13 Agosto 1980 Castelvetrano (TP). Ucciso Vito Lipari. Sindaco DC.

Foto dal video youtube: Ragionando di mafia intorno al Processo Lipari – 1 (link sotto)

Vito Lipari era il sindaco di Castelvetrano, città in provincia di Trapani. È stato ucciso il 13 agosto 1980 dai mafiosi Mariano Agate, Francesco Mangione, Rosario Romeo e Nitto Santapaola, su ordine di Nitto Santapaola. Si sarebbe scoperto, poi, che Vito Lipari era stato ucciso perché aveva cercato di smascherare gli imbrogli che avvolgevano la ricostruzione della valle del Belice, dopo il terremoto del 1968.

 

Fonte: claudiofava.it
da “I Siciliani”, novembre 1984
Capire la Mafia: il mafioso, il capitano e il cavaliere
di Claudio Fava, Miki Gambino e Riccardo Orioles

Ore 9,15. Vito Lipari esce da casa – una bella villa sul litorale di Triscina, a pochi chilometri da Castelvetrano – e sale sulla sua Golf: è diretto al municipio, deve presiedere una riunione di giunta. Ed è già in ritardo. L’auto dei killer gli si affianca all’uscita di una curva, Lipari se ne accorge pochi istanti prima che gli assassini – tre, forse quattro persone – aprano il fuoco contro di lui. Vito Lipari resta fulminato; l’ultima revolverata, il colpo di grazia, gliela esplodono a pochi centimetri dalla faccia, per sfigurarlo. Muore così, la mattina del 13 agosto 1980, il sindaco democristiano di Castelvetrano, 45.000 preferenze alle ultime politiche, una solida amicizia con la famiglia degli esattori Salvo ed un’agendina in tasca con troppi numeri di telefono.

