15 Gennaio 1998 Messina. Ucciso Matteo Bottari, Professore di Diagnostica e Chirurgia Endoscopica all’Universita di Messina, con due colpi in pieno volto.

Foto da: messin.it

Poco dopo le 21 del 15 gennaio 1998, il professor Matteo Bottari era alla guida della propria auto quando giunto ad un incrocio venne raggiunto e affiancato da una moto. Scattò l’agguato. Uno dei killer imbracciava una lupara con pallettoni calibro 45, quelli usati per la caccia al cinghiale. Erano rivestiti di rame. Rinforzati, indeformabili, per non dare scampo alla vittima. Poggiata l’arma sul finestrino della fiancata destra, fu fatto esplodere il caricatore. I proiettili devastarono la testa del professionista, che si accasciò agonizzante sul volante. L’auto finì contro un marciapiede del lungo stradone della Panoramica.
Da allora non si ha ancora un colpevole, un movente, ma soprattutto sono rimasti nell’ombra anche i killer.
La polizia in questi anni ha indagato a 360 gradi sulla vita e le relazioni umane e professionali della vittima. Scartata la pista dell’omicidio d’onore, si puntò il dito sugli inevitabili contrasti nel mondo accademico e sulle gelosie di qualche collega in competizione per una cattedra. Era scoppiata da poco l’inchiesta sulle megaforniture di farmaci e apparecchiature in campo sanitario, amici e colleghi del Bottari c’erano implicati fino al collo, ma anche questa pista si arenò per l’assenza di plausibili riscontri.
Poi ci s’indirizzò inutilmente sugli appalti per la ristrutturazione e l’ampliamento del policlinico che avevano fomentato appetiti di avvoltoi e sciacalli. S’ipotizzò persino che il gastroenterologo fosse stato vittima di una vendetta trasversale o che si fosse trattato di un tragico e imperdonabile “errore di persona”.
L’allora superprocuratore antimafia Pierluigi Vigna disse “Un delitto di mafia, ma anche di soldi, tanti soldi e di affari”, accendendo così finalmente i riflettori dei media nazionali sulla città babba, quella che in tanti credevano essere l’isola felice risparmiata dall’occupazione mafiosa. (Tratto dall’art. di Antonio Mazzeo “L’omicidio eccellente da cui cominciò tutto“)

 

 

 

Articolo del 17 Gennaio 1998 da La Stampa
Medico ucciso una traccia dal cellulare
di Fabio Albanese

MESSINA. Il telefonino cellulare della vittima ancora attivato, un interlocutore al quale dover risalire attraveso i tabulati della Telecom. Gli investigatori sono aggrappati a questo esile filo per risolvere un giallo inspiegabile: l’uccisione di Matteo Bottari, 49 anni, medico stimato e imparentato con una famiglia di quelle che contano, gli Stagno d’Alcontres. Bottari giovedì sera era appena uscito da una clinica dove svolgeva attività privata e stava tornando a casa. Il killer gli ha sparato in testa due colpi di fucile a lupara quando la sua auto si è fermata al semaforo. Nessuno ha visto. Chi ha dato l’allarme, ha notato l’auto ferma e ha pensato a un incidente. Bottari stava parlando al telefonino, adesso bisogna capire con chi. Un delitto senza perché che aggiunge mistero alle chiacchierate attività all’interno dell’iuiiversità di Messina, dove già due docenti sono stali gambizzati, uno scandalo sulla compravendita di esami ha fatto intravedere l’ombra della ‘ndrangheta, e l’ex rettore, suocero della vittima, è stato implicato in uno scandalo legato all’appalto per la farmacia del Policlinico. Tra le piste privilegiate per spiegare l’agguato c’è quella legata all’ambiente universitario. Bottari era direttore dell’istituto di endoscopia del policlinico. La moglie, Alfonsetta, è docente alla facoltà di farmacia. Il suocero della vittima è Guglielmo Stagno d’Alcontres, per 14 anni rettore dell’ateneo. Una famiglia che da sempre occupa posti chiave nella vita cittadina: il fratello dell’ex rettore, Ferdinando, è stato presidente dell’Assemblea regionale siciliana; un nipote, Francesco, è deputato di Forza Italia. Il magistrato, il sostituto Marino, si limita a dire che «per il momento non c’è alcuna pista privilegiata»». E il legale della famiglia, l’avvocato Sandro Troia, sottolinea che si tratta di un delitto «assurdo, illogico, allucinante, privo di una razionale causale». Ma sarebbe proprio l’attività di Bottari a essere sotto esame, per capire se il medico possa avere anche inavvertitamente urtato la suscettibilità di qualche boss mal curato, oppure se con il suo lavoro, da professionista irreprensibile, abbia toccato interessi troppo forti. [f. a.]

 

 

 

Articolo del 24 giugno 1998 da repubblica.it
Dietro l’omicidio Bottari si scopre la città verminaio
Le indagini cominciano quando la lupara uccide un professore dell’Ateneo. Da lì parte il caso Giorgianni.

MESSINA – Il 15 gennaio un colpo di lupara uccide il professor Matteo Bottari, primario endoscopista del Policlinico universitario e apre il “caso Messina”. Bottari, ucciso nella sua auto, è il genero dell’ex rettore Guglielmo Stagno d’Alcontres ed è braccio destro del suo successore Diego Cuzzocrea. Le indagini della squadra mobile e della Criminalpol, coordinate dal pm Carmelo Marino, imboccano subito la pista della gestione degli appalti dell’Ateneo. Interviene anche la Commissione nazionale antimafia, che sbarca a Messina l’11 febbraio e in tre giornate di audizioni traccia un quadro inquietante: la città viene descritta come governata da un “grumo d’interessi” politico-affaristico-mafiosi che avrebbe il suo fulcro all’Università, che gestisce un budget di appalti di 250 miliardi.

I commissari puntano l’indice sul Palazzo di giustizia e sul sottosegretario agli Interni Angelo Giorgianni, ex magistrato a capo del pool mani pulite messinese. Si scopre così che la Procura – retta da Antonio Zumbo, cognato del fratello del Rettore – avrebbe avviato centinaia di inchieste per sollevare un polverone e non toccare gli interessi e gli equilibri esistenti.

La relazione dell’antimafia fa cadere le prime teste. Il presidente del Consiglio Prodi costringe alle dimissioni il sottosegretario Giorgianni mentre due magistrati (Zumbo e Romano) sono costretti a cambiare sede. Iniziano anche i tentativi di depistaggio delle indagini sull’omicido Bottari, che portano ai rapporti tra la ‘ndrangheta calabrese e il Policlinico: il rettore e il prorettore denunciano di aver ricevuto messaggi di morte, il segretario generale dell’Ateneo trova la sua auto sforacchiata da cinque colpi di pistola.

Diego Cuzzocrea, nonostante gli attacchi della Commissione antimafia, si ricandida a rettore e il 4 maggio viene eletto al primo turno. Il 10 giungo è costretto però ad autosospendersi perchè è accusato, col fratello e il cognato, di aver simulato il furto della sua auto e le lettere minatorie. Quattro giorni dopo si dimette per evitare la sospensione cautelare chiesta al gip dal pm Marino.

 

 

 

Articolo del 25 Giugno 1998 da La Stampa
Manette al prof: «E’ legato ai boss»
di Fabio Albanese
Giuseppe Longo sott’accusa per mafia e alcuni attentati. Sospettato anche di aver deciso l’uccisione di un collega Messina, terremoto all’università.

