12 Febbraio 1993 – Secondigliano (NA) Ucciso Vincenzo D’Anna, proprietario di una piccola impresa edile

Foto da Un nome, una storia – Libera

Nei primi anni ’90 Vincenzo D’Anna dirigeva dei lavori in diversi cantieri, di cui alcuni nel quartiere Secondigliano di Napoli, principalmente lavori di ristrutturazione di diversi Condomini.
Proprio per i lavori effettuati a Secondigliano, aveva ricevuto minacce con le armi, com’era avvenuto per il cantiere Villa Lucia di fronte la propria abitazione, e in più occasioni era stato costretto a sospendere i lavori in seguito alle intimidazioni camorristiche.
Le minacce erano puntualmente portate da individui appartenenti al clan camorristico “Licciardi” di Secondigliano, che imponeva una tangente pari al 10% sull’importo dei lavori. Le richieste continue ed esose da parte del clan avevano stancato Vincenzo D’Anna che aveva dilungato il tempo dei pagamenti delle tangenti per i lavori che stava eseguendo nei cantieri di Secondigliano.
Il giorno 12 febbraio 1993, un paio d’individui armati irrompeva nel cantiere di Villa Lucia sparando contro Vincenzo, che trasportato d’urgenza al pronto soccorso dopo circa un’ora decedeva.
Nella fase processuale, grazie alla coraggiosa testimonianza dei familiari, è stato individuato il responsabile delle richieste estorsive, ma, per mancanza di testimoni oculari, non è stato mai individuato l’esecutore materiale dell’omicidio. I familiari aspettano con fiducia che alla fine sia assicurato alla giustizia il Mandante e il Killer.
Nota da Un nome, una storia – Libera

 

 

 

Articolo di La Repubblica del 13 Febbraio 1993
UCCISO UN COSTRUTTORE
Di Conchita Sannino

NAPOLI – Sono piombati nel cantiere al momento giusto, hanno sorpreso l’imprenditore mentre portava le paghe ai suoi operai, gli hanno chiesto il malloppo, 3 milioni. La vittima ha avuto paura, ha voltato le spalle per scappare, ma ha fatto solo pochi metri. Uno dei banditi, difatti, gli ha sparato alla schiena. Lo ha centrato con un solo colpo calibro sette e sessantacinque. Così è morto, alle 17.20 di ieri pomeriggio, un costruttore di 61 anni. Si chiamava Vincenzo D’Anna, da tempo guidava una società edile di modeste dimensioni.

L’agguato è avvenuto a Secondigliano, quartiere alla porta settentrionale della città, un agglomerato di case abusive e edilizia popolare che si sviluppa a ridosso di un lungo viale che lega la città alla periferia degradata di Scampia. È avvenuto nel rione dei “Monti”, la stessa zona funestata un anno fa dalla strage di camorra di via Monterosa, che fece 5 morti nel clan dei Prestieri.

Vincenzo D’Anna abitava nel quartiere. Si era recato in banca nel primo pomeriggio e poi, dalla sua casa, a piedi, aveva raggiunto il cantiere di via Monviso, dove gli operai della ditta “D’Anna costruzioni srl” erano impegnati nella ristrutturazione di una casa. E dove lo aspettavano – probabilmente da qualche ora – i tre banditi. Gli assassini avevano il volto scoperto. Si tratta, molto probabilmente, di tre giovani, visto che viaggiavano in tre su una “Vespa”.

Alle 17 due di loro hanno abbandonato il compagno in sella allo scooter e sono entrati nel cantiere: uno era armato di pistola. “Sappiamo che hai i soldi, consegna!”, ha intimato il bandito all’imprenditore, impugnando l’arma. Spettatori muti, quattro operai. Vincenzo D’Anna non ha esitato un attimo, istintivamente ha fatto uno scatto verso l’uscita, ma non ha fatto i conti con la ferocia dei suoi assassini. Il rapinatore ha fatto fuoco senza esitazione, sparandogli alla schiena. Un solo colpo, ma mortale. Quando è stato soccorso da uno dei suoi operai per essere trasportato all’ospedale Nuovo Pellegrini, Vincenzo D’Anna era ancora cosciente, ha mormorato all’agente di polizia del drappello poche parole per condannare i suoi carnefici. “Volevano i tre milioni. Io ho lavorato tutta una vita per portare avanti l’azienda…”.

