16 Maggio 2008 Castelvolturo (CE). Ucciso Domenico Noviello, titolare di un’autoscuola. Denunciò alla giustizia i “cassieri” del racket.

Foto da: repubblica.it    

Domenico Noviello, con la sua denuncia aveva fatto arrestare una banda di estorsori facenti capo al clan dei Casalesi, per questo è stato freddato da due killer armati di pistola. La vittima, Domenico Noviello, di 65 anni, titolare di una autoscuola, in località “Baia Verde” è stato ucciso a Castelvolturno, nel Casertano.
Gli investigatori hanno ricostruito la modalità dell’omicidio: due sicari hanno raggiunto e affiancato la “Panda” sulla quale viaggiava Domenico Noviello e hanno aperto il fuoco con pistole di grosso calibro. L’uomo è riuscito a fermare l’auto e ha tentato di fuggire a piedi, ma i killer lo hanno raggiunto scaricandogli contro almeno una ventina di proiettili.
Le modalità dell’agguato confermano l’ipotesi di un nuovo gesto dimostrativo dell’organizzazione criminale dei Casalesi.
Nel 2001 Domenico Noviello aveva osato sfidare il clan Bidognetti, denunciando un tentativo di estorsione e contribuendo a far arrestare con la sua testimonianza cinque affiliati all’organizzazione camorristica, tra i quali il pregiudicato Pasquale Morrone e i fratelli Alessandro e Francesco Cirillo.
Per tre anni aveva vissuto sotto scorta.
A Domenico Noviello è dedicato il bene confiscato alla camorra a San Cipriano d’Aversa che oggi ospita un gruppo di convivenza di persone con disabilità psico-fisica, soci della cooperativa Agropoli e del ristorante della Nuova Cucina Organizzata.
È dedicata a Domenico un’associazione antiracket del litorale Domizio, voluta fortemente da dieci commercianti che hanno denunciato il pizzo. All’inaugurazione dell’associazione anche il sottosegretario del Ministero dell’Interno Antonio Mantovano.
Nel mese di giugno 2012 sono state emesse 10 ordinanze di custodia cautelare nei confronti del clan dei camorristi che ha ucciso Noviello. (Fondazione Pol.i.s.)

 

 

Articolo di La Repubblica del 17 Maggio 2008
Nel 2001 aveva denunciato un tentativo di estorsione ai suoi danni da parte del clan camorristico capeggiato da Francesco Bidognetti.
Inseguito e ucciso imprenditore coraggio

di Raffaele Sardo

Lo hanno finito con tre colpi di pistola alla nuca. Domenico Noviello, 65 anni, originario di San Cipriano di Aversa e titolare di una scuola guida a Castelvolturno, è morto dopo aver tentato invano di sfuggire ai suoi killer. L’ agguato è avvenuto ieri mattina, intorno alle 7,30, in viale Lenin, nei pressi della rotonda della piazzetta di Baia Verde, all’ incrocio con via Vasari, quando le strade erano ancora deserte e i negozi tutti chiusi. Noviello, ogni mattina, prima di andare ad aprire la scuola guida, passava con la sua Fiat Panda per l’ interno di Baia Verde, per prendere un caffè al bar. E anche ieri si era avviato dalla sua abitazione sulla Domiziana, al chilometro 37, dopo aver salutato la moglie e i due figli, facendo lo stesso tragitto di sempre. Nel punto in cui è scattato l’ agguato è necessario tenere un’ andatura lenta, per via di una curva e anche perché a terra ci sono dei dossi artificiali. Due o più sicari lo hanno raggiunto ed affiancato ed hanno aperto il fuoco con pistole di grosso calibro. Noviello è riuscito a fermare l’ auto ed a tentare di fuggire. Ma ha fatto solo pochi passi. I killer gli erano addosso. E dopo aver infierito contro di lui con ferocia, scaricandogli contro almeno una ventina di proiettili, gli hanno esploso tre colpi alla nuca. «Era una bravissima persona – dice il macellaio proprio all’ angolo di viale Lenin – Lo conoscevo e spesso si fermava qui a parlare con me. Pochi giorni fa l’ avevo incontrato di nuovo, era tranquillo. S’ era seduto sulla panchina fuori dal mio negozio per fare quattro chiacchiere, insieme ad un altro conoscente. Passava spesso di qui a piedi, perché abita poco distante. E quando ho saputo che era lui l’ uomo ucciso sotto il lenzuolo, non ci credevo. Poi stamattina ho anche saputo che alcuni anni fa aveva fatto arrestare delle persone che gli avevano chiesto il pizzo».
Ed è proprio la pista della ritorsione del clan dei Casalesi quella seguita dai pm Conzo e Del Gaudio che ieri sono accorsi sul posto insieme al procuratore Roberti. Domenico Noviello nel 2001 aveva denunciato un tentativo di estorsione ai suoi danni da parte del clan Bidognetti. Con la sua testimonianza contribuì a far condannare il pregiudicato Pasquale Morrone, poi morto per cause naturali, ed i fratelli Alessandro e Francesco Cirillo. Noviello fino al 2003 aveva una vigilanza sotto casa, un sistema di tutela per la sua testimonianza venuto meno quando evidentemente gli organi preposti hanno ritenuto che non ci fosse più rischio per la sua vita. «Nessuno ha visto e sentito niente – dice il barista all’ angolo della piazzetta di Baia Verde – perché qui la zona si anima solo a giugno inoltrato. Prima di allora i negozi aprono dopo le 9. E quando sono arrivato ad aprire il bar a quell’ ora e ho saputo che li a terra c’ era Domenico Noviello, sono rimasto senza parole. Lo conoscevo perché si fermava a prendere il caffè. Non meritava di finire così». Ieri, dunque, secondo una prima ipotesi investigativa, sarebbe scattata la vendetta del clan. Le modalità dell’ agguato confermerebbero l’ ipotesi di un nuovo gesto dimostrativo della fazione di Bidognetti, nei confronti di un’ altra persona che ha osato sfidarli Intanto ieri pomeriggio alle 18,00, a Santa Maria Capua Vetere, diverse centinaia di persone, si sono strette attorno all’ imprenditore Pietro Russo presidente dell’ antiracket della provincia di Caserta, a cui tre notti fa la camorra ha incendiato la fabbrica di materassi. Russo, che vive sotto scorta, denunciò anni fa un tentativo di estorsione ai propri danni.

