14 giugno 1975 Milano (Baggio). Assassinata Luisa Fantasia, 32 anni, davanti alla figlia di 18 mesi. Vittima di ritorsione contro il marito carabiniere, infiltrato sotto copertura.

Luisa Fantasia, 32 anni, originaria di San Severo (FG), fu uccisa il 14 giugno del 1975 a Baggio, quartiere di Milano dove viveva con la famiglia, dinanzi alla propria figlia Cinzia di 18 mesi.
Sposata con Antonio Mascione, ai tempi brigadiere CC del reparto investigativo di Milano, fu uccisa per vendetta trasversale perché suo marito, come agente sotto copertura dell’arma, stava gestendo una partita di 600 kg di droga nell’hinterland di Saronno. La sua copertura saltò e gli uomini di una delle prime ‘ndrine presenti in Lombardia, cercando la valigetta con 60 milioni di lire che l’agente dell’arma aveva fatto visionare nel bosco di Saronno, gli uccisero la moglie stuprandola e seviziandola con un coltello da sub.
Dopo due giorni Antonio Mascione arrestò i due omicidi, uno dei quali minorenne.
A Luisa Fantasia furono tributati funerali di Stato a Milano, San Severo e San Nicandro Garganico.
Medaglia d’oro a valor civile del comune di Milano. Intitolazione di un intero quartiere a San Severo.
Unico caso in Italia dove un minore è stato punito alla massima pena di reclusione: ergastolo.
Dopo circa un anno uno dei suoi aguzzini fu ucciso nel carcere.
Fonte:  facebook.com

 

 

 

“Virgo Fidelis”, premio in onore di Luisa Fantasia
(SHARING.TV)
Statoquotidiano – 2 dicembre 2019
“Virgo Fidelis”, premio in onore di Luisa Fantasia, tra prime donne vittima vendetta trasversale

 

 

 

Fonte:  foggiatoday.it
Articolo del 26 marzo 2019
Giornata della Legalità a San Severo, una targa per Luisa Fantasia: “Il suo nome risuona dopo decenni di assordante silenzio”
Il vicepresidente dell’associazione ‘Ultimi’, Pietro Paolo Mascione, sul palco con la sorella Cinzia: “Per me e per mia sorella, questa giornata è stata un raggio di sole su dolorose cataste di giornali impolverati e dimenticati”

“Per me e per mia sorella, la giornata di oggi è stata un raggio di sole su dolorose cataste di giornali impolverati, dimenticati, di Luisa Fantasia. Dopo decenni di assordanti silenzi, quando il sindaco Miglio ha proferito il suo nome il cuore ha tuonato e la commozione presto è stata arginata dalle innumerevoli divise presenti, famiglia per noi”.

Così, Pietro Paolo Mascione commenta a caldo, a FoggiaToday, l’emozione vissuta nel corso della Giornata della Memoria e dell’impegno per le vittime innocenti di mafia tenuta a San Severo, dove per la prima volta, insieme alla sorella, è salito su un palco per ricevere una targa in memoria di Luisa Fantasia.

Una giornata voluta dall’amministrazione comunale e dedicata proprio a Luisa, moglie di un carabiniere che indagava su un traffico di droga, brutalmente assassinata in casa a Milano nel lontano 1975, e a Stella Costa che, ancora bambina, è stata uccisa, nel 2002, nel corso di una sparatoria in via Milano da un proiettile vagante.

“Oggi concludo due settimane intense devolute al tema della legalità nella provincia di Foggia”, commenta pubblicamente il vicepresidente dell’associazione ‘Ultimi’ fondata dal prete anticamorra Don Aniello Manganiello. “Ci sono comunità, soprattutto garganiche, colpite da violente incursioni della criminalità che giammai potrebbero e dovrebbero comportarsi come farisei, dirottando la propria attenzione solo su un fatuo e grigio divertimento. “Panem et circenses” umilmente oserei dire ma anche oppio dei popoli con magno gaudio della criminalità che, in tutta questa voluta distrazione popolare sguazza indisturbata, narcotizzando intere comunità, modificando tradizioni con uno sconsiderato paganesimo”.

“Poi c’è San Severo, comunità più volte colpita da efferati fenomeni malavitosi che, come oggi, più volte ha detto il suo ‘No’. Oggi io e mia sorella Cinzia siamo stati invitati dall’associazione Libera e dal primo cittadino Francesco Miglio a ricevere una targa in memoria di Luisa Fantasia. La commozione era tanta ed il cuore tuonava sul palco ma la sensibilità mostrata dal padrone di casa ha posto un valido argine all’emozione di chi non ha mai voluto parlare di questa singolare, grigia storia italiana. Ci sentivamo a casa tra mille divise, con gli occhi che non ci venivano tolti di dosso nemmeno per un secondo”, continua.