I medici hanno fatto l’impossibile per salvarlo. Ricovero in rianimazione, i primi esami d’ urgenza per poterlo subito portare in sala operatoria. Ma il proiettile aveva provocato lesioni irreparabili tanto che, a pochi minuti dall’inizio dell’intervento chirurgico, il cuore ha cessato di battere.

Incessanti le ricerche della polizia. Il questore di Napoli Ciro Lomastro, che sta seguendo passo per passo tutte le fasi dell’indagine, condotta dalla squadra Mobile e dal commissariato di Secondigliano, ha ordinato posti di blocco e perquisizioni a tappeto. Nel mirino è finito inanzitutto il mondo della malavita del quartiere Secondigliano, regno del boss Gennaro Licciardi, soprannominato “‘ a scigna” e da pochi mesi in cella. Il vuoto di potere ha scatenato da mesi piccole lotte e sfrenate ambizioni criminali.

 

 

 

Fonte: ilmattino.it
Articolo del 20 febbraio 2017
Emilio D’Anna: «Uccisero mio padre perché non si piegava all’estorsione»

Il senso della memoria delle vittime della criminalità, a maggior ragione mentre ci si avvicina alla giornata celebrativa del 21 marzo, sta innanzitutto nel ricordare il sacrificio dei tanti innocenti “dimenticati” dall’opinione pubblica e dai mezzi di informazione. Emblematica, in tal senso, è la storia di Vincenzo D’Anna, titolare di una piccola impresa edile, ucciso il 12 febbraio 1993 per essersi opposto al racket della camorra. Ne parliamo con il figlio Emilio.

Emilio, che tipo di lavoro svolgeva suo padre e perché dava fastidio alla criminalità organizzata?
«Nei primi anni ’90 papà dirigeva dei lavori in alcuni cantieri nel quartiere Secondigliano di Napoli, principalmente relativi a ristrutturazioni di condomini. Proprio per questi lavori riceveva minacce con le armi, come avvenne per il cantiere Villa Lucia di fronte alla propria abitazione. Ma lui si rifiutava con fierezza di assecondare le richieste estorsive».

Nei primi anni Novanta l’associazionismo antiracket era agli albori. Che percezione aveva suo padre di questo moto di ribellione al pizzo?
«Papà era consapevole di svolgere un’attività che faceva gola alle organizzazioni malavitose. Basti pensare al fatto che riceveva sistematicamente dal clan camorristico locale richieste di tangenti pari al 10% dell’importo dei lavori che effettuava. Non era iscritto ad associazioni, ma seguiva un’etica molto rigida. Era integerrimo, per lui l’onestà era un valore non negoziabile. Anche quando le richieste della camorra si fecero insistenti e cominciarono seriamente a turbarlo, ebbe sempre la schiena dritta e il coraggio di dire no.

C’è qualcosa di particolare che vuole ricordare di suo padre Vincenzo?
«Per capire chi era papà, è sufficiente raccontare l’ultimo giorno della sua vita. Il 12 febbraio 1993, un paio di individui armati irruppero nel cantiere sparando contro di lui. Ormai papà sapeva che non c’era più niente da fare. Eppure, durante il tragitto verso l’ospedale, ebbe la lucidità di ricordarsi dei suoi collaboratori e l’ultima volontà espressa a mio fratello, che era al suo fianco e lavorava con lui, fu: “Mimmo, paga gli operai”».

Nelle parole di Emilio D’Anna c’è una profonda consapevolezza: l’esempio e la generosità di Vincenzo continuano a vivere nel ricordo di chi l’ha conosciuto e gli ha voluto bene. Non c’è rabbia. C’è piuttosto l’orgoglio di chi sa di essere dalla parte giusta, quella della legalità. Intanto, dopo 24 anni di attesa, i familiari di Vincenzo continuano a sperare che la giustizia faccia il suo corso e si arrivi quanto prima alla cattura del mandante e dell’autore dell’omicidio.

