16 Maggio 1955 a Sciara (PA) Assassinio del sindacalista Salvatore Carnevale

Foto da himeraonline.it 

Salvatore “Turi” Carnevale (Galati Mamertino, 23 settembre 1923 – Sciara, 16 maggio 1955) è stato un sindacalista italiano.

Bracciante e sindacalista socialista di Sciara (PA), Salvatore Carnevale venne assassinato, a 31 anni, il 16 maggio 1955 all’alba mentre si recava a lavorare in una cava di pietra gestita dall’impresa Lambertini. I killer lo uccisero mentre percorreva la mulattiera di contrada Cozze secche.
Salvatore Carnevale aveva dato molto fastidio ai proprietari terrieri per difendere i diritti dei braccianti agricoli: era infatti molto attivo politicamente nel sindacato e nel movimento contadino. Nel 1951 aveva fondato la sezione del Partito Socialista Italiano di Sciara ed aveva organizzato la Camera del lavoro. Nel 1952 aveva rivendicato per i contadini la ripartizione dei prodotti agricoli ed era riuscito ad accordarsi con la principessa Notabartolo. Nell’ottobre 1951 aveva organizzato i contadini nell’occupazione simbolica delle terre di contrada Giardinaccio della principessa. Carnevale per questo fu arrestato e uscito dal carcere si trasferì per due anni a Montevarchi in Toscana, dove scoprì una cultura dei diritti dei lavoratori più forte e radicata.Nell’agosto 1954 tornò in Sicilia, dove cercò di trasferire nella lotta contadina le sue esperienze settentrionali. Fu nominato segretario della Lega dei lavoratori edili di Sciara. Tre giorni prima di essere assassinato era riuscito ad ottenere le paghe arretrate dei suoi compagni e il rispetto della giornata lavorativa di otto ore.
Del suo omicidio vennero accusati Giorgio Panzeca, Antonio Mangiafridda e Luigi Tardibuono, il soprastante della principessa Notarbartolo. Alla fine del processo di 1° grado svoltosi a Santa Maria Capua Vetere nel 1960 i tre imputati vennero condannati all’ergastolo. Nel collegio di difesa compariva anche Giovanni Leone, futuro presidente della Repubblica. La parte civile comprendeva l’avvocato Nino Sorgi (che molte volte difese il quotidiano L’Ora da querele di politici collusi con la mafia).
In appello e in Cassazione il verdetto fu ribaltato e i tre imputati furono assolti.

Fonte: wikipedia.org

 

 

 

Ignazio Buttitta “U lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali” che ha voluto così commemorare e portare a conoscenza del popolo un fatto di cronaca gravissimo per la Sicilia.

Le musiche di questa storia sono state scritte da Nonò Salamone. Come ci racconta lui stesso, una sera, avendo saputo che in un paesino in Provincia di Enna si esibivano Cicciu Busacca e Ignazio Buttitta, li volle raggiungere e pregò Busacca di fargli cantare la storia di Turiddu Carnevale che lui stesso aveva musicato; lui acconsentì e, quando Nonò finì di cantare, si accorse che Busacca piangeva. Da allora questa storia fù portata in giro da tutti i cantastorie siciliani.

.

.

.

.


Fonte: archivio.unita.news
Articolo del 19 maggio 1955
Nuovi elementi sono venuti a confermare il carattere politico del delitto di Sciara.
di Giovanni Cesareo
Da tutto il popolo siciliano si leva il monito contro le forze che sostengono la reazione.
Equivoca condotta delle indagini – L’organo della D.C. vuol proteggere gli assassini? – Un grande convegno indetto dai Partiti comunista e socialista per lunedì a Sciara – Sospensioni di lavoro nel Palermitano.

PALERMO, 18. – Il moto di indignazione che in Sicilia e in tutta Italia ha accolto la notizia del barbaro assassinio del compagno Salvatore Carnevale, si è espressa oggi in sospensioni di lavoro avvenuta in alcune fabbriche del Palermitano e in nuovi numerosi telegrammi di solidarietà, che sono giunti da organizzazioni di lavoratori e da singole persone di varie regioni e città.

La direzione del PSI, al quale il compagno ucciso era iscritto, ha stanziato centomila lire per la famiglia Carnevale e la segreteria regionale socialista ha deciso di corrispondere un vitalizio alla madre del Caduto, aprendo anche una sottoscrizione con una prima offerta di 50.000 lire.

È annunciato inoltre, per lunedì, un grande convegno a cui interverranno delegazioni della provincia e della città di Palermo e che avrà luogo a Sciara. Nel corso del convegno, indetto dai partiti comunista e socialista, prenderanno la parola Pompeo Colaianni del Comitato centrale del PCI e il compagno Panzieri della direzione del PSI.

Stamane, Intanto, la salma di Salvatore Carnevale è stata inumata al cimitero di Sciara.

Le indagini dei carabinieri proseguono ufficialmente, sotto la direzione del sostituto procuratore della Repubblica di Termini, fra la indifferenza del governo regionale e di quello nazionale.

Vi è un interrogativo grave, che sorge a proposito delle indagini, e che è bene formulare subito: si vuole forse che la   ricerca dell’assassino prenda, contro tutte le evidenze, e forse contro il parere stesso degli investigatori diretti, una determinata direzione e non un’altra? Le notizie che abbiamo dato nei giorni scorsi, sui tentativi di corruzione e di intimidazione di cui fu fatto oggetto il compagno Carnevale negli ultimi giorni della sua vita, divengono sempre più consistenti, e altre se ne aggiungono, non meno interessanti e indicative.

Si è detto che il Carnevale confidò a un suo amico di Termini di essere stato avvicinato, mentre andava in bicicletta da Sciara a Termini, da noti individui di Trabia, che lo invitarono «a non interessarsi più di politica» e a ritirare la sua candidatura da capolista della CGIL per le elezioni della Commissione interna alla cava «Lambertini». È stato accertato questo elemento?

Si è detto che nella cava il Carnevale fu avvicinato nella giornata di sabato da una persona che, per iI grado e le funzioni che ricopre, ha notevoli poteri e fu da questi apostrofato con le seguenti parole: «Tu porti il veleno ai lavoratori: questo veleno deve sparire». Al colloquio si dice che assistevano esponenti della mafia. È stato accertato questo altro elemento?

Si dice che la sera prima dell’assassinio, mentre a Sciara si svolgeva una festa nella fattoria della principessa Notarbartolo, fossero riuniti noti esponenti della mafia locale insieme agli altri dei paesi vicini e che in questa riunione si parlasse appunto dei successi che il movimento dei lavoratori ha ottenuto e sta ottenendo a Sciara e della parte che in questo movimento aveva il compagno Carnevale. È stata accertata questa notizia?

È possibile, infine, che qualcuno venendo sulla «trazzera» a poca distanza da Carnevale abbia visto e inteso qualcosa?