“Se c’è una cosa per cui ringrazio sempre mio padre è di avermi donato la dignità, costoso ed alterato valore a cui, oggi, corrisponde come sinonimo la fessitudine. Mi ha insegnato di antimafia delle opere, di silenti azioni e di riflettori sempre spenti. Le più belle parole sono i fatti. Oggi qualcuno si chiede il perché di decenni di silenzi ed il perché passa proprio attraverso il carattere familiare di gestire dolori ed azioni. Così, alla presenza di seicento ragazzi, di un amichevole Umberto Ambrosoli, figlio di Giorgio, con il coro di Altamura che, alle note del “Nessun dorma”, faceva accapponare la pelle, cala il sipario su questa bella ed emozionante giornata”.

 

 

 

Foto da ilgiorno.it

Fonte:  ilgiorno.it
Articolo del 5 dicembre 2019
Omicidio di Baggio, movente svelato: Luisa ammazzata per vendicarsi del marito carabiniere
di Valentina Rigano
Trucidata a Milano nell’appartamento dove abitava col compagno e la figlia neonata

Milano, 5 dicembre 2019 – Il sorriso radioso spezzato dalla brutalità della vendetta. Il coraggio d’esser sposa della ragion di Stato, al fianco di un carabiniere che dal Sud Italia l’aveva portata con sé a Milano, spazzato via a colpi di lama da due uomini che quel giorno non si fermarono nemmeno davanti agli occhi innocenti di una bambina di 18 mesi, uccidendone la madre dopo averla seviziata e violentata. Questa è la storia di Luisa Fantasia, prima e unica vittima «trasversale» del Dovere d’Italia, trucidata a Milano il 14 giugno 1975, quartiere Baggio, nell’appartamento in un appartamento che condivideva col compagno e la figlia neonata. A spegnere la sua giovane vita furono due tirapiedi della malavita, che volevano vendicarsi di suo marito, dopo averlo scoperto ‘sbirro’.

Lo scorso 30 novembre, Luisa ha ricevuto il «Premio Virgo Fidelis» alla memoria dall’Associazione Nazionale Carabinieri, a Manfredonia. Era arrivata in città da un paesino in provincia di Foggia insieme al marito Antonio Mascione, brigadiere dei carabinieri del reparto operativo del Comando provinciale di Milano. Lui, che stava gestendo sotto copertura un grosso carico da 600 chili di droga sull’asse Calabria-Lombardia, quel giorno avrebbe dovuto incontrare due galoppini vicini alle ‘ndrine, a cui aveva mostrato 60 milioni in contanti per convincerli di poter essere un buon acquirente, durante un incontro nei boschi di Saronno. Scoperto che si trattava di un militare sotto copertura e forse convinti di poter prendere i soldi che credevano custodisse, i due (di cui uno ancora minorenne) disertarono l’appuntamento e andarono a casa sua. Luisa aprì timidamente la porta, convinta fossero amici di Antonio.

Poi solo brutalità e silenzio. Cinzia, poco più di un anno di vita, piangeva con indosso il sangue di sua madre quando Mascione, sfondando la porta finestra del bagno, entrò in casa a omicidio già consumato. Lei, la sua morte e la vicenda di Antonio e della sua famiglia sono rimasti sepolti sotto il peso del dolore per oltre 44 anni. L’Arma ha rispettato la richiesta di silenzio del militare che, solo due giorni dopo l’accaduto, catturò i responsabili, entrambi condannati all’ergastolo. Per volontà di Cinzia e di Pietro Paolo Mascione, nato dal secondo matrimonio del carabiniere e oggi poliziotto, ora il sacrificio di Luisa avrà la memoria che merita. «Mio padre non mi ha mai parlato di Luisa – ha raccontato Pietro – mi ha sempre detto però che quando si subisce un dolore così grande i riflettori si evitano». Adesso, però, per volere di Cinzia, che «non vuole sua madre muoia due volte», la famiglia ha aperto il suo cuore affinché di Luisa si parli, perché la sua memoria sia perpetrata e il suo sacrificio non venga dimenticato.

 

 

 

Fonte: archiviolastampa.it 
Articolo del 17 giugno 1975
Fatta piena luce sul bestiale delitto di sabato notte a Milano
di Francesco Fornari
Arrestati i due feroci assassini che hanno ucciso la moglie del carabiniere davanti alla figlioletta

Hanno confessato – Sono un giovane di 17 anni e uno di 23 – Entrati nella casa del milite pensando di trovare dei milioni, hanno massacrato di botte la giovane donna, l’hanno violentata e finita a pugnalate – Erano fuggiti con 60.000 lire

Milano, 16 giugno. Un delitto bestiale, una giovane donna massacrata di botte, violentata, strangolata ed infine finita con una pugnalata che le ha squarciato la gola sotto gli occhi atterriti della figlia di 18 mesi. Gli assassini hanno infierito con furia selvaggia, incuranti del pianto disperato della bimba, sconvolta di fronte alla loro violenza, terrorizzata dalle grida della madre che lottava con tutte le sue forze per sottrarsi alle loro immonde violenze, alla lama omicida.