MESSINA. «Quel delitto è maturato all’interno dell’università». Lo hanno sempre detto i giudici, lo hanno ripetuto più volte i commissari dell’Antimafia che hanno sollevato il «verminaio» del caso Messina. E adesso quell’ipotesi sembra farsi più concreta: il 15 gennaio scorso il professor Matteo Bottari sarebbe stato ucciso per contrasti nella gestione di appalti per il Policlinico, appalti ai quali la ‘ndrangheta calabrese era interessata. Il mandante potrebbe essere un suo collega, che con le cosche calabresi avrebbe rapporti molto stretti. Ieri notte, nel suo ufficio al Policlinico universitario di Messina, la polizia ha arrestato il professor Giuseppe Longo, 50 anni, associato di gastroenterologia. Nell’ordinanza, chiesta dal sostituto Carmelo Marino e firmata dai gip Carmelo Cucurullo e Alfredo Sicuro, il docente è accusato di associazione mafiosa perché considerato vicino alla cosca del latitante Giuseppe Morabito, «Tiradritto», boss della ‘ndrangheta della Locride con forti interessi anche da questa parte dello Stretto. Nel provvedimento, il professionista è anche accusato di avere organizzato alcuni attentati intimidatori nei confronti del prorettore e del segretario del rettorato. Il sostituto Marino sospetta pure che Longo (protagonista di un sequestro-lampo avvenuto nel febbraio del ’91 e durato appena cinque giorni in una terra, la Lo¬ cride, dai sequestri interminabili) sia il mandante dell’omicidio di Matteo Bottari, titolare della cattedra di endoscopia e che per anni ha lavorato fianco a fianco con lui. Per il momento, la procura dice però che «per quest’ultimo reato non è stato chiesto l’arresto per l’assenza del requisito dei gravi indizi di colpevolezza». • Insomma, i giudici hanno accertato le relazioni pericolose tra il docente e la ‘ndrangheta, ma finora non possono provare che fu lui ad ordinare l’omicidio, che pure va inquadrato in quel contesto. Nell’ambito della stessa inchiesta sono stati notificati avvisi di garanzia per favoreggiamento al rettore dimissionario di Messina, Diego Cuzzocrea, al suo segretario Eugenio Capodicasa e al pro-rettore Giacomo Ferraù, destinatari nei mesi scorsi di quegli strani messaggi intimidatori. Cuzzocrea ieri è stato interrogato per oltre cinque ore dal gip Cucurullo e dal sostituto Marino, i quali sono convinti che la sua plebiscitaria rielezione del 4 maggio sia passata da un patto di ferro proprio con Longo, che avrebbe fatto confluire su di lui un consistente pacchetto di voti. In cambio, Cuzzocrea gli avrebbe riconsegnato un posto determinante nel panorama dei ricchi appalti del Policlinico, quello di componente della Commissione Appalti in cui Longo da sempre avrebbe garantito gli affari della ‘ndrangheta e dalla quale era sta¬ to escluso lo scorso anno dallo stesso Cuzzocrea, per fare posto proprio al professor Bottari, genero dell’ex rettore Guglielmo Stagno D’Alcontres e pupillo dello stesso Cuzzocrea: «Nessun patto con Longo – ha detto il rettore all’uscita all’interrogatorio Non è stato un mio grande elettore». Agli atti dell’inchiesta sarebbe finito anche il provvedimento di nomina di Longo come presidente della Commissione Appalti per la ristrutturazione di un padiglione del Policlinico, appena mezzo miliardo, ma considerato il «segnale» della riappacificazione dopo lo scontro feroce per la sua sostituzione con Bottari, sia nella Commissione Appalti, sia nel Consiglio d’amministrazione dell’università. Per riprendersi quei posti, Longo avrebbe fatto uccidere Bottari e poi avrebbe fatto di tutto per non far rieleggere Cuzzocrea, finito nel frattempo sotto la lente d’ingrandimento dell’Antimafia. L’ipotesi iniziale era quella di far eleggere il pro-rettore Ferraù. Ma poi è arrivato l’accordo e Cuzzocrea è stato rieletto al primo turno. La nomina di Longo è stata firmata il 6 maggio, due giorni dopo, dall’allora manager del Policlinico, Salvatore Leonardi, da un mese nuovo sindaco di Messina. Il padiglione è quello di gastroenterologia ed endoscopia; della prima disciplina è titolare Longo, della seconda lo era Matteo Bottari. La lotta per la gestione di quel padiglione sarebbe tra le cause del delitto, i cui sicari restano ancora ignoti, anche se c’è il sospetto che il commando possa essere stato composto da calabresi e mafiosi messinesi. Ieri sono state compiute anche una ventina di perquisizioni in casa di presunti mafiosi, mentre altre persone, docenti e personale universitario, sono indagate per favoreggiamento personale, visto che «l’indagine sull’omicidio Bottari è stata ostacolata e influenzata dalla condotta palesemente omertosa di gran parte dei docenti sentiti, da un depistaggio sistematicamente attuato, dalla violazione del segreto investigativo», come scrivono i magistrati.

 

 

 

Articolo del 26 Giugno 1998 da La Stampa 
Il paltò insanguinato di Messina
di Francesco La Licata
Nei discorsi intercettati, i professori non parlano di Università, ma di carriere, elezioni e attentati Il paltò insanguinato di Messina Ecco le carte di accusa contro ipotenti della città.

MESSINA. E’ profondo come un pozzo nero, il verminaio della «provincia babba», anzi, ex «babba», se bisogna dar credito alle indagini che hanno portato all’arresto del prof. Giuseppe Longo, professionista molto conosciuto nel mondo universitario messinese ma tenuto in considerazione presso le «alte sfere» della mafia calabrese che sulla piazza messinese sembra esercitare un discreto potere. Fa una certa impressione, per esempio, ascoltare i discorsi «captati» dagli investigatori. A parlare non sono malavitosi di bassa lega ma fior di cattedratici: c’è Longo, c’è il magnifico rettore Diego Cuzzocrea, appena rieletto con gran successo, c’è Eugenio Capodicasa, segretario amministrativo. Insomma la gente che a Messina conta. Ha contato da sempre, sin da quando – se bisogna dar credito alle indagini – è nato il famoso «verminaio» di cui ha parlato il presidente della Commissione Antimafia, Ottaviano Del Turco. Parlano al telefono, parlano negli uffici ovattati dell’Università. Longo, per la verità, parla anche in camera da letto. Parlano in macchina, senza lontanamente sospettare di essere stati «infiltrati» da numerose microspie tutte «regolamermente autorizzate dall’autorità giudiziaria», avvertono gli investigatori. Raramente parlano di studi complessi o di problemi attinenti alla vita dell’Ateneo. Mai discutono delle difficoltà incontrate dagli studenti e di come superarle. No, questi argomenti non li riguardano. D’altra parte in «favore» degli studenti l’ambiente universitario (non le stesse persone di prima) di Messina aveva escogitato qualcosa: gli esami pilotati, le promozioni a pagamento e persino le lauree false con regolare attestazione stampata presso tipografie compiacenti. Parlano di carriere, di elezioni, di candidature per il Rettorato, di gelosie, di «posti» (a me che mi date?), di potere. E’ il linguaggio che fa impressione. Il tono, l’aggressività, le minacce, gli ammiccamenti e gli espliciti riferimenti del prof. Longo ai sistemi sbrigativi – «se non vado in Calabria da mercoledì quelli tun tun tun» – di qualcuno che può provocare molti fastidi al Rettore. E lui, «il Magnifico», che fino ad un certo punto ha fatto di tutto per prendere le distanze da quel professore chiacchierato, si sfoga in macchina coi suoi fedelissimi, manifestando una certa paura. Dice che un conto è la competizione elettorale, altro è la violenza: «Ma chi c’entra chistu cu lu sparari». Già, che c’entra l’Università con lo sparare. Domanda tardiva, quella del prof. Cuzzocrea. Perché le armi, a quanto pare, sono di casa proprio nella facoltà di Medicina. E’ appena il caso di ricordare la tragica fine del prof. Matteo Bottari, genero di un altro rettore, assassinato – secondo una interpretazione investigativa – proprio nell’ambito dello scontro politico-mafioso che ha come epicentro gli interessi legati all’Università e, in particolare, al Policlinico. Ed è il caso di ricordare come svariate inchieste abbiano evidenziato presenze inquietanti proprio al Policlinico dove, secondo le dichiarazioni di numerosi pentiti, si trovava addirittura una sorta di armeria della ‘ndrangheta, di un gruppo criminale cha faceva capo a Luigi Sparacio, un pentito molto controverso, tanto da essere incappato nella, pur tardiva, revoca del programma di protezione. Sembra addirittura che imo dei suoi uomini più fidati, il killer Gioacchino Nunnari, scarcerato proprio per via delle dichiarazioni «combinate» di Sparacio, una volta libero tornò a svolgere le mansioni di ispettore delle cucine proprio al Policlinico. Un ambientino niente male, quello della Medicina. Si dice che i boss calabresi abbiano scelto le case di cura e gli ospedali come luoghi per trascorrervi tranquille latitanze. E’ storia vecchia, che passa anche per quella sorta di «mutuo soccorso» assicurato dalla solidarietà massonica. Un cemento che unisce molte professioni, a Messina. Anche il Palazzo di giustizia non è estraneo al «verminaio». Qualche magistrato chiacchierato ha già fatto le valigie. Ma come spesso accade nell’ambiente togato, per andare a ricoprire incarichi prestigiosi, per esempio alla Cassazione. E’ il caso dell’ex procuratore Antonino Zumbo, cognato di un fratello di Diego Cuzzocrea, che ha chiesto il trasferimento a Roma, bloccando così l’iniziativa del Consiglio speriore della magistratura che lo voleva trasferire per incompatibilità ambientale. C’è un filo sottile che lega l’Università al Tribunale, più di quanto si possa evincere dalla vicinanza fisica dei due palazzi posti uno di fronte all’altro. Nelle stanze del Consiglio superiore giacciono pile di documenti sull’amministrazione della giustizia a Messina e a Reggio Calabria. Tante denunce, esposti, querele reciproche, immobilizzate dalle competenze delle due magistrature. Già, perché i magistrati di Messina sono sotto schiaffo dei colleghi calabresi e viceversa. Eppure ce ne sono di storie che circolano. Tutte strettamente aggrovigliate nell’ormai famigerato «verminaio». Il blocco di potere a Messina è frutto anche di ritardi, sviste e disinvolture giudiziarie. Tutto avveniva sotto gli occhi di tutti, ma nessuno riusciva a incidere il tumore che, con gli anni, ha assunto le proporzioni descritte dalla commissione parlamentare. All’antimafia hanno deposto prefetti, questori, magistrati, professionisti. E’ impressionante ciò che ha raccontato il questore Vittorio Vasquez a proposito della quasi maniacale «fissa» per la scorta del sostituto procuratore Angelo Giorgiana, poi divenuto sottosegretario all’Interno e infine travolto proprio dal «caso Messina». Viene definita, da quanti lo conoscono, una vera e propria «malattia» quella di Giorgianni per la scorta. Altra cosa è, comunque, pretendere addirittura la «doppia scorta» che prelevi le figlie in pizzeria e in discoteca. Ben più impressionante quanto denunciato dall’avv. Ugo Colonna, che ha dipinto – sempre nel panorama generale del «grumo di potere» politico imprenditorial mafioso una serie di inadempienze dei magistrati nella gestione del pentito Luigi Sparacio, ora «licenziato» dallo Stato. Ora, ma quando il «verminaio» era ancora soffocato, al collaboratore fu restituito, senza gli stessi intoppi burocratici riservati ad altri pentiti, tutto il suo bel patrimonio. Anche se proveniente dall’usura, esercitata su larga scala. Ma di queste storie dovranno occuparsi molti magistrati. E il Csm.