Ma c’è di più: a rendere, più pesante e più preciso il dubbio, è venuto stamane un fazioso articolo dell’organo d.c. in Sicilia, tutto teso a insultare la memoria di Salvatore Carnevale e i suoi compagni di lotta, ad offendere tutti i lavoratori di Sciara e a orientare la ricerca degli assassini e dei mandanti addirittura in seno al partito politico nel quale il compagno Carnevale militava. L’articolo di Sicilia del Popolo indica come gli ambienti clericali e governativi abbiano addirittura perduto la testa e proprio nel momento in cui invece la stampa ufficiosa come il Giornale di Sicilia, assume in tono assai cauto e così scrive: «Vendetta o delitto politico? L’interrogativo permane anche perché, mentre da principio la polizia si orientava decisamente verso la prima ipotesi, oggi non si può escludere la seconda, in quanto Carnevale viene dipinto come individuo incapace di provocare odii tali da spingere a simile estrema vendetta, e d’altra parte è da considerare che egli era un attivista del suo partito, il PSl».

Sotto il titolo «Macabra speculazione comunista sulla uccisione di un manovale», l’organo d.c. al contrario, continua a calunniare la memoria di Carnevale parlando di «un temperamento portato all’imposizione e alla prepotenza», come un «estraneo» inviato, non si sa da chi e a «controllare» che cosa, che avrebbe dettato leggi addirittura nel collocamento e così via.

Su questa linea, il giornale giunge ad indicare i fatti sui quali «bisogna indagare» e a dichiarare che «le indagini bisognerebbero che si muovessero verso altri obiettivi» e cioè verso gli stessi compagni dell’ucciso.
Si tratta, innanzitutto, di una sfacciata interferenza che sfiora i limiti del codice penale.
Ma, al di là di questo, le parole del giornale d.c. fanno pensare che si voglia addirittura proteggere i veri assassini e i loro mandanti sviando di proposito le indagini.

D’altra parte, «Sicilia del popolo» mostra di voler ignorare deliberatamente il clima nel quale il delitto è stato consumato. Carnevale era il segretario della Lega edili di Sciara ed ex segretario della Camera del lavoro; si era battuto con successo alla testa del movimento contadino, si batteva ora contro lo sfruttamento nella cava Lambertini ed era capolista della lista della CGIL per la Commissione interna.

I nemici dei lavoratori, i nemici della riforma agraria, coloro che vedevano distrutti colpo dopo colpo i loro privilegi dalla ondata popolare che in tutta la Sicilia travolge le strutture feudali che incatenano l’Isola, hanno cercato una ultima difesa nel terrore ed hanno ucciso Carnevale con cinque colpi alle spalle, seguendo la vecchia illusione delle strette e insensate classi reazionarie che credono di poter fermare il cammino dei lavoratori col terrore e la intimidazione.

Terribile, ma quanto vana vendetta! Ultimo gesto disperato di un mondo che va morendo! Ma, quale meraviglia? «Sicilia del popolo» afferma che si tratta di un delitto della malavita, ma che la mano che ha ucciso non è di un anticomunista.  Che significato ha questa differenza? La mano che ha ucciso è dei sicari, dei nemici dei lavoratori, dei nemici del progresso e della libertà della Sicilia.

Perché l’organo della D.C. assume il tono di chi accusa il colpo? Perché si vogliono scolpare? Ma vi è un ultimo grave dubbio: alla fine del suo articolo «Sicilia del popolo» afferma che «la verità una volta venuta alla luce potrà soltanto danneggiare i social-comunisti».

Che cosa significa questa oscura frase? Significa forse che si ha già un colpevole in tasca? Significa forse che si ha intenzione di tirar fuori al momento buono e cioè prima del giorno in cui i siciliani saranno chiamati alle urne, un individuo disposto a confessare, e possibilmente a confessare di aver ucciso per vendetta comune o addirittura per rivalità politica, salvo poi ad assolvere in istruttoria l’autore di questa confessione a due mesi dalle elezioni? Nessuno ha dimenticato che simili manovre hanno purtroppo pericolosi precedenti e basta pensare a ciò che avvenne quando furono trovati due «rei confessi» dell’assassinato sindacalista Miraglia che denunciarono poi essere stati costretti a confessare dalla stessa polizia. Si stia bene attenti però: oggi non è più tempo di simili manovre, oggi non è più tempo di tirar fuori i colpevoli prefabbricati.

 

 

 

Fonte: archivio.unita.news
Articolo del 21 maggio 1955
La madre di Carnevale chiede che le indagini si accentrino a Palermo
di Giovanni Cesareo
Le ragioni che motivano la richiesta – Rilasciato dalla polizia il segretario della Camera del lavoro di Sciara – I delitti della mafia.

PALERMO, 20 – Domani mattina, accompagnata dall’avv. Antonio Sorgi, la madre di Salvatore Carnevale presenterà la sua denuncia circostanziata al Procuratore generale presso la Corte di Appello e al comandante la Legione dei carabinieri di Palermo. Il documento, che si annuncia di grande interesse, contiene il racconto delle vicende che hanno preceduto l’assassinio del segretario del sindacato edili di Sciara, delle lotte di cui egli fu animatore e protagonista, delle intimidazioni e delle lusinghe di cui egli fu oggetto.

Mantenuti i «fermi» 

Francesca Serio esprime, fra l’altro, il desiderio che le indagini vengano richiamate a Palermo, per facilitarne il corso. È fuor di dubbio, infatti, che la zona posta fra Caccamo, Sciara, Cerda e Trabia – nella quale le strutture feudali resistono ancora e la mafia conserva quindi un’influenza rilevante e un carattere di particolare ferocia – presenta notevoli difficoltà per l’investigatore, come ben sanno i dirigenti della compagnia di Termini, che della zona hanno la responsabilità.

Finora sembra che le indagini sul delitto di Sciara siano riuscite ad orientarsi in modo giusto, nonostante le pressioni locali e anche centrali: ma fino a dove esse potranno arrivare? È da questo interrogativo, crediamo, che trae motivo il desiderio espresso dalla madre di Carnevale che la direzione delle operazioni venga accentrata a Palermo.

I «fermi» di cui ieri abbiamo dato notizia sono stati quasi tutti mantenuti e altri se ne annunciano fra stasera e domattina. Ieri sera, intanto, è stato rilasciato il segretario della Camera del lavoro di Sciara, compagno Polizzi che al suo ritorno in paese è stato affettuosamente accolto dai lavoratori. Il suo fermo era uno di quegli elementi che appunto aveva fatto dubitare dell’orientamento delle indagini: nessuno ha dimenticato, infatti, che era stato proprio l’organo democristiano in Sciacca a indicare, con tono arrogante e violento, che i colpevoli e i mandanti «bisogna» cercarli fra i compagni di Carnevale e che «sbaglierebbe chi si orientasse in altra direzione». Si è visto, nei giorni scorsi, come in questi ultimi tempi la lotta di Carnevale si fosse spostata fra i lavoratori edili, occupati nella cava della ditta «Lambertini».