L’uccisione di Luisa Fantasia Mascione, moglie del brigadiere Antonio Mascione del Nucleo investigativo dei carabinieri, ha sollevato commozione ed indignazione ovunque. Lo sdegno è appena temperato dal fatto che i due assassini sono stati arrestati poche ore dopo il truce delitto: davanti alle edicole, dove sono esposti i giornali con i grossi titoli sull’omicidio, si colgono i commenti delle persone. “Sono delle bestie, bisogna ucciderli», «Basta con la violenza, è ora di finirla». «La legge deve imporsi con forza, i criminali vanno puniti duramente».

Sadismo

È lo sfogo della gente semplice, dell’uomo della strada sempre più sconcertato ed impaurito di fronte al dilagare della delinquenza. Una delinquenza che non si arresta neppure di fronte al delitto, che uccide anzi con sadico piacere, che ammazza una giovane madre per impadronirsi di 60 mila lire ed un anello d’oro strappato dalle dita della vittima.

L’inchiesta ha accertato «senza ombra di dubbio» che il movente del delitto è la rapina. I due assassini, Abramo Leone, 17 anni e Biagio Jaquinta, 23 anni, si sono introdotti nell’abitazione del brigadiere per impossessarsi di una grossa somma che secondo loro doveva trovarsi in casa.

Sono entrati «decisi ad uccidere», il delitto era premeditato, la donna era condannata a morte perché considerata un testimone troppo pericoloso. Comunque fossero andate le cose, anche se i rapinatori avessero trovato i milioni di cui fantasticavano, la povera donna sarebbe stata uccisa. La tesi che sia stata assassinata in un accesso d’ira provocato dalla scoperta che non c’erano i quattrini è crollata di fronte alla precisa ricostruzione fatta dagli inquirenti. Forse l’unica cosa non premeditata è stata l’infame violenza a cui è stata sottoposta: gli assassini ignoravano che si sarebbero trovati di fronte ad una donna giovane e piacente, i loro istinti bestiali si sono scatenati quando l’hanno vista. E per la loro vittima non c’era più scampo.

Dopo un’intera giornata di interrogatori, inchiodati da una serie di circostanze inoppugnabili, i due assassini hanno confessato. In un estremo tentativo di difesa si accusavano l’un l’altro di aver vibrato la coltellata mortale, quella che ha reciso la carotide della donna. Ognuno di loro spera in questo modo di sminuire la propria responsabilità, come se l’aver partecipato a quella drammatica orgia di violenza e di sangue non sia già motivo sufficiente per bollarsi col marchio dell’assassino.

L’autopsia ha stabilito che la vittima è stata picchiata con furia bestiale (ha riportato la frattura di quattro costole), è stata sfregiata al viso con due coltellate ed infine uccisa con un colpo inferto alla gola. L’arma, un pugnale da subacqueo con la lama lunga e sottile, seghettata all’estremità, è stata ritrovata dai carabinieri lungo i binari della ferrovia Nord, dove i due assassini l’avevano buttata mentre in treno tornavano a Saronno, dove abitano.

L’inchiesta

L’inchiesta ha ricostruito le mosse della coppia omicida. I due si erano messi in contatto nei giorni scorsi col brigadiere Mascione che svolgeva indagini su un traffico di droga dalle parti di Saronno. Non si tratta di informatori abituali, il brigadiere non li aveva mai visti prima. Era stato Antonio Leone, il ragazzo diciassettenne, ad avvicinare il sottufficiale in un bar della cittadina affermando di essere in grado di farlo incontrare con un grosso trafficante della zona. le trattative erano durate qualche giorno: il giovane voleva sapere con precisione quanto avrebbe guadagnato da questa «collaborazione», trovava sempre nuovi pretesti per rinviare la data dell’incontro. Poi si era fatto vivo il complice, Biagio Jaquinta, con una richiesta ben precisa: tanti milioni, ma proprio tanti, in cambio della «soffiata». Il brigadiere aveva promesso un «premio consistente», senza tuttavia impegnarsi con una cifra precisa. La disponibilità dell’Arma, in questi casi, è piuttosto ridotta, oggi un maggiore del Nucleo investigativo parlando con i giornalisti ha detto «Noi possiamo dare le caramelle, altro che milioni. Se quei due fossero stati più informati l’avrebbero saputo e quella povera donna sarebbe ancora viva».

Dopo un paio di appuntamenti andati a vuoto perché il misterioso trafficante non si era presentato, sabato i due assassini hanno deciso di passare all’azione. Avevano un bisogno disperato di quattrini (lo hanno dichiarato più volte durante gli interrogatori) ed erano convinti che il brigadiere Mascione tenesse in casa «parecchi milioni» per pagare gli informatori. Questa convinzione era dovuta al fatto che il sottufficiale dopo l’ennesimo appuntamento mancato, aveva dato loro il numero telefonico invitandoli a chiamarlo a qualunque ora, anche di notte, se avevano delle notizie. >Per vincere la riluttanza (sia il Leone che lo Jaquinta continuavano a ripetere che volevano i soldi del premio «subito, appena fissato l’incontro»), il brigadiere li aveva assicurato che il denaro «ci sarebbe stato in qualunque momento». Questo deve aver convinto i due che i quattrini fossero nascosti nell’abitazione del carabiniere. Di qui la decisione di andare a prenderli. Sabato verso le 16 hanno suonato alla sua porta: hanno detto alla moglie che erano «amici di Tonino», e la donna li ha invitati ad andare al Nucleo perché suo marito era già in ufficio.

Mezz’ora dopo si sono ripresentati. Non si sa con quale pretesto siano riusciti ad entrare (probabilmente devono avere aggredito la donna appena ha aperto la porta), e si sono subito messi a frugare nell’appartamento, alla ricerca del denaro. Prima, però, hanno telefonato al Nucleo chiedendo del brigadiere Mascione. Per evitare che tornasse all’improvviso hanno detto di aspettarli in ufficio fino verso le 20,30, perché avevano notizie importanti. Quel che è accaduto in quelle ore (la morte della sventurata è avvenuta fra le 17 e le 20) è ormai noto: la violenza, lo scempio sul corpo della giovane donna, l’affannosa ed inutile ricerca del denaro, la spietata uccisione a sangue freddo per eliminare un pericoloso testimone (gli assassini sapevano che dalla descrizione che avrebbe fornito la moglie il brigadiere sarebbe risalito facilmente a loro). Il delitto è stato scoperto dal sottufficiale poco prima di mezzanotte: il corpo della moglie, seminudo e coperto di sangue giace scomposto sul pavimento della camera da letto, gli occhi sbarrati, le braccia reclinate sul capo, come per proteggersi. O per non vedere.

L’allarme è scattato immediatamente. I carabinieri non hanno perso tempo, lo stesso brigadiere Mascione, vincendo il dolore, ha collaborato alle indagini. Che hanno preso subito un’unica direzione: per prima cosa, infatti, si è pensato di controllare le persone con le quali il sottufficiale aveva avuto contatti mentre si occupava del suo ultimo incarico, l’inchiesta sul traffico di droga. Vengono fuori i nomi di Leone e dello Jaquinta: vanno a prenderli a casa loro. Dormono tranquilli, fingono sorpresa alla vista dei carabinieri. Si indignano, protestano. Ma nelle loro abitazioni vengono trovati abiti macchiati di sangue ed il bottino della rapina: 60 mila lire (tutti i risparmi della famiglia) e un anello d’oro, la fede nuziale della donna morente.

Dopo ore di interrogatorio e le prime ammissioni, poi la confessione e le reciproche accuse. >L’inchiesta ha permesso di risalire anche al presunto trafficante di droga che i due avrebbero dovuto presentare al brigadiere Mascione. Si tratta di Vittorio «Ciccio» M., di vent’anni, che è stato fermato a disposizione del magistrato. Sono stati arrestati anche quattro giovani (di 16 e 17 anni) che i due assassini avevano indicato nei loro alibi. Non hanno nulla a che fare col delitto (anche se uno di loro ha imprestato il pugnale usato dagli assassini).

 

 

 

 

Fonte: archivio.unita.news
Articolo del 28 novembre 1976
I MOSTRI E L’ERGASTOLO
di Massimo Cavallini
Dopo la sentenza per l’orrendo delitto di Milano
Per la prima volta è stato condannato a vita anche un minorenne   –  L’atrocità del crimine (la moglie di un brigadiere seviziata e sgozzata) e la punizione reclamata con furore e rabbia, due aspetti diversi d’un problema sociale ancora lontano dalla soluzione.

MILANO, 27. Quando il presidente della corte d’assise ha detto «ergastolo», un lungo, frenetico applauso ha scosso il palazzo di giustizia. E poi grida, pianti, invocazioni: «a morte», «giustizia», «belve». Qualcuno si è addossato alle transenne per stringere la mano al pubblico ministero, per congratularsi con lui. «Bravo» –    gridava una signora anziana rivolta al dott. Pomarici – «Bravo, giustizia». Ed il dott. Pomarici, il pubblico ministero, si schermiva, invitava energicamente la folla alla calma, al silenzio.

Due ergastoli. Biagio Jaquinta ed Abramo Leone, le «belve», hanno varcato per sempre le porte del carcere accompagnati dall’eco di quell’applauso, da quel coro di «evviva», di invocazioni, di pianti, di imprecazioni.    Nessuna circostanza attenuante, neppure quella della minore età per Abramo Leone, diciassettenne all’epoca del delitto. È la prima volta che un minorenne viene condannato a vita.

La gabbia degli imputati ieri mattina era vuota. Abramo Leone e Biagio Jaquinta non se l’erano sentita di affrontare di nuovo l’odio dei presenti, gli sguardi ed il pianto dei parenti della vittima. E le grida, gli insulti, gli sputi. Neppure gli avvocati difensori si erano presentati.

Abramo Leone e Biagio Jaquinta: assassini, stupratori, seviziatori e rapinatori. Il loro delitto, alla metà di giugno del ‘75, aveva riempito di orrore la città. E di sgomento, si può parlare oggi, di fronte a questa condanna senza speranza, alla rabbia con la quale la folla l’ha reclamata, pretesa quasi.

Abramo Leone e Biagio Jaquinta la notte del 15 giugno del 1975 penetrarono con l’inganno in casa di Luisa Fantasia, 32 anni, moglie di un brigadiere dei carabinieri. Le legano una cinghia intorno al collo e la immobilizzano sul letto. La seviziano a lungo sotto gli occhi della figlioletta Cinzia di 17 mesi, forse la violentano. Poi le squarciano la gola con un pugnale da subacqueo. Mentre Luisa Fantasia muore per dissanguamento i due rovistano a lungo nei cassetti: cercano danaro, molto danaro. Ma il bottino è miserevole: sessantamila lire e una modesta macchina fotografica. Li arrestano la notte stessa a Saronno a casa loro. Abramo Leone ha ancora al dito la fede d’oro che ha strappato alla sua vittima. Una vendetta assurda, feroce, la definirono i giornali. Dieci giorni prima del delitto, Leone e Jaquinta avevano preso contatto con il marito di Luisa Fantasia, il brigadiere Mascione, del nucleo investigativo di via Moscova. Volevano vendere una «soffiata» su un traffico di droga: una forte partita di hashish che la banda di un certo «Ciccio» stava per mettere sul mercato.

I carabinieri si fingono acquirenti, «entrano – come si dice – nel giro». La cosa però svanisce nel nulla. Ma i due confidenti reclamano egualmente la somma pattuita e si convincono che il danaro sia in casa del graduato col quale hanno tenuto i contatti. Vogliono il denaro e vogliono vendicarsi dello «sgarbo». Per questo seviziano ed uccidono Luisa Fantasia.

Abramo Leone e Biagio Jaquinta: 17 e 22 anni. Entrambi vengono dal sottobosco della malavita saronnese, un mondo sordido di prostituzione e di droga, di scippi e di piccole rapine, che gravita attorno alla stazione ferroviaria della città brianzola. Due esempi di quella nuova delinquenza, miserabile e feroce, ancora ai margini del crimine organizzato, che è cresciuta attorno a Milano, nei centri gonfiati dell’immigrazione più recente. Due biografie diverse, ma segnate da molte esperienze comuni: l’emigrazione in Germania, il ritorno in Italia, la disoccupazione, l’incontro con la malavita.

Dopo l’arresto si sono scagliati l’uno contro l’altro, accusandosi reciprocamente del delitto. Poi, al processo, hanno cambiato versione. Abramo Leone, prima di chiudersi in un ostinato mutismo, si è autoaccusato: «Sono stato io… no, non so come sia accaduto… mi sono trovato il coltello tra le mani… Jaquinta non c’entra, ha soltanto guardato».

Forse era soltanto una mossa studiata dalla difesa: riversare tutto sul minorenne sperando nella concessione delle attenuanti. Chi ha pugnalato la donna? Leone. Chi l’ha picchiata? Leone. Chi l’ha legata al Ietto? Leone. Chi l’ha violentata? Leone. Sempre Leone. Seduti sul banco degli imputati hanno seguito tutto il dibattimento come raggomitolati su se stessi, guardando a terra. Hanno infranto tutte le regole del vivere civile e per salvarsi si sono «scannati» a vicenda, senza pietà.

«Guardateli – ha detto il pubblico ministero nel corso della sua violenta requisitoria – «nessun segno di pentimento». Forse aveva ragione. Ma nulla, nulla giustifica il clima da linciaggio che si era creato al processo. «Belve», gridava la gente. E come belve sono stati trattati. Nessuna attenuante, nessuna considerazione per i 17 anni del più giovane. Due ergastoli, senza speranza.

Ma per una società civile le «belve» non possono esistere. Esistono gli uomini. Abramo Leone e Biagio Jaquinta, assassini, seviziatori e ladri, erano colpevoli, certo. Ma la brutalità e la ferocia del loro crimine non sono stati il frutto solo di un «male oscuro», individuale e nascosto. Nella barbara uccisione di Luisa Fantasia, si è riflessa la disgregazione di una società che produce criminalità e violenza, che «disumanizza» gli uomini. E allora creare un «mostro», bollare una «belva» può davvero essere soltanto un modo per non analizzare né combattere la «mostruosità», quotidiana, che genera il crimine. Uomini, quindi non «belve».