 

 

 

Articolo del 20 Marzo 2000 da La Stampa
Le mani sporche sulla città il boss dettava legge
di Francesco La Licata
Fermi annunciati. Da anni esisteva il «caso Messina» i Le accuse sono gravissime: il giudice si sarebbe consegnato a un mafioso emergente Gestione disinvolta dei collaboratori che giravano in Ferrari. «Baroni» universitari collusi con la’ndrangheta L’esposto dell’avvocato Colonna squarciò l’indifferenza. Ora ex killer raccontano di essere stati assoldati per uccidere il legale Prezzo: 50 milioni L’Antimafia: «Ancora molto succederà». Il riferimento è allo strano omicidio di Bottari, medico del Policlinico.

MESSINA. LA bomba è esplosa e non si può dire fosse inattesa. Mai arresto fu più annunciato di quello eseguito ieri mattina dai carabinieri che sono andati a «prelevare» Giovanni Lembo, magistrato, fino a qualche tempo fa sostituto procuratore di Piero Luigi Vigna, capo della Procura nazionale. Sono anni che le cronache si occupano dell’ormai famoso «verminaio» di Messina, per dirla con le parole che spesso ha usato il presidente dell’Antimafia, Ottaviano Del Turco. E la storia del presunto «tradimento» del dottor Lembo, stando a quanto è venuto fuori dalle varie puntate di questa telenovela, che provocò a suo tempo le dimissioni del sottosegretario Angelo Giorgianni, altro non sarebbe che una della facce, appunto, del «verminaio» messinese. Un grumo invero terrificante, che riesce a fare più paura delle vicende palermitane, dove magari la mafia è più antica e radicata ma non è riuscita a fare tabula rasa di ogni ambiente. A Messina, no. Il blocco sembra di dimensioni estese e non si intravvede spazio per le coscienze che volessero prendere le distanze dall’alleanza massonica e mafiosa, padrona della città, come ha avuto modo di denunciare al Parlamento l’attuale procuratore. Luigi Croce. Le accuse mosse al sostituto Giovanni Lembo sono gravissime. Tanto gravi che, prima di decidere, il giudice per le indagini preliminari ha studiato a lungo ed ha molto riflettuto sugli indizi esibiti dai pubblici ministeri catanesi. Alla fine si è giunti agli arresti, che coinvolgono altri personaggi delle istituzioni. Secondo gli investigatori. Lembo si sarebbe consegnato nelle mani del pentito Luigi Sparacio, una sorta di falso collaboratore di giustizia infiltratosi nelle maglie del programma di protezione per «salvare» una serie di personaggi del suo clan e per curare gli interessi del boss emergente di Messina, quel Michelangelo Alfano, mafioso palermitano emigrato nella provincia «babba», e uomo di successo tanto da essere divenuto anche presidente della squadra di calcio. Queste vicende si inseriscono nel «ritratto in nero» consegnato all’opinione pubblica da diversi procedimenti attivati già in tempi non recenti. La Commissione Antimafia ha avuto il merito di mettere il dito sulla piaga. Una ferita che medici pietosi più volte avevano curato coi palliativi, riuscendo solo a farla incancrenire. E dalla ferita è uscito il «verminaio»: pentiti in Ferrari, magistrati votati ad una gestione quantomeno disinvolta dei collaboratori, «baroni» dell’università in combutta coi vertici della n’drangheta calabrese, il Policlinico centro di un inconfessabile business coi soldi pubblici, docenti moni ammazzali ed altri docenti sospettati di mafiosità, un palazzo di giustizia (non quello attuale) immobile, forse troppo sensibile alle sollecitazioni del potere, anche quello peggiore. Questo enorme «blob» putrescente stava sepolto, nell’indiffrenza generale. Fu l’esposto di un avvocato messinese, Ugo Colonna, ex difensore dello stesso Sparacio, a far da detonatore. Le accuse del legale che si definiva testimone dell’insana gestione dei collaboratori finirono in Procura (siamo del 1997) e, subito dopo, in Commisione Antimafia. Ovviamente la vicenda è arrivata pure al Csm, che proprio il 4 aprile prossimo avrebbe dovuto discutere la proposta di sospensione dalle funzioni per Giovanni Lembo, dopo ohe il magistrato arrivato negli uffici della Direzione nazionale antimafia di via Giulia era stato progressivamente «congelato» per stessa ammissione del Procuratore Vigna. E’ impressionante ciò che riferiscono i provvedimenti giudiziari dei magistrati catanesi. Sostiene il collaboratore Maurizio Avola, killer catanese, che Sparacio andò a trovarlo a Bracciano (arrivò con la Ferrari) per proporgli un «lavoretto»: doveva uccidere l’avvocato Colonna e in cambio avrebbe ricevuto un premio di cinquanta milioni di lire. Sarà forse per questo che il professionista ha dovuto lasciare Messina di gran carriera ed oggi vive in un’altra città. Ancora un episodio coinvolge il sottufficiale del Ros, Antonello Princi (anche lui arrestalo). Sembra che il carabiniere si fosse adoperalo per indurre il pentito Antonello Paratore e tre collaboratori a fare falso dichiarazioni per incastrare Ugo Colonna. Il movente? I tre collaboratori pare avevano qualcosa da dire sull’allegra gestione dei pentiti e, dunque, si trattava di «premunirsi». Accuse pesanti, che il doti. Lembo ha già respinto nel corso del primo interrogatorio avvenuto ieri a Catania. Sono passati tre anni dall’esposto di Colonna e molte cose si trovano adesso contenute in quella pentola a pressione custodita dalla Commissiono Antimafia. Ottaviano Del Turco, seppure di fronte alla notizia traumatica di questi arresti, non si è mostralo sorpreso, anzi ha dichiaralo che «bisogna ancora mettere le mani su molte vicende messinesi». Il riferimento non può che essere riportalo a quel grande buco nero che è la storia dell’omicidio del prof. Matteo Bottari, il medico del Policlinico ucciso perchè trovatosi al centro di una ingarbugliatissima storia di affari ed interessi legati all’ospedale messinese. Anche questo quadro non appare per nulla rassicurante. Gli investigatori sono convinti che il Policlinico sia al centro dell’attenzione della mafia calabrese. Una recente indagine avviata tra Reggio e Africo ha denunciato inquietanti legami con Messina, con l’Università e con la vicenda Bonari. Una microspia piazzala nella camera da leltodel medico calabrese Giuseppe Pansera ha rivelalo un qualche coinvolgimento nel delitto (quantomeno a livello di conoscenza dei l’alti) del professor CJiuseppe Longo, altro decente della Facoltà di Medicina a Messina. «Longo -confida Pansera alla moglie la storia la sa dall’inizio. Se parla sono guai per tutti». Ma non sono i dettagli a provocare turbamenti. E’ il quadro generale che lascia perplessi. Laddove gli invesligaori sono costretti ad ammettere che nell’Ateneo di Messina la n’drangheta dispone addirittura di una vera e propria «famigliai). E si sa che due «cattedratici» di Medicina e Chirurgia sono indagati perchè sospettati di concorso esterno nell associazione mafiosa capeggiata da Giuseppe Morabilo. Sembra incredibile, ma tutto ciò è più di una ipotesi investigativa. Una storia che si trascina da anni. Lo ha dello il procuratore Luigi Croce, esponendo ai parlamentari di San Maculo, nel febbraio scorso, il triste intreccio di poteri che imbriglia Messina. Lo aveva detto, sempre all’Antimafia, l’avv. Ugo Colonna, sentilo nel 1997: «A Messina esiste un’organizzazione criminale che raccoglie un assetto di interessi imprenditoriali e politici mai volutamente raggiunti dall’azione giudiziaria. Tale organizzazione mafiosa, che opera in pianta stabile da almeno un decennio, risulta composta da imprenditori, uomini della finanza, magistrati, politici e da taluni malavitosi».

