I RETROSCENA DELLA TRATTATIVA STATO-MAFIA – Inchiesta di Luciano Mirone

I RETROSCENA DELLA TRATTATIVA STATO-MAFIA
Intervista al Commissario Mario Ravidà
Inchiesta di Luciano Mirone

Fonte: linformazione.eu
Articolo del 2 ottobre 2018
“VI SVELO I RETROSCENA DELLA TRATTATIVA STATO-MAFIA”
Di Luciano Mirone

Conosce tanti retroscena della Trattativa Stato-mafia. Li ha vissuti direttamente come investigatore. Col ruolo di ispettore e di commissario della Polizia di Stato. Prima nella Criminalpol della Squadra mobile di Catania (Antiterrorismo), poi nella Direzione investigativa antimafia (Dia), nel cuore delle indagini su Cosa nostra e sulla Trattativa seguita alle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Si chiama Mario Ravidà e dice: “Dopo trentacinque anni ho preferito andarmene per quello che ho visto e per quello che ho vissuto”. In questa intervista spiega perché.

“La storia è lunga. Tutto parte dal maxiprocesso istruito da Falcone dopo le dichiarazioni di Buscetta, con condanne esemplari in primo e in secondo grado. In terzo grado la mafia tenta di inficiare il verdetto della Cassazione con l’omicidio del giudice Scopelliti (un omicidio passato in secondo piano, però secondo me quest’uomo è un eroe dell’antimafia). Per quelle condanne, Cosa nostra si sente tradita e improvvisamente saltano gli accordi fra i boss e la politica. Riina decide si sferrare un attacco senza precedenti allo Stato. Prima con i delitti politici di Salvo Lima e di uno dei cugini Salvo di Salemi (entrambi legati alla mafia), poi con le stragi. Lo Stato cerca un accordo. Il primo, come dice Massimo Ciancimino, viene stipulato fra l’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino (padre di Massimo) e Totò Riina, attraverso la consegna del famoso papello, nel quale si fanno delle richieste che non possono essere rispettate per intero. Alcune di queste, tuttavia, vengono accettate, a cominciare dall’abolizione del 41 bis (il carcere duro, ndr.)per più di trecento mafiosi. Oltre non si può andare. Riina non accetta e qualcuno (individuati dai magistrati negli ufficiali del Ros, Mori, Subbranni e Obinu) cerca un’altra via tramite un accordo con Provenzano, ma forse (forse…) anche con Matteo Messina Denaro. A un certo punto spunta il colonnello dei carabinieri Michele Riccio, che ha un confidente straordinario: Luigi Ilardo”.

Chi è il colonnello Michele Riccio?

“Il comandante della Direzione investigativa antimafia di Genova. Nell’ambito dell’antiterrorismo e dell’antidroga aveva maturato una grossa esperienza anche con la mitica quadra del Generale Dalla Chiesa”.

E chi è Luigi Ilardo?

“Un mafioso di grande spessore, il capo della Famiglia mafiosa di Caltanissetta, colui che aveva preso le redini della Famiglia Madonia, con cui Ilardo era imparentato. Riccio lo intercetta per un traffico di stupefacenti e Ilardo, dopo essersi fatto quindici anni di galera, non vuole rientrare in carcere. E si affida all’ufficiale: la sua compagna ha da poco partorito due gemelli e lui vuole cambiare vita”

E che succede?

“Riccio e Ilardo fanno un accordo, assieme a Gianni De Gennaro (a quel tempo responsabile nazionale della Dia). Ilardo non vive a Caltanissetta, ma a Catania, quindi Riccio si vede con Ilardo nel capoluogo etneo e chiede l’ausilio di personale della Dia di Catania per condurre le sue indagini. Conosco tutti questi particolari direttamente, poiché allora ero alla Dia di Catania”.

Lei dunque ha conosciuto il colonnello Riccio?