L’ergastolo è una barbarie, per molti aspetti simile al delitto che vorrebbe far espiare. E gli applausi che hanno accolta la lettura della sentenza di ieri hanno salutato, con macabra gioia, una sconfitta di una società le cui storture generano questi «mostri».

 

 

 

 

Fonte:  archiviolastampa.it
Articolo del 29 ottobre 1980
Jaquinta seviziò e uccise la moglie d’un brigadiere
Assassinato nel carcere di Nuoro

Uno dei due detenuti trucidati nel carcere di Nuoro era responsabile di un delitto particolarmente feroce: Biagio Jaquinta, di 25 anni, che nel 1975, a Milano, seviziò e uccise una donna sotto gli occhi della figlia di 18 mesi. Jaquinta agì con un complice. Abramo Leone. La Corte d’assise li condannò all’ergastolo; la sentenza fu convalidata in appello e in Cassazione.

C’era una storia di droga dietro a quel crimine che, come pochi, riuscì a suscitare una generale profonda reazione di orrore e ribrezzo. Leone, che all’epoca dei fatti aveva 17 anni, e Jaquinta avevano dimestichezza con gli stupefacenti e con gli spacciatori. Presumibilmente cercavano da un lato di procurarsi denaro prestandosi a quei traffici e, dall’altro, di guadagnarsi qualche benevolenza da parte della polizia, fornendo «informazioni».

Il 14 giugno 1975, Antonio Mascione, un brigadiere che stava svolgendo indagini sul traffico di eroina nel quartiere di Baggio, dove abitava, si sentì chiamare, in caserma, da Jaquinta. Il giovane gli confidò che lo avrebbe aiutato ad arrestare «un pesce grosso» e gli chiese un appuntamento. Il brigadiere rispose che sarebbe stato libero solo nel pomeriggio. Avuta la certezza che Luisa Fantasia, di 32 anni, moglie del sottufficiale, sarebbe rimasta sola ancora per alcune ore, Jaquinta e Leone si recarono nella sua casa, suonarono il campanello, chiedendo, alla giovane, di vedere subito il marito. Prima che lei avesse finito di rispondere ch’era assente, i due entrarono, la immobilizzarono, la seviziarono e sgozzarono. Poi rovistarono rubando tutti i «valori» che c’erano: 60.000 lire e una decina di monete d’argento.

Quando rientrò, Antonio Mascione trovò la moglie uccisa in mezzo al sangue che aveva imbrattato il letto, le pareti, il pavimento, e la piccola Cinzia impietrita dal terrore, immobile e muta nel carrozzino. Fu Mascione stesso a condurre le indagini: dopo ventiquattro ore, Jaquinta e Leone confessarono.

La Corte d’assise li condannò all’ergastolo con una sentenza che suscitò polemiche in quanto ai due giovanissimi (uno dei quali minore) toglieva qualsiasi possibilità di reinserirsi nella vita civile, qualora avessero dimostrato di ravvedersi. Ma la tesi dell’avere agito sotto effetto di sostanze stupefacenti o quella dell’infermità mentale non vennero accolte dai giudici: perché non si può imputare alle droghe l’origine di una tale ferocia e anche perché, nel caso specifico, Jaquinta e Leone, esaminati da psichiatri, risultavano dotati di facoltà mentali sufficienti per rendersi conto delle proprie azioni.

 

 

 

Fonte: foggiatoday.it
Articolo del 25 novembre 2019
Luisa Fantasia, la donna seviziata e brutalmente uccisa per una “Ragion di Stato”. “A un dolore così forte si sopravvive”
di Maria Grazia Frisaldi
Il 30 novembre, a Manfredonia, il premio ‘Virgo Fidelis’ alla memoria di Luisa Fantasia, tra le prime donne vittime di una vendetta trasversale. PietroPaolo Mascione: “Raccontare una storia così drammatica, ma affrontata con così tanta dignità, può essere di monito e di esempio per tanti”

Al suo nome è legato un intero quartiere a San Severo nonché la sede (insieme al nome di Stella Costa) del Reparto Prevenzione Crimine della città. Al suo nome, i più anziani possono legare l’immagine del feretro che, 44 anni fa, sfilò per le vie cittadine durante i funerali di Stato celebrati in tre città: San Severo, appunto, San Nicandro Garganico e Milano.

Ma della drammatica vicenda di Luisa Fantasia – giovane donna di San Severo, moglie di un carabiniere, seviziata e brutalmente uccisa nella sua abitazione a Milano, nel 1975 – si conosce poco o nulla. Solo pochi mesi fa, durante la Giornata della Legalità, a San Severo, il suo nome è tornato pubblicamente su un palco della sua città. E questo per due ordini di motivi: innanzitutto perché la vicenda fu secretata per le indagini dell’epoca, in secondo luogo per la tenace volontà della famiglia di tutelare la memoria della donna e il proprio dolore.