 

 

 

Articolo del 19 Ottobre 2000 da La Stampa
Messina, retata all’Università
di Fabio Albanese
«Laureati, ma con l’aiuto del boss»

MESSINA Professori minacciati o collusi, studenti senza futuro che avanzavano nella loro camera universitaria a suon di milioni, politici spregiudicati e senza scrupoli. E mafiosi, tanti, tutti calabresi, tutti provenienti dalle fila di quella ‘ndrangheta che, per dirla con le parole degli investigatori, «aveva esteso all’Università di Messina le sue ramificazioni criminali». Per sedici anni è andata così. Nell’ateneo, che due anni e mezzo fa è salito all’onore della cronaca per l’uccisione di un suo docente, Matteo Bottari, il corso di studi era «cosa loro», la gestione amministrativa e i contatti con il mondo politico avvenivano sulla base di patti scellerati quando non addirittura di intimidazioni e attentati. Ieri mattina la polizia ha stretto il cerchio e ha portato in carcere ventisei persone tra mafiosi, medici e professionisti, rintracciate a Messina, ma anche nelle tante piccole capitali calabresi della ‘ndrangheta, Bovalino, Africo, Seminara, Bagnare, e in Lombardia. Ad altri quattro l’ordinanza di custodia firmala dal gip Alfredo Sicuro su richiesta dei sostituti della Direzione antimafia messinese Vincenzo Barbaro e Salvatore Laganà, è stata notificata in carcere. Altri sette sono ancora latitanti. Le accuse sono pesanti: associazione mafiosa finalizzata alla compravendita di esami e al conseguimento di titoli accademici, alla ricettazione e falsificazione di documenti e timbri della pubblica amministrazione. Per alcuni c’è anche il traffico di droga e la detenzione di armi. Tra gli arrestati cinque medici, nomi noti in città come l’odontoiatra Alessandro Rosaniti, finito in manette con il fratello e un cugino; i fratelli Felice e Francesco Stelitano, il ginecologo Raffaele Gordiano, ex consigliere provinciale; come Carmelo Patti, prima nel Cdr poi in An e quindi destituito dal Prefetto, che avrebbe smosso mari e monti per far avere ad una giovane laureata «un posto di sottogoverno». Altre 79 persone risultano indagate, tra queste diversi docenti universitari che, alle minacce, avrebbero preferito il quieto vivere della collusione. «Abbiamo scoperto un’associazione per delinquere che fa capo al professore Giuseppe Longo, collegata alla criminalità organizzata, che ha condizionato pesantemente la vita dell’università», spiega il procuratore Luigi Croce, mandato in città due anni fa, all’indomani dell’esplosione del caso Messina che travolse non soltanto i vertici universitari, ma anche quelli del palazzo di giustizia. Un’inchiesta difficile, fatta di intercettazioni, pedinamenti, riprese filmate, senza il minimo contributo di pentiti. «I settori di intervento della banda erano tre spiega Croce -: l’intimidazione nei confronti dei docenti, alcuni dei quali collusi, il condizionamento della gestione amministrativa, dalla Casa dello Studente all’Opera universitaria e i collegamenti con la politica, ed il traffico di stupefacenti». La banda è quella della ‘ndrangheta che fa capo a Giuseppe Morabito, latitante, noto con il soprannome di «Tiradritto» per la sua determinazione. Con le buone o con le cattive, i suoi uomini convincenvano i docenti, soprattutto quelli delle facoltà di economia e commercio, giurisprudenza e veterinaria, a promuovere o a dare buoni voti agli studenti segnalati; sotto controllo c’erano pure gli accessi alle scuole di specializzazione; riuscivano persino a mettere i propri uomini nei consigli d’amministrazione degli organismi universitari. Ateneo e Casa dello Studente, inoltre, erano centro di traffico di stupefacenti e nascondigho di armi. Nelle 241 pagine dell’ordinanza sono citati decine di episodi; alcuni risalgono ad appena pochi giorni fa, segno che le attività sono proseguite indisturbate nonostante dal ’98 sull’università si fossero accesi i riflettori della magistratura e quelli della commissione parlamentare antimafia. «Ma ora non parlate più di verminaio chiede il procuratore Croce -, è un termine che offende profondamente i messinesi onesti». La polemica politica è insomma già infuocata e coinvolge persino il quotidiano cittadino. Il segretario siciliano di rifondazione comunista Francesco Forgione ricorda che «appena una settimana fa Gianfranco Micciché, a nome di Forza Italia, voleva chiudere il caso Messina chiedendo alla commissione antimafia di pentirsi del suo operato». Da An, i deputati Enzo Fragalà e Nino Lo Presti, invitano la commissione ad occuparsi piuttosto dell’inchiesta palermitana «sugli intrecci tra mafia e coop rosse». Ma il presidente dell’antimafia, Beppe Lumia, promette: «Il caso Messina non è chiuso e la commissione continuerà ad occuparsene».

 

 

Articolo di La Repubblica del 11/05/2005
Mafia, omicidio del professore Quel giudice sapeva chi lo uccise
di Francesco Viviano

MESSINA – Da sette anni si cerca il killer che la sera del 15 gennaio del 1998 uccise a Messina il docente universitario, Matteo Bottari. Il nome dei mandanti e degli esecutori sono sempre stati un mistero e le inchieste fin qui svolte, si sono chiuse sempre con un’ archiviazione contro ignoti. Invece un magistrato ed un imprenditore avrebbero sempre saputo chi e perché uccise Matteo Bottari. A saperlo sarebbero il giudice della sezione fallimentare del tribunale della città dello Stretto, Giuseppe Savoca e l’ imprenditore, suo amico, Salvatore Siracusano, entrambi arrestati nella retata di lunedì scorso compiuta dalla Dia nell’ ambito di una vasta indagine su riciclaggio di denaro e traffico di armi. Una scoperta avvenuta quasi per caso, rispolverando e filtrando una serie di intercettazioni ambientali che la Dia di Messina ha recuperato e trascritto.
Conversazioni che adesso sono confluite nella voluminosa ordinanza di custodia cautelare del gip di Reggio Calabria che due giorni fa ha portato all’ arresto non solo del magistrato e del suo amico imprenditore ma anche dell’ ex sottosegretario al Tesoro, Santino Pagano, ammanettato ieri pomeriggio all’ aeroporto di Fiumicino. Una rivelazione inedita ed inquietante che potrebbe far riaprire l’ inchiesta sulla morte di Matteo Bottari, archiviata, ironia della sorte, dal sostituto procuratore della Direzione distrettuale di Messina, Antonino Barbaro, anche lui finito nella maxi inchiesta della Dia e raggiunto da un avviso di garanzia dal gip di Reggio Calabria. L’ inedita e inquietante rivelazione sulla identità del killer di Matteo Bottari e le modalità della sua uccisione è venuta fuori da una conversazione a tre fra – secondo gli inquirenti – il giudice Savoca, l’ imprenditore Siracusano e l’ avvocato Letterio Arena ascoltata da una cimice e finita adesso agli atti dell’ indagine della Dia. E un’ intercettazione risalente al maggio del 2001, riscoperta quasi per caso e che probabilmente farà riaprire l’ inchiesta sull’ omicidio del docente universitario messinese, genero dell’ ex rettore di Messina, Guglielmo Stagno D’ Alcontres. Nell’ intercettazione depositata non è stato ancora trascritto il nome della persona che avrebbe sparato a Matteo Bottari. Una conversazione sul delitto ruota attorno a un articolo di “Repubblica” sulla vicenda del docente assassinato. In altre intercettazioni Siracusano parla del killer di Matteo Bottari: «Ma, dopo che gli ha sparato gli ha detto: ma non credete che aveva sbagliato vittima». Il giudice Savoca replica: «Loro erano andati ad ammazzarlo a domicilio, onestamente visto che non c’ era nessuna possibilità di scelta, loro non sono andati. Oh ci sono i figli di Bottari. Gli feriscono un figlio. Si sono accorti di una macchina della polizia. Devono parlare di meno…». –

 

 

 

Articolo di Ottobre 2012 da isiciliani.it
L’omicidio eccellente da cui cominciò tutto
di  Antonio Mazzeo
Fanno presto a passare, quindici anni. E chi se lo ricorda più com’era, Messina, prima del secondo terremoto – quello mafioso?

Il prossimo 15 gennaio saranno trascorsi già quindici anni da quella maledetta sera in cui fu assassinato a Messina il professore Matteo Bottari, stimato gastroenterologo del policlinico universitario. Tre lustri, un tempo immenso. Un delitto efferato che stordì una città permeata di silenzi, omertà, luoghi comuni. A partire da quello di essere esente da qualsivoglia condizionamento della criminalità organizzata.

I silenzi, le omertà e i luoghi comuni persistono come allora. E al povero professore Bottari continua ad essere negata memoria e giustizia. Perché Messina ha metabolizzato il sangue e ha scelto di continuare a vivere sotto il dominio della borghesia mafiosa. E perché gli inquirenti è come se avessero gettato la spugna, sconfitti, dopo aver brancolato quindici anni nel buio senza riuscire ad individuare i moventi, i mandanti, neanche l’ombra dei prezzolati angeli della morte del professionista.