“Certo, ci ho lavorato. Io e altri due colleghi gli davamo gli appoggi logistici necessari, lo accompagnavamo, assieme a lui facevamo i sopralluoghi per catturare i latitanti. Ilardo dava notizie incredibili a Riccio, Riccio veniva in ufficio, ci diceva qual era l’appartamento dove si nascondevano latitanti come Aiello, Fragapane, Lucio Tusa ed altri, e noi li catturavamo. Contemporaneamente Ilardo ci dice che il reggente di quel momento a Catania è tale Aurelio Quattroluni (riferimento del clan Santapaola), arrestato fra il 1994 e il 1995, quando, con l’operazione ‘Chiaraluni’, con una cinquantina di arresti, abbiamo quasi azzerato Cosa nostra catanese”.

Perché Ilardo è importante?

“Perché ci avrebbe portato a catturare Provenzano. Ilardo era in contatto con Provenzano attraverso i pizzini: il boss corleonese gli chiedeva delle cose e Ilardo, come rappresentante provinciale di Caltanissetta, le faceva. L’opportunità di incontrare Provenzano non era facile, si doveva costruire, ed era quello che si stava facendo, mentre a Catania, grazie al colonnello Riccio (su confidenze di Ilardo) catturavamo dei latitanti importanti della mafia etnea”.

Quindi che succede?

“Ilardo incontrò Provenzano a Mezzojuso, in provincia di Palermo e riferì questa circostanza a Riccio”.

Cosa gli riferì precisamente?

“Che doveva esserci un summit, sempre a Mezzojuso, di tutto il gotha di Cosa nostra, al quale avrebbe partecipato Provenzano”.

A quel punto che fa Riccio?

“Informa immediatamente il generale Mario Mori, il quale gli dice di rivolgersi a due ufficiali dei carabinieri di Caltanissetta e di coordinarsi con loro per le eventuali operazioni. Riccio arriva a Caltanissetta, incontra questi due ufficiali, ma questi dicono di non sapere niente dell’operazione. Riccio chiede mezzi, uomini, supporti di elicotteri. Stiamo parlando di una cosa importantissima, che avrebbe portato alla sconfitta Cosa nostra”.

E quindi che succede?

“A Riccio non viene dato alcun supporto. Alla fine l’ufficiale chiede un semplice Gps da piazzare nella macchina o in una cintura di Ilardo, in modo da individuare il luogo del summit (dato che la riunione si sarebbe svolta in aperta campagna), scendere con gli elicotteri, circondare la zona ed arrestare tutti. Di questo, non viene fatto niente, perché non arrivano ordini. Mori dispone di fare delle foto e basta. Questa cosa sconvolge Riccio”.

E cosa dimostra?

“E’ l’ulteriore conferma che Provenzano non si è voluto prendere. E siamo fra il 1995 e il 1996”.

Dopodiché?

“Di colpo la Dia rompe con Riccio senza un motivo plausibile. Questa cosa ci sconvolge. Malgrado questo, continuiamo a mantenere i contatti con l’ufficiale dei carabinieri: con lui, oltre ai rapporti di lavoro, era rimasta un’amicizia consolidata”.

Che tipo è il colonnello Riccio?

“Uno che crede fermamente nello Stato e nel lavoro, una persona leale, onesta, pulita, insomma un ufficiale tutto d’un pezzo”.

Com’è che la Dia rompe con Riccio?

“Un giorno Tuccio Pappalardo, alto dirigente della Dia (che conoscevo perché precedentemente era stato mio dirigente alla Criminalpol di Catania), ci chiude in una stanza e ci dice: ‘Dovete rompere con Riccio. È un criminale, merita di essere arrestato: quando era all’antiterrorismo ha ucciso quattro terroristi nel sonno’. Noi lo contrastiamo: Riccio ci ha fatto fare un sacco di brillanti operazioni, ci ha fatto arrestare Quattroluni e diversi mafiosi, era arrivato alla cattura di Provenzano e non gli è stato consentito. Quando sente questa cosa, Pappalardo si irrigidisce e dice: ‘Questo Mori non me l’ha detto”.