Il delitto è un lavoro da professionisti: rapidissima la sequenza, nessun testimone, nessun indizio, nulla. E’ solo un caso che, tre ore dopo, una pattuglia dei carabinieri fermi ad un posto di blocco alle porte di Mazara del Vallo una Renault 30 targata Napoli. Quattro persone a bordo – tratti del viso duri, sguardo inespressivo, un imbarazzato silenzio – e basta un’occhiata ai documenti per convincere i carabinieri a proseguire la conversazione con quei quattro in caserma. Per Nitto Santapaola, Mariano Agate, Francesco Mangione e Rosario Romeo è un pericoloso intoppo.
Solo quattro anni dopo – la dimensione del tempo, per la giustizia siciliana, segue ritmi insoliti – la breve cronaca di questa vicenda comincerà ad assumere contorni più precisi. Dunque: il pomeriggio del 13 agosto 1980 ci sono quattro pregiudicati in camera di sicurezza dai carabinieri di Mazara, la loro auto è sorvegliata nel cortile della caserma ed il pretore De Agustinis redige puntigliosamente un verbale di arresto. Per reticenza, falsa testimonianza e violazione degli obblighi di soggiorno. Ma c’è anche quell’omicidio, a Castelvetrano. Che ci facevano Santapaola ed i suoi amici a ducentocinquanta chilometri dalla loro città?
E’ semplice, signor giudice, volevo acquistare cocomeri, spiegherà Santapaola. Per la mia bancarella in piazza Carlo Alberto, a Catania; c’è scritto pure qui, guardi, nei miei documenti: Santapaola Benedetto, classe 1938, venditore ambulante di generi ortofrutticoli. D’accordo, signor Santapaola; ma gli amici di Catania che erano con lei stamattina? Amici, appunto. E Mariano Agate? Un amico anche lui, spiega Nitto, ha una fabbrica di calcestruzzi a Trapani, qui conosce molta gente. E il mercato dei cocomeri, in agosto, è pieno di insidie…
Lasciamo perdere. Convalidiamo i fermi, guanto di paraffina per tutti e quattro, poi trasmettiamo gli atti al Procuratore di Marsala. Un momento, signor giudice, ha detto guanto di paraffina? E allora io vorrei far mettere a verbale che forse il guanto darà esito positivo. Perché ieri pomeriggio ho partecipato ad una battuta di caccia. Da un amico di Catania…
E l’appuntato, diligente, verbalizza tutto: Santapaola Benedetto a domanda risponde che ieri pomeriggio, 12 agosto 1980, si trovava nella tenuta di caccia del signor… Due giorni dopo il fascicolo arriva a Marsala, sulla scrivania del Procuratore capo Coci (lo stesso che dovrebbe sostituire il collega Lumia di Trapani dopo il recente repulisti voluto dal Csm). Poche paginette di verbali, molti indizi a carico dei quattro ma anche alcuni alibi da verificare.
E la verifica viene affidata ad un solerte ufficiale dell’Arma, il capitano Vincenzo Melito, comandante del nucleo investigativo dei carabinieri di Trapani. Melito parte per Catania, e ritorna a Marsala tre giorni dopo: alibi confermati, signor Procuratore, Benedetto Santapaola e i suoi amici con il delitto Lipari non c’entrano. Dopo otto giorni trascorsi nelle camere di sicurezza, Santapaola, Romeo, Mangione e Agate vengono scarcerati. Con tante scuse.
Quattro anni dopo, dicevamo. Vincenzo Melito, ormai ex-capitano dell’Arma, viene raggiunto da un mandato di cattura dell’Ufficio Istruzione di Marsala. L’accusa è grave ed anche piuttosto semplice nella sua articolazione: Melito avrebbe avallato il falso alibi di Santapaola e in cambio avrebbe ricevuto la stessa auto su cui Nitto ed i suoi amici erano stati fermati la mattina dell’omicidio Lipari, una Renault 30 TX appena immatricolata dalla Pam Car di Catania, la concessionaria di Santapaola. L’alibi del boss, insomma, è falso.
A proposito dell’alibi, ricordate? Sono andato a caccia, signor giudice, aveva avvertito don Nitto quando era stato fermato dai carabinieri di Mazara. E a verbale aveva fatto mettere anche il nome dell’amico catanese che lo avrebbe invitato a caccia nelle sue proprietà. Oggi, tutto questo appartiene definitivamente alla cronaca. Tutto, tranne l’identità dell'”amico catanese”. «…in una tenuta di caccia nei pressi di Catania» taglia corto il Giornale di Sicilia; «Un potente e noto personaggio di cui non si è mai fatto il nome…» aggiunge nel pomeriggio il quotidiano palermitano L’Ora; nemmeno La Repubblica va oltre il generico riferimento ad «…un personaggio di primissimo piano di cui non si è mai saputo il nome».
La parola d’ordine, insomma, è quella di non sbilanciarsi; non, almeno, come aveva fatto la stessa Repubblica nell’autunno di due anni fa quando, traendo spunto dallo scandalo sulle fatture false – in cui erano coinvolti i maggiori imprenditori siciliani – aveva rispolverato il delitto Lipari, l’arresto di Santapaola e l’alibi della battuta di caccia. Ed aveva fatto un nome, quello dell’imprenditore catanese Gaetano Graci: proprio il cavaliere del lavoro – era scritto – avrebbe confermato l’alibi di Santapaola dicendo che il giorno prima del delitto il boss catanese era stato in una sua tenuta di campagna, per una battuta di caccia.
Ma il nome di Graci oggi ricorre anche in altro modo – e con accenti ben più inquietanti – sullo sfondo del delitto Lipari e dell’alibi fornito da Santapaola. D’accordo, signor giudice, non c’è stata solo una battuta di caccia, avrebbe fatto verbalizzare Santapaola dopo il suo arresto, quella mattina del 13 agosto 1980 eravamo a Mazara soprattutto per portare a termine un delicato incarico. Ed in quel verbale d’interrogatorio è detto, con estrema chiarezza, di quale incarico si trattava.
In principio c’erano stati alcuni fortunati appalti che le imprese di Gaetano Graci si erano aggiudicate nella zona di Trapani pochi mesi prima del delitto Lipari: costruzione di alcuni complessi per edilizia popolare ed altri lavori pubblici da cui il cavaliere avrebbe ricavato qualche decina di miliardi. Del resto, non era la prima volta che l’imprenditore catanese impiantava i propri cantieri in quella provincia: in passato Gaetano Graci era riuscito ad aggiudicarsi altri eccellenti appalti, puntando anche su una solida alleanza con altri due cavalieri catanesi, Carmelo Costanzo e Mario Rendo (l’ultima realizzazione del consorzio Re.Co.Gra. è l’ampliamento dell’aeroporto di Pantelleria).
In quell’estate dell’80, però, qualcosa non stava andando per il verso giusto: subito dopo l’aggiudicazione degli appalti, contro operai e tecnici dell’impresa Graci erano iniziate le prime intimidazioni, le minacce, gli avvertimenti; e la matrice – criminalità locale, probabilmente spalleggiata da alcune Famiglie della zona – era stata subito chiara. Un invito estremamente esplicito, insomma, ad andarsi a coltivare i propri appalti altrove. L’invito, invece, non era stato accolto, e a risolvere la faccenda, intercedendo per l’imprenditore catanese, sarebbe intervenuto proprio Santapaola. Tutto il suo peso di boss mafioso sulla bilancia: per mediare, convincere, e – se necessario – minacciare. I conti, stando a quel che raccontava Santapaola, in questo modo potevano anche quadrare: quella mattina, a pochi chilometri da Castelvetrano, c’era lui, don Nitto, boss catanese; c’erano i suoi due luogotenenti, Romeo e Mangione; ed in compagnia dei tre c’era anche Mariano Agate, boss di Mazara, oggi in carcere all’Ucciardone dove sta scontando una condanna per traffico internazionale di stupefacenti subita al processo Mafara. C’era stata una battuta di caccia il giorno prima, nella tenuta di Graci, e adesso c’era da portare a termine quel lavoretto di persuasione per far andare avanti senza problemi gli operai di Graci. Tutto questo, naturalmente, verbalizzato e sottoscritto.
Nei verbali degli interrogatori, però, c’è dell’altro. Nitto, infatti, non si limitò a fare il nome di Graci ma indicò anche una serie di persone al di sopra di ogni sospetto che avrebbero fatto da tramite fra lui e l’imprenditore catanese e che avrebbero potuto confermare questa sua versione. Insomma, l’incarico di “mediazione” conferito al boss mafioso era una missione di estrema fiducia per conferire la quale si erano fatti avanti personaggi legati a Graci – per motivi di affinità culturale o più semplicemente di interesse – ma vicini, nello stesso tempo, anche a Santapaola: per motivi di lavoro o, più esattamente, “d’ufficio”.
Sull’identità di questi insospettabili si sa ben poco; i magistrati che hanno ridato impulso all’inchiesta sul delitto Lipari (quattro anni dopo l’omicidio, e otto mesi dopo l’invio di una comunicazione giudiziaria al capitano Melito) si trincerano dietro il segreto istruttorio. E’ certo, comunque, che le conferme che il capitano Melito andò a raccogliere a Catania furono fornite proprio da questi “personaggi al di sopra di ogni sospetto” i quali avallarono l’alibi di Santapaola: lo avevano contattato loro – confermarono a Melito – perché andasse a Trapani e risolvesse i problemi di Gaetano Graci.
Quattro anni dopo, anche queste testimonianze eccellenti vacillano. L’arresto di Melito ne è una indiretta conferma: quella definitiva verrà dagli sviluppi che le indagini registreranno da qui alle prossime settimane. Fin da ora, comunque, è possibile formulare alcune precise ipotesi, o meglio, individuare i dubbi che questa inchiesta è chiamata a sciogliere.
Il primo. Un capitano dei carabinieri arrestato, un alibi smantellato, una storia che non regge: ma allora, Santapaola perché era dalle parti di Castelvetrano quella mattina? In altre parole, chi ha ucciso Vito Lipari, e perché? Un dubbio al quale se ne aggancia subito un altro. In entrambi i casi (esecutore del delitto Lipari oppure mediatore fra un imprenditore catanese e la malavita trapanese), Nitto Santapaola nell’agosto del 1980 – cioè due anni prima che venisse eliminato l’altro boss catanese Alfio Ferlito, che venisse ucciso il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e che lui, Nitto, fosse costretto alla latitanza – possedeva già tale autorevolezza mafiosa da poter dettare la propria legge (per un omicidio o per una difficile transazione criminale) non solo a Catania ma anche a Trapani, cioè dall’altra parte dell’Isola.
Insomma, la conferma dell’esistenza di un’asse mafiosa fra Sicilia occidentale ed orientale che risale a molto prima del delitto Ferlito. E qui si fa strada il terzo dubbio: è lecito limitare il gioco delle parti e delle alleanze ad una dimensione puramente criminale? In altre parole qual è il significato della contemporanea presenza, nella Sicilia occidentale, dei maggiori cavalieri del lavoro e del più pericoloso criminale catanese? Interi quartieri residenziali, un aeroporto, fognature ed acquedotti costruiti dalle imprese di Rendo, Costanzo e Graci e – nella stessa zona e negli stessi anni – precisi sospetti di colpevolezza a carico del boss catanese Nitto Santapaola per l’omicidio mafioso del sindaco di Castelvetrano. Tutto ciò ha un significato che va oltre la casualità? Ed in che modo si ricollega all’analisi che Dalla Chiesa proponeva pochi giorni prima della sua morte sulle condizioni («…il consenso della mafia palermitana», e «…una nuova mappa del potere mafioso») che avevano permesso alle «…quattro maggiori imprese catanesi» di lavorare a Palermo?
Di dubbi ne rimangono molti. Torniamo per un attimo al delitto Lipari: chi avrebbe fornito a Santapaola l’alibi (l’opera di pacificazione fra Graci e i mafiosi trapanesi) per quei giorni? Da quali ambienti, da quali insospettabili personaggi il capitano Melito avrebbe raccolto le deposizioni necessarie per scagionare almeno per quattro anni il boss catanese? Istintivamente si pensa a qualcuno all’interno delle istituzioni, a Catania: solo in ambienti del genere d’altra parte si possono immaginare personaggi che abbiano nello stesso tempo la necessaria credibilità, la possibilità “tecnica” di collegarsi col boss catanese e l’autorità per chiedere un suo intervento a Trapani in favore dell’imprenditore minacciato. Non tutti avrebbero i mezzi per far tanto.
Ed ancora il capitano Melito. E’ improbabile che un’auto per quanto nuova di zecca possa aver convinto un ufficiale dei carabinieri a farsi corrompere e a rendersi complice di un delitto. Cos’altro è accaduto? E qual è stato esattamente il ruolo del capitano Melito nei giorni in cui fu a Catania per raccogliere le conferme sull’alibi di Santapaola?
Ed infine il dubbio più amaro di tutti: perché di tutto questo si apprende (ed in modo ancora assolutamente sommario) notizia solo dopo quattro anni? E quanto ha influito sulla decisione di riaprire il caso Lipari il modo in cui il Consiglio Superiore della Magistratura ha agito per il caso Antonio Costa a Trapani?

 

 

 

 

Articolo del Corriere della Sera del 13 Giugno 1992
La profezia del pentito Calcara: Cosa Nostra non perdonerà Borsellino
Dopo il recente decreto del governo, parla Vincenzo Calcara, l’ ultimo pentito di mafia.
Rivelazioni sull’omicidio di Lipari Vito.

PALERMO . Eccolo qui, l’ultimo pentito di mafia, che torna sul palcoscenico della giustizia dopo il recente decreto del governo. Sotto i clic dei fotografi, Vincenzo Calcara dà vita a un’udienza spettacolare. Polemico, ironico, sprezzante. Strapazza gli avvocati che gli tendono mille trappole, inchioda killer e mandanti di Vito Lipari, rilancia le accuse contro un altro ex sindaco di Castelvetrano, Tonino Vaccarino, rovescia fiumi di insulti su uno degli imputati che lo taccia di “infamità “, rinnega pubblicamente la filosofia di Cosa Nostra, pronuncia la più sinistra delle profezie: “Le cosche non perdoneranno mai al giudice Borsellino di aver messo in ginocchio una delle famiglie più potenti di Trapani”. L’ ex soldato del clan di Castelvetrano è in forma strepitosa. La lettera della ritrattazione? “Solo un momento di smarrimento, dovuto allo choc per le immagini della strage Falcone viste in Tv”, spiega alla corte giustificando quel dietrofront che ora vuol cancellare con una memorabile “cantata”. “La mia collaborazione è appena cominciata. Ne sentirete delle belle”, promette. Ma qui Calcara può solo parlare dell’ omicidio di Vito Lipari. E dalla sua memoria affiorano i ricordi di quella mattina d’agosto di dodici anni fa, quando il pentito e altri uomini d’onore della famiglia si mobilitarono per coprire la fuga dei killer del sindaco. “Dovevamo sparare sulla pattuglia della polizia o dei carabinieri che sarebbe eventualmente passata per la stradella che da Triscina porta a Castelvetrano”, spiega Vincenzo Calcara. “Eravamo pronti a fare una strage, ma non fu necessario”. Poi, incalzato dalle domande dei difensori, butta giù un particolare inedito, agghiacciante: “Vito Lipari doveva morire a ogni costo. Se non fosse uscito di casa quella mattina, gli assassini sarebbero andati a domicilio. Avrebbero ammazzato lui e, se il caso, anche la moglie e la bambina”. E Tonino Vaccarino? “Era il mio capo. La sera prima del delitto andammo a cenare insieme in un ristorante di Mazara del Vallo. C’erano anche Nitto Santapaola e Mariano Agate. Dopo aver mangiato, Vaccarino mi disse di allontanarmi per un’ora. Andai a passeggiare sul lungomare, a guardare le ragazze. Tornato, mi sedetti al tavolo e dopo un quarto d’ora arrivarono Francesco Mangion e altre due persone”. Dalla gabbia Mangion esplode: “Sei infame e cornuto”. Calcara replica a tono: “Non ti agitare, rilassati. Infame sei tu e tutta Cosa Nostra. Io non ho paura. La mia è stata un scelta di lealtà verso la giustizia, non di convenienza”. Calcara insiste sul pentimento e sugli incontri con il giudice Paolo Borsellino. “Ogni volta che me lo trovo davanti, penso: guarda un po’, proprio io dovevo ucciderlo, e ricordo le parole che mi disse quando gli chiesi se non avesse paura. Rispose: è bello morire per ciò in cui si crede”. E. M.

 

 

Processo d’appello per l’omicidio di Vito Lipari ex Sindaco di Castelvetrano (TP)
Registrazione audio integrale dell’udienza di “Processo d’appello per l’omicidio di Vito Lipari ex Sindaco di Castelvetrano (TP)”:

16 luglio 1992
https://www.radioradicale.it/scheda/51614

15 luglio 1992
https://www.radioradicale.it/scheda/51613

6 luglio 1992
https://www.radioradicale.it/scheda/48516

13 giugno 1992
https://www.radioradicale.it/scheda/51609

12 giugno 1992
https://www.radioradicale.it/scheda/51608

 

 

Articolo del 15 Gennaio 2011 da antimafiaduemila.com
Il terremoto del Belice del 1968, l’omicidio mafioso del sindaco di Castelvetrano, Lipari
di Rino Giacalone

Una interminabile ferita lunga 43 anni. Un solco rimasto non colmato, sporco anche di sangue, quello dei morti ammazzati, «solco» segnato da scandali più o meno risolti o rimasti avvolti nel mistero, come certi omicidi.
Oggi i sindaci hanno scelto la via del «silenzio», adeguandosi, hanno spiegato al «silenzio» che impera a Roma a proposito di Belice. Ma il «silenzio» c’è da tempo, ed è quello che ha circondato gli intrallazzi, gli affari illeciti, gli scandali ed i delitti. Come quello dell’ex sindaco di Castelvetrano Vito Lipari, ucciso il 13 agosto del 1980. Per il suo delitto sono stati condannati gli esecutori, ma sono rimasti sconosciuti mandanti e movente.
Mauro Rostagno dagli schermi di Rtc non perdeva una sola delle udienze del primo processo per il delitto Lipari, quello che vedeva imputato il capo mafia di Mazara Mariano Agate; fu durante una pausa di una udienza di questo dibattimento che Agate mandò a dire, da dentro la gabbia, che Rostagno «doveva dire meno minchiate» sul suo conto. Qualche mese dopo Rostagno fu ucciso.
Una delle piste del delitto Lipari conduce ad un «segnale» (di morte) mandato dalla cupola di Cosa Nostra alla “famiglia” degli esattori Salvo ai quali Lipari, esponente di punta della Dc, primo dei non eletti alla Camera, era «politicamente» legato. Un’altra traccia conduce al «sacco» del Belice, a quella parte del piano di ricostruzione che riguardava la zona di Castelvetrano, individuato sulle carte della ricostruzione come IV comprensorio, interessava 10 Comuni e 80 mila ettari. Ci sarebbero state due planimetrie, una quella ufficiale, l’altra quella voluta dai «mammasantissima», terreni sui quali non si doveva costruire, si è invece costruito, terreni che così hanno preso grande valore.
Cosa c’entra il sindaco Lipari ammazzato dalla mafia in tutto questo? Pare che lui fosse in possesso delle due cartografie, quindi ucciso perchè risultato per la mafia «troppo informato di cose che non doveva sapere». Oppure diventato un «complice» ingombrante. Difficile tanti anni dopo avere la verità, il «silenzio» anche in questo caso ha fatto sparire tutto, quelle cartografie, assieme alla memoria e al ricordo.

 

 

 

 

Per la visione dei Video del programma TV di Mauro Rostagno

andare ai seguenti Link:

 

Ragionando di mafia intorno al Processo Lipari – 1

 

 

 

Ragionando di mafia intorno al Processo Lipari – 2

 

 

 

Fonte: m.catania.livesicilia.it
Articolo del 4 maggio 2019
La trasferta di Messina Denaro. “C’era un processo da sistemare…”
di Fernando Massimo Adonia
I verbali del pentito Avola, sullo sfondo l’omicidio del sindaco di Castelvetrano.

CATANIA – ll 5 aprile scorso, durante il processo a carico di Matteo Messina Denaro, accusato di essere uno dei mandati delle stragi di via Capaci e via D’Amelio, il collaboratore Maurizio Avola (il killer dagli occhi di ghiaccio) ha dichiarato che il boss nato a Castelvetrano “veniva a Catania – si può ascoltare nell’audio pubblicato su Radio Radicale – perché si doveva aggiustare il processo Vito Lipari, dove erano imputati Nitto Santapaola, Francesco Mangion e Rosario Romeo.

«L’ho portato dove Mangion era latitante. Era la primavera del 1992, una volta presso la latteria Sole alla zona industriale, una volta da Santapaola a Mascalucia. Mangion mi ha raccontato che avevano fatto il favore alla famiglia di Castelvetrano e ora si dovevano aggiustare i processi, che loro avevano delle amicizie e si dovevano sfruttare. I canali? Come mi diceva Marcello D’Agata, avevano una forte influenza sulla massoneria del luogo, conoscevano un po’ tutti, persone importanti, magistrati. So che avevano contatti con la massoneria.»

Quello di Vito Lipari, sindaco Dc di Casteveltrano ucciso il 13 agosto del 1980, è uno nome che tornando diverse più volte alla ribalta delle recenti cronache giudiziarie. Prima dell’ex killer di Nitto Santapaola, era stato stato il pentito Francesco Di Carlo a rievocarlo e lo ha fatto durante il processo a carico dell’editore Mario Ciancio. Il problema è che la giustizia non è ancora venuta a capo di una verità su quella morte. In un primo momento, tutto lasciava pensare che dietro quell’omicidio ci fossero i catanesi. Questo perché a poche ore dall’agguato, i carabinieri fermano in località Samperi due auto, una Fiat 127 e una Renault 30, con dentro il capo della Cosa nostra catanese Nitto Santapaola, i mazaresi Mariano Agate e Antonino Riserbato, e gli etnei Rosario Romeo e Francesco Mangion. Escluso Riserbato, che fu condannato a 29 anni di reclusione, gli altri quattro nel 1988 ebbero l’ergastolo. Il 17 febbraio del 1993 la corte d’assise di Palermo ribalta la decisione dei giudici trapanesi e assolve tutti “per non aver commesso il fatto”. Le dichiarazioni rese dal collaboratore Vincenzo Sinacori, che si auto accusa dell’omicidio, riscrivono la storia ma non chiariscono fino in fondo la vicenda, derubricata intanto tra i rivoli di uno scontro tra poteri nel territorio trapanese.

Ma la famiglia del sindaco ucciso non ci sta. A quasi quarant’anni di distanza da quella tragica mattinata, il figlio Francesco Lipari (allora ragazzino) alza la voce e racconta al mensile S chi fosse davvero suo padre. Un racconto drammatico, che ci dice come la mafia possa rendere doppiamente orfani i congiunti delle vittime.

 

 

 

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Articolo del 13 agosto 2020
Oggi il 40° anniversario dell’omicidio del sindaco di Castelvetrano Vito Lipari

 

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Articolo del 13 agosto 2020
Il figlio di Vito Lipari, “Mio padre ucciso dalla mafia castel corleonese”

 

 

 

 

 

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