Poco dopo le 21 del 15 gennaio 1998, il professore Bottari si era messo alla guida della propria auto, un’Audi 100 di colore nero a trazione integrale.

Giunto all’incrocio tra il viale Regina Elena e il torrente Annunziata, nella zona residenziale a nord della città, l’auto rallentò, forse per il rosso del semaforo, forse per lo squillo del cellulare. Bottari era tallonato da un pezzo ma non si accorse di nulla. Superato il semaforo, la sua Audi venne raggiunta e affiancata da una moto. Scattò l’agguato.

Uno dei killer imbracciava una lupara con pallettoni calibro 45, quelli usati per la caccia al cinghiale. Erano rivestiti di rame. Rinforzati, indeformabili, per non dare scampo alla vittima. Poggiata l’arma sul finestrino della fiancata destra, fu fatto esplodere il caricatore. I proiettili devastarono la testa del professionista, che si accasciò agonizzante sul volante. L’auto finì contro un marciapiede del lungo stradone della Panoramica.

Titolare della cattedra di diagnostica e chirurgia endoscopica dell’Università e docente di numerose scuole di specializzazione della facoltà di Medicina, Matteo Bottari svolgeva l’attività chirurgica anche presso cliniche private della città di Messina e della Calabria. La sua non era però una vita confinata tra le aule universitarie e le sale operatorie.

Genero dell’ex rettore dell’Ateneo Guglielmo Stagno d’Alcontres, antiche radici nobiliari nella penisola iberica, Bottari frequentava i circoli esclusivi della borghesia peloritana. Vantava pure un’affiliazione dal 1990 alla prestigiosa loggia “Giordano Bruno” del Grande Oriente d’Italia, quella frequentata dai docenti di punta dell’ateneo, compreso il futuro rettore Diego Cuzzocrea. Ed era membro del Rotary Club di Taormina insieme all’imprenditore Dino Cuzzocrea, il fratello di Diego, anch’egli massone e contitolare della clinica privata “Cappellani” presso cui il Bottari stesso operava da quattro mesi, due pomeriggi la settimana. Da quella clinica il gastroenterologo si era allontanato per raggiungere la propria abitazione la sera che venne assassinato.

Per trovare una spiegazione o un indizio, la polizia indagò a 360 gradi sulla vita e le relazioni umane e professionali della vittima. Scartata la pista dell’omicidio d’onore che avrebbe potuto fare le fortune dei rotocalchi rosa, si puntò il dito sugli inevitabili contrasti nel mondo accademico e sulle gelosie di qualche collega in competizione per una cattedra.

Era scoppiata da poco l’inchiesta sulle megaforniture di farmaci e apparecchiature in campo sanitario, amici e colleghi del Bottari c’erano implicati fino al collo, ma anche questa pista si arenò per l’assenza di plausibili riscontri.

Poi ci s’indirizzò inutilmente sugli appalti per la ristrutturazione e l’ampliamento del policlinico che avevano fomentato appetiti di avvoltoi e sciacalli.

S’ipotizzò persino che il gastroenterologo fosse stato vittima di una vendetta trasversale, magari per uno sgarbo commesso dal potente congiunto.

O che si fosse trattato di un tragico e imperdonabile “errore di persona”: lo suggeriva qualche cronista locale e l’allora direttore amministrativo del policlinico Salvatore Leonardi, ex presidente della provincia ed ex sindaco di Messina. “Un delitto di mafia, ma anche di soldi, tanti soldi e di affari”, spiegò l’allora superprocuratore antimafia Pierluigi Vigna, consentendo così che si accendessero finalmente i riflettori dei media nazionali sulla città babba, quella che in tanti credevano essere l’isola felice risparmiata dall’occupazione mafiosa. Dopo una lunga indagine della Commissione parlamentare antimafia, il suo vicepresidente, l’on. Nichi Vendola l’etichettò invece come la “città verminaio”.

Oggi a quel delitto la stramaggioranza dei messinesi non ci pensa più e l’impunità non turba i sogni di amministratori e pubblici funzionari.

Tutti, tranne il comandante del Corpo di polizia municipale, Calogero Ferlisi, che alla sera del 15 gennaio di quindici anni fa ci pensa spesso e con inquietudine. “Forse ero io, quel giorno, la vittima designata dalla criminalità mafiosa”, afferma Ferlisi. Pure lui teme che Matteo Bottari sia scomparso per un errore di persona. La sua persona.

Nell’ottobre 2010, Calogero Ferlisi ha deciso di presentare un esposto al procuratore della Repubblica e al prefetto di Messina per esporre i propri dubbi e timori, quelle oggettive “coincidenze” che lo legherebbero all’efferato delitto in cui Messina perse la sua equivoca innocenza. C’era innanzitutto la sua sorprendente somiglianza fisica con il professore Bottari e il possesso, al tempo, di un’autovettura Audi 100 di colore scuro, lo stesso modello cioè di quella in cui viaggiava il professionista quando fu raggiunto dai killer. E nel gennaio 1998 erano appena cinque le Audi 100 circolanti in tutta la città.

Il comandante del corpo di polizia municipale ha raccontato agli inquirenti che in quei mesi era solito percorrere quotidianamente il tragitto compreso tra la propria abitazione e quella della madre ubicata sulla Panoramica. Qualche tempo prima del delitto, inoltre, la sua autovettura era stata danneggiata ad opera di ignoti dopo essere stata parcheggiata sotto casa. “Il possibile scambio di persona da parte degli assassini potrebbe essere stato facilitato dal fatto che il luogo del delitto era poco illuminato e la visibilità era ulteriormente ridotta a causa di un acquazzone”, ha ricordato Ferlisi. “La vittima stava inoltre utilizzando un cellu­are che potrebbe avergli coperto parzialmente il volto”.

Come pubblico ufficiale, la criminalità organizzata aveva più di un buon motivo per decidere di liberarsi di lui con la violenza. Nel gennaio 1998, Ferlisi aveva 39 anni (10 in più di Bottari), era capitano di corvetta della Marina militare e prestava servizio presso l’Ufficio demanio della Capitaneria di porto di Messina con l’incarico di responsabile della sezione demanio-contenzioso.

Il reparto di Ferlisi si caratterizzò allora per l’instancabile e rilevantissima attività repressiva, concretizzatasi in particolare con la demolizione e il sequestro di casupole, piscine, esercizi commerciali, ristoranti, alberghi, ecc., insistenti sul demanio marittimo.

Nella sua relazione sull’attività di polizia giudiziaria svolta dall’1 luglio 1998 al 30 giugno 1999, la Capitaneria di porto di Messina segnalava di aver comunicato 192 notizie di reato per “violazione di norme in materia di demanio marittimo, polizia dei porti, sicurezza della navigazione, pesca e inquinamento marino”.

Erano stati sottoscritti 704 verbali di accertamento per violazioni amministrative e ordinato il sequestro di 129 aree con relativi manufatti abusivi, 11 automezzi impiegati per discariche abusive, 56 reti ed attrezzature di pesca e un’imbarcazione da diporto. Nonostante l’esito favorevole delle operazioni, la Capitaneria lamentava tuttavia “la non tempestiva collaborazione” degli organi tecnici preposti all’elaborazione della documentazione tecnica necessaria per l’appalto dei lavori di demolizione ordinati.

Il reparto diretto da Calogero Ferlisi, nello specifico, si era messo in luce per l’azione di monitoraggio degli scarichi abusivi, per la mappatura di alcune chiu­ure abusive sull’accesso al mare e per le indagini sulle occupazioni abusive nelle spiagge della zona di Mortelle-Tono, tra le più belle dal punto di vista paesaggistico.

Per occupazione abusiva di suolo demaniale era stata denunciata perfino l’Enel ed erano state aperte indagini sull’utilizzo dei padiglioni della Fiera di Messina per le feste private di facoltosi cittadini e sulle violazioni alle norme sulla sicurezza della navigazione nello Stretto, corridoio marittimo superaffollato e ad alto rischio di collisione. Erano stati avviati controlli a tappeto sulle attività degli stabilimenti balneari e sulla localizzazione dell’inceneritore di san Ranieri (oggi dismesso) all’interno delle strutture superstiti della cittadella-fortezza del seicento, nella centralissima zona falcata di Messina.

A riprova della serietà dell’impegno nel contrasto alle illegalità, la Capitaneria di porto aveva pure istituito una sezione “ambiente” con compiti di tutela e valorizzazione della fascia costiera e aveva firmato un protocollo d’intesa con l’associazione Legambiente per una collaborazione nel controllo ambientale.

I provvedimenti emessi della Capitaneria generarono un introito record, per gli indennizzi, di circa 5 miliardi di vecchie lire, prelevati in parte dalle tasche della Messina bene, professionisti, imprenditori e persino elementi di spicco della criminalità mafiosa.

