10 Novembre 1979 Strage San Gregorio (CT). Uccisi in un agguato i carabinieri Giovanni Bellissima, 24 anni, Salvatore Bologna, 41 anni, e Domenico Marrara, 50 anni. Erano di scorta ad un boss che doveva essere trasferito al carcere di Bologna.

Giovanni Bellissima, Salvatore Bologna, Domenico Marrara – Foto da:  ancispettoratosicilia.it

I Carabinieri Giovanni Bellissima, 24 anni, Salvatore Bologna, 41 anni, e Domenico Marrara, 50 anni, in servizio al Comando provinciale di Catania, il 10 novembre del 1979 erano di scorta ad un boss che doveva essere trasferito al carcere di Bologna. Al casello autostradale di San Gregorio di Catania furono assaliti e uccisi da un commando mafioso che prelevarono il detenuto, che undici giorni dopo fu ritrovato cadavere in una discarica vicino alle falde dell’Etna.

 

 

 

L’Unità dell’11 novembre 1979

 

 

 

Articolo da L’Unità del 16 Maggio 1984
Assolti i mafiosi accusati d’aver ucciso 3 carabinieri
di Nino Amante
Sconcertante sentenza della Corte d’Assise di Catania. I 4 del clan dei Carcagnusi erano stati coinvolti da due «pentiti» – L’azione nel ’79 per liberare un detenuto poi ucciso.

CATANIA — Riparte da zero l’inchiesta sulla strage del casello autostradale di San Gregorio. Con una sentenza a sorpresa, la Corte d’Assise di Catania ha assolto, «per non avere commesso il fatto», quattro esponenti del potente clan dei Carcagnusi (Santo Mazzei, Pasquale Gulisano, Luigi Miano e il latitante Salvatore Parisi), accusati di avere ucciso tre carabinieri per liberare e uccidere, dopo qualche giorno, un detenuto, Angelo Pavone, alias «faccia d’angelo», che veniva trasferito dal carcere di Catania a Bologna. Prendendo questa decisione, i magistrati catanesi hanno mostrato chiaramente di non credere alla testimonianza di due pentiti, Salvatore Maltese  e Salvatore Sanfilippo, principale accusatore dei quattro imputati per i quali il Pubblico Ministero dottor Gaetano Siscaro aveva chiesto la condanna all’ergastolo. Dei due supertestimoni, Maltese si vanta di avere ucciso in carcere cinque persone fra cui il boss milanese Francis Turatello, mentre l’altro è uno degli accusatori di Enzo Tortora, colui che ha parlato di presunti rapporti fra il presentatore e Turatello.

Il sanguinoso fatto di sangue, uno dei primi momenti dell’escalation mafiosa nella città etnea, risale al 10 novembre di cinque anni fa. Quel giorno la città era parata a festa per la visita del Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Alle cinque del mattino, dal carcere di piazza Lanza parte una Mercedes bianca con a bordo l’autista Angelo Paolella, il detenuto Angelo Pavone e tre carabinieri di scorta, Giovanni Bellissima, Salvatore Bologna, Domenico Marrara. Destinazione il capoluogo emiliano, dove Pavone deve essere interrogato dal magistrato che indaga sul sequestro a scopo di estorsione dell’industriale ferrarese, Lino Fava; il giovane «faccia d’angelo, soprannominato così per i lineamenti delicati del volto, nella vicenda è immerso fino al collo: i carabinieri lo hanno catturato mentre a Napoli riscuoteva i 650 milioni pagati dalla famiglia Fava per la liberazione dell’industriale rapito.

L’uso di un’auto e di un autista civili, richiesti dal detenuto, è un fatto consueto e previsto dai regolamenti anche per trasporti così delicati.
Ancora deve albeggiare quando la Mercedes, dopo avere attraversato la città addormentata, giunge al casello dell’autostrada. Mentre l’autista preme il pulsante del distributore automatico dei biglietti, ecco che scatta l’agguato. Una azione perfetta, un tempismo eccezionale. I carabinieri non hanno il tempo di reagire: muoiono sotto il fuoco incrociato di tre pistole calibro 38 impugnate dai componenti del commando sbucati da dietro una siepe. L’autista si salva fingendosi morto; Angelo Pavone viene caricato a forza su un’auto che parte a tutto gas verso Catania. L’agguato lascia di stucco la città, non ancora abituata ad azioni criminose così feroci. Il presidente Pertini, al suo arrivo a Catania, trova i tre carabinieri distesi sui tavoli di marmo di un obitorio.

Ma non è ancora finita: dopo undici giorni, in una discarica ‘di immondizia, alla periferia della città, viene trovato il corpo senza vita di Angelo Pavone: prima selvaggiamente torturato, poi «incaprettato», cioè costretto ad autostrangolarsi con una cordicina legata contemporaneamente al collo, alle mani, alle caviglie.

