano Rocca diceva di voler abbattere dall’alto del suo pulpito, la stessa parola che ripugnava al sindaco Ozza, vittima anch’esso di feroci intimidazioni. Mastrogiovanni non ha mai esitato a usare il termine “omertà” in riferimento ai fatti di Ugento. Tuttavia, ogni considerazione sul muro di silenzio che circondò l’assassinio di Peppino Basile non può esulare da una riflessione sulle sue cause profonde. Nelle parole di Michele Abbaticchio, vice presidente di Avviso Pubblico: “Valutare il cittadino in base al coraggio nella denuncia è un fatto anche superficiale, perché la denuncia prescinde dal coraggio; la denuncia è direttamente proporzionale alla fiducia che il cittadino ha nei confronti delle istituzioni”, spiega ai microfoni di “Indago – Le cronache oltre la nera”. Ma l’uso del termine omertà implica anche qualcos’altro. Lega l’omicidio di Peppino Basile con un filo indissolubile alla volontà della criminalità organizzata.

Come si è visto, l’ipotesi della pista mafiosa è stata tra le prime a essere scartate dagli inquirenti, nonostante le rivelazioni del pentito Vaccaro, e nonostante alcune lettera inviate da Bove (accusato da Vaccaro di essere il vero mandante del delitto) prima e dopo la morte di Peppino. La prima lettera, da Bove a Vaccaro, recita: “Amico e fratello mio non ho fatto in tempo a risponderti alla lettera che mi è arrivata subito l’altra. Comunque stai tranquillo che a quell’infame ci penso io, però l’indirizzo che mi hai mandato è sbagliato e ho dovuto sbattere un po’ per vedere dove è che abita questo cornuto, ma ora lo so e quindi è solo questione di tempo, giusto il tempo per organizzare una bella festa. Non appena gli farò la cresima ti farò subito sapere”.

In un’altra lettera, mandata sempre a Vaccaro ormai dopo l’omicidio, Bove si dice soddisfatto dell’arresto dei Colitti: “Allora per quanto riguarda il “Libro di Ugento” ho visto in tv che hanno arrestato nonno e nipote… contenti loro, contenti tutti, compresi noi… ah ah ah ah. Comunque mo vedo di informarmi a che sezione stanno perché qui da me non ci sono…”. Ma a inquietare ancor di più è una terza lettera, spedita da Bove a Massimo Donadei, all’epoca tra i capi della criminalità organizzata salentina, oggi collaboratore di giustizia. Un passo recita: “Mazinga perché se quando lo vedo io non gli farò avere pace e farà la fine degli albanesi di Basile!!…Mangime per i pesci”. Gli “albanesi di Basile” sarebbero stati, a detta di Vaccaro, gli assassini materiali del consigliere ugentino, poi eliminati da Bove stesso. Tuttavia, lo stesso Donadei si preoccupa di smentire l’ipotesi che Bove fosse il vero mandante dell’omicidio di Peppino; un fatto che, tra gli altri, contribuisce a far abbandonare agli inquirenti l’ipotesi dell’assassinio mafioso, ma che non basta a spiegare l’atteggiamento di Bove e le numerose intimidazioni subite da Peppino nei mesi che lo separano dalla sua scomparsa.

Nel frattempo, la scomparsa di Peppino si allontana nel tempo e la memoria si assottiglia, s’affievolisce ogni spinta verso la verità. Una verità intorbidita da fatti inspiegabili, vicende, scandali e voci di corridoio che si sovrappongono e si mescolano nella eco del tempo. C’è, tuttavia, chi non dimentica e non vuole, non può dimenticare. Non possono dimenticare i giornalisti del Tacco d’Italia, debitori a Peppino dei frutti di numerose inchieste, ripercorse nel libro “Il Sistema” a cura di Marilù Mastrogiovanni. Non dimenticano gli amici ugentini del Comitato “Pro Basile”. Non dimenticano alcune associazioni antimafia, che negli ultimi anni hanno deciso di annoverare Peppino tra le “vittime innocenti di mafia”, nonostante gli interrogativi che ancora aleggiano attorno alla sua scomparsa, e attorno ai fatti che stravolsero Ugento in quegli anni roventi tra il 2008 e il 2011.

Peppino di morire non aveva paura. “A forza di fare denunce politiche finisce che prima o poi qualcuno mi ammazza” era una delle frasi più consuete. Dell’ignavia, sì, di quella aveva paura: anzi, lo riempiva di rabbia e di tristezza. Come quella volta che quasi scoppiò a piangere in aula, contrariato per la decisione della Giunta di approvare la costruzione di un villaggio turistico di cui aveva a lungo contestato l’irregolarità. Era, Peppino, nelle sue battaglie, sempre solo contro tutti. “Solo da morire”, titolava l’edizione speciale del Tacco d’Italia a lui dedicata.

Se c’è qualcosa che Ugento, la sua terra, la Regione Puglia e il Mezzogiorno d’Italia devono al “predicatore nel deserto” è cercare, per quanto possibile, di portare avanti il suo sogno. Un sogno che parla di crescita, di futuro, di un Sud Italia che non si lascia abbruttire dal malaffare. Un sogno che lui dedicava alle generazioni future; un sogno che forse oggi spetta a loro rincorrere. Perché tutte le volte che qualcuno rincorre il suo sogno, Peppino non è più solo.