Tra i manufatti attenzionati ci fu pure, in contrada Marmora-Rodia, la megavilla di 2.085 metri quadri con tanto di parco, piscina olimpionica e campi da tennis di proprietà di Michelangelo Alfano, ritenuto sino al suo misterioso “suicidio”, nel 2005, come l’“anello di congiunzione tra Cosa Nostra e la mafia messinese”.

Nell’immobile si sarebbe nascosto per qualche tempo il superboss Totò Riina e dopo la recente confisca è entrato a far parte del patrimonio comunale. Fu lo stesso Calogero Ferlisi a guidare, nel 1998, i militari che effettuarono il sopralluogo alla villa che ricadeva in parte sul demanio marittimo.

“Ci fece entrare il buttafuori dalla spiaggia e ci accolsero quasi gentilmente”, ricorda il comandante dei vigili. “Alfano era con alcuni suoi familiari e amici nella sauna. Ci ricevette lì, nella sauna stessa, ma noi eravamo in divisa. Andammo via madidi di sudore ma sequestrammo la parte della villa abusiva”.

Durante la campagna anti-abusivismo, Calogero Ferlisi ricorda pure di aver monitorato gli immobili di proprietà del presidente di sezione del Tribunale civile di Messina, Giuseppe Savoca, del costruttore Salvatore Siracusano e dell’ex sottosegretario al Tesoro, on. Santino Pagano. I tre vennero successivamente indagati (e prosciolti) nell’ambito dell’inchiesta Gioco d’azzardo su una presunta associazione mafiosa internazionale dedita al traffico di armi e riciclaggio di denaro sporco.

“Trovandomi a leggere sulla stampa alcuni passi dell’ordinanza di custodia cautelare emessa dai magistrati – racconta Ferlisi – mi sono imbattuto su un’intercettazione ambientale, avvenuta in un bar del centro di Messina nell’estate del 2001, in cui il dottore Savoca e il costruttore Siracusano si soffermavano sull’omicidio Bottari. Per gli interlocutori si sarebbe potuto trattare di un errore nell’individuazione della vittima. Proprio ciò che penso e temo di più”.

Ma, dopo che gli ha sparato gli ha detto: ma non credete che avete sbagliato vittima, direbbe il Siracusano nell’intercettazione. Loro erano andati ad ammazzarlo a domicilio – onestamente visto che non c’era nessuna possibilità di scelta, loro non sono andati, la replica di Savoca. Ci sono i figli di Bottari. Gli feriscono un figlio. Si sono accorti di una macchina della Polizia. Poi le voci si accavallano. No, se ne è accorto lui, spiega un “altro soggetto non individuabile”, come scrivono gli inquirenti. Poi è ancora Siracusano: Lui gli ha detto c’è ne andiamo sul sicuro. Allora hanno deciso che gli conveniva di farlo quando stava fuori, in mezzo alla strada. Ora è Lui che comanda.

Per la cronaca, il magistrato e il costruttore hanno contestato la veridicità delle trascrizioni, accusando gli uomini della Direzione investigativa antimafia di averne manipolato il contenuto. Dopo una serie di perizie e controperizie, nel luglio 2011 il Giudice per le indagini preliminari di Lecco aveva messo un punto alla querelle emettendo la sentenza di proscioglimento nei confronti degli investigatori, ma la Cassazione l’ha annullata rinviando il fascicolo al Gip.

A rendere ancora più complessa la vicenda è quanto avvenuto un anno e mezzo dopo il delitto Bottari. Il 30 settembre 1999, Calogero Ferlisi fu improvvisamente trasferito da parte del comando generale delle Capitanerie di porto alla Capitaneria di Crotone. Dopo essersi inutilmente opposto all’anomalo provvedimento, il successivo 2 ottobre Ferlisi decise di rassegnare le proprie dimissioni dal corpo militare. Lo scalpore fu enorme e ci furono attestati di solidarietà da parte di associazioni e forze politiche peloritane. Il 7 ottobre 1999 fu presentata un’interrogazione da parte del sen. Giovanni Russo Spena (Prc).

“Lo spostamento senza preavviso (di norma trascorrono quattro mesi) desta sconcerto per i tempi e i modi con i quali si è mosso il comando generale delle capitanerie di porto”, scrisse il parlamentare. “Si coglie il capo sezione nel pieno di un attacco senza precedenti contro l’illegalità che da decenni ha invaso e deturpato il patrimonio demaniale del Messinese. Chiediamo pertanto di sapere quali reali motivi abbiano spinto ad agire il Ministero della difesa, su cui gravano legittimi sospetti di aver voluto bloccare l’opera moralizzatrice, altamente meritoria, del Ferlisi”.

L’11 ottobre del 2001 fu il deputato leghista Dario Galli a presentare un’interrogazione al ministro delle infrastrutture e dei trasporti. La risposta, scritta, arrivò il 4 marzo successivo con la firma del sottosegretario Nino Sospiri. “Le motivazioni che hanno indotto il comando generale delle capitanerie di porto ad adottare il provvedimento di trasferimento sono state dettate dalla necessità di tutelare l’ufficiale, atteso che la presenza dello stesso nella sede di Messina, per sua stessa ammissione, aveva fatto emergere ipotesi di incompatibilità ambientale”. Tutelare. Da cosa e da chi? Questo il governo non lo ha spiegato, come non ha spiegato le ragioni di una supposta incompatibilità ambientale del Ferlisi. Che però a Messina c’è rimasto sino ad oggi in qualità di comandante del Corpo di polizia municipale.

“Ci siamo incrociati con il Ferlisi in occasione della campagna di Legambiente Messina contro le chiusure abusive degli accessi in spiaggia nella zona di Torre Faro-Mortelle”, ricorda Daniele Ialacqua, animatore della Rete No Ponte ed ex pre­sidente del circolo ambientalista. “La Capitaneria era già intervenuta in passato, nel quadro di una serie d’interventi contro l’abusivismo costiero, ma grazie a Ferlisi l’azione questa volta fu più incisiva, arrivando a mettere in discussione anche la legittimità di una serie di ville di vip.

La notizia del suo inopportuno e sospetto trasferimento d’ufficio in Calabria, in piena ed efficace azione repressiva delle varie illegalità perpetrate a danno del demanio marittimo, ci spinse ad una dura presa di posizione nei confronti dei vertici marittimi e a dar vita ad una campagna di solidarietà con sit-in, comunicati stampa e l’invio di lettere di protesta al Ministero. A tal riguardo ricordo che inaspettatamente quest’ultimo ci rispose respingendo le nostre accuse e adducendo motivazioni al trasferimento che sorpresero lo stesso Ferlisi quando lo mettemmo al corrente della risposta”.

Le vere ragioni di quell’allontanamento restano ancora ignote. E altrettanto ignote e inspiegabili, restano le ragioni che hanno spinto Cosa nostra ad uccidere, selvaggiamente, uno dei più quotati docenti dell’ateneo peloritano.

Ha collaborato all’inchiesta Enrico Di Giacomo.

 

 

 

Articolo del 15 gennaio 2013 da  strettoweb.com
Messina: 15 anni dall’omicidio del professor Bottari. Il silenzio ci rende TUTTI mafiosi
di Danilo Marino

Ad oggi sono passati 5475 giorni. Ben quindici anni, da allora non si ha ancora un colpevole, un movente, ma soprattutto sono rimasti nell’ombra anche i killer! Il 15 gennaio 1998, Matteo Bottari, professore di diagnostica e chirurgia endoscopica, sposato con Alfonsetta Stagno D’Alcontres, figlia di Guglielmo, ex Rettore dell’Università di Messina, venne assassinato con due colpi di lupara in faccia all’incrocio tra il viale Regina Elena e il viale Annunziata, intorno alle ore 21, mentre tornava a casa dalla Clinica Cappellani.

In un’intervista realizzata da StrettoWeb lo scorso novembre, il giornalista Antonio Mazzeo commentò così il caso dell’omicidio Bottari: “è paradossale come in questa vicenda anche i killer sono rimasti senza volto, è un fatto gravissimo. Questa è la dimostrazione che a Messina la mafia esiste, quando molte volte invece si dice il contrario”. Negli anni, in molti si interessarono a quello che fu denominato il “Caso Messina”: Carlo Lucarelli (nel 2008) raccontò dell’omicidio Bottari durante una puntata di Blu Notte, dentro la quale si parlava di altre due illustri vittime messinesi: Graziella Campagna e Beppe Alfano. Roberto Gugliotta, direttore di IMG Press, quotidiano nazionale online, e collaboratore presso il “Corriere della Sera” e “L’Espresso”, gli ha dedicato il libro “Matteo Bottari: l’omicidio che sconvolse Verminopoli” (edito nel 2007). Se ne è parlato, e se ne parla tanto, ma la giustizia non ha mai fatto il suo corso.

