25 agosto 1993 Oria (BR). Decedute Maria Dell’Aquila, Antonia Carbone e Maria Marsella in un incidente; erano in 18 su un furgone omologato per 9 persone.
Maria Dell’Aquila, 31 anni, Antonia Carbone, 39 e Maria Marsella di 25 – erano tutte di Oria, piccolo centro del Brindisino, dove il fenomeno del caporalato è diffusissimo. Quando avvenne l’incidente, albeggiava appena. Il pulmino, stipato di braccianti cui era stata promessa una paga di 23mila lire per lavorare nei campi un’intera giornata, uscì di strada dopo l’urto con il braccio-gru di un camion. Altre dieci donne rimasero ferite e finì in ospedale anche l’autista-caporale, con una prognosi di quindici giorni. Saltò fuori, poi, che il furgone era abilitato al trasporto di nove persone: al momento dell’incidente, invece, ne ospitava diciotto, esattamente il doppio.
Fonte: archivio.unita.news
Fonte: archivio.unita.news
Articolo del 28 agosto 1994
«Scioperate contro i caporali» Il vescovo di Oria alle braccianti: fate la serrata.
di Claudia Arletti
Il vescovo di Oria (Brindisi) invita le braccianti «a incrociare le braccia per fermare il caporalato» e «a fare la resistenza; proprio come in tempo di guerra». Qui l’anno scorso su un furgone dei caporali morirono tre donne.
Il vescovo di Oria ha invitato le braccianti della sua diocesi e di tutta la provincia a far la resistenza: «opponetevi al caporalato, come se foste in tempo di guerra», ha detto, «incrociate le braccia, non lasciate che la vostra dignità venga calpestata».
Monsignor Armando Franco ha pronunciato questo appello accorato in chiesa, l’altra sera, mentre celebrava una messa per ricordare tre giovani donne, che il 25 agosto dell’anno scorso morirono sul pulmino di un caporale, in un incidente stradale.
Le vittime – Maria Dell’Aquila, 31 anni; Antonia Carbone, 39 e Maria Marsella di 25 – erano tutte di Oria, piccolo centro del Brindisino, dove il fenomeno del caporalato è diffusissimo. Quando avvenne l’incidente, albeggiava appena. Il pulmino, stipato di braccianti cui era stata promessa una paga di 23mila lire per lavorare nei campi un’intera giornata, uscì di strada dopo l’urto con il braccio-gru di un camion. Altre dieci donne rimasero ferite e finì in ospedale anche l’autista-caporale, con una prognosi di quindici giorni. Saltò fuori, poi, che il furgone era abilitato al trasporto di nove persone: al momento dell’incidente, invece, ne ospitava diciotto, esattamente il doppio.
Durante la messa tenuta l’altra sera nella cattedrale di Oria, il vescovo ha definito le tre braccianti morte l’anno scorso «eroine della nostra protesta contro il grave fenomeno del caporalato, un fenomeno paradossale che nega i diritti della persona e calpesta la dignità delle donne». Le tre giovani, rimaste uccise nell’incidente, sono state ricordate anche dalle compagne il 25 agosto scorso, numerose braccianti hanno infatti osservato un minuto di silenzio nei campi.
Non è stato, questo, l’unico incidente nella storia amara delle braccianti e del caporalato. Uno degli episodi più tragici risale agli inizi degli anni Ottanta, quando, a Ceglie Messapica, tre donne giovanissime morirono in un incidente stradale. Una aveva soltanto sedici anni.
Ieri, ne abbiamo parlato con il vescovo Armando Franco, che è anche il presidente della Caritas italiana. Per telefono, ha ribadito: «sì, è come una guerra, cui si può mettere fine soltanto attraverso una resistenza». E ha aggiunto: «Il caporalato non è solo una tremenda piaga che tartassa queste terre, è anche un peccato: esorto perciò i caporali a pentirsi».
Che cosa intende esattamente per «resistenza al caporalato»? Cosa dovrebbero fare le braccianti?
lo ho esortato alla resistenza, a una opposizione, perché è inutile illudersi: senza la collaborazione delle braccianti non si può sconfiggere il caporalato. Cosa si deve fare? Ecco ho in mente una specie di serrata: le donne devono rifiutare il lavoro offerto dai caporali, perché solo incrociando le braccia si può fermare il fenomeno.
Dicono che la Chiesa, quando lei ha pronunciato queste parole, fosse gremita di donne. Come le è sembrata la reazione al suo invito?
Ma, veramente, non è la prima volta che dico queste cose, anzi. L’altra sera però c’era un’altra atmosfera, forse il mio discorso è stato più caldo, anche se poi avevo comunque un tono quieto, pacato, trattandosi di una celebrazione liturgica.
E, dunque, in genere come le sembra che vengano accolti questi suoi appelli?
Purtroppo, non ho l’impressione che suscitino grandi entusiasmi. Il caporalato viene vissuto da molti come unica via di uscita. La gente poi dice: «se io mi tiro indietro, se dico no al caporale, c’è subito qualcun altro pronto a prendere il mio posto. A che vale opporre un rifiuto?». Invece, è proprio questa la strada per stroncare il fenomeno. La polizia, le autorità fanno ciò che possono, ma la piaga è troppo diffusa. Serve la collaborazione della gente.
Collaborazione che però non c’è.
Forse l’unico luogo in cui qualcosa si sta muovendo è proprio Oria, che ha 16mila abitanti e non è certo il centro più grande della diocesi.
Cioè? Che cosa succede a Oria?
In consiglio comunale siede una bracciante che ha invitato le altre donne a costituire un’associazione contro l’intermediazione clandestina della manodopera agricola. Il Comune ha messo a disposizione delle braccianti il mezzo di trasporto, perché possano andare nei campi senza bisogno dei caporali.
Reazioni?
Una certa risposta questa iniziativa l’ha avuta. Lo ripeto, qui qualcosa si sta muovendo. Dal Comune ho anche saputo una cosa: c’è un uomo, un caporale, che ha deciso di lasciare perdere. Sì, insomma, con il caporalato ha chiuso. Non so se spinto da motivazioni religiose o da altro, ma comunque ha chiuso.
Lei gli ha parlato?
No, il Comune ha mantenuto il segreto anche sul nome, non so altro. Spero soltanto che sia tutto vero, sarebbe un bel segnale, splendido.
A proposito: ai caporali non ha niente da dire? Se le donne fanno la resistenza, loro che devono fare, arrendersi?
Devono pentirsi. Il caporalato non è solo una piaga dolorosa che affligge questa provincia: è anche un peccato, ricordiamolo.