A distanza di decenni, la sua storia verrà raccontata nell’ambito dell’edizione 2019 del Premio ‘Virgo Fidelis’ dell’Associazione Nazionale Carabinieri, che il prossimo 30 novembre, a Manfredonia, dedicherà un premio alla memoria di Luisa Fantasia, tra le prime donne vittima di una vendetta trasversale. A ritirare il premio, e a farsi carico di questo esercizio di memoria, sarà Pietro Paolo Mascione, vicepresidente nazionale dell’associazione ‘Ultimi’ del prete anti-camorra don Aniello Manganiello e figlio (in seconde nozze) di quel giovane carabiniere cui la criminalità uccise la moglie. A lui il compito di riaprire vecchi cassetti e ferite, e restituire alla comunità questa storia dolorosa, mantenendo fede a quell’abito di dignità da sempre indossato dalle famiglie Fantasia e Mascione.

Pietro Paolo Mascione chi era Luisa Fantasia?
Chi era? Oggi nessuno la conosce. Questo non per il tempo trascorso nel frattempo (oltre 40 anni), ma perché la sua è stata una storia tenuta volutamente ‘sotto chiave’ da mio padre che, insieme a mia sorella Cinzia (figlia di Luisa) ha subìto il trauma e il lutto più grandi. Soprattutto mio padre (che poi ha ricoperto altri incarichi nell’Arma, che hanno richiesto una maggiore protezione familiare) non ha mai sopportato l’idea che la moglie fosse stata uccisa per una “Ragion di Stato”, che l’ha portato poi a formattare completamente la sua vita.

Ti è stato affidato un fardello pesante…
Il compito è durissimo. E non so se ci riuscirò fino in fondo. Ho dovuto aprire il vecchio baule di mio padre, dal quale sapevo che sarebbero usciti i più grandi demoni della nostra famiglia. Solo pochi mesi fa ho visto i giornali dell’epoca. Ho visto quelle immagini e quei titoli insieme a mio padre. In quel momento mi sarebbe piaciuto essere un viaggiatore del tempo, per tornare in quegli anni ed essergli vicino.

Perché raccontare adesso, cosa è cambiato nel frattempo?
Perché ho avuto il placet di mia sorella. “Non voglio far morire mia madre due volte”, mi ha detto. Ovvero non vuole che sua madre venga dimenticata. Perché nonostante al suo nome sia legato un intero quartiere a San Severo pochi ricordano chi fosse. Luisa Fantasia è stata una delle prime donne di Capitanata vittima di una vendetta trasversale. E credo che al giorno d’oggi raccontare una storia così drammatica, ma affrontata con così tanta dignità, possa essere di monito e di esempio per tanti.

Tuo padre, che ha sempre scelto la strada del silenzio, è d’accordo?
Non mi ha ancora parlato, ma mi ha staccato un sorriso. E so che per lui equivale ad un consenso. A casa siamo cresciuti con una forte ritrosia e riservatezza nel parlare di questa storia. Anche quando arrivava l’anniversario di quella morte ci si stringeva ognuno nel proprio dolore. L’omicidio di Luisa Fantasia ha mietuto tante vittime, ha scalfito profondamente (seppur per motivi diversi) ognuno di noi.

Ricordi quando hai saputo di questa vicenda?
Ero adolescente, me ne parlò la sorella di mio padre. Ma è una storia che ho ricostruito nel tempo, pezzo dopo pezzo. Quando ero bambino vedevo mia sorella lasciarci per le vacanze o per le feste comandante, perché le trascorreva in parte con i parenti di San Severo (la famiglia di Luisa Fantasia, ndr). Parenti che, quindi, erano suoi e non miei. Era chiaro che mancasse un pezzo, un raccordo, nel nostro quadro familiare. Ma mi sono tenuto sempre tutto dentro. Arrivai persino a credere che uno dei due, tra me e mia sorella, fosse stato adottato… Poi ricordo un pomeriggio dell’agosto 1993. Avevo 13 anni ed eravamo in vacanza. Mio padre mi chiese di fare un giro in auto (che era il suo modo per farmi una strigliata oppure per parlare di cose serie). Lungo la strada che collega San Nicandro a Torre Mileto mi disse, con le lacrime agli occhi, che doveva parlarmi. Io dissi che sapevo già tutto e troncai subito. In realtà non sapevo, o forse non volevo sapere. A 15 anni poi, mia zia mi raccontò il resto della storia, che però strinsi bene con mia sorella. Ci siamo raccontati tutto. Lei aveva sempre saputo, ero io che ero stato ‘protetto’ da questa verità che ha avuto su di me un risvolto importante: ha provocato un sussulto di giustizia, un estremo desiderio di legalità. Don Aniello mi ha sempre detto: “Tu solo due cose potevi fare: o il poliziotto o il prete”. Bene, tra le due ho deciso di vestire la divisa per contribuire a scardinare determinati sistemi, per aiutare gli altri nonostante tanto male subìto…

Cosa che hai potuto realizzare a Scampìa, dove hai incontrato, appunto, il prete anti-camorra don Aniello Manganiello…
Sì, Scampìa è una destinazione che ho scelto, non mi è stata affibbiata. Ero stato mandato al commissariato di Ischia, dove si stava benissimo. Mio padre fantasticava persino di comprare una casa sull’isola per trascorrere le vacanze insieme. Ma non era il mio posto. Ho resistito circa 8 mesi, poi ho fatto domanda per essere trasferito a Scampìa e Secondigliano.