In seguito all’omicidio partirono subito le indagini coordinate dal pm Carmelo Marino, che imboccarono la pista della gestione degli appalti dell’Ateneo. Intervenne anche la Commissione nazionale antimafia, che tracciò un quadro inquietante: la città venne descritta come governata da un “grumo d’interessi” politico-affaristico-mafiosi che avrebbe il suo fulcro all’Università, che gestiva un budget di appalti da 250 miliardi di lire. Quella dell’omicidio Bottari è una storia che inquieta tutti i messinesi. Tutti coloro che pensavano che Messina fosse “la città babba” dove al massimo puoi fare i conti con il piccolo criminale di turno, da quel 15 gennaio dovettero guardare in faccia la realtà e scoprire che nella città dello stretto la mafia esiste. E’ una mafia che spara, e lo si fa puramente per interessi intrecciati tra crimine organizzato – politica – e poteri forti.

La relazione stilata dell’antimafia fa emergere i primi nomi, l’allora presidente del Consiglio Romano Prodi costringe alle dimissioni il sottosegretario Giorgianni, mentre due magistrati (Zumbo e Romano) furono costretti a cambiare sede. Iniziarono i primi tentativi di depistaggio delle indagini che portarono ai rapporti tra la ‘ndrangheta calabrese e il Policlinico Universitario di Messina: il rettore e il prorettore denunciarono di aver ricevuto messaggi di morte, il segretario generale dell’Ateneo trovò la sua auto sforacchiata da cinque colpi di pistola, ma alla fine si scoprì che si trattava solo di una simulazione. Dietro l’omicidio del professor Bottari si nasconde il malaffare della gestione delle Università, e non solo. Un amalgama di ferro tra ‘ndrine calabresi, mafia locale e soggetti istituzionali come docenti, magistrati, giudici e professionisti insospettabili, tutti appartenenti ad una “borghesia mafiosa” che si era inserita con disinvoltura nella normalità della società civile.

L’allora neo-Procuratore Luigi Croce (oggi commissario straordinario della città di Messina) chiese l’aiuto del Consiglio Superiore della Magistratura. Vennero scoperti strani rapporti tra magistrati ed esponenti delle famiglie mafiose; le lungaggini, i ritardi nella gestione dei processi, la gestione dei collaboratori di giustizia, e i termini di custodia che scadono inesorabilmente. L’inadeguatezza delle istituzioni nel confrontarsi con questo tipo di fenomeno e l’incapacità di dare una risposta adeguata per fare giustizia è l’esempio lampante del “verminaio” (termine utilizzato da Nichi Vendola, allora vice presidente della commissione antimafia). Messina non è una “città babba”, la mafia esiste! Ed è la più spietata e cinica che possa esserci nel territorio siculo. Sorniona e inabissata per non farsi riconoscere dall’opinione pubblica, si mescola nella società onesta, creando una fitta rete di malaffare che negli anni ha portato al collasso socio-economico (ed anche culturale) un’intera provincia.

Come è stato possibile che in tutti questi anni di indagini e inchieste giornalistiche non si sia mai arrivati ai mandanti, al movente, o agli esecutori? Messina è davvero così radicalmente corrotta da insabbiare (e soprattutto dimenticare) l’assassinio di un illustre professore universitario avvenuto nel pieno traffico delle 21:00 in un punto nevralgico della zona nord? Stando ai fatti, o per meglio dire, ai progressi “non fatti” in termini di giustizia, la risposta è si. Il silenzio è mafia, e Messina e i suoi cittadini per lungo tempo sono rimasti in silenzio. Non è mai stata chiesta giustizia, abbiamo nascosto tutti la testa sotto la sabbia e ci siamo resi complici di un secondo delitto, l’omertà! Si potrebbe dire benissimo “è passato tanto tempo ormai, non è più il momento per trovare i colpevoli”. Ma le nostre menti, e quelle di chi ha un barlume di senso civico, sanno che non è così, anche dopo 15 anni di depistaggi, prescrizioni e assoluzioni si può tentare di portare a galla la verità. La selvaggia uccisione di uno dei più quotati docenti dell’ateneo peloritano non può rimanere per sempre un mistero.

 

 

 

Fonte:  tempostretto.it
Articolo del 21 gennaio 2018
Ci scusi prof Bottari se lo abbiamo rimosso, la verità non ha data di scadenza
di Rosaria Brancato
La responsabilità della comunità sta nell’aver contribuito alla rimozione. Dopo 20 anni è un omicidio dimenticato, senza colpevoli, proprio perchè eccellente. Sta tutta qui la nostra “messinesità”: la paura di rovistare nelle stanze dove “non si deve”, “non sta bene”.

Non è mai troppo tardi per la verità nè per la giustizia. A volte i due termini coincidono, a volte no. Non è mai troppo tardi perché la verità non ha una data di scadenza, è lì, cristallizzata in un attimo.

Era lì, la verità, all’incrocio tra il viale Regina ed il Viale Annunziata, al semaforo, là dove oggi c’è la rotonda. Era lì, la verità, cristallizzata nell’attimo poco dopo le 21 del 15 gennaio 1998, quando il professor Matteo Bottari, che stava rientrando a casa a bordo della sua Audi, fu avvicinato dai killer e massacrato con una lupara caricata con i pallettoni che si usano per la caccia al cinghiale.

Pensavo a questo la sera di lunedì scorso, 15 gennaio 2018, mentre con le lacrime agli occhi il presidente dell’Ersu Fabio D’Amore intitolava la Casa dello studente al “suo” professore, mentre Ciccio Rizzo tuonava: “provo vergogna davanti alla famiglia per questa Messina incapace di dare giustizia”. Pensavo a tutto questo mentre si scopriva una targa “illuminata”, l’unica che la città ha realizzato in 20 anni di silenzi per questo suo illustre figlio che non ha avuto né giustizia né tantomeno verità. Pensavo a tutto questo mentre guardavo la vedova, Alfonsetta Stagno d’Alcontres ed il figlio Antonio, ed ammiravo la loro compostezza nell’immenso dolore di questi decenni.

Ha ragione Ciccio Rizzo, dovremmo chiedergli scusa tutti. E non soltanto perché la verità e la giustizia non sono mai arrivati, o forse non le abbiamo cercate abbastanza. Non soltanto. Dovremmo chiedere loro scusa perché abbiamo RIMOSSO quella morte, lasciando che per 20 anni, ogni 15 gennaio soltanto uno sparuto gruppo di dolenti mantenesse accesa la fiaccola. I ragazzi del circolo di azione giovani “Quo Usque Tandem”, poi i giovani (ora non più giovani) di Atreju e di Vento dello Stretto, gli amici, i familiari. C’è un libro su questa morte, sul mistero, a firma dei colleghi Roberto Gugliotta e Gianfranco Pensavalli. Leggetelo.

Vergogna è la parola giusta per una città che è scesa in piazza per chiedere giustizia e verità su centinaia di morti di mafia, ‘ndrangheta, camorra, per ogni efferatezza e violenza, ma ha rimosso quel 15 gennaio.

Questo omicidio eccellente è rimasto insoluto ma soprattutto è l’unico che è stato CANCELLATO, c’è stata una rimozione collettiva, proprio perché eccellente, proprio perché da quella sera del 1998 si erano accesi i riflettori su quei PALAZZI che dovevano restare in ombra.

Della dinamica, del “come” avvenne, sappiamo tutto. Non sappiamo il perché, eppure è proprio in quel “perché” che risiede la verità.

La nostra responsabilità, come comunità, non sta nel non aver ritrovato gli assassini e i mandanti, ma nell’aver contribuito alla rimozione. Se dimentichi qualcuno diventa superfluo se è stato ucciso dal destino, da un tuono, o dalla mano di qualcuno. Eppure il professore Matteo Bottari non era una persona qualunque. Professore di diagnostica e chirurgia endoscopica dell’Università, docente di numerose scuole di specializ­zazione della facoltà di Medicina, Matteo Bottari svolgeva l’attività chirurgica an­che presso cliniche private a Messina ed in Calabria. Amatissimo dai suoi studenti e collaboratori, era uno di quei professionisti che, per dirla col gergo di oggi “ha deciso di restare qui”. Genero dell’ex rettore dell’Ateneo Gu­glielmo Stagno d’Alcontres era il pupillo del Rettore dell’epoca, Diego Cuzzocrea, che con la famiglia gestiva la clinica privata Cappellani, dove lo stesso Bottari operava da alcuni mesi. I sicari conoscevano le abitudini del docente e lo aspettarono fuori dalla clinica, per poi freddarlo quando si fermò al semaforo. Diverse le piste seguite, dai contrasti nel mondo accademico e del Policlinico, alle competizioni tra “baroni”, fino alle gare d’appalto per le forniture di farmaci o quelle per la ristrutturazione ed ampliamento di un padiglione. Molte piste portavano in Calabria, al mondo della ‘ndrangheta ed a quei fili che in quei decenni univano il mondo universitario con la sponda opposta.

Da quel 15 gennaio tutta l’Italia ci guardò. Furono i mesi del “Caso Messina”, di quello che l’allora vicepresidente della Commissione nazionale antimafia Nicky Vendola definì “verminaio”, furono i mesi degli imbarazzi, di paure eccellenti, di dimissioni, di depistaggi.