 

 

Articolo di La Repubblica del 17 Maggio 2008
Denunciò i boss, ucciso dal clan dei casalesi

Denunciò alla giustizia i “cassieri” del racket, i rampanti dei casalesi. Incastrò quelli che nel 2001 facevano irruzione nella sua agenzia di assicurazioni o gli piombavano in casa. «Devi venire a parlare con gli amici di Casale. Lo sai che a Castelvolturno comandano i Bidognetti. Devi preparare 30 milioni per Pasqua. Non ce li hai tutti? Siamo amici: metà in contanti e metà con assegno post-datato». Sette anni dopo la sua coraggiosa deposizione, Domenico Noviello, 65 anni, paga con la vita il gesto di avere alzato la testa. Venti pallottole sparate alle spalle mentre era in auto da solo, in viaggio come ogni mattina verso il suo destino e la propria (ridotta) agenzia. Gli ultimi tre proiettili alla nuca. L’ agguato alle 7 a Castelvolturno, zona di Baia Verde, terra che di esotico conserva i toponimi, lembo di costa malata tra Napoli e Caserta. L’ inchiesta coordinata dal procuratore antimafia Roberti, con i pm Del Gaudo e Conzo, prevede una sola pista: vendetta. Assassinare Noviello era semplice, era stata sospesa la vigilanza. Sembrava non ve ne fosse bisogno, stesso trattamento per altri imprenditori che hanno sfidato il potere criminale nel casertano. Ma «il clima è cambiato, la tensione è altissima». Stagione di vendette e di resa dei conti. Il gotha dei casalesi alza il tiro, inverte la strategia, cambia pelle di nuovo. E torna a uccidere. Lanciando, come dimostra il bollettino di sangue delle ultime ore, feroci avvertimenti ai “nemici”. Dal 2 maggio, un’ escalation senza precedenti. L’ assassinio di Umberto Bidognetti, padre del pentito Domenico; poi l’ incendio alla fabbrica di Pietro Russo, il capo dell’ associazione antiracket fondata con Tano Grasso. Poi: le bare disegnate sui muri del paese, messaggio a Saviano. E ieri: la villa che scimmiotta quella di “Scarface”, già confiscata al boss Walter Schiavone, fratello di “Sandokan”, che viene vandalizzata, perfino i due vecchi lecci recisi a colpi di motosega. Doveva ospitare un centro di recupero per disabili. Alla stessa ora in cui i due alberi si abbattono al suolo, cade l’ anziano Noviello. Il suo atto d’ accusa spedì in carcere cinque criminali. Fu il pm Raffaele Marino (oggi procuratore aggiunto a Torre Annunziata) ad ascoltarlo. «Era un uomo deciso, coraggioso». Marino (con i sostituti Cantone e Conzo) ottenne la condanna per estorsione aggravata a carico degli indagati. Ma la parola fine, per ora, l’ ha scritta l’ impero dei casalesi. (co.sa.)

 

 

 

Articolo del Corriere della Sera del 16 Maggio 2008
Venti colpi di pistola per un imprenditore che aveva denunciato clan dei Casalesi
Ucciso Domenico Noviello, di 65 anni, originario di San Cipriano. Nel 2001 denunciò un tentativo di estorsione

CASERTA – Un altro mortale agguato camorristico nel Casertano, ed ancora una esecuzione con una inaudita ferocia: 20 colpi di pistola calibro 38 e calibro 9, l’ultimo dei quali alla testa, quasi certamente per una vendetta nei confronti di un testimone di giustizia, Domenico Noviello, di 65 anni, originario di S.Cipriano d’Aversa, ma residente a Castelvolturno, sul litorale casertano. L’uomo, in località «Baia Verde» gestiva, insieme con uno dei suoi tre figli un’autoscuola e si accingeva ad aprirne un’altra nella vicina Pinetamare.

LA DENUNCIA – Noviello, nel 2001, denunciò un tentativo di estorsione ai suoi danni da parte di un gruppo di affiliati al clan camorristico attivo nella zona, quello capeggiato da Francesco Bidognetti, detto «Cicciotte e mezzanotte» contribuendo alla cattura ed alla condanna di cinque persone, tra cui i fratelli Alessandro e Francesco Cirillo e Pasquale Morrone, quest’ultimo morto qualche anno fa per cause naturali. I fratelli Cirillo e gli altri indagati sono stati, poi, scarcerati ma alcuni di loro sono stati nuovamente arrestati per altre estorsioni portate a termine ai danni di operatori economici della zona.

I CASALESI – Le modalità dell’ agguato confermerebbero, dunque, l’ipotesi di un nuovo gesto dimostrativo del clan camorristico dei Casalesi nei confronti di un’altra persona che ha osato sfidarli dopo i gravi episodi delle ultime settimane a cominciare dall’agguato ad Umberto Bidognetti, padre di Domenico, ucciso il 2 maggio scorso, per continuare con l’incendio appiccato alla fabbrica di materassi di Pietro Russo, presidente dell’associazione antiracket della provincia di Caserta, che aveva denunciato i suoi estorsori, per continuare con le minacce allo scrittore Saviano, alla giornalista Capacchione e al magistrato Cantone.

L’AGGUATO – L’imprenditore, secondo una ricostruzione dell’agguato, da parte dei magistrati della DDA di Napoli che coordinano le indagini, affidate alla Squadra Mobile di Caserta ed agli agenti del locale commissariato, procedeva, come solitamente faceva ogni mattina, a bordo di una Fiat Panda, per raggiungere l’autoscuola. Si sarebbe fermato di lì a poco, al bar, poco distante dal luogo dell’agguato, per prendere il caffè, quando sono entrati in azione i sicari (non si sa se in auto o in moto, perchè non vi sono testimoni). Noviello, accortosi della presenza dei sicari ha fermato l’auto e tentato di fuggire dal lato passeggeri, ma non ha avuto scampo. Con almeno due pistole i sicari hanno raggiunto e gli hanno scaricato contro 20 colpi, di cui uno alla testa, uccidendolo.

LE INDAGINI – DDA e Polizia hanno già fermato ed interrogato alcuni esponenti di clan camorristici della zona. L’imprenditore, potrebbe essere stato ucciso per vendetta, per avere denunciato il tentativo di estorsione ai suoi danni e testimoniato nel processo contro gli affiliati al clan. Gli investigatori, comunque, stanno verificando le attività di Noviello, che oltre nel settore delle pratiche automobilistiche aveva interessi anche in quello immobiliare.

Medaglia d’oro al valor civile:

«Vittima di una estorsione, con encomiabile coraggio, denunciava alcuni esponenti della criminalità organizzata, consentendone l’arresto e la successiva condanna. A distanza di alcuni anni dall’evento, mentre era alla guida della propria autovettura, veniva barbaramente assassinato in un vile agguato camorristico. Chiarissimo esempio di impegno civile e rigore morale fondato sui più alti valori di libertà e di legalità.»
— 16 maggio 2008 – Castel Volturno (CE)

 

 

 

Articolo di OltreGomorra del 23 Giugno 2010
Ricordando Domenico Noviello
di Iolanda Fevola

Quando si prova a raccontare di chi è stato ucciso dalla camorra, lo si può fare in diversi modi. Uno è quello di cercare di ricostruire l’ingranaggio, il modo in cui il sistema ingloba nelle sue maglie ciò di cui ha bisogno, trasformando le persone in semplici pedine da utilizzare a proprio piacimento. Si può provare a spiegare, come nel caso di Michele Orsi, dei politici e dei loro intrallazzi, dei funzionamenti aziendali e degli appalti all’ombra dei clan, che hanno condannato un imprenditore a morire per aver parlato, perché stava svelando il funzionamento del sistema.

Nel caso di Domenico Noviello, invece, c’è poco da spiegare. Noviello gestiva un’autoscuola a Castelvolturno. Nel 2001 era arrivata la richiesta da parte dei Casalesi per il pagamento di una somma pari a 100 milioni di lire all’anno. Domenico Noviello, allora, aveva riunito la famiglia e l’aveva messa a parte della sua decisione: dire no. Sapeva bene a cosa andava incontro, non fosse altro che trent’anni fa la camorra gli aveva ammazzato il cognato di 33 anni che si era rifiutato di pagare.

Ma Domenico Noviello si era chiesto se valesse la pena “vivere docili e ubbidienti come pecore”. E non aveva avuto dubbi. Così aveva denunciato il clan capeggiato da Francesco Bidognetti, “Cicciotto ‘e mezzanotte”, e grazie alla sua testimonianza aveva fatto condannare cinque persone, tra cui Francesco Cirillo, cugino di Alessandro detto “o sargènt”, e il pregiudicato Pasquale Morrone. Mentre quest’ultimo è morto per cause naturali, Cirillo e gli altri indagati sono stati prima scarcerati e poi di nuovo arrestati per aver commesso nuove estorsioni. Francesco Cirillo aveva da finire di scontare una pena residua di un anno e otto mesi per associazione a delinquere ed estorsioni, ma era uscito di prigione ed era latitante.

Il rifiuto di pagare e la collaborazione con la giustizia avevano naturalmente significato la condanna a morte da parte dei Casalesi, e così Noviello era stato messo sotto scorta, fino al 2003. Un detto diffuso dalle parti di Caserta recita così: “i Casalesi sono tardarielli ma non scurdarielli”. E così è stato. Ben sette anni dopo la denuncia, l’agguato. Il 16 maggio scorso Noviello è stato trucidato con venti colpi di pistola.

Una storia come tante, purtroppo. La richiesta del pizzo, il rifiuto, la morte che serva come esempio per chi osa ribellarsi. E a scriverne si prova quasi un senso di pudore. Pudore perché oramai le notizie di cronaca sembrano assomigliarsi tutte. Delle diverse storie, alla fine si perdono i contorni. E si sente il bisogno di andare oltre, e tentare di immaginare quell’uomo, la difficoltà di vivere dopo aver detto “no”. La necessità di andare in giro armati e di essere prudenti in ogni occasione, tanto da non accettare appuntamenti in luoghi isolati neppure dalle persone di cui più ci si fida.

Pudore perché bisogna provare a immaginare il più intimo dolore che la sua morte ha provocato nella famiglia. Quanto possa essere doloroso affrontare il funerale e i giorni che seguono, quando, in mezzo allo stordimento, magari si ritorna a provare a fare le cose di tutti i giorni. Come apparecchiare la tavola: e il ritrovarsi con un piatto in più è insopportabile.

Ma bisogna pensare a questo. Al dolore che i figli proveranno ogniqualvolta non potranno condividere col padre qualcosa di bello che gli è occorso o non potranno trovare conforto nel suo sguardo.

Bisogna pensare a questo affinché dei vari Domenico Noviello non resti solo un nome vuoto, ma un ricordo pieno della loro umanità. Del loro spontaneo esercizio della giustizia, che era l’unico modo che conoscevano per vivere. Bisogna pensare a quella volontà più forte di ogni paura. Perché il ricordo di quella volontà genera il rispetto che si deve agli uomini veri; il rispetto che non si può comprare con valige di soldi, né estorcere con armi di grosso calibro.

Ed è quel rispetto che noi proviamo che non dobbiamo dimenticare. Perché in nome di quel rispetto è necessario che si educhi la comunità. Affinché i futuri figli di padri ammazzati non si trovino, come i figli di Noviello, a dover abbandonare quella terra per cui i genitori sono morti.

Perché non capiti più, come è accaduto alla famiglia Noviello, di essere trattati come “lebbrosi” e di sentirsi “stranieri” nella loro terra.

Finché la camorra esisterà, esisterà la lotta alla camorra con le sue vittime. E il dovere, per chi rimane, di lavorare affinché chi dice no non debba sentirsi solo e abbandonato col peso della sua scelta.

Uno dei figli di Domenico, Massimo Noviello, ha ribadito la necessità di andare oltre le condanne e di confiscare i beni dei clan: “perché è alla ricchezza che loro tengono più di qualsiasi altra cosa”. E ha affermato che “avere fiducia nello Stato è la sola opportunità che ci resta”.

Se avere fiducia nello Stato è la sola opportunità che ci resta, bisogna ricordare allora che lo Stato siamo soprattutto noi. Che nostro è il dovere di continuare dove Domenico Noviello ha lasciato.

 

 

Articolo di La Repubblica del 21 Giugno 2012
10 arresti per l’omicidio Noviello  
di Raffaele Sardo
L’imprenditore fu assassinato a Castel Volturno il 16 maggio del 2008. Con la sua testimonianza fece arrestare tre affiliati del Casalesi

Domenico Noviello, titolare di una scuola guida a Castel Volturno (Caserta), nel 2001 denunciò un tentativo di estorsione ai suoi danni da parte del clan Bidognetti. “Da me non avranno mai un soldo perché me li guadagno col sudore della mia fronte”, rispondeva a chi gli chiedeva di adeguarsi al comportamento di tutti gli altri imprenditori del territorio. Con la sua testimonianza contribuì a far condannare il pregiudicato Pasquale Morrone, poi morto per cause naturali, ed i fratelli Alessandro e Francesco Cirillo. Per questo motivo, Giuseppe Setola ne ordinò l’uccisione che venne eseguita in un agguato particolarmente efferato, pochi giorni dopo quella del padre di un collaboratore di giustizia.

Fino al 2003 Domenico Noviello aveva una vigilanza sotto casa, un sistema di tutela per la sua testimonianza che era venuto meno. Così si era armato. Un regolare porto d’armi. Frequentava il tiro a segno. Si teneva in allenamento andando in palestra.

I killer la mattina del 16 maggio del 2008, alle 7:30, lo stavano aspettando vicino alla rotonda della piazzetta di Baia Verde, a Castel Volturno, uno dei quartieri più affollati del litorale domizio. Una vedetta aveva già segnalato che era uscito di casa a bordo della sua Fiat Panda. Avrebbe preso un caffè al bar e poi si sarebbe recato, come sempre, nella sua autoscuola al parco Sementini. Proprio a fianco del commissariato di polizia di Castel Volturno. Non ci arrivò mai. Quella mattina con lui doveva esserci anche il figlio, Massimiliano, che invece preferì fare un po’ di corsa sul spiaggia di Baia Verde.

I suoi carnefici erano a bordo di un’auto e una moto di grossa cilindrata. Avevano studiato il percorso che faceva Noviello già da alcune settimane. Sapevano che doveva passare di lì. Le strade a quell’ora erano quasi deserte. I negozi chiusi. Noviello rallenta perché a terra ci sono dei dossi. Due o più sicari lo raggiungono. Lo affiancano e aprono il fuoco con pistole di grosso calibro. Noviello riesce a fermare l’auto, ma i killer gli sono addosso. Tenta di prendere la pistola che porta con sé, ma non vi riesce. Gli arrivano tanti colpi. Cerca di fuggire. Apre la portiera dell’auto, ma fa solo pochi passi. Contro di lui i camorristi infieriscono con ferocia. Gli scaricano addosso almeno una ventina di proiettili. Cade a terra. Ma il rituale di morte impone anche il colpo di grazia. Gli esplodono tre colpi alla nuca. I camorristi scappano. Domenico Noviello, 64 anni, originario di San Cipriano di Aversa, muore in pochi attimi.