La chiave del mistero i magistrati catanesi che indagano sui due episodi sembrano trovarla con le testimonianze dei due pentiti, passati da tempo a collaborare con la giustizia. In carcere, a Nuoro, hanno conosciuto uno degli imputati, Pasquale Gulisano che, fra una passeggiata e l’altra, durante l’ora d’aria, si è lasciato andare a confidenze pericolose: ad uccidere «faccia d’angelo», dopo averlo «liberato», sono stati lui e tre complici, Mazzei, Miano e Parisi, quest’ultimo con la funzione d’autista. Motivo: una «infamia» commessa da Pavone che aveva intascato, all’insaputa degli altri, una rata di un miliardo versata per la liberazione di Fava.

Al processo i due supertestimoni hanno confermato per filo e per segno le loro accuse, ma sono stati definiti entrambi «pazzi» da Pasquale Gulisano. Di rilevante importanza è stata anche la deposizione dell’avvocato della famiglia dell’industriale ferrarese, che ha condotto la trattativa con i rapitori, il quale ha negato il pagamento di un’altra rata oltre a quella di 650 milioni.

 

 

Articolo di La Repubblica del 19 Marzo 1985
IN CELLA MOGLIE E COGNATA DI ‘FACCIA D’ANGELO’

CATANIA (r.s.) – Le manette del boss Angelo Pavone (“Faccia d’angelo”) erano ancora lì, a Belpasso, dove le aveva seppellite cinque anni fa il pentito Salvatore Parisi. È stato lui a guidare i magistrati fino al nascondiglio e a sciogliere un altro dei misteri che circonda la strage di San Gregorio. A conclusione di una riservatissima “missione” a Catania, i giudici torinesi che coordinano l’inchiesta sul blitz antimafia dell’11 dicembre ’84 hanno fatto arrestare Innocenza Napoli, di 38 anni, moglie di “Faccia d’angelo”, la sorella Lucia di 34 e il suo compagno, l’autista Agatino Fisichella, di 28, testimone-chiave al processo per la strage. Il “giallo” comincia il 10 novembre 1979: tre carabinieri (Giovanni Bellissima, Domenico Marrara e Salvatore Bologna) scortano in carcere Angelo Pavone, arrestato alcuni mesi prima mentre riscuoteva 650 milioni, prima rata pagata per il riscatto dell’industriale ferrarese Lino Fava. Al casello di San Gregorio, sull’autostrada Catania-Messina, l’auto si ferma e scatta l’agguato. I tre carabinieri cadono sotto il fuoco incrociato delle 38 Special. Unico superstite, l’autista Giuseppe Paolella, ferito di striscio e creduto morto. Il commando sparisce dopo aver liberato Angelo Pavone che verrà ritrovato undici giorni dopo in una discarica di rifiuti, torturato e ucciso.

 

 

 

Articolo del 5 Giugno 2013 da palermotoday.it
Carabinieri, medaglia d’oro a caduto contro la mafia
In una breve cerimonia ha consegnato la medaglia d’oro al valor civile alla memoria del vice brigadiere Giovanni Bellissima. Il riconoscimento è stato ritirata dal padre e dalla sorella del militare

Breve e sobria cerimonia oggi nella sede del Comando Legione Carabinieri Sicilia, per la festa dell’Arma. Nella caserma “Carlo Alberto Dalla Chiesa”, il comandante regionale, generale Riccardo Amato, ha consegnato la medaglia d’oro al valor civile alla memoria del vice brigadiere Giovanni Bellissima, caduto a 24 anni il 10 settembre 1979 a Catania, sotto il fuoco dei killer mafiosi che volevano colpire un detenuto da lui scortato. Nell’agguato restarono uccisi anche gli appuntati Salvatore Bologna e Domenico Marrara. La medaglia è stata ritirata dal padre e dalla sorella del militare. Benemerenze sono state ricevute da altri 71 ufficiali, sottufficiali, graduati e carabinieri.

MEDAGLIA D’ORO AL VALOR CIVILE
concessa dal Ministro dell’Interno
ALLA MEMORIA DEL
Vice Brigadiere Giovanni BELLISSIMA
CAPO SCORTA DI TRADUZIONE A PERICOLOSO DETENUTO, IN AMBIENTE CARATTERIZZATO DA MASSICCI INSEDIAMENTI DI DELINQUENZA ORGANIZZATA, CHE AVEVA RAGGIUNTO UNA EFFERATEZZA MAI ESPRESSA PRIMA. MENTRE SVOLGEVA IL PROPRIO COMPITO, CONSAPEVOLE DEL RISCHIO, VENIVA FATTO SEGNO A PRODITORIA AZIONE DI FUOCO DA PARTE DI ALCUNI MALVIVENTI, RIMANDENDO VITTIMA INNOCENTE DI UNA GUERRA DI MAFIA E IMMOLANDO LA GIOVANE ESISTENZA NELL’ADEMPIMENTO DEL DOVERE.
10 NOVEMBRE 1979 – SAN GREGORIO DI CATANIA
Consegna la ricompensa il Gen. di Div. Riccardo AMATO al padre del Caduto, signor Gaetano BELLISSIMA, accompagnato dalla signora Loredana sorella del decorato.