“Un delitto di mafia, ma anche di soldi, tanti soldi e di affari”, dichiarò l’allora superprocuratore antimafia Pierluigi Vigna. La città venne descritta come il “verminaio”, dominata dal “grumo d’interessi” politico-affaristico-mafiosi che ruotavano intorno agli appalti dell’Università e del Policlinico.

Successe di tutto, l’allora sottosegretario agli Interni Angelo Giorgianni (ex capo del pool mani pulite messinese durante tangentopoli) si dimise. Il rettore Cuzzocrea denunciò d’aver ricevuto minacce di morte (così come il pro rettore e il segretario generale) poi a maggio si ricandidò e venne rieletto, ma un mese dopo si dimise perché accusato d’aver simulato le minacce.

In estate fu indagato il professore Giuseppe Longo, gastroenterologo e collega di Bottari. Longo sarà scagionato. Finirà coinvolto nell’operazione Panta Rei (inchiesta sulle presunte infiltrazioni della ‘ndrangheta nell’Ateneo peloritano), ed assolto. Alcuni anni fa si è tolto la vita. Uscito da ogni vicenda giudiziaria scrisse una lettera a proposito dei 15 anni di tritacarne mediatico-giudiziario, finiti i quali, da assolto, il suo nome non faceva più notizia.

Da giornalista ho seguito molte battaglie per la giustizia, ma il caso Bottari è diverso da tutti. Ricordo la prima volta che vidi per Televip, la vedova. Non amava i riflettori. In questi 20 anni il suo dolore immenso non si è mai trasformato in rabbia plateale. Non l’ha mai urlato in faccia a nessuno. E in tempi di “mediaticità” questo suo dolore muto, composto, è stato sepolto.

Il caso Bottari è diverso perché l’abbiamo volutamente rimosso. Non ci sono state commemorazioni eccellenti, targhe, convegni. Non voglio fare graduatorie da vittime di mafia ma c’è qualcosa che non va. E’ tutta qui la nostra messinesità, quella paura di andare a rovistare in quelle stanze dove “non si deve”, “non sta bene”. Un conto è cercare i killer tra la manovalanza, i mandanti nel ventre molle della Sicilia mafiosa, un altro è addentrarsi nelle sabbie mobili.

E’ una ferita nascosta, è come se volessimo nascondere le cicatrici perché rappresentano la prova che qualcosa è successo e ci ha divorato la carne.

Mi piacerebbe, sia pure 20 anni dopo, andare a cercare in quella giungla. I perché. Non il come, perché lo sappiamo, ma i fili che portano indietro nella vita di Matteo Bottari a quell’attimo.

Mi piace molto sia la targa realizzata, così luminosa, perché la verità deve apparire alla luce del sole, sia il luogo scelto: la Casa degli studenti.

In quella targa vedo un messaggio. Ed è questo: noi crediamo ancora che la verità possa emergere alla LUCE DEL SOLE, uscire dall’ombra.

Alla vedova ed al figlio cresciuto in una città cieca e sorda non resta che chiedere scusa perché il loro dolore silenzioso e puro, non ci autorizzavano a seppellirne la memoria, e con essa anche il diritto alla verità.

 

 

Fonte: messinatoday.it
Articolo del 17 gennaio 2020
Matteo Bottari, un omicidio delle coscienze
di Graziella Lombardo
Ventidue anni senza risposte o oggi anche senza memoria. Una pagina nera del passato di Messina che forse è ancora oggi d’attualità

C’è stato un tempo nel quale un sito internet di Messina aveva attaccato un contatore dei giorni trascorsi inutilmente da quando, la sera del 15 gennaio 1998, poco dopo le 21, era stato barbaramente giustiziato l’endoscopista Matteo Bottari. Era una sorta di tassametro, il costo per misurare non solo il tempo trascorso, ma anche le denegata giustizia a fare luce sull’esecuzione-simbolo che aveva poi determinato l’apertura del “Caso Messina”.

Una sequela di audizioni svolte dall’Antimafia nazionale allora guidata da Ottaviano del Turco avevano svelato imbarazzati intrecci di affari tra Università di Messina e Palazzo di Giustizia, istituzione che anziché il tassametro era solito misurare i reati con la clessidra, strumento del quale, rotto il vetro, era rimasta solo la sabbia. Una situazione così allarmante dal punto di vista sociale, accademico e giudiziario che aveva portato il vicepresidente dell’Antimafia a coniare il neologismo: “Verminaio”. L’Università di Messina, dopo che a Matteo Bottari è stata dedicata una targa, non al reparto di endoscopia, ma alla Casa dello Studente di Via Cesare Battisti, quasi un monito alle nuove generazioni, ora sembra abbia rimosso la data. Dimenticato tutto.

Se a Palermo una agenzia turistica aveva meditato di stilare il calendario turistico delle commemorazioni che aprono l’anno, con la cerimonia dell’agguato in Viale Libertà a Palermo di Piersanti Mattarella, avvenuta quaranta anni fa, il sei gennaio 1980, a Messina sull’omicidio-simbolo che ha squarciato le coscienze, dopo ventidue anni non c’è più traccia. Il sito internet che contava i giorni, ha staccato il contatore. Le indagini sono, come si suole dire, entrate sul binario morto che precede l’oblio, il capolinea della memoria. Non un solo giornale, non un sito internet, non una cerimonia hanno ricordato la barbara uccisione rimasta senza colpevoli del genero dell’allora rettore di Messina, Guglielmo Stagno d’Alcontres.

Meglio rimuovere, non ricordare, non riaprire ferite aperte nella coscienza collettiva. Il Prefetto di Messina, Maria Carmela Librizzi, l’otto gennaio scorso, è andata a Barcellona a commemorare la morte del giornalista Beppe Alfano, avvenuta ventisette anni fa, ucciso sotto casa con una Beretta calibro 22, un omicidio sul quale la magistratura non è riuscita a fare piena luce: la Corte di Appello di Reggio Calabria ha accolto un ricorso dell’avvocato Autru Ryolo, difensore di quello che è ritenuto il mandante Giuseppe Gullotti, che riapre il caso. Nel caso di Matteo Bottari, a firmare l’omicidio, è una scarica di pallettoni ramati con un’arma micidiale, un fucile a canne mozze utilizzato per sparare ai cinghiali. Sia nel caso di Alfano; che in quello di Bottari, omicidi con moventi completamente diversi, è stata fatta luce sul sottobosco, il contesto nel quale i fatti sono maturati.

Ma se esiste una classifica della memoria, la stessa che Don Luigi Ciotti richiama nei suoi tour antimafia quando ricorda la classifica delle morti eccellenti, Matteo Bottari da questo elenco risulta essere stato ora del tutto depennato. Come mai? Non hanno rimosso questa morte dal calendario delle commemorazioni solo i giornali, più o meno virtuali, che intervengono solo quando i cronisti vanno in drappello dietro le cerimonie, ma l’hanno rimossa tutti i campioni dell’Accademia peloritana che si sbracciano a invocare tortuosi percorsi di parolaia legalità. Sì, perché basterebbe rileggere le carte di quella imbarazzante inchiesta, per notare un collante tra media e Accademia; versioni di comodo da offrire agli investigatori; inchieste insabbiate; carriere pilotate, non solo all’Università ma anche nei concorsi in magistratura, e porte spalancate, anche nel consiglio di amministrazione dell’Università di Messina, a nomi pesanti come i parenti di Tiradritto, temuto boss dell’Ndrangheta calabrese. Passato che ora torna di cronaca.

C’è quindi più di una ragione perché nessuno ricordi Matteo Bottari. Si riapre una pagina nera del passato di Messina che forse è ancora oggi è attualità, la stessa della quale i magistrati e i docenti universitari e i promotori della cosiddetta società civile si dovrebbero occupare, prima ancora che i giornalisti. Gli stessi che hanno assistito ai tentativi di depistaggio sulle indagini e che oggi, a ben guardare, se leggessero gli ammonimenti della relazione antimafia votata in Parlamento e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dello Stato Italiano, vedrebbero che i punti sono stati disattesi. L’Antimafia alla società messinese, nella sua prognosi finale, gli anticorpi. Oggi basta scorrere alcuni nomi all’Università e al Tribunale, per vedere che gli ammonimenti sono caduti nel vuoto. Ma dietro le apparenze, gli annunci di inchieste con centinaia di arrestati e soli dieci milioni di euro di giro di affari, ancora si aspettano a Messina pochi e mirati arresti e sequestri, con centinaia di milioni di euro di giro di affari. Un attesa forse vana, se è vero che la clessidra si è rotta e i granellini di sabbia hanno inceppato il sistema delle garanzie e il controllo incrociato tra i poteri dello Stato.

Articolo aggiornato il 17 gennaio 2020 alle 14.50 // precisazione università
In riferimento all’articolo pubblicato su Messinatoday in data 17 gennaio dal titolo “Matteo Bottari, un omicidio delle coscienze” si fa presente che lo scorso 27 maggio, nel corso di una Cerimonia solenne, l’Università di Messina ha intitolato il Palacongressi dell’AOU” G. Martino” al prof. Matteo Bottari.

 

 

 

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