 

 

 

Articolo del 21 Giugno 2012 da napoli.repubblica.it
Il sangue innocente di Gomorra
“Noviello lo uccisi con 13 botte…”
di Giovanni Marino
Aveva una autoscuola, era un uomo onesto e coraggioso. Ma il clan dei Casalesi non gli diede scampo. Dopo 4 anni svolta nell’inchiesta dieci arresti e l’agghiacciante racconto dei pentiti

Quattro anni per scovarli. Quattro anni per dare una risposta agli assassini di Gomorra. Per dire che no, nessuno resta impunito nella terra flagellata dal clan dei Casalesi. Soprattutto i vili che assassinano uomini coraggiosi e innocenti come Domenico Noviello, il titolare di una scuola guida di Castel Volturno, in provincia di Caserta, che aveva denunciato gli aguzzini del racket facendoli poi arrestare.

Noviello cadde sotto il piombo camorrista il 16 maggio 2008. Quattro anni dopo la squadra mobile di Caserta e la Procura antimafia d Napoli hanno firmato 10 ordinanze: le accuse sono tutte rivolte al gruppo dello stragista Giuseppe Setola.

Colpisce la viltà di quell’esecuzione mafiosa. Illuminante, in tal senso, il racconto di un pentito, che poi fu l’esecutore materiale del delitto, il killer. Massimo Alfiero.

Il sicario ricorda il giorno in cui venne versato sangue innocente per la sua inescusabile azione: “Appena Noviello svoltò a destra, lo affiancammo e sparai subito quattro o cinque colpi con la calibro 9 corta; ricordo che lo colpii con il primo proiettile al volto”.

La vittima designata tentò disperatamente di sfuggire al suo atroce destino. Ma l’assassino non ebbe pietà di un uomo inerme e ferito. Ecco come prosegue il suo racconto: “Scaricai tutto il caricatore, 13 botte, in direzione di Noviello e questi
cercò di porsi al riparo sdraiandosi sul sedile e poi strisciando verso l’esterno; riuscì ad aprire lo sportello – lato passeggero – per tentare la fuga uscendo dalla macchina. Io a quel punto scesi dalla vettura, girai attorno alla auto di Noviello e gli sparai anche altri colpi della mia pistola Beretta 92 F, finendolo poi con un colpo in testa. Era la prima volta che riuscivo ad uccidere personalmente qualcuno”.

Orrore camorrista. Comprensibili le parole della figlia della vittima, Mimma Noviello: “Quando stamattina mi hanno chiamato dalla Fondazione Polis per avvisarmi che avevano individuato gli assassini di mio padre mi sono sentita il cuore in gola, sono stata presa da un po’ di angoscia perché ho rivissuto quei momenti terribili di quattro anni fa. Poi lentamente mi sono sentita sollevata, anche se per sconfiggere la camorra ci vorrà ancora del tempo”.

Mimma ha partecipato alla conferenza stampa nella quale sono stati svelati autori e dinamiche del delitto. Non ha retto all’emozione e ha pianto. Soccorsa e rincuorata dal procuratore aggiunto Federico Cafiero de Raho, che l’ha abbracciata.

Federico Cafiero de Raho, non va mai dimenticato in un Paese senza memoria,  fu il primo, in anni in cui la parola Casalesi diceva poco o nulla, a intuire e a combattere questo sanguinario manipolo di camorristi.

 

 

 

Articolo del 4 dicembre 2012 da  dallapartedellevittime.blogspot.it
TRE ERGASTOLI PER L’OMICIDIO DI DOMENICO NOVIELLO
di Raffaele Sardo

Arrivano le condanne per l’uccisione di Domenico Noviello. Tre  ergastoli sono stati comminati stamattina per l’assassinio dell’imprenditore  originario di San Cipriano di Aversa, ucciso dal gruppo camorristico di Giuseppe Setola il 16 maggio del 2008 a Castel Volturno, in località Baia Verde. La condanna è stata emessa stamattina nella sezione 35 del tribunale di Napoli, che ha accolto la richiesta del PM Alessandro Milita. L’ergastolo è stato comminato a Davide Granato, Massimo Alfiero e Giovanni Bartolucci, i tre che avevano chiesto il rito abbreviato. Gli altri 8 coinvolti nell’omicidio dell’imprenditore titolare di una scuola guida, è in corso presso il tribunale di Santa Maria C.V.
Noviello  venne assassinato perché nel 2001 aveva denunciato i suoi estorsori, tutti del clan di Francesco Bidognetti. Finì sotto scorta per alcuni anni. In seguito alle sue denunce furono condannate 5 persone. Lo uccisero poco dopo le 7 di mattina, mentre si recava al lavoro con la sua  Fiat Panda. Gli esplosero addosso una ventina colpi di pistola calibro 38 e calibro 9, l’ultimo dei quali alla testa di Noviello.
«Lo colpii con il primo colpo al volto. Scaricai tutto il caricatore, 13 botte… – Massimo Alfiero, il killer di Noviello  ha raccontato così la sua versione dei fatti –  Appena Noviello svoltò a destra – dice Alfiero – lo affiancammo e sparai subito quattro o cinque colpi con la 9 corta; ricordo che lo colpii con il primo colpo al volto. Scaricai tutto il caricatore, 13 botte, in direzione di Noviello e questi cercò di porsi al riparo sdraiandosi sul sedile e poi strisciando verso l’esterno; riuscì ad aprire lo sportello – lato passeggero – per tentare la fuga uscendo dalla macchina. Io a quel punto scesi dalla vettura, girai attorno alla macchina del Noviello e gli sparai anche altri colpi della pistola Beretta 92 F, finendolo poi con un colpo in testa. Era la prima volta che riuscivo ad uccidere personalmente qualcuno».

Nel corso delle udienze precendenti si erano costituite parti civili varie associazioni, tra cui anche Il comitato “Don Peppe Diana” di Casal di Principe,  la Federazione Antiracket Italiana (Fai), con la famiglia Noviello. La sentenza emessa stamani prevede anche il pagamento di 50 mila euro per ognuna delle parti offese e 300 mila euro per le parti civili. Al momento della sentenza erano presenti in aula i figli di Domenico Noviello, Massimiliano e Mimma.

 

 

 

Articolo del 5 Giugno 2014 da isiciliani.it
Processo agli assassini di Domenico Noviello. Chiesta riduzione di pena per gli esecutori materiali, rei confessi.
di Paolo Miggiano

La giustizia italiana ci ha un pò abituati a ribaltamenti di fronti, a giudizi di secondo grado difformi da quelli di primo grado, ad annullamenti. Insomma è come dire che il “diritto” ha pure il suo rovescio.

Una cosa del genere è più o meno accaduta stamattina nell’aula della Corte di Assise di Appello dove si celebrava il processo di secondo grado contro Alfiero Massimo, Granato Davide e Giovanni Bartolucci, già condannati all’ergastolo in primo grado, con il rito abbreviato, per l’omicidio dell’imprenditore casertano Domenico Noviello.