Dunque, secondo questa testimonianza, da un lato Mori è al corrente della localizzazione di Provenzano, dall’altro non informa i vertici della Dia – che però rompono con Riccio – con cui sta collaborando per la cattura dei latitanti.

“Esattamente, ma dopo succede anche di peggio”.

 

 

Fonte: linformazione.eu
Articolo del 4 ottobre 2018
“QUANDO NON VOLLERO CATTURARE PROVENZANO”
Di Luciano Mirone

Commissario Mario Ravidà, nel corso della prima puntata di questa inchiesta, lei ha raccontato il retroscena gravissimo dell’estromissione dalle indagini sulla cattura di Bernardo Provenzano del Colonnello dei carabinieri Michele Riccio, col quale ha collaborato per diverso tempo. In pratica, lei, poliziotto, che ha vissuto questa vicenda dall’interno della Dia di Catania, accusa pezzi delle istituzioni di non avere voluto catturare il boss corleonese già nella metà degli anni Novanta, quando un mafioso del calibro di Luigi Ilardo, capo della Famiglia di Caltanissetta, confida a Riccio dove si nasconde Provenzano.

“Esattamente. Ma non è tutto, perché il Colonnello Riccio, già estromesso dalle indagini con i pretesti più assurdi, subito dopo viene pure arrestato”.

Perché?

“Perché dieci anni prima, quando era uno dei responsabili dei Ros di Genova, aveva conosciuto, assieme ad altri investigatori dell’Antidroga, un chimico che riusciva a trasformare la morfina-base in eroina: un personaggio utilizzato dagli investigatori genovesi per sgominare i trafficanti di droga. Questa operazione (con l’avallo dei superiori di Riccio) veniva effettuata, credo, all’interno della caserma. Poi, tramite lo stesso chimico, veniva organizzata la vendita dell’eroina che consentiva di arrestare un sacco di gente. Un escamotage, forse poco legale, ma comunque efficace, per debellare il traffico di droga. Qualche sottufficiale approfittò della cosa e, a insaputa di Riccio e degli altri ufficiali, riuscì a trarre profitto guadagnando un sacco di soldi portati in Svizzera”.

Qual è l’accusa mossa nei confronti di Riccio?

“Credo solo quella di avere consentito la trasformazione della morfina base in eroina dentro la caserma. Allora arrestarono tutti. Ma il fatto singolare è che gli arresti avvennero dieci anni dopo rispetto alle confessioni di Ilardo. Ci fu un’improvvisa accelerazione delle indagini per arrestare Riccio. Che viene messo fuori gioco. Il colonnello, tuttavia, prima dell’arresto, stila un rapporto esplosivo, il rapporto Grande Oriente, dove denuncia la mancata cattura di Provenzano a Mezzojuso”.

Ok. Ma è importante chiarire cosa avviene prima dell’arresto di Riccio.

“Ilardo (fino ad allora confidente di Riccio) viene convinto a collaborare con la giustizia attraverso una dichiarazione d’intenti; sale a Roma, dove in un ufficio si incontra con lo stesso Riccio, col Generale Mori e con i magistrati Caselli, Tinebra e Principato. In questo incontro, Ilardo ha un comportamento strano: gira la sedia verso Caselli e parla solo con lui, dicendo di essere un appartenente a Cosa nostra e di avere commesso diversi omicidi. ‘Una delle cose più importanti della mia carriera criminale – dice Ilardo a Caselli – l’ho fatta negli anni Settanta, quando ho conosciuto un tale di nome Ghisena, un personaggio calabrese legato ai servizi segreti e alla massoneria, con cui andavo a prelevare dell’esplosivo in una caserma di militari vicino Trapani Birgi; esplosivo servito e utilizzato per commettere diversi attentati in Italia in quel periodo’. A un certo punto Tinebra si alza, ‘si certo, queste cose avremo modo di metterle per iscritto e di chiarirle…”.