(Fonte: madonielive.com)

 

 

 

 

Salvatore Bologna – Foto da consiglio.basilicata.it

Fonte: consiglio.basilicata.it (2014)
Salvatore Bologna,medaglia d’oro al valor civile. Per non dimenticare.
di Nicola Arbia

L’appuntato dei Carabinieri giunse a Castronuovo di Sant’Andrea nel 1960. Perse la vita a 41 anni, il 10 novembre 1979 a San Giorgio di Catania, insieme ad altri due militari, in un agguato mafioso. Nel corso degli anni i familiari dei tre carabinieri hanno combattuto con tenacia contro il silenzio e l’immobilismo dei rappresentanti delle istituzioni. Solo lo scorso anno, è stata aperta una nuova istruttoria dai Carabinieri atta a chiarire come andarono i fatti in quel lontano 1979.

Il 16 agosto dello scorso anno, a Potenza, è stata consegnata, dal col. Domenico Pagano, capo di stato maggiore della Legione Carabinieri Basilicata, una medaglia d’oro al valor civile alla memoria, concessa dal Ministero dell’Interno, su decreto del Presidente della Repubblica del 16 gennaio 2013, a Matilde Arbia, vedova dell’appuntato dei Carabinieri Salvatore Bologna, ucciso, a 41 anni, il 10 novembre 1979 a San Giorgio di Catania, insieme ad altri due militari, in un agguato mafioso organizzato per liberare il detenuto Angelo Pavone, conosciuto col soprannome di “faccia d’angelo”.

Nella motivazione alla medaglia d’oro si ricorda che Salvatore Bologna “Componente della scorta di traduzione a pericoloso detenuto, in ambiente caratterizzato da massicci insediamenti di delinquenza organizzata, che aveva raggiunto una efferatezza mai espressa prima. Mentre svolgeva il proprio compito, consapevole del rischio, veniva fatto segno a proditoria azione di fuoco da parte di alcuni malviventi, rimanendo vittima innocente di una guerra di mafia e immolando la giovane esistenza nell’adempimento del dovere”.

Alla cerimonia erano presenti i figli e il nipote dell’appuntato, gli ufficiali del Comando Legione, il col. Giuseppe Palma, comandante provinciale di Potenza, il cap. Davide Palmigiani, comandante della compagnia di Senise e il mar. ca. Giuseppe Mario Calcagno, comandante della stazione di Castronuovo di Sant’Andrea. La solidarietà dell’Arma intera è stata testimoniata dalla contestuale partecipazione dei carabinieri del consiglio di base di rappresentanza e di quelli dell’Associazione Nazionale Carabinieri.

Era il 10 novembre 1979. La città di Catania, parata a festa, si preparava ad accogliere festosamente Sandro Pertini, il Presidente della Repubblica.

Alle cinque del mattino, dal carcere di piazza Lanza di Catania parte una Mercedes bianca con a bordo l’autista Angelo Paolella, il detenuto Angelo Pavone e tre carabinieri di scorta: il vice brigadiere Giovanni Bellissima e gli appuntati Salvatore Bologna e Domenico Marrara. Sono diretti a Bologna, dove Pavone deve essere interrogato dal magistrato che indaga sul sequestro, a scopo di estorsione, dell’industriale ferrarese Lino Fava, avvenuto il quattro febbraio 1979 a Cento, in provincia di Ferrara. Il pregiudicato catanese era stato catturato il quindici marzo dai carabinieri mentre a Napoli riscuoteva i 650 milioni pagati, come prima rata del riscatto, dalla famiglia Fava per la liberazione dell’industriale rapito.

Al casello di San Gregorio, dell’autostrada Catania-Messina, scatta l’agguato. I killer si materializzano ai lati della Mercedes e i tre carabinieri non hanno il tempo di reagire: muoiono sotto il fuoco incrociato di tre pistole calibro 38. L’autista si salva fingendosi morto. Angelo Pavone viene caricato a forza su un’auto che parte a tutto gas verso Catania; verrà ritrovato morto undici giorni dopo, in una discarica di immondizia.