Perché Scampia?
Sono arrivato nel 2006. Lì avevo ciò che volevo. Volevo riscattare la morte di una persona.

Quella di Luisa Fantasia. Mi spieghi meglio?
Nel 1975, mio padre lavorava al Reparto Investigativo dell’Arma di Milano. Gli fu chiesto di lasciare le attività e le pratiche relative al terrorismo e di indagare sui traffici di droga in territorio lombardo, in particolare su una grossa partita di droga di una delle prime ‘ndrine calabresi presenti nel capoluogo lombardo. Era stato organizzato un primo incontro che però fallì (forse qualcuno aveva subodorato il tranello); infine un successivo appuntamento, al quale però nessuno si presentò, perché in quel momento i criminali attesi erano a casa di mio padre a seviziare, violentare e uccidere barbaramente la moglie, alla presenza della figlia di appena 18 mesi.

Per questo prima hai detto che Fantasia è stata “uccisa per una Ragion di Stato”?
Sì, l’omicidio di Luisa Fantasia si incardina, a mio avviso, in una logica statale. Ci furono funerali di Stato in tre città: San Severo, San Nicandro Garganico e Milano. Fu insignita della medaglia d’oro al valor civile dal Presidente della Repubblica e le fu dedicato un quartiere a San Severo. Mio padre, all’epoca, rifiutò un indennizzo di 100 milioni e qualunque vantaggio (corsie preferenziali per i figli delle vittime del dovere, sussidi mensili e qualunque altro benefit riservato a questo status). E’ stata una vicenda che mio padre ha custodito nel suo cuore con riservatezza ed estrema dignità. E che ha difeso con le unghie e con i denti. Mi ha insegnato la dignità con cui affrontare il dolore.

Torniamo a Scampìa…
Sono andato a Scampìa per il mio conto aperto con il mondo della droga. Ero pronto a tutto. Ero pronto anche a non tornare. La presenza di Luisa la sentivo sempre nei casi limite, su quei lunghi ballatoi delle “vele” di Scampia. Era una forte presenza notturna. Quel quartiere era una centrale dello smercio della droga, arrivavano gruppi criminali da tutt’Italia per il loro ‘carico’. Ho visto tanta bella gioventù perdersi per la droga. Cercavo di svolgere il mio ruolo senza risparmiarmi, associando al ruolo istituzionale anche quello sociale. Eppure sentivo un grande senso di impotenza di fronte al quel ‘sistema’. Mi confidai con don Aniello e lui mi disse: “Perché il male trionfi basta che gli uomini per bene non facciano nulla. Quello che puoi fare, lo stai già facendo. Quindi sei una persona del bene”.

Come ha reagito tuo padre alla tua decisione di trasferirti lì?
Non mi ha parlato per un anno intero. Ci sono stati forti divergenze a casa per questa mia decisione.

Lì hai avuto il tuo primo incontro con Don Aniello…
Sì, era ‘famoso’ a Scampia. Si parlava solo di lui e di Saviano. Lo vedevo sempre nelle piazze dello spaccio, nelle case, nei luoghi frequentati dai tossicodipendenti, ai margini della società sempre per questioni legate alla droga o alle affiliazioni alla camorra. Inizialmente lo guardavo con sospetto. Dovevo comprendere il suo ruolo. Poi ho iniziato a frequentare la sua ‘parrocchia di frontiera’ e ho imparato a conoscerlo. Non gli ho raccontato subito la mia storia, nonostante lui mi abbia salvato da Scampìa. Mi ha aiutato a moderare, a non spendere un’altra vita.

Nonostante il vissuto drammatico, tuo padre non ha mai abbandonato la divisa…
Se ti dovessi definire la personalità di mio padre, forse non ne sarai capace fino in fondo. E’ molto complesso, riservato. Io penso, ma è solo una mia idea, che la sua rivalsa sia stato un maggiore impegno all’interno delle fila dello Stato; il passaggio a un’altra configurazione dell’Arma forse è stata la sua ‘vendetta’. La prospettiva di un altro matrimonio, un altro figlio, un’altra vita, invece, è stata la sua àncora di salvataggio.

Come si vive con un peso del genere?
Si sopravvive. Nonostante tutto.