E cosa succede?

“Ilardo, che fa capire di essere depositario di inconfessabili segreti di Stato, viene fatto rientrare a Catania. Dopo qualche giorno viene ucciso. Siamo nel 1996”.

E poco dopo arrestano Riccio, giusto?

“Esatto. E così questa situazione viene neutralizzata. Riccio aveva registrato Ilardo e consegna le bobine ai magistrati palermitani che istruiscono il processo Trattativa”.

Chi uccide Ilardo?

“Nel 2001 conosco un mafioso dopo una perquisizione. Entriamo in confidenza, dato che avevo avuto una disposizione di acquisire notizie confidenziali in quell’ambito. Costui si chiama Eugenio Sturiale, attualmente collaboratore di giustizia. La prima cosa che Sturiale mi dice è che ad uccidere Ilardo sono stati Maurizio Zuccaro e la sua squadra del clan Santapaola. Sturiale – che abitava nei pressi dell’abitazione di Ilardo – era stato testimone oculare del delitto. Successivamente si seppe che in un primo momento l’incarico di uccidere Ilardo l’aveva avuto Aurelio Quattroluni, il nuovo reggente di Cosa nostra a Catania. Quattroluni si oppone: ‘Scusate, ma perché dobbiamo ammazzare ‘u zu Gino?’. Quattroluni aveva delle preoccupazioni, poiché doveva ammazzare il capo di Cosa nostra di Caltanissetta. Improvvisamente viene scavalcato da Maurizio Zuccaro, che nel 1996 esegue l’omicidio”.

Che succede quando lei acquisisce queste notizie da Sturiale?

“Faccio una relazione di servizio in cui indico nomi, cognomi, i partecipanti all’omicidio, perfino le moto e le auto usate. La consegno alla dirigente della Dia di Catania dell’epoca. Quella relazione resta lettera morta per otto mesi, malgrado le mie pressioni (‘Scusate, quello di Ilardo non è un omicidio di mafia, è un omicidio che non si capisce da dove arriva, quindi indaghiamo’). Non fa alcuna indagine d’iniziativa, si limita a mandare in Procura la mia relazione, e la Procura non dà alcuna delega per indagare su questo omicidio”.

Che succede dopo che Sturiale le confida questi retroscena?

“Nel 2011 (dopo dieci anni in cui, da confidente, mi rivela particolari importantissimi su Cosa nostra catanese, puntualmente ignorate dai vertici della Dia, che tengono nel cassetto determinate relazioni), Sturiale passa allo status di pentito. A quel punto lo porto dal magistrato per formalizzare il suo nuovo status”.

Poi si fa il processo agli autori dell’omicidio Ilardo.

“Sì. Vengono condannati pesantemente, ma sono gli appartenenti all’ala militare di Cosa nostra”.

Lei, però, in questa intervista, fa capire che esisterebbero altre responsabilità.

“Sono tutte domande che pongo al magistrato quando porto Sturiale al suo cospetto: e le connessioni istituzionali? Le omissioni? La relazione mandata con otto mesi di ritardo? Le deleghe che non abbiamo avuto dalla Procura? Il magistrato mi tranquillizza dicendo che è stato aperto un fascicolo per accertare eventuali responsabilità istituzionali. Il fascicolo si è chiuso con un nulla di fatto. Ancor oggi mi chiedo: per quale motivo la Dia estromise Riccio dalle indagini? Non c’è una motivazione vera. Lo dimostra il dottore Tuccio Pappalardo, quando, messo alle strette dai magistrati del processo Trattativa (‘Perché avete mandato via Riccio che vi ha fatto fare un sacco di operazioni clamorose?’), risponde: ‘Secondo me, Riccio non era una persona onesta’. Un argomento debole per una storia così grossa”.

Riccio che fa oggi?

“E’ in pensione. Lo sento spesso, ci incontriamo, è rimasta una grande stima reciproca”.

 

 

 

Fonte:  linformazione.eu
Articolo del 9 ottobre 2018
“LA TRATTATIVA PER CATTURARE SANTAPAOLA”
Di Luciano Mirone

Commissario di Polizia Mario Ravidà, nelle due puntate precedenti, lei ha detto delle cose gravissime in merito alla mancata cattura del boss Bernardo Provenzano a Mezzojuso (Palermo), verificatasi soltanto un paio di anni dopo le terribili stragi del ’92-‘93. Quindi lei ha confermato il fatto – per averlo vissuto personalmente all’interno della Dia di Catania, dove in quegli anni prestava servizio – che lo Stato, in quel momento, si oppose alla cattura di Provenzano, malgrado i recentissimi eccidi che avevano insanguinato il Paese. Dai processi emerge che a “vendere” Totò Riina nel 1993 (dopo una protezione “statale” di circa un quarantennio) fu proprio Provenzano, personaggio più “trattativista” di lui.

Addirittura lei parla di un confidente importantissimo come il capo della Famiglia mafiosa di Caltanissetta, Luigi Ilardo – gestito personalmente dal colonnello dei carabinieri Michele Riccio, col quale lei stesso collaborava – che aveva dato la soffiata “decisiva” per catturare Provenzano. Non solo, ma lei ha pure detto che il Colonnello Riccio fu boicottato dai suoi superiori (in primis il Generale Mario Mori) proprio nel momento in cui il boss corleonese si poteva arrestare. Questo emerge dai processi, ma fa una certa impressione sentirlo da una persona che ha vissuto dal “di dentro” queste vicende. Ora non sappiamo se Provenzano sia stato protetto fino all’11 aprile 2006 (giorno del suo arresto) perché aveva fatto arrestare Riina, oppure perché ricattava lo Stato per la trattativa o addirittura per le coperture ricevute in un quarantennio di latitanza. Ma c’è un altro “giallo” che lei ha vissuto direttamente: l’arresto del capo di Cosa nostra catanese Nitto Santapaola, altro “boss di Stato”, poiché preservato per decenni da una cattura. Santapaola (ancora oggi in galera) è il più “politico”, il più “borghese”, il più “cittadino” fra i tre boss: non puzza di stalla come i Corleonesi, ma odora di salotti buoni. Negli anni Ottanta è stato in stretto contatto con prefetti, questori, comandanti dei carabinieri, magistrati ed editori catanesi. A tal proposito, in questi giorni, è stato confermato dalla Procura etnea che anche Mario Ciancio, proprietario del quotidiano “La Sicilia”, proteggeva Santapaola (addirittura, secondo i magistrati, i due erano soci d’affari) attraverso i silenzi, le menzogne e i depistaggi messi in atto dal suo giornale: una prova ulteriore della rete di protezione di cui il boss catanese godeva, mentre commetteva stragi di carabinieri ed ordinava di uccidere un giornalista come Giuseppe Fava.

Dopo Capaci e via D’Amelio succede che lo Stato, per tacitare un’opinione pubblica sempre più inferocita, arresta Riina e Santapaola (ignorando Provenzano fino al 2006, e Matteo Messina Denaro ancor oggi), ma fa delle operazioni incredibili: non perquisisce il covo di Riina – dove ci sono documenti di fondamentale importanza – e qualche settimana prima dell’arresto di Santapaola, è protagonista di una strana sparatoria a Terme Vigliatore (Messina).

“Santapaola fu catturato nel maggio 1993 nelle campagne di Mazzarone (Siracusa), in un momento in cui siamo in piena Trattativa, cioè quando c’è l’accordo fra lo Stato e Provenzano (e non escludo Matteo Messina Denaro) per far cadere un’ala importante di Cosa nostra. Prima cade Riina (ma non viene perquisito il covo dove poteva trovarsi il papello con le richieste allo Stato) e poi Santapaola. Quest’ultimo cade dopo il mancato arresto di Terme Vigliatore da parte del Ros, in seguito a una sparatoria a dir poco rocambolesca in cui, a dire del Capitano Ultimo che capeggiò l’operazione, scambiarono un inerme cittadino per Santapaola”.

Terme Vigliatore è un comune limitrofo a Barcellona Pozzo di Gotto, città nella quale Santapaola si nascondeva prima di essere arrestato a Mazzarrone. L’ex presidente della Commissione parlamentare antimafia europea Sonia Alfano sostiene che gli apparati statali sapevano con certezza che il boss catanese stava trascorrendo la sua latitanza a Barcellona, ma non lo catturarono lì per evitare di coinvolgere la rete di personaggi potenti (a cominciare dal boss Rosario Cattafi, anello di congiunzione fra mafia, politica, massoneria e servizi segreti deviati) che lo proteggeva in quella zona. Cosa dice in proposito?

“Non conosco le dinamiche barcellonesi, quelle catanesi sì. Allora ci dotarono di certe valigette, le Italcel 900: se non erro ce le prestarono i servizi. Alla Dia di Catania ce ne diedero due. Queste valigette consentivano di caricare quattro o cinque numeri di cellulari e di sentire e registrare le conversazioni dei mafiosi, di acquisire notizie e di chiedere l’autorizzazione alle intercettazioni per il prosieguo delle indagini. Mettemmo sotto ascolto alcune utenze, fra cui quella di un mafioso di grande caratura: un fedelissimo di Aldo Ercolano”.

Chi è costui?

“Non posso rivelarlo”.

Chi è Aldo Ercolano?

“Il braccio destro di Santapaola, nonché il killer del giornalista Giuseppe Fava. Un personaggio di alto livello ‘politico’, a volte sottovalutato perché vissuto all’ombra del grande capo”.

Basti pensare all’irruzione che una volta il padre di Aldo, Giuseppe Ercolano, fece nella redazione de “La Sicilia”, ricevuto con tutti gli onori da Mario Ciancio, per un articolo sgradito per il quale il cronista venne redarguito e l’articolo corretto nell’edizione del giorno dopo. Ma torniamo al fedelissimo di Ercolano.

“Io penso che Ercolano fosse al corrente di quello che faceva il suo fedelissimo, in accordo con la parte di Provenzano, in quanto per il personaggio che è, credo che non avrebbe mai collaborato con le istituzioni se non gli fosse stato ordinato dal suo capo”.

Dunque lei sta dicendo che questo soggetto, fedelissimo di Ercolano, avrebbe collaborato con lo Stato, con la consapevolezza del suo capo, per l’arresto di Santapaola?

“Che Ercolano sia stato protetto e favorito dalle istituzioni, lo dimostra il fatto che l’ impresa di famiglia non è mai stata toccata, anzi è stata autorizzata a lavorare, malgrado fosse inserita nella black list come ‘impresa mafiosa”.

Cos’è la black list?

“La ‘lista nera’ nella quale sono elencate le ditte mafiose che non possono avere appalti”.

In questo caso che succede?

“La ditta di Giuseppe Ercolano lavorava regolarmente: prelevava la sabbia dalla foce del fiume Simeto e la rivendeva ad altre imprese per fare il calcestruzzo per la costruzione dell’autostrada Catania-Siracusa: sabbia salata, che corrode il ferro e quindi mette in pericolo l’opera pubblica”.

Ed è stata autorizzata?

“Sì. Solo dopo che abbiamo denunciato lo scandalo attraverso il rapporto ‘Cherubino’ che fece scattare l’omonima operazione, fu revocata l’autorizzazione, ma solo per la fornitura della sabbia”.

Quindi fino a quel momento Ercolano lavorava tranquillamente?

“Sì. Il funzionario prefettizio che si occupava di questa cosa, Sinesio, ex autorevole esponente dei servizi segreti, disse di non essersi accorto della ‘black list’. Sapete chi è Sinesio? Si faccia una ricerca su questo nome”.

Dalla ricerca (notizia Adnkronos, 4 maggio 2012, pubblicata da Repubblica online) risulta che il giudice Alessandra Camassa, deponendo al processo Mori a Palermo, ha dichiarato: “Un ex agente dei Servizi, amico di Borsellino, Ninni Sinesio, dopo la strage di via D’Amelio, mi chiamò per chiedermi di incontrarci e nel corso di un incontro mi fece un sacco di domande sulle ultime indagini di Borsellino. Era insistente, voleva sapere se erano venuti fuori elementi sull’imprenditore agrigentino Salamone e sul ministro Mannino. Io non diedi troppo peso alla cosa, ma mio marito (anche lui giudice, ndr.) si meravigliò di tutte quelle domande’. Durante il pranzo, poi, Sinesio avrebbe spinto la Camassa a riferire delle rivelazioni fatte a Paolo Borsellino dal pentito Gaspare Mutolo sull’ex Sisde Bruno Contrada. ‘Quando finii di parlare – ha detto ancora Camassa – Sinesio si alzò in preda a un attacco di tosse e andò in bagno. Mio marito mi disse: ‘Guarda che è andato a telefonare’. ‘Poi – ha concluso Camassa – seppi che Contrada era stato avvertito delle indagini a suo carico”. Che vuol dire?

“Il mio collega che fece notare a Sinesio l’incongruenza che Ercolano continuasse a lavorare, benché fosse inserito nella ‘lista nera’, fu trasferito nel giro di poche ore in un altro settore della Dia. Sarà una coincidenza, ma è un fatto”.

E allora che succede?

“Sentiamo e registriamo una telefonata nella quale questo mafioso importante del clan Ercolano parla con Antonio Manganelli, allora direttore dello Servizio centrale operativo (Sco). Manganelli dice: ‘Come è finita là?’. Il mafioso risponde: ‘Hanno combinato un casino, hanno sparato a gente alla quale non dovevano sparare…’. E Manganelli chiede: ‘E ora come facciamo?’. Risposta del mafioso: ‘Mi dovete dare una settimana, quindici giorni e ti faccio sapere dov’è” (del contenuto della conversazione sono certo, ma non delle precise parole che ho riportato).

Stiamo parlando della sparatoria di Terme Vigliatore che riguardava Santapaola?

“Era chiaro il riferimento a Santapaola, perché noi sapevamo cosa era successo a Terme Vigliatore”.

Quindi il dottor Manganelli, allora direttore dello Sco, aveva una interlocuzione diretta con il fedelissimo di Ercolano?

“ Sì. Qualche magistrato della Procura di Catania era al corrente di questo contatto, mentre altri che si occupavano della stessa indagine furono completamente tenuti all’oscuro”.

E quindi?

“Santapaola viene catturato con queste modalità. Nel momento in cui l’allora responsabile della Dia di Catania viene a conoscenza di questa cosa, ordina: ‘Nascondiamo immediatamente questa registrazione, non lo diciamo a nessuno’. Manganelli scopre di essere stato intercettato e si incazza di brutto: ‘Che fate, mi intercettate?’. Questa cosa viene chiusa e da allora non si è saputo più niente”.

Questo cosa dimostra?

“Che diversi uffici investigativi erano a conoscenza della trattativa Stato-mafia per prendere (anche) Santapaola. Perché di una cosa dobbiamo essere certi: i grandi boss sono caduti tramite confidenze e trattative, non tramite indagini”.

 

 

 

Foto tratta dall’articolo di: 19luglio1992.com