 

 

Fonte: ilgolfo24.it
Articolo del 25 marzo 2018
Emilio D’Anna: «La criminalità si combatte con il lavoro»
di Gianluca Castagna

Lacco Ameno – Il 12 febbraio 1993 Vincenzo D’Anna, titolare di una piccola impresa edile, viene ucciso nei pressi di un cantiere per essersi opposto al racket della camorra. Suo figlio Emilio è uno dei tanti familiari delle vittime innocenti delle mafie.
Come ha conosciuto Libera?

Dopo un anno dalla morte di mio padre ho cominciato a frequentare questa associazione, nata da poco, in un piccolo presidio ricavato nella sede della CGIL a Piazza Garibaldi, a Napoli. Col tempo sono arrivati altri familiari delle vittime, l’associazione è cresciuta, il referente Geppino Fiorenza ci ha molto aiutata a parlare delle nostri drammi.

C’è chi ritiene che questo Paese non meriti chi sacrifica la propria vita nella lotta contro le mafie e la criminalità organizzata. Com’è possibile dare un senso alla sofferenza, alla solitudine, ai tentativi di delegittimazione e alla mancanza di verità processuali? Dopo tanti anni è riuscito a riconciliarsi con la società?

Ho dovuto affrontare tutte le difficoltà che la burocrazia e la lentezza dei processi producono per arrivare alla verità. Siamo arrivati in Cassazione, perché chi ha ucciso mio padre aveva la possibilità di difendersi e fino alla fine ha cercato di sottrarsi al giudizio e alla pena. Oggi, a differenza del passato, ci sono molte più leggi che aiutano i familiari delle vittime della criminalità. Non basta, lo Stato deve fare di più. Quello che manca è il lavoro, il grosso dramma che genera devianza, illegalità, depressione e criminalità. Anche la scuola, per la sua funzione educativa, è importantissima. La società deve provare a funzionare in tutte le sue componenti: sanità, istruzione, giustizia, casa. Se c’è un punto debole, le mafie s’inseriscono immediatamente.

Com’è cambiato, in venti anni, il mondo del racket e delle estorsioni che portarono all’omicidio di suo padre?

Le persone continuano ad avere paura. Allo stesso tempo sono nate sul territorio molte associazioni antiracket che aiutano chi vuole denunciare. E’ importante, perché in tanti sono abbandonati a se stessi, non hanno supporti psicologici che li aiutino a respingere l’assedio della delinquenza.

Lei oggi vive a Lacco Ameno.

Dopo aver denunciato gli assassini di mio padre, ho avuto paura di ritorsioni e mi sono trasferito sull’isola. Mia moglie è di Casamicciola e insieme abbiamo deciso di vivere qui con i nostri figli. Mio fratello è rimasto a Napoli. Come mia madre, che continua ad abitare nella stessa zona dove mio padre è stato ammazzato. Non ha mollato: ha 86 anni e il coraggio di una leonessa.

L’esito del processo?

Gli esecutori materiali non sono mai stati identificati. Le persone che hanno visto hanno taciuto. Poiché mio padre mi riferiva quello che stava accadendo da tempo, il mandante è stato condannato e ha passato otto anni in galera.

L’ultimo ricordo di suo padre.

Dopo essere stato colpito, papà sapeva che non c’era più niente da fare. Eppure, durante il tragitto in ambulanza verso l’ospedale, chiese espressamente a mio fratello una sola cosa: «Paga gli operai».

(gia.ca)

 

 

 

Leggere anche:  vivi.libera.it
Vincenzo D’Anna – 12 febbraio 1993 – Napoli (NA)
Per Vincenzo il lavoro aveva una dignità, rendeva liberi. E anche con i proiettili in corpo, il suo pensiero, le ultime parole sono state per i suoi operai.

 

 

 

 

 

 

 

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