L’appuntato dei Carabinieri Salvatore Bologna era nato a Palazzolo Acreide in provincia di Siracusa il 13 aprile 1938. Giunse a Castronuovo di Sant’Andrea, proveniente da Salerno, nel mese di settembre 1960. Sposatosi con la castronovese Matilde Arbia il 29 settembre 1966, dopo un mese, seguendo il regolamento dell’Arma, fu trasferito a Troina in provincia di Enna e, in seguito, prestò servizio in altre località della Sicilia. Ebbe due figli, Paolo e Francesco, che all’epoca dei fatti avevano rispettivamente dodici e sei anni.

Nel periodo in cui avvenne l’agguato si parlò molto del tragico evento, ma poi, come succede sempre in questi casi, man mano che passava il tempo, da parte delle istituzioni venne calato un velo di oblìo sull’accaduto.

Le famiglie dei militari avevano perso i loro cari e si trovarono in una situazione di difficoltà facilmente immaginabile, aggravata dal fatto che si sentirono abbandonate dalle istituzioni. Nel tempo, si sono sentite demoralizzate per il fatto che non veniva dato il giusto riconoscimento a persone uccise barbaramente, vittime innocenti di una guerra di mafia che avevano immolato la loro giovane esistenza nell’adempimento del dovere. Infatti, nel 1980 ad ognuno dei tre carabinieri fu concessa solo una medaglia di bronzo al valor civile, non rispettosa della memoria dei caduti, mentre nella storia delle onorificenze, per fatti analoghi, erano state conferite medaglie più nobili del bronzo.

Nel corso degli anni i familiari dei tre carabinieri hanno combattuto con tenacia contro il silenzio e l’immobilismo dei rappresentanti delle istituzioni a cui venivano chieste azioni adeguate per non dimenticare. Solo lo scorso anno, grazie alla sensibilità dell’allora ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri, colpita da una dettagliata lettera scritta proprio dal figlio più piccolo di Salvatore Bologna, che, ricordiamo, all’epoca dei fatti aveva solo sei anni, fu aperta una nuova istruttoria dai Carabinieri, atta a chiarire come andarono i fatti in quel lontano 1979. A conclusione degli approfondimenti sull’accaduto, lo scorso 16 gennaio, con decreto del Presidente della Repubblica fu concessa la medaglia d’oro al valor civile, e l’allora ministro Cancellieri lo scorso 18 gennaio firmò il “documento della ottenuta onorifica ricompensa”.

In occasione del ventitreesimo anniversario della strage, il 10 novembre 2002, per non dimenticare, alla presenza dei familiari delle vittime è stato scoperto un monolito lavico dello scultore pugliese, ma catanese d’adozione, Gisvelto Mele che ha voluto utilizzare un simbolismo forte: la feluca sovrasta un volto che non c’è, ma che è eternamente presente nello spirito di tutti e reca mostri-ne indelebili. Voluto dal coordinamento provinciale dell’Associazione Nazionale Carabinieri di Catania, è stato posto nei pressi del casello autostradale di San Gregorio di Catania, su suolo concesso dal Consorzio autostrade siciliane.

Ai piedi della scultura è scritto “Con fedeltà fino alla morte, testimoniarono l’amore in Dio e ai fratelli italiani”. Alla cerimonia, la sorella del vice brigadiere Bellissima, interpretando i sentimenti dei familiari, disse “Questo nobile gesto dimostra che la vita e la morte dei tre carabinieri scomparsi non sono passate nel dimenticatoio”.

L’arcivescovo di Catania, Salvatore Gristina, durante la benedizione, disse che il monumento rappresentava “Un gesto importante per fissare nella memoria quel momento e rendere questo posto, luogo di preghiera”. Il Consiglio comunale di Castronuovo di Sant’Andrea, il 28 giugno 1993, all’unanimità deliberò di intitolare la Caserma dei Carabinieri e il piazzale antistante “all’appuntato Salvatore Bologna, caduto nell’adempimento del proprio dovere, che vive nel ricordo di questa comunità, di chi conobbe la sua onestà e la sua rettitudine, oltre ad essere una testimonianza per la propria famiglia”.

In seguito a tale delibera il piazzale antistante fu intitolato al valoroso carabiniere, ma non la caserma. Il Sindaco di allora, Maria Di Sirio, inviò la delibera alle autorità preposte dei Carabinieri per comunicare la volontà della comunità in merito alla intitolazione della caserma. Questa volontà non fu esaudita. Chissà se oggi, alla luce del conferimento della medaglia d’oro al valor civile, l’Arma vorrà ricordarlo intitolandogli la caserma dei Carabinieri di Castronuovo di Sant’Andrea!

Infine, voglio ricordare l’uomo Salvatore Bologna, del quale ero amico. Era mite, aveva alto il senso dell’amicizia, era un servitore dello Stato per il quale ha immolato la sua giovane vita. Oggi, riposa nel cimitero di Castronuovo di Sant’Andrea, terra a cui era molto legato.

 

 

 

 

 

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