Domenico Noviello fu ucciso il 16 maggio 2008 in località Baia Verde di Castel Volturno dall’ala stragista del clan dei casalesi, capeggiata dal famigerato Giuseppe Setola, che per lo stesso delitto è alla sbarra, insieme ad altri suoi complici, presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere.

Questa mattina, ad apertura del processo di appello è toccato al procuratore generale presso la Corte di appello di Napoli, prendere la parola e presentare le sue conclusioni. Egli ha esordito, dicendo: “Siamo di fronte ad un omicidio di una efferatezza unica, perché Domenico Noviello si comportava da cittadino”. Poi il colpo di scena quando, a conclusione della sua requisitoria, ha richiesto la conferma dell’ergastolo solo per uno dei condannati e la riduzione della pena a trent’anni per gli altri due.

In pratica è accaduto che, per Davide Granato – al quale in primo grado non erano state riconosciute le attenuanti generiche, perché il giudice, davanti ad un quadro probatorio completo, aveva ritenuto la sua confessione in udienza esclusivamente strumentale ad una riduzione di pena – il procuratore generale ha inteso valorizzare la sua confessione, ritenendola meritevole della concessione delle attenuanti generiche, seppur equivalenti alle contestate aggravanti.

Per Massimo Alfiero – al quale in primo grado erano state riconosciute le attenuanti generiche, equivalenti alle contestate aggravanti, sempre sulla base della sua confessione – il procuratore generale ha chiesto la conferma delle attenuanti generiche, sempre equivalenti alle contestate aggravanti, ma con una portata più ampia, tanto da richiedere una pena di trenta anni, in sostituzione dell’ergastolo. Per Giovanni Bartolucci, invece, è stato richiesta la riconferma della pena dell’ergastolo.

Sono tutte richieste che in udienza mal sono state digerite dagli avvocati di parte civile Nicola Russo, Emilio Tucci e Gianluca Giordano che rappresentano i figli e la moglie di Domenico Noviello, mentre le altre parti civili, presenti in udienza in rappresentanza delle associazioni anti racket(FAI – SOS Impresa e Comitato Don Peppe Diana), nelle loro conclusioni, si sono riportate alle richieste del procuratore generale.

In questa udienza abbiamo assistito alla retorica di facciata (Noviello è stato ucciso perchè faceva il cittadino) e contemporaneamente alla incomprensibile richiesta che pare premiare chi ha commesso un così efferato delitto solo perché, davanti a prove evidenti e schiaccianti, ha scelto di confessare. Quelle del procuratore generale saranno probabilmente richieste comprensibili sul piano giuridico, anche se qualcuno poi ci dovrebbe spiegare perchè altri giuristi in primo grado hanno avuto un orientamento diverso, ma certamente non lo sono sul piano umano e men che mai risulteranno comprensibili ai figli ed alla moglie di Domenico Noviello.

Da cittadini rimaniamo disorientati davanti a scelte così altalenanti della giustizia italiana. Il processo, però, non è ancora terminato e quindi la parola fine su questa vicenda va ancora scritta e noi cittadini normali che dei cavilli giuridici ne capiamo molto poco, auspichiamo che tali richieste non vengano accolte dal giudice, convinti come siamo che la scelta di confessare sia stata dettata solo ed esclusivamente per ottenere uno sconto di pena. Sconto di pena che in primo grado non è stato accordato. Il prossimo appuntamento in Corte d’Assise d’appello il 26 giugno. Noi ci saremo per raccontarvi come si chiuderà questa brutta pagina e saremo, sempre e comunque al fianco dei familiari di Domenico Noviello.

 

 

 

Articolo del 8 Luglio 2014 da isiciliani.it
Richiesti sei ergastoli per l’omicidio Di Domenico Noviello
di Paolo Miggiano

È durata più di quattro ore l’articolata requisitoria del sostituto procuratore antimafia Alessandro Milita al processo contro gli organizzatori ed esecutori dell’omicidio dell’imprenditore casertano Domenico Noviello, trucidato il 16 maggio del 2008 a Baia Verde Castel Volturno, perché sette anni prima aveva denunciato e fatto condannare alcuni affiliati al clan dei casalesi. Requisitoria che si è conclusa con la richiesta del massimo della pena per Giuseppe Setola, considerato il capo dell’ala stragista del clan, e per altri cinque camorristi, imputati di aver organizzato ed eseguito l’omicidio dell’imprenditore.

Presenti in aula, oltre agli attenti giornalisti che di solito seguono il processo che si sta celebrando presso la Corte di Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, i quattro figli di Domenico Noviello: Massimiliano, Rosaria, Domenica e Matilde Edwige Jlenja, che in silenzio ed assistiti dai loro legali, hanno seguito con attenzione e con compostezza l’intera udienza. Ad accompagnarli ed a sostenerli gli esponenti della società civile come la Fondazione Pol.i.s. della Regione Campania, Valerio Taglione del comitato Don Diana e Luigi Ferrucci presidente dell’Associazione Antiracket Domenico Noviello.

All’inizio dell’udienza, prima che il Pubblico ministero riprendesse la sua discussione, Giuseppe Setola, collegato in video collegamento dal carcere di massima sicurezza di Opera, chiede di rendere dichiarazioni spontanee: “Signor giudice ho bisogno di una tac perché mi fa male sempre la testa e per questo rinuncio al prosieguo dell’udienza”. Poi abbandona la sede del collegamento.

Una piccola schermaglia giuridica tra la difesa di Setola e l’accusa ha subito acceso il clima dell’udienza, quando il pubblico ministero Alessandro Milita ha interrotto la discussione, già iniziata nell’udienza del 25 giugno scorso, per richiedere al giudice l’applicazione della recidiva per alcuni imputati. Richiesta che non è stata, comunque, accolta dal Presidente del Collegio giudicante, Maria Alaia.

Queste le pene richieste a conclusione della lunga requisitoria: Giuseppe Setola, ritenuto il capo della “nuova azienda Setola” (ergastolo ed isolamento diurno per diciotto mesi); Massimo Napolano, che secondo il pubblico ministero sarebbe stato il vicario di Setola (ergastolo ed isolamento diurno per dodici mesi); Giovanni Letizia, considerato l’ispiratore dell’omicidio Noviello (ergastolo ed isolamento diurno per dodici mesi); Alessandro Cirillo, con un ruolo di individuazione della vittima (ergastolo ed isolamento diurno per quattro mesi); Metello Di Bona (ergastolo ed isolamento diurno per due mesi); Francesco Cirillo – ergastolo ed isolamento diurno per quattro mesi). Infine, per il collaboratore di giustizia Luigi Tartarone, le cui dichiarazioni sono state ritenute “decisive” dal P M per la ricostruzione dei ruoli e della dinamica dell’omicidio, sono stati chiesti quattordici anni di reclusione.

Al termine dell’udienza, dal carcere di Milano, Giovanni Letizia ha richiesto di rendere dichiarazioni spontanee: “Non potete credere sempre ai pentiti, io dell’omicidio Noviello non solo non so nulla, ma il pubblico ministero chiede sempre l’ergastolo. Eppure – ha proseguito Letizia rivolgendosi al Presidente della Corte d’Assise – tra due-tre anni la Corte di Giustizia di Strasburgo potrebbe dichiarare l’ergastolo illegittimo. Sappiate che mi date un ergastolo ingiusto”. Per la Procura antimafia di Napoli, però, Giovanni Letizia è un killer spietato del clan dei Casalesi e nell’omicidio Noviello, pur non avendo direttamente partecipato, ha avuto un ruolo determinante in quanto avrebbe indicato il nome dell’imprenditore in una riunione tenutasi nell’aprile del 2008, in cui partecipò anche Setola, qualche giorno prima, dunque, che iniziasse la stagione di sangue che costò al casertano diciotto morti in sette mesi, tra cui i sei immigrati africani uccisi a Castel Volturno nella strage di San Gennaro. Al termine dell’udienza il presidente ha fissato il calendario per le prossime udienze: il 1 ottobre quando sono previste le conclusioni delle parti civili; il 2 – 8 – 16 ottobre quando sono programmate le discussioni degli avvocati difensori degli imputati.

 

 

 

Articolo del 19 Novembre 2014 da www.isiciliani.it
Processo omicidio Domenico Noviello: Ergastolo per cinque degli imputati. 
di Paolo Miggiano

Finalmente, dopo due anni di estenuanti udienze, la Corte di Assise del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, dopo cinque ore di camera di consiglio, ha emesso la sentenza di condanna per i mandanti e gli esecutori dell’omicidio di Domenico Noviello, l’imprenditore casertano che sette anni prima di essere ucciso si era ribellato al pagamento del racket imposto dal clan dei Casalesi. L’ordine di ucciderlo fu dato da Giuseppe Setola per mandare un segnale terroristico a tutti gli altri imprenditori della zona. Fu ucciso in località Baia Verde il 16 maggio del 2008. Cinque ergastoli e due esemplari condanne, questa è la sintesi del processo, che ha visto Giuseppe Setola tra i principali imputati. L’ergastolo ed isolamento diurno è stato inflitto a Setola Giuseppe, Cirillo Alessandro, Cirillo Francesco, Letizia Giovanni, Napolano Massimiliano, mentre Di Bona Metello è stato condannato alla pena della reclusione di 30 anni (anche se il cumulo delle sue condanne arrivava fino a 43 anni). Invece, la pena inflitta a Tartarone Luigi è stata di soli 13 anni e 6 mesi di reclusione. Naturalmente, soddisfazione è stata espressa dal magistrato della DDA di Napoli dott. Alessandro Milita, che si è visto confermare non solo il suo impianto accusatorio, ma anche le pene che aveva richiesto sono state tutte pienamente accolte dalla Corte. Per la Fondazione Pol.i.s., come ormai facciamo per tutti i processi dove sono presenti i familiari delle vittime innocenti, ho seguito quasi tutte le udienze di questo lungo e complicato dibattimento, insieme a pochi colleghi giornalisti, come Raffaele Sardo di Repubblica, Mena Grimaldi e Tina Cioffo del Mattino e Antonio Pisani dell’Ansa. In questi anni ho avuto il privilegio di stare vicino ai figli di Domenico Noviello, Massimiliano, Maria Rosaria ed in particolare a Mimma ed a Matilde. Un privilegio che non può che avermi arricchito ed essere anche oggi con loro è stata una esperienza unica, irripetibile. Per tutte le udienze le loro facce erano tese, preoccupate, a tratti anche arrabbiate, soprattutto quando si sono trovate di fronte ai continui cambiamenti di fronte di uno dei principali imputati, Giuseppe Setola, che un giorno si pentiva ed un altro ancora si pentiva di essersi pentito. Oggi, invece, alla lettura del dispositivo che condannava tutti gli assassini del padre, i loro volti, seppur solcati dalle lacrime, esprimevano anche soddisfazione. “Una sentenza esemplare, che va oltre le nostre aspettative”, è stato il com-mento di Massimiliano Noviello, che poi ha aggiunto: Questo si-gnifica che mio padre non è morto invano. Ora altri imprenditori troveranno il coraggio di denunciare. Se mio padre non avesse denunciato, sarebbe morto di rabbia”. Mimma Noviello, l’altra figlia di Domenico, abbracciata alla sorella più piccola Matilde, ha detto: “Non è stato giusto uccidere mio padre. Terminata la lettura del dispositivo, ho alzato gli occhi al cielo ed ho pensato: papà ce l’abbiamo fatta, non sei morto invano. Giustizia è stata fatta”. Qualche ora dopo, a dimostrazione del grande affetto che nutre nei confronti di chi le è stato vicino, mi scrive: “Mi sento stranamente sollevata. Oggi sono contenta e voglio ringraziare tutti quelli che mi sono stati vicino a partire dai legali di mia sorella e miei, per come hanno saputo starci vicino sia tecnicamente, ma soprattutto umanamente”. Poi ha concluso: “Quella di oggi è una sentenza che fa storia. Mio padre non meritava di morire, era una persona buona ed in uno Stato civile e democratico, nessuno ti toglie la vita, per nessun motivo”. Per questa sentenza c’era grande attesa. Già in mattinata, alla riapertura del dibattimento, gli uomini addetti alla sicurezza del Tribunale hanno avuto il loro ben da fare, per selezionare le persone che potevano presenziare in aula. Fuori le telecamere e dentro solo le parti offese, i loro avvocati ed i giornalisti muniti di tesserino di riconoscimento dell’Ordine dei giornalisti. Ed ecco che, come di consuetudine, puntuale è arrivata la richiesta dell’imputato Giuseppe Setola, che vuole rendere dichiarazioni spontanee: “Ho detto un sacco di bugie in questo processo”. Poi, come a voler mandare l’ennesimo messaggio ai suoi compagni, dice: “Ho sbagliato nei confronti dei miei amici. Si dichiara come un soggetto dalla doppia personalità a causa dell’assunzione di cocaina che gli avrebbe “bruciato il cervello”. Degna di essere segnalata è la circostanza che in apertura è stata sollevata dal PM circa la richiesta di acquisire al dibattimento la parte del verbale di interrogatorio di Giuseppe Setola, redatto 11.11.2014, limitatamente alla parte nelle quali l’imputato spiega i motivi per i quali decideva di non collaborare più con la giustizia. “Non intendo più collaborare in quanto me lo ha chiesto mia figlia minorenne, che vive a Casal di Principe. Mia figlia non vuole andare via da Casal di Principe. E poi ho paura che uccidano anche mio fratello Pasquale e mio cognato Mario Baldascino”. Tuttavia, tale richiesta del P.M., Alessandro Milita, non viene ritenuta ammissibile dal giudice prima di ritirarsi in camera di consiglio per la decisione. Altro fatto molto importante per questo territorio, che per troppi anni è stato massacrato dalla camorra nell’indifferenza generale, è stato quello che le persone che volevano entrare in aula per assistere alla pronuncia della sentenza erano davvero tante. Associazioni e singoli cittadini, venuti anche da altre città. C’era Luigi Ferrucci della sezione di Castel Volturno dell’associazione intitolata proprio a Domenico Noviello. C’era l’imprenditore Pietro Russo della sezione di Santa Maria Capua Vetere, Geppino Fiorenza di Libera, ma soprattutto tanti, tanti familiari di vittime innocenti della criminalità. Così, intorno a Massimiliano, Maria Rita, Mimma e Matilde si sono strette soprattutto tante persone che come loro hanno avuto una analoga esperienza di morte: Antonio Diana, Pasquale Granata, Gennaro del Prete, Pasquale Scherillo e tanti, tanti altri. La sentenza riconosce, inoltre a tutti i familiari costituiti il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, come ha previsto il risarcimento degli enti che si erano costituiti in giudizio: Ministero dell’Interno, Regione Campania, Comune di Castel Volturno, Associazione Antiracket ALILACCO, Coordinamento Napoletane delle Associazioni Antiracket, Federazione Antiracket Italiana.

 

 

Fonte:  vivi.libera.it
Articolo del 15 maggio 2017
Domenico Noviello. Il coraggio di ribellarsi

I killer la mattina del 16 maggio del 2008 lo stavano aspettando nei pressi della rotonda della piazzetta di Baia Verde, a Castel Volturno, uno dei quartieri più affollati del litorale domizio. Qualcuno aveva già segnalato che era uscito di casa a bordo della sua Fiat Panda. Avrebbe preso un caffè al bar e poi si sarebbe recato, come sempre, nella sua autoscuola al parco Sementini. Proprio a fianco del commissariato di polizia di Castel Volturno. Non ci arrivò mai.

“Dovevo essere con lui nella stessa auto – racconta il figlio Massimiliano – andavamo sempre insieme al lavoro. Invece uscii alle 7, mezz’ora prima di mio padre, per andare a fare un po’ di footing in spiaggia. Chissà perché il destino ha voluto così. Se fossi andato con lui, a quest’ora non sarei qui. Mi manca molto, e questo mi fa stare male”.
Domenico Noviello nel 2001 aveva denunciato un tentativo di estorsione ai suoi danni da parte del clan Bidognetti. Con la sua testimonianza contribuì a far condannare il pregiudicato Pasquale Morrone, poi morto per cause naturali, e i fratelli Alessandro e Francesco Cirillo. Ora gliela dovevano far pagare. La sua morte avrebbe significato anche una lezione preventiva agli imprenditori che “non si erano messi in regola” con la camorra. E sul litorale domizio, territorio in mano al clan di Francesco Bidognetti, negli ultimi tempi erano diversi gli imprenditori che avevano avuto il coraggio di ribellarsi.

Un germe pericoloso quello del rifiuto di pagare che Setola e i suoi affiliati volevano stroncare subito. Bisognava dare un esempio e una lezione. Uccidere Noviello era semplicissimo. Non era protetto. Faceva sempre lo stesso percorso e non si aspettava proprio ora una vendetta della camorra dopo tanti anni dalla sua denuncia. L’agguato, insomma, avrebbe presentato pochi rischi. Fino al 2003 Domenico Noviello aveva una vigilanza sotto casa, un sistema di tutela per la sua testimonianza che era venuto meno. Così si era armato. Un regolare porto d’armi. Frequentava il tiro a segno. Si teneva in allenamento andando in palestra. Noviello conosceva il codice non scritto della camorra. Sapeva che prima o poi la vendetta di quelli che aveva denunciato sarebbe arrivata. Non sapeva quando e, in ogni caso, non li temeva. Continuava a fare le cose di sempre prestando solo più attenzione. La sua unica preoccupazione era che i familiari non venissero coinvolti nella ritorsione.

“Da me non avranno mai un soldo perché me li guadagno col sudore della mia fronte”, rispondeva a chi gli chiedeva di adeguarsi al comportamento di tutti gli altri imprenditori del territorio. Quella mattina, come sempre, alle 7,30 un caffè con la moglie e via con la sua Fiat Panda verso la Domiziana, in direzione Castel Volturno. Più avanti imboccò il viale che porta a Baia Verde. Alla piazzetta girò per viale Lenin, all’incrocio con via Vasari. Lo stavano aspettando un’auto e una moto di grossa cilindrata. Almeno 6 uomini armati, pronti a farlo fuori. Avevano studiato il percorso che faceva Noviello già da alcune settimane. Sapevano che doveva passare di lì. Le strade a quell’ora erano quasi deserte. I negozi chiusi. Noviello rallenta, perché a terra ci sono dei dossi. Due o più sicari lo raggiungono. Lo affiancano e aprono il fuoco con pistole di grosso calibro. Noviello riesce a fermare l’auto, ma i killer gli sono addosso. Tenta di prendere la pistola che porta con sé, ma non vi riesce. Gli arrivano tanti colpi. Cerca di fuggire. Apre la portiera dell’auto, ma fa solo pochi passi. Contro di lui i camorristi infieriscono con ferocia. Gli scaricano addosso almeno una ventina di proiettili. Cade a terra. Il suo corpo è vinto. Ma il rituale di morte impone anche il colpo di grazia. Gli esplodono tre colpi alla nuca. I camorristi scappano. Domenico Noviello, 64 anni, originario di San Cipriano di Aversa, muore in pochi attimi. I killer della camorra hanno compiuto la loro missione consegnando un messaggio forte e chiaro: “Chi si ribella alla camorra muore”. Gli altri imprenditori sono avvisati.

Ai suoi funerali, ci sarà pochissima gente. Pochi amici, pochi colleghi di altre autoscuole, pochi commercianti, poche autorità. “Mio padre non era uno che combatteva contro i mulini a vento. Non era neppure un eroe – si sfoga Massimiliano Noviello – Era un uomo che aveva molta dignità. Si è solo rifiutato di piegarsi alla legge dei violenti. Lo ha fatto per potersi guardare allo specchio e non provare vergogna. Lo ha fatto per non sentirsi umiliato.” Nella famiglia di Mimmo Noviello c’era già stato un precedente. Trent’anni prima il fratello della moglie era stato ammazzato a soli 33 anni, per lo stesso motivo.

«Quando sono andati a chiedere il pizzo a mio padre e lui ha detto che non voleva pagare, io sono stato d’accordo – dice Massimiliano – Non ce l’avrebbe fatta a vivere con quell’umiliazione. Pagare per lui avrebbe significato perdere la voglia di vivere. Ora il dolore per la sua morte, quello che ti dilania l’animo, quello che ti accompagnerà e segnerà per sempre tutta la vita, è insopportabile»
Massimiliano Noviello – figlio di Domenico

Ora i suoi assassini sono tutti in carcere. A Mimmo Noviello, il Comune di Castel Volturno ha intitolato una piazza proprio nel luogo in cui fu ucciso, e il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il 19 marzo del 2009 gli ha assegnato la medaglia d’oro al valore civile.