È utile soffermarsi ad esaminare come questa ditta, la cui sede centrale si trova a Bologna, operi in Sicilia e come si inserisca nella struttura ancora arretrata dell’Isola: ciò vuol infatti servire a lumeggiare un altro aspetto delle origini dell’assassinio di Carnevale.

La ditta Lambertini attende ai lavori di costruzione del doppio binario e di un sottopassaggio sulla linea ferroviaria Termini-Palermo, esattamente nel tratto che va da Trabia a Santa Flavia. Per questi lavori serve la pietra estratta dalla cava di Sciara, nella quale appunto aveva trovato recentemente lavoro Salvatore Carnevale. Gli amministratori e i tecnici della ditta vengono dall’Italia del nord, così come molti operai specializzati.

I lavori sono stati subappaltati in parte ad elementi di Trabia, paese nel quale la Lambertini ha la sua sede locale. Sono costoro che ingaggiano gli operai siciliani, compiendo i lavori secondo il sistema del cottimo a squadre. È proprio a questo punto che interviene la mafia, controllando le assunzioni e Io stesso svolgimento dei lavori.

L’anno scorso a Trabia fu eletta la Commissione interna e vinse la lista della CGIL; ma l’attività di questo organismo sindacale venne costantemente ostacolata dalle intimidazioni, dalle minacce degli elementi mafiosi. E non si può dimenticare che l’agitazione diretta da Carnevale all’interno della cava danneggiava, di riflesso, anche l’attività di costoro: risulta chiaro, quindi, il motivo delle minacce fatte a Carnevale nel pomeriggio di domenica scorsa, poche ore prima del delitto, proprio da individui di Trabia.

La situazione di Trabia, d’altra parte, si ritrova in altre zone dove la struttura feudale è ancora in piedi solidamente. La Lambertini, ad esempio, la ritroviamo a Corleone, paese dell’interno della provincia di Palermo, dove le lotte e le occupazioni per la terra si sono succedute negli anni scorsi: qui sparì il compagno Rizzotto, valoroso dirigente contadino, il cui cadavere fu ritrovato molto più tardi in una foiba.

Anche qui gli amministratori e i tecnici vengono dall’Italia del nord e, se è necessario, a sostituirli si chiamano elementi anche essi provenienti dalle regioni del nord. Anche qui la mafia interviene al momento della assunzione degli operai locali, speculando in particolare sulla endemica e crescente disoccupazione. Il collocamento si svolge attraverso canali oscuri e sotterranei e si dice che alcuni operai siano stati perfino costretti a firmare delle cambiali – da scontare con parte del salario – per ottenere il lavoro. Ed anche qui, infine i vari tentativi di formare una Commissione interna hanno trovato continui e gravi ostacoli.

 

I profitti della mafia 

È facile vedere come un simile stato di cose, mentre assicura certi profitti alla mafia, serve obbiettivamente     alla ditta per operare in condizioni vantaggiose con una maestranza cioè «filtrata» e «controllata». Ed ecco, dunque, come una ditta che, con tutta probabilità, nell’Emilia è costretta a rispettare i contratti ed il buon diritto dei lavoratori e non si sognerebbe mai di far lavorare i suoi dipendenti per undici ore, trova nella struttura arretrata dell’Isola una condizione favorevole ad esercitare uno sfruttamento di tipo coloniale.

Ora, a Corleone, all’inizio di febbraio è stato ucciso Claudio Splendido, detto «Pietro», un uomo di 50 anni, guardiano alle dipendenze della Lambertini. L’omicidio – gli autori del quale non sono stati ancora identificati – avvenne di notte: le lampade, che illuminano permanentemente il cantiere, si spensero e poco dopo si riaccesero: l’uomo era morto. Perché «Pietro» è stato ucciso? In paese si dice che egli fosse a conoscenza di una serie di soprusi e di malefatte compiuti dalla mafia e che la sua mente ritenesse molti nomi.

Risulta, così, più chiaro come, quando in un simile ambiente si introduce il movimento sindacale, quando in una situazione di questo genere la lotta di un valoroso dirigente come Carnevale minaccia seriamente il prepotere della mafia, tanto da cominciare a mutare i rapporti di lavoro, i sopraffattori cercano di difendere in ogni modo il loro privilegio: ove si sentono protetti, essi possono arrivare fino all’assassinio.

 

 

 

 

Articolo di La Sicilia del 18 Maggio 2008 
Quel tragico mattino di maggio
di Dino Paternostro
Faceva ancora buio e, nelle campagne di Sciara, sbucarono da una siepe degli sconosciuti che esplosero le fucilate contro il sindacalista.
Cinque i pallini mortali, di cui uno alla testa e uno alla bocca: il classico colpo di grazia

A Sciara, quel lunedì 16 maggio 1955, Salvatore Carnevale si era alzato molto presto. Non avendo né una bicicletta né un mulo, la strada per recarsi alla cava era costretto a farsela a piedi. E, se voleva arrivare in orario sul posto di lavoro, doveva partire ancora col buio. Subito dopo di lui, si era alzata la madre, Francesca Serio. Si avvicinò al figlio e, col volto spaventato, gli disse: «Turiddu, stanotte ho fatto un brutto sogno. Stai attento alla cava, tieni gli occhi aperti!». «Vossia perché pensa a ’ste cose? Non ci deve credere ai sogni, sono superstizioni queste», le rispose Salvatore, rassicurandola. Poi la salutò, si rinchiuse la porta di casa alle spalle e s’avviò con passo spedito al lavoro. Erano le 5,30. Superata la cappella di San Giuseppe, imboccò la trazzera che portava alla cava, in contrada «Cozze Secche», quando qualcuno lo chiamò per nome. Fece appena in tempo a voltarsi, che dalle spighe ormai alte, dove si erano nascosti, uscirono degli uomini armati di fucili. I primi due colpi ferirono Carnevale al fianco destro. Poi gli furono sparati altri quattro colpi, di cui uno alla testa e l’altro alla bocca: i colpi di grazia. «Cadde riverso, torcendosi col viso insanguinato», avrebbe scritto il giorno dopo Giovanni Cesario su «L’Unità della Sicilia». La notizia che sul ciglio della trazzera che portava alla cava Lambertini era stato assassinato Turiddu Carnevale, arrivò in paese intorno alle 8,00. A mamma Francesca dissero solamente che era stato ucciso un uomo, ma lei capì subito. Di corsa e col cuore in gola, si recò sul luogo del delitto, ma vi trovò già i carabinieri, che volevano impedirle di passare. «Signora, non è suo figlio!», le disse il brigadiere. Ma Francesca non si fermò: «Vigliacco, non è mio figlio, questi non sono i piedi di mio figlio? E quelle non sono le calzette che ci lavai ieri a mio figlio, che ha messo nei piedi?», urlava, facendosi strada a forza, fino ad abbracciare il cadavere del suo Turiddu. Piangeva, disperata, mamma Carnevale. Se l’aspettava che, un giorno o l’altro, questo figlio glielo avrebbero ammazzato. Con la voce rotta dal pianto, guardò in faccia il brigadiere e urlò: «Me l’hanno ammazzato perché difendeva tutti, il figlio mio, il sangue mio! Gli assassini vada a cercarli tra i suoi amici dipendenti della principessa Notarbartolo!». Un chiaro e coraggioso atto d’accusa contro la mafia di Sciara, capeggiata dall’amministratore  del feudo Giorgio Panzeca, dal soprastante Luigi Tardibuono, dal magazziniere Antonino Mangiafridda e dal campiere Giovanni Di Bella, che Francesca Serio avrebbe formalizzato, qualche giorno dopo, in un esposto alle autorità inquirenti. I quattro furono fermati e tradotti in carcere perché gli alibi di Panzeca, Mangiafridda e Di Bella non ressero alle verifiche, mentre un primo testimone – Filippo Rizzo – si lasciò scappare, pur tra contraddizioni, di aver visto Tardibuono sul luogo del delitto; e un secondo testimone – Salvatore Esposito – riferì di aver visto vicino alla trazzera sia il Tardibuono che il Panzeca.
Per legittima suspicione, il processo di primo grado si svolse a S. Maria Capua Vetere. Iniziò il 18 marzo 1960 e si concluse il 21 dicembre 1961, con la condanna all’ergastolo di tutti e quattro gli imputati. «Ora posso morire tranquilla, perché giustizia è stata fatta, non solo per il mio Turiddu, ma per tutti i caduti sotto i colpi della Mafia», dichiarò al giornale «L’Ora» del 23-24 dicembre 1961 Francesca Serio, che aveva presenziato a tutte le udienze del processo. Ma il processo d’Appello, svoltosi a Napoli dal 21 febbraio al 14 marzo 1963, e quello in  Cassazione avrebbe ribaltato la sentenza di primo grado, assolvendo tutti gli imputati per insufficienza di prove. E mamma Carnevale dichiarò: «Me l’hanno ammazzato una seconda volta!». A Napoli, in sostanza, prevalse il formalismo giuridico. Dai giudici «nessuno sforzo venne fatto per tenere conto della specificità di un processo radicato in una realtà dove domina la mafia e dove le regole comportamentali non sono quelle che vengono osservate nel resto del Paese», commenta Umberto Ursetta, nel suo libro «Salvatore Carnevale, la mafia uccise un angelo senza ali», distribuito da «L’Unità».

 

 

 

 

Le parole sono Pietre
di Carlo Levi

Ed. Einaudi, 2010

Si tratta del diario di tre viaggi compiuti dall’autore nelle terre della Sicilia tra il 1952 e il 1955. Con questo libro si apre un nuovo filone letterario nella produzione leviana quello del reportage di cui aveva già dato prova nei suoi articoli pubblicati su La Stampa e su L’Illustrazione italiana.
Le parole sono pietre, pubblicato nel 1955, è il racconto duro dell’arretratezza dei contadini siciliani “lo spettacolo della più estrema miseria contadina”, di una terra dove diventa difficile far applicare quelle leggi che lo Stato italiano ha approvato per la redistribuzione della terra, per migliorare le condizioni di lavoro, per applicare i diritti che dovrebbero valere per tutti, ma che in quelle terre devono sottostare ai privilegi dei potenti. Il libro è denso di fatti che lo scrittore trasfigura inserendoli nel simbolo della coscienza umana, dove “… le lacrime non sono più lacrime ma parole, e le parole sono pietre”: sono pietre le parole di Francesca Serio, la madre di Salvatore Carnevale, il contadino ribelle assassinato dalla mafia perché fondatore, a Sciara nel 1951, della sezione del Partito socialista e della Camera del lavoro; sono pietre scagliate nell’aula del Tribunale di Palermo da una madre siciliana che racconta e sfida cosa nostra, la legge del feudo e le complicità del potere istituzionale.

 

 

 

Fonte: Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato”

Carlo Levi ha dedicato a Francesca Serio, la madre di Salvatore Carnevale alcune delle pagine più belle dei suoi scritti. Di seguito uno stralcio da “Le parole sono pietre”:
– Il maresciallo fa chiamare tra tutti Carnevale, mio figlio: “Carne…vale, venisse qui. Bada bene che tu sei il veleno dei lavoratori”. Mentre mio figlio gli rispondeva che lui non era il veleno dei lavoratori ma soltanto difendeva la legge, Mangiafridda si volto e gli disse:” Picca m’ai di sta malandrineria” (Durerai poco a fare lo spavaldo).
– Il maresciallo non fa il testimone contro Mangiafridda. Se le parole le diceva mio figlio, allora il marescialo lo arrestava e se lo portava, ma siccome le ha dette Mangiafridda, che è il delinquente, il malfattore di Sciara, che era magazziniere della principessa, non lo arrestò e se ne andarono. Questo fu il giorno 13, venerdi.
Carnevale sarà ucciso tre giorni dopo.

 

 

 

Articolo da La Repubblica del 24/04/2010
CARLO LEVI E LA SICILIA
di Tano Gullo

Cristo si è fermato a Eboli. Poi si è rimesso in cammino ed è venuto in Sicilia. Ha scioperato con gli zolfatari di Lercara Friddi, in una casa terragna di Sciara ha pianto con Francesca Serio la madre addolorata di Turiddu Carnevale, per un disguido ha mancato un appuntamento misterioso con un gruppo di contadini diventati briganti “per necessità”, si è accodato alla strombazzante scia di auto che ha scortato il trionfante sindaco di New York Vincent Impellitteri fino a Isnello, il suo paese natio incuneato tra le rocche delle Madonie, ha ripercorso le trazzere e i cortili dove Danilo Dolci predicava “non violenza” e cultura, ha dissertato di mafia con due isolani giusti Camillo Pantaleone e Nino Sorgi. Ha infine condiviso silenzi e denunce dei contadini di Acitrezza e dei braccianti di Bronte. Tutti poveri cristi in croce come lui. È stato ripubblicato da Einaudi, dopo un black out di una quindicina di anni, “Le parole sono pietre” di Carlo Levi (160 pagine, 11 euro). Un reportage sulle miserie della Sicilia degli anni Cinquanta. Quando l’ Isola, gravata dalle zavorre del passato, faceva fatica a entrare nella modernità. Quando tutto era faticoso e le parole appunto erano pesanti come massi. Che potevano essere lanciate contro gli oppressori o squarciavano nelle menti dei miserabili di sempre la corazza dell’ ignoranza, prima maglia nella catena della schiavitù. Oggi la Sicilia non è più quella, ma non per questo il libro è meno attuale. Perché nelle sue pagine si trovano pezzi di noi, di ieri di oggi e di sempre. Nei paesi le case sono corredate di ogni ben di dio, muli e cristiani vivono in ambienti separati, galline e porci non scorrazzano più per le strade ormai stipate di automobili, i morsi della fame si sono tramutate in pance adipose, le donne non sono le schiave dei patriarchi, “da scuro a scuro”, dall’ alba al tramonto, ci lavora solo chi vuole, le mulattiere sono vuote di muli e sono spariti gli odiosi caporali che all’ alba facevano la cernita tra i braccianti per scegliere i più forzuti. Le sacche di povertà ora le troviamo nelle città, ricettacoli di derelitti. Li troviamo allo Zen in questi giorni teatro di un’ antica guerra tra i poveri, disperati senza tetto e senza lavoro. Nuovi proletari, disoccupati, giovani e non, immigrati, donne senza speranze. Ma questa Sicilia lo scrittore-pittore di Torino, morto a Roma nel 1975, non ha fatto in tempo a raccontarcela. Carlo Levi è venuto nell’ Isola tre volte: nel 1951, l’ anno dopo e nel 1955. E ha descritto quello che lui ha definito «il senso dell’ infinita contemporaneità del tempo». «Ho raccontato tre viaggi in Sicilia- ha scritto con ironica modestia – e le cose di laggiù, come possono cadere sotto l’ occhio aperto di un viaggiatore senza pregiudizi. Quello che per avventura vi trovasse di più, lo accolga come qualcosa che gli è dato per sovrammercato». L’ editore ripropone la stessa prefazione di Vincenzo Consolo dell’ edizione per la scuola del 1990: «Questo è la forza e la poesia delle pagine di Levi: l’ amore per tutto quanto è umano, acutamente umano, vale a dire debole e doloroso, vale a dire nobile. Da qui quella sua straordinaria capacità di guardare, leggere e capire la realtà, capacità di leggere la realtà contadina meridionale, di comunicare con essa. Da questo suo amore poi, l’ ironia e l’ invettiva contro il disumano, contro i responsabili dei mali, e la risolutezza nel ristabilire il senso della verità e della giustizia». Parole ancora toccanti, non usurate dagli anni. Il libro gronda dolore, le uniche pagine lievi, a tratti scanzonate, sono quelle che accompagnano la marcia trionfale di Impellitteri nel paesello natio. Tutti lì ad aspettarlo con la lista dei sogni, soldi, strade, ponti e monumenti. Ma la favola del “mericano”, uno dei pochi paesani “arrinisciuti”, svanisce al tramontare del sole. Gli isnellesi, abitanti di un paese che «non ha avuto finora altra storia che preistoria» hanno ballato una sola giornata e poi sono tornati al fardello di ogni giorno. Testimoni silenziosi di un tempo che è transitato da quelle parti «senz’ altri avvenimenti che il mutare dei signori feudali, Saraceni, Aragonesi, Borboni, principi di Santa Colomba e Conti di Isnello. E i preti umanisti del secolo scorso che vi hanno abitato, Don Carmelo Virga e Don Cristoforo Grisanti, hanno scritto dotti volumi sulla storia di questo paese senza storia». È a Lercara che Levi dispiega tutta l’ umana sofferenza di cui è capace. È lì che vede i lavoratori siciliani entrare nel «nobile fiume della storia». E lì che condivide le notti con i minatori in sciopero – ed è la prima volta – da un mese. «La causa di questo miracolo era dovuta al sacrificio di un ragazzo di diciassette anni, Michele Felice, morto schiacciato da un masso dentro la miniera dei Ferrara. Alla busta-paga del morto venne tolta una parte del salario, perché, per morire, non aveva finito la sua giornata. Il senso antico della giustizia fu toccato, la disperazione secolare trovò, in quel fatto, un simbolo visibile, e lo sciopero cominciò». Levi è uno dei primi a raccontare la mafia e lo fa con un autorevole interlocutore, che lo aiuta a capireea decrittarei segni di una presenza visibile e inquietante, di cui però nessuno al tempo osa parlare. «Questa terra fu sempre – diceva S. (l’ avvocato Sorgi, ndr) mentre la macchina si inerpicava sui monti deserti – un paese di invasioni e di conquista: tutti gli invasori e i conquistatori furono stranieri, e lo rimasero. Vennero, presero e ripartirono, lasciando a reggere il paese i loro rappresentanti, i nobili, i principi, i duchi, i baroni, un’ aristocrazia di origine straniera, e, come tutte le aristocrazie, naturalmente in lotta col lontano governo; e forze militari insufficienti ad altro che a serbare il possesso e a tenere in rispetto i baroni. Mancava perciò, è sempre mancata, e ancora manca, una classe intermediaria: ma fra il popolo contadino e lo Stato straniero c’ è stato sempre un abisso, un crepaccio;e qui sta nascosta la mafia». Il volto feroce dei boss lo avrebbe visto riflesso nelle rughe secche di pianto di Francesca Serio, alla quale avevano strappato l’ unico figlio a colpi di lupara. Accanto al letto che fu di Turiddu la donna «parla della mortee della vita del figlio – racconta Levi – come se riprendesse un discorso appena interrotto per il nostro ingresso. Parla, racconta, ragiona, discute, accusa, rapidissima e precisa, alternando il dialetto e l’ italiano, la narrazione distesa e la logica dell’ interpretazione, ed è tutta e soltanto in quel continuo discorso senza fine, tutta intera: la sua vita di contadina, il suo passato di donna abbandonata e poi vedova, il suo lavoro di anni, la morte del figlio, e la solitudine e la casa, e Sciara, e la Sicilia, e la vita tutta, chiusa in quel corso violento e ordinato di parole. Niente altro esiste di lei e per lei, se non questo processo del feudo, della condizione servile contadina, il processo della mafia e dello Stato. Così questa donna si è fatta in un giorno: le lacrime non sono più lacrime ma parole, e le parole sono pietre». Francesca Serio non c’ è più. È morta con quella Sicilia raccontata da Levi. Di quel tempo resta viva la mafia con la sua scia di sangue. E le parole che continuano a essere pietre.

 

 

 

 

Blu Notte – Terra e libertà

gli omicidi di Miraglia, Rizzotto, Carnevale

 

 

Fonte:  unoenessuno.blogspot.com
Blu notte: terra e libertà
La storia di tre sindacalisti siciliani che, nel periodo successivo alla fine della seconda guerra mondiale, si battevano per la restituzione delle terre dei latifondisti ai contadini, per migliorare le loro condizioni di vita, per l’applicazione della legge di Riforma Agraria.
Questa è una storia di eroi, e dei loro assassini: i mafiosi, anzi gli uomini di maffia, come erano ancora chiamati in quegli anni.
La storia di Accursio Miraglia, Placido Rizzotto e Salvatore Carnevale. Ma anche dei loro assassini: Luciano Leggio (o Liggio come erroneamente trascrissero in un verbale i carabinieri) il capomafia di Corleone, Carmelo di Stefano boss di Sciacca, Calogero Curreri bracciante del cav. Rossi, Genco Russo, amministratore del feudo Polizzello.
E anche degli uomini di legge o, almeno quelli che cercavano di far rispettare la legge: come il commissario di PS Giuseppe Zingone, il capitano dei Carabinieri Carta, il cap. Dalla Chiesa che fu messo a capo del primo raggruppamento squadriglie antibanditismo.

E i poliziotti meno buoni: l’ispettore generale di PS Ettore Messana, che fu mandato in Sicilia dal ministro degli interni (pure lui siciliano e DC) per reprimere il banditismo, ma che manteneva tra i propri confidenti membri attivi della banda di Salvatore Giuliano.

Nel 1943 il 40% dei terreni siciliani era in mano ai latifondisti, grandi possessori terrieri,i “baroni”, marchesi, cavalieri di qualchecosa, baroni … questi lasciavano i propri terreni incolti e poco sfruttati e vivevano nelle città con le rendite delle colture. I contadini che lavoravano effettivamente le terre erano legati ai padroni da antichi patti feudali.
Nel 1943, nel sud d’Italia vi era il Governo di Unità nazionale, cui partecipavano anche esponenti del PCI. Come il ministro dell’agricoltura Fausto Gullo: che emanò un decreto per cui le terre incolte dovevano essere assegnate alle cooperative agricole dei contadini. Ad occuparsi dell’assegnazione dovevano essere le Camere del lavoro. Gente come Miraglia, Rizzotto …

I latifondisti cercarono di osteggiare in tutte le maniere questo decreto: perdere le terre significava perdere potere, perdere le rendite. Ecco che i cav. Rossi, la baronessa Martinez, … si affidano alla maffia, che divenne il braccio armato dei baroni, contro la minaccia dei sindacalisti, dei comunisti.

Stiamo parlando della prima mafia, usata per il controllo del territorio, ma che man mano prese possesso dei latifondi.
Gli espropri erano bloccati dai tribunali, per i procuratori della Repubblica la mafia non esisteva, era al più comportamento culturale. I maffiosi erano considerati solo gente dal “pessimo carattere”.
Per sbloccare gli espropri, Accursio Miraglia organizza la “cavalcata”, nel 1946: qualche migliaio di contadini a cavallo, disposti in due file, sfila per le terre occupandole simbolicamente. Un gesto dal grande valore: attorno alla sua persona si concentrano le aspettative delle persone che chiedono la terra.
Il suo slogan era “meglio morire in piedi che morire in ginocchio”. Dopo la cavalcata, per cui venne paragonato al cavaliere Orlando, i tribunali iniziano gli espropri.
E i latifondisti decidono che quell’uomo deve morire.

Accursio Miraglia, capo della sezione locale del sindacato, fu ucciso il 4 gennaio 1947: si conoscono i nomi dei suoi assassini, perchè la legge si mise subito in funzione, visto che Accursio era una persona benvoluta in paese da tutti.
Le loro indagini portarono all’arresto di Giuseppe Curreri, un bracciante del cavaliere Enrico Rossi, latifondista, di Carmelo di Stefano. Il 16 aprile 1947.E qui la storia segue un iter che rivedremo spesso in altre storie di mafia: di fronte alla polizia, gli arrestato confessano l’omicidio, il mandante, tutto. Ma poi di fronte al giudice ritrattano, affermando di essere stati torturati e che le dichiarazioni sono state estorte. Era il 18 aprile 1947.
Il 27 dicembre 1947 la corte di Palermo scagiona tutti gli imputati. E scagiona anche i poliziotti dall’accusa di tortura. Fine della storia.

Placido Rizzotto era il segretario della camera del lavoro di Corleone. Fu ucciso il 10 marzo 1948: anche qui conosciamo i nomi degli assassini che lo rapirono e ne fecero sparire il corpo. Dentro un crepaccio, la foiba di Roccabusambra nel bosco della Ficuzza: Pasquale Criscione, Luciano Leggio braccio desto di Michele Navarra boss di Corleone, detto “u patrinostri”. Anche capo della coldiretti, associazione dei proprietari terrieri vicina alla DC.

Erano anni importanti per la Sicilia (e per la genesi della nostra repubblica): il 20 aprile 1947 il blocco del popolo (la sinistra) aveva vinto le elezioni regionali. Il 1 maggio 1947 la prima strage di stato, a Portella della Ginestra, dove esponenti della X mas di Junio Valerio Borghese, mafiosi locali ed esponenti della banda Giuliano avevano sparato contro contadini che stavano festeggiando il 1 maggio.

C’è la riforma agraria da portare avanti, le terre da assegnare col decreto Gullo. Ma in questo contesto si innesta la mafia: con la sua strategia di intimidazione. Dove per intimidazione si intende sparare, uccidere. Alla camera del lavoro di Corleone si appende un manifesto con 36 croci: sono le croci per i 36 sindacalisti uccisi dalla mafia, per conto dei latifondisti. Si chiamerà strategia della tensione, poi.
E la mafia voleva raccogliere due obiettivi: bloccare la riforma agraria e offrire il suo apporto alle forze anticomuniste; ma anche imporsi come forza politica ombra.

Ma per una parte dello stato la mafia, come si è detto, non esiste: il ministro degli interni Scelba, dopo la morte di Rizzotto dichiarò “Rizzotto fu ucciso dai suoi stessi compagni, per l’assegnazione delle terre”.

Sulla sparizione di Rizzotto arrivò da Torino il capitano Dalla Chiesa: le sue indagini portarono agli arresti dei reponsabili, che confessarono l’uccisione, indicarono il posto dove avevano abbandonato il cadavere, il cimitero della mafia della foiba di Roccabusambra.
Ma, come per il processo per gli assassini di Miraglia, gli imputati ritrattano tutto davanti al giudice.
Il 12 dicembre 1952 il processo assolve tutti. Come il processo d’appello l’11 luglio 1959. La Cassazione condanna il padre di Placido Rizzotto a pagare le spese processuali. E mette la parola fine alla storia.

Almeno per quella parte dello stato che, con la mafia aveva fatto questo patto “scellerato”: perchè la mafia i conti li chiuse il 2 agosto 1958, quando Luciano Liggio (o Leggio, lucianeddru ..), uccise il dottor Navarra, nella prima guerra di mafia.

Salvatore Carnevale. Era un sindacalista iscritto al PSI di Sciara, ucciso il 16 maggio 1955, su una strada di campagna. Si batteva per il diritto al lavoro, per l’assegnazione delle terre (appartenenti alla famiglia Notarbartolo) ai contadini.Anche lui, come gli altri, doveva morire.
L’iter processuale è come un film già visto: il processo contro i quattro campieri che, molti testimoni avevano visto allontanarsi dal luogo del delitto, inizia a S.Maria Capua Vetere il 18 marzo 1960. La perizia su un fucile dura un anno, nel quale la (s)“giustizia” mette in carcere nella stessa cella un testimone anche imputato (Rizzo) con uno dei campieri (Tardibuono). E il testimone ritratta.
I 4 imputati vengono condannati: ma rimane l’appello. Nel 1963, a Napoli, i difensori parlano già di “processo politico” montato su dalle sinistre (vi ricorda qualcuno): ad uccidere Salvatore sono stati i suoi compagni di partito.
Il 14 marzo 1963 l’Appello assolve tutti. Ma a questo punto è la procura di Palermo che non ci sta: al processo in Cassazione c’è una parte della storia d’Italia. Non solo i 4 mafiosi dietro le sbarre.
Ci sono anche due presidenti della Repubblica.
Il difensore degli imputati è Giovanni Leone; come esponente del PSI c’è Sandro Pertini. Il 13 marzo 1965, la Cassazione assolve tutti. La mafia non esiste.

La madre di Salvatore, Francesca Serio, non avrà mai giustizia. Come Eloisa Miraglia e Carmelo Rizzotto. Il corpo del figlio è ancora in fondo alla foiba.
Adesso avete capito perchè in Sicilia vige da sempre lo stesso potere politico. Perchè non si è mai sviluppata un’agricoltura moderna?
Perchè ancora adesso è tabù parlare di certi argomenti (come nasce una repubblica: il patto tra mafia e politica)?
36 morti in 3 anni, dal 1945 al 1948, più altri 5 fino al 1955: una strage con la quale si volle colpire il movimento di lotta, isolare le personalità più combattive di questo movimento.
Movimento che vedeva assieme, almeno inizialmente cristiani, laici, socialisti e comunisti. Colpendo certe persone, si intimidivano tutti.
Questa è la storia di gente che ha cercato di lottare per fare politica e altra gente che ha fatto invece politica con le armi e con i morti. Povera Sicilia. E povera italia.

 

 

 

 

«Francesca Serio La madre» di Franco Blandi
Romanzo
Navarra Editore, 2018

La vicenda umana e giudiziaria della madre di Salvatore Carnevale, il sindacalista barbaramente ucciso dalla mafia il 16 maggio 1955, che vide in posizioni opposte due futuri Presidenti della Repubblica: Giovanni Leone e Sandro Pertini.
Prima donna a denunciare apertamente la mafia, la madre di Carnevale, Francesca Serio, ci racconta per la prima volta, attraverso la penna di Franco Blandi, la sua vita anticonvenzionale e la ricerca di giustizia per il figlio.
Da una fedele ricostruzione delle vicende familiari di Francesca Serio nasce il nuovo testo di Franco Blandi: un romanzo storico che racconta per la prima volta la vita di “Mamma Carnevale”, donna forte e anticonvenzionale che fermamente si oppose agli stereotipi femminili del suo tempo e fu paladina della lotta alla mafia già nel secondo dopoguerra.
Separatasi dal marito, con il figlio ancora in fasce, si trasferisce a Sciara e sceglie il lavoro nei campi: uno scandalo per una società che relegava le donne tra le mura domestiche. Subito dopo la Seconda guerra mondiale, il giovane Salvatore Carnevale sull’onda degli ideali del socialismo, comincia a occuparsi dei problemi dello sfruttamento dei lavoratori della terra fino a far applicare la legge di riforma agraria. La reazione dei mafiosi non tarda: Turiddu Carnevale viene barbaramente trucidato dalla mafia il 16 maggio 1955. Francesca Serio, che già era stata accanto al figlio nelle lotte sindacali, dopo l’assassinio dedica la sua vita alla ricerca di verità e giustizia, denunciando i mafiosi autori dell’omicidio Carnevale e riuscendo a farli condannare in primo grado all’ergastolo. In questa battaglia, accanto a lei Sandro Pertini.
Tra diario intimista e fedele ricostruzione dei fatti, un racconto originale, in equilibrio tra fonti storiche e romanzo, che restituisce uno spaccato della storia delle lotte dei contadini in Sicilia contro lo strapotere padronale e mafioso ma soprattutto la dimensione più intima della vita di Salvatore Carnevale e Francesca Serio, madre coraggio, la cui storia merita di essere tramandata.

 

 

 

Fonte: palermotoday.it
Articolo del 14 maggio 2019
Mamma e figlio si “ritrovano” dopo la morte: cambiano nome due strade a Falsomiele
Via dell’Airone sarà intitolata a Salvatore Carnevale, segretario della Camera del Lavoro ucciso dalla mafia. A seguire, la vicina via del Cigno cambierà il nome in via Francesca Serio, la donna che denunciò gli assassini del figlio

Madre e figlio vicini in due strade di Falsomiele dedicate dalla Cgil e dal Comune di Palermo ai sindacalisti vittime di mafia. Giovedì 16, alle 9,30 sarà intitolata la via dell’Airone a Salvatore Carnevale, segretario della Camera del Lavoro di Sciara, ucciso dalla mafia il 16 maggio del 1955. E, a seguire, la vicina via del Cigno cambierà il nome in via Francesca Serio, mamma di Carnevale, che denunciò gli assassini del figlio e non smise mai di chiedere verità e giustizia per la sua morte.

Alla cerimonia, che fa parte del percorso di intitolazione delle 19 “vie dei diritti”, interverranno il sindaco Leoluca Orlando, il sindaco di Sciara Roberto Baragona, il segretario generale Cgil Palermo Enzo Campo, il segretario confederale Cgil Giuseppe Massafra e alcuni familiari.

“La lezione di Salvatore Carnevale, la sua lotta per rendere più umane le condizioni di vita e di lavoro nelle campagne e per l’affermazione dei diritti, del salario contrattuale e della sicurezza è quanto mai attuale – dichiara Enzo Campo – Carnevale fa parte dei caduti del movimento contadino siciliano che si batterono per liberare l’isola dall’oppressione della mafia e del latifondo. E Francesca Serio è per noi un’altra grande figura di prestigio per il movimento sindacale. Con Felicia Impastato e Maria Vallone, sono tre donne alle quali abbiamo dedicato una delle vie dei diritti. La mamma-coraggio di Carnevale, ha continuato per tutta la vita a chiedere verità e giustizia per il figlio, condividendone l’impegno sindacale e la passione politica”.

E a Sciara, per il 64° anniversario dell’omicidio di Salvatore Carnevale, giovedì mattina si terranno alcune iniziative organizzate dal Comune e dalla Cgil Palermo tra cui alle 12,30 l’intitolazione di una strada a Francesca Serio con gli interventi del sindaco Roberto Baragona, del segretario nazionale Cgil Giuseppe Massafra, del segretario generale Cgil Palermo Enzo Campo e del responsabile Legalità Cgil Palermo Dino Paternostro.

“Salvatore Carnevale e Francesca Serio – dichiara Dino Paternostro – sono il simbolo della Sicilia che non si arrende ai soprusi del padronato e della mafia e che lotta per i diritti e la giustizia sociale. Grazie a scrittori come Carlo Levi e a poeti come Ignazio Buttitta, il sindacalista di Sciara e la sua mamma sono stati indicati alle giovani generazioni come eroi positivi e punti di riferimento per una società migliore. Carnevale è un sindacalista che lotta contro la mafia per difendere i braccianti e gli operai. Mamma Francesca rompe con l’idea di una Sicilia arcaica, dove le donne stanno a casa chiuse nel loro dolore e raccoglie la bandiera del figlio. L’intitolazione di strade a loro nome a Palermo e a Sciara rafforzano questi messaggi positivi, necessari per superare i violenti attacchi ai diritti sociali e civili nel nostro Paese”.

 

Scheda su Salvatore Carnevale

Salvatore Carnevale fu assassinato dalla mafia al servizio degli agrari siciliani il 16 maggio 1955, a Sciara. Il suo corpo fu ritrovato riverso in una trazzera crivellato da una scarica di colpi di lupara, con il volto completamente sfigurato. Carnevale aveva 32 anni, era uscito di casa all’alba e stava andando a piedi nella cava di pietra dove lavorava, della Lambertini. Socialista, sindacalista, da dieci anni guidava la lotta dei lavoratori del suo paese per il riscatto.

Era nato a Galati Mamertino, in provincia di Messina, il 25 settembre 1925, da Giacomo Carnevale e Francesca Serio. A Sciara si era trasferito da bambino con la madre. Carnevale era aveva dato fastidico ai proprietari terrieri per il suo impegno sindacale e politico. Nel 1951, con un gruppo di contadini, aveva fondato la sezione del Partito socialista italiano di Sciara e aveva organizzato la Camera del lavoro, battendosi per l’applicazione della riforma agraria e la divisione dei prodotti della terra. Sull’onda dei primi risultati positivi, Carnevale a ottobre organizzò l’occupazione simbolica del feudo della principessa Notarbartolo, ma fu arrestato insieme a tre suoi compagni. Scarcerato dopo dieci giorni, rinviato a giudizio, dovette aspettare l’estate del 1954 per essere assolto. Da agosto del 1952, intanto, era stato costretto ad andar via da Sciara e si era rifugiato a Montevarchi, in provincia di Arezzo, per sfuggire alla feroce mafia di Caccamo che il 7 agosto di quell’anno aveva assassinato il sindacalista Filippo Intili.

Tornò a Sciara due anni dopo e subito diede impulso a nuove lotte per chiedere l’assegnazione della terra ai contadini, occupando nuovamente il feudo Notarbartolo. Ancora una volta fu minacciato dai mafiosi, denunciato dalle autorità e condannato a due mesi di carcere con la sospensione condizionale della pena. Rimasto disoccupato, gli fu offerto un posto di lavoro nella cava Lambertini. Carnevale accettò e il 29 aprile 1955 iniziò il suo nuovo lavoro. Ma anche qui continuò la sua attività sindacale, organizzando gli operai per rivendicare il diritto alle otto ore lavorative. La sera del 10 maggio, un emissario della mafia gli disse: “Lascia stare tutto e avrai di che vivere senza lavorare. Non ti illudere, perché se insisti, finisci per riempire una fossa”. “Se ammazzano me, ammazzano Cristo”, rispose Carnevale. E il 12 maggio proclamò lo sciopero dei cavatori per il rispetto dell’orario di lavoro e il pagamento del salario. All’iniziativa aderirono trenta dei sessantadue operai: un successo. Pochi giorni dopo fu ucciso.

 

Scheda su Francesca Serio

Francesca Serio, mamma di Salvatore Carnevale, è stata la prima donna a denunciare apertamente la mafia e a non smettere mai di chiedere verità e giustizia per la morte del figlio. Sfidò la società opponendosi agli stereotipi femminili del primo ‘900. Negli anni ’20 Francesca, di Galati Mamertino, decide di trasferirsi a Sciara con i fratelli, allevando l’unico figlio tra stenti e fatiche. Intraprende così il lavoro nei campi, quando ai tempi la società relegava le donne tra le mura domestiche, consentendo al figlio di prendere il diploma di quinta elementare e poi di partire soldato. Al ritorno, il figlio Turiddu si avvicina agli ideali del socialismo, e si prodiga per difendere i diritti dei lavoratori. Viene eletto segretario del Partito socialista e la madre si schiera con lui e partecipa all’occupazione delle terre. Carnevale sarà ucciso a Sciara dopo essersi scontrato con i mafiosi del feudo della principessa Notarbartolo. Qualche ora dopo l’omicidio,

Francesca Serio si reca sul luogo del delitto, abbraccia il figlio e punta il dito sui responsabili della sua morte: “Me l’hanno ammazzato perché difendeva tutti i lavoratori, il figlio mio, il sangue mio. Gli assassini bisogna cercarli tra gli amici e i dipendenti della principessa Notarbartolo”.

Dopo il delitto, non smette mai di denunciare i mafiosi di Sciara e la complicità delle forze dell’ordine e della magistratura. Francesca accusò apertamente della morte del figlio Giorgio Panzeca, capo della mafia di Sciara e amministratore del feudo della principessa Notarbartolo. Il processo di primo grado si svolse a S. Maria Capua Vetere e si concluse con la condanna all’ergastolo dei quattro imputati: Giorgio Panzeca e altri tre dipendenti del feudo, il sorvegliante Luigi Tardibuono, il magazziniere Antonino Mangiafridda e il campiere Giovanni Di Bella. Ma il processo d’appello e quello in Cassazione ribaltarono la sentenza di primo grado, assolvendo tutti gli imputati per insufficienza di prove. Questo fu il commento della mamma di Carnevale dopo l’assoluzione: “Me l’hanno ammazzato una seconda volta”. È morta il 18 luglio 1992.

 

 

 

 

Gian Maria Volonté in “Un uomo da bruciare” – Le scene migliori

Kult Movie 14 mag 2019

Salvatore torna nella sua Sicilia e cerca di organizzare le lotte sociali dei lavoratori ma si scontra con gli interessi dei mafiosi.
Un uomo da bruciare è un film del 1962, il primo film diretto da Valentino Orsini insieme ai fratelli Taviani, ispirato alla vita del sindacalista socialista Salvatore Carnevale. Nel cast Gian Maria Volonté, Didi Perego, Spiros Focás e Turi Ferro.

 

 

 

Leggere anche:

Articolo del 14 maggio 2020
homosum.it
Un uomo da bruciare. La lotta alla mafia di Salvatore Carnevale, fra cinema e realtà.
di Francesco Carini
Nel 1962, Gian Maria Volonté interpretò il ruolo di Salvatore Carnevale (ucciso dalla mafia) nel film dei fratelli Taviani e Valentino Orsini, portando ulteriormente alla ribalta la vicenda, già nota anche grazie al romanzo “Le parole sono Pietre” di Carlo Levi.

 

agi.it
Articolo del 17 maggio 2020
Una madre, due preti, tre presidenti: storia di Francesca Serio
di Fabio Greco
L’amicizia tra la madre di Salvatore Carnevale, ucciso dalla mafia, e Sandro Pertini, che in un comizio accusò mandanti e assassini del’eroe dei braccianti siciliani.

 

collettiva.it
Articolo del 15 maggio 2021
Salvatore Carnevale: le parole sono pietre
di Ilaria Romeo

 

esperonews.it
Articolo del 16 maggio 2021
Sciara, cerimonia per il 66° anniversario dell’uccisione del sindacalista Salvatore Carnevale
Si terrà oggi a Sciara la cerimonia organizzata dall’amministrazione comunale per ricordare il sindacalista Salvatore Carnevale, ucciso dalla mafia il 16 maggio 1955.

 

 

 

 

 

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *