1 Novembre 1949 Palermo. Salvatore Alberti, 22 anni, guardia di P.S., cadde vittima di un agguato.

Salvatore Alberti, 22 anni, guardia di Pubblica Sicurezza della Questura di Palermo, cadde vittima di un agguato criminoso il 1° novembre 1949.
Era in forza al Raggruppamento di P.S. di Palermo e stava effettuando un servizio di rastrellamento nell’agro palermitano, volto alla repressione del brigantaggio e alla cattura del tristemente noto bandito Salvatore Giuliano, quando la squadriglia di cui faceva parte fu fatta segno di numerosi colpi di mitra, sparati da un anfratto roccioso. I poliziotti risposero prontamente al fuoco, ma i malviventi si dileguarono subito. Per il giovanissimo agente, mortalmente ferito, non ci fu nulla da fare.

Fonte: cadutipolizia.it

 

 

 

Articolo da L’Unità del 7 Luglio 1949
I Complici del Bandito Salvatore Giuliano
Baroni duchi e principi brindarono con Turiddu
“L’epopea” dell’EVIS – L’auto del Duca di Carcaci – “W Giuliano!” La parola d’ordine
di Riccardo Longone

Fu Pasquale Sciortino che mise Giuliano in contatto con i maggiori esponenti del movimento separatista.

Sciortino  in principio, aveva qualche dubbio sulla opportunità di usare un delinquente comune; ma il barone Lucio Tasca gli disse che i movimenti patriottici n Sicilia sempre si erano appoggiati su delinquenti. La lezione di storia convinse Sciortino e lui si recò a San Giuseppe Jato dove ebbe il primo abbocco con Giuliano.

Questo Sciortino lo trasporta improvvisamente in un nuovo mondo. (Un giorno vorrà legarsi di più a lui facendogli sposare la propria sorella).

E’ il settembre del 1945 e una sera Sciortino lo viene a prendere e nella sua 1100 lo porta giù a Palermo: via Alfonso Borello, 5.

E’ la casa del barone Stefano La Motta.  Altri signori ci sono alla riunione e Giuliano sta bene attento per non dimenticare i nomi. Tutti sono molto cortesi con lui e vogliono stringergli la mano. Oltre al barone La Motta, c’è il duca Guglielmo Paterno di Cercaci, c’è il barone Cammarata, il barone Di Benedetto Giuseppe Tasca figlio di don Lucio.

Fino a notte alta si parla dell’indipendenza siciliana. Viene letta la mozione che verrà mandata in America a San Francisco. Già vengono fatti i nomi di coloro che saranno ministri, generali, capi del futuro Stato.

La serata si conclude con brindi5i e giuramenti su una bandiera gialla e rossa.

Ma i vecchi della banda non sono troppo convinti della nuova piega che prendono gli avvenimenti.

Le promesse vanno bene e può darsi che ti faranno generale — dice lo zio Ciccio Canale — Ma se oggi hanno bisogno di te perché  non mollano »? Danaro da parte è sempre bene tenerne.

Giuliano ci ripensa sulle parole del vecchio e quando torna Sciortino cambia tasto. Vuole che siano gli altri a venire da lui. E cosi la guida interna Bianchi del duca di Carcaci comincia a fare la spola tra Palermo e il feudo Sagana. Una notte di dicembre col duca arriva anche il barone La Motta. Consegnano a Giuliano la bandiera giallo rossa che poi lui innalzerà in cima al Montedoro sotto i colpi di mortaio della fanteria italiana  mandata sul posto. Il duca afferma che è arrivato il momento della liberazione dell’Isola che tutto l’Esercito Volontario indipendentista Siciliano, l’EVIS è in movimento.

Il  comando dell’Evis  non sapeva su quali forze realmente poteva contare, si fidava soprattutto di quelle che avrebbe portato Giuliano come aveva promesso Calcaci e La Motta, invitano Giuliano a spostarsi con le sue forze verso S. Mauro. Giuliano si rifiuta. Solo nella zona di Palermo lui è disposto ad agire. E per agire chiede la somma di dieci milioni.

Il duca di Carcaci resta perplesso di fronte alla richiesta di questo bifolco che già si fa chiamare « comandante» e porta un berretto bianco dove ha fatto applicare tre filetti d’oro.

In verità il duca non si può scandalizzare: le casse del movimento non sono rimpinzate forse con minacce e estorsioni continue?

Cominciano ad apparire anche nelle strade centrali di Palermo le scritte W GIULIANO.

In  quel periodo, ha luogo un nuovo convegno in casa La Motta al quale partecipa il bandito. Questa volta non gli consegnano una bandiera ma una specie di cliché. Sul cliché ci sono due soldati americani, uno spezza la catena che tiene la Sicilia legata all’Italia e l’altro tiene un’altra catena che lega la Sicilia all’America.  Alla banda Giuliano viene data anche la parola d’ordine generale- «Tunisi».

Comincia la serie dei sanguinosi assalti alle caserme dei carabinieri.

Per prima viene assalita la caserma di Bellolampo e sulla facciata, ancora fino a poco tempo fa, si vedeva il cliché con i soldati americani e la scritta W Giuliano. Il  29 dicembre viene assalita e bruciata la caserma di Grisi. Il 3 gennaio 1946 la caserma di Pioppo, il 5 gennaio quella di Borghetto,  il 7 quella di Montelepre. L’otto gennaio viene assalita una camionetta di carabinieri e la Caserma di Partinico.

In queste azioni, la banda non supera mai gli 80 uomini, in gran parte reclutati poche ore prima, tra la delinquenza di Palermo.

Ma perché questi attacchi alle caserme del carabinieri? Innanzitutto perché questo è il piano politico dei separatisti che con tali azioni vogliono far apparire che il popolo siciliano si ribella alla forza pubblica. Inoltre, mentre i Carabinieri sono costretti a restare la notte in caserma per difenderla dai banditi, costoro hanno piena libertà di movimento nelle campagne e negli abitati.

E’ quella l’epoca d’oro di Giuliano che opera i più lucrosi sequestri di persona e muove dovunque appoggiato dalla mafia e dai feudatari tutti separatisti.

«E’ noto — scrive nel suo rapporto il generale del carabinieri Branca — che il movimento separatista e la mafia, hanno fatto causa comune e che i capi del movimento si debbono identificare per o più con i capi della mafia dell’isola».

 

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