 

 

 

Fonte:  interno.gov.it
Nota del 16 maggio 2017
Domenico Noviello, voleva guardarsi allo specchio senza vergogna
Imprenditore italiano di 64 anni, originario di San Cipriano di Aversa, è un chiarissimo esempio di impegno civile e rigore morale fondato sui più alti valori di libertà e di legalità

Domenico Noviello viene barbaramente assassinato in un agguato camorristico il 16 maggio 2008 a distanza di alcuni anni dalla denuncia fatta a carico del clan dei Bidognetti nel 2001, per un tentativo di estorsione ai danni della sua autoscuola. Con la sua testimonianza contribuì a far condannare il pregiudicato Pasquale Morrone ed i fratelli Alessandro e Francesco Cirillo. La sua morte sarebbe stata una lezione per tutti quegli imprenditori che “non si erano messi in regola” con la camorra che dominava il litorale domizio in nome del clan Bidognetti. Un germe pericoloso quello del rifiuto di pagare, che Setola e i suoi affiliati volevano stroncare subito. Bisognava dare un esempio e una lezione. Uccidere Noviello era semplicissimo. Non era più protetto, essendo la vigilanza cessata nel 2003. Era un uomo semplice e abitudinario, inoltre non si sarebbe aspettato una vendetta della camorra dopo tanti anni oramai trascorsi dalla sua denuncia. Secondo il clan, l’agguato avrebbe presentato pochi rischi e sarebbe stato un forte segnale della loro presenza sul territorio. Domenico Noviello possedeva un regolare porto d’armi, conosceva il codice non scritto della camorra, temeva prima o poi una vendetta da parte dei suoi estorsori e tanta era la preoccupazione per i suoi familiari. La mattina dell’agguato Noviello è solo, contro di lui i camorristi infieriscono con ferocia, scaricandogli addosso almeno una ventina di proiettili, tenta di reagire, ma muore pochi attimi dopo.

Il figlio Massimiliano lo ricorda come un uomo che amava sentirsi libero e che per questo si è rifiutato di piegarsi alla legge dei violenti. Lo ha fatto per potersi guardare allo specchio e non provare vergogna, per non sentirsi umiliato. La frase che amava spesso ripetere era “non bisogna chinare il capo a chi con le minacce vuole rubarti la libertà e toglierti la dignità”.

Ora i suoi assassini sono tutti in carcere. La morte di Noviello non è rimasta però una sterile pagina dei giornali perché a Castel Volturno, luogo dell’agguato, è stata aperta la prima associazione antiracket del litorale domizio.

A Mimmo Noviello il Comune di Castel Volturno ha intitolato una piazza proprio nel luogo in cui fu ucciso e lo Stato ha riconosciuto il sacrificio della vittima con il conferimento da parte del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il 19 marzo del 2009 della medaglia d’oro al valore civile e con il riconoscimento dei benefici a favore dei suoi familiari previsti dalla legge n. 302/90 e il risarcimento disposto dalla legge n. 512/99, ad opera del Comitato di solidarietà per le vittime dei reati di tipo mafioso.

 

 

 

L’ altro casalese.
Domenico Noviello, il dovere della denuncia

di Paolo Miggiano

 digirolamoeditore.com

Ci sono storie che vanno raccontate. Per senso della memoria, perché rappresentano un pezzo importante della nostra storia. Vanno narrate anche quando accadono a Casal di Principe o a Castel Volturno. È terra del clan dei casalesi che, in un capovolgimento semantico e culturale, ha scippato il nome ad una comunità. Ma questi sono luoghi in cui vivono soprattutto tante persone perbene. Domenico Noviello era una di queste. Uno degli “altri Casalesi”. Uno dei veri Casalesi. In questo volume, Paolo Miggiano ne ripercorre l’impegno antiracket e la rettitudine morale, testimoniata oggi dai figli, che mostrano, con fragile fierezza, il loro dolore di sopravvissuti all’immane tragedia. L’altro Casalese è un libro sulla camorra e l’anticamorra, ma restituisce dignità narrativa a una persona che non si è chinata alle imposizioni dei clan. Quella di Domenico Noviello è una storia importante. Una storia non proprio troppo comune, ma che può ripetersi e accadere ovunque. La sua è la storia di un uomo che non voleva affatto diventare un eroe, ma essere solo un uomo normale. Noviello fu ucciso perché lasciato solo. Per la sua morte ci dobbiamo sentire tutti un po’ vittime, ma anche un po’ carnefici. Per questo la sua è una storia che dobbiamo conoscere.

 

 

 

 

La storia di Domenico Noviello e dell’importanza di denunciare.
Mattina 9 – 9 mag 2019

 

 

 

Fonte:  ireporters.it
Articolo del 4 novembre 2019
Omicidio Noviello, chiesto ergastolo per ‘Pasqualino coscia fina’. Sentenza il 25 novembre

Undici anni e tre rinvii di udienza. L’ultimo atto giudiziario dell’omicidio di Domenico Noviello, non è stato ancora scritto dalla Corte di Assise di Appello. Il Procuratore generale, stamattina, ha chiesto la condanna all’ergastolo per Francesco Cirillo alias ‘ Pasqualino Coscia fina’, confermando così la pena che gli era stata inflitta in primo grado ma che poi venne cancellata in appello per mancanza di prove. La sentenza è attesa per il 25 novembre.

I fatti

Un’assoluzione quella di Cirillo, che fece scattare il ricorso della Procura Generale di Napoli in Cassazione e rinviare il procedimento nuovamente alla Corte di Assise di Appello di Napoli prescrivendo di valutare in maniera più approfondita le dichiarazioni di Giuseppe Setola e del collaboratore di giustizia Luigi Tartarone, che in primo grado lo avevano accusato e fatto condannare. Cirillo era stato denunciato da Noviello per estorsione ed era stato a seguito di quella denuncia che in carcere era scattato lo spirito di vendetta in Giuseppe Setola evaso nel 2008 e tornato in provincia di Caserta per uccidere e seminare terrore. In nove mesi, uccise 19 persone al solo scopo di impaurire e riportare il controllo sul territorio del clan dei Casalesi. Per farlo si mise a capo di un gruppo di fuoco che aveva la sua ispirazione nella fazione camorristica di Francesco Bidognetti, alias ‘Cicciotto e mezzanotte’.

La scelta antiracket

Domenico Noviello, vittima innocente della camorra fu ucciso il 16 maggio del 2008, Massimiliano primo di quattro figli vive da 11 anni sotto scorta. L’autoscuola che gestiva con il padre a Castel Volturno, a pochi passi dal commissariato di polizia l’ha chiusa diverso tempo fa, lasciando anche il paese nel quale viveva con la sua famiglia. Ora vive a Formia ed è il presidente dell’associazione antiracket di Castel Volturno, intitolata a suo padre. “Mi aspetto una condanna esemplare perché un omicidio non può essere lasciato impunito nemmeno per una piccola parte”, ha detto Massimiliano Noviello in attesa della sentenza che scriverà l’ultimo capitolo. In Tribunale, insieme ai familiari anche le associazioni Fai Antiracket ed il Comitato don Peppe Diana, parti civili fin dal primo momento. Le pene in primo grado furono chieste dall’allora pm della DDA di Napoli, Alessandro Milita mentre la sentenza venne firmata dalla corte presieduta dal giudice Maria Alaia.

 

 

Fonte: napoli.repubblica.it
Articolo del 16 dicembre 2019
Omicidio Domenico Noviello, condannato a 30 anni di carcere Francesco Cirillo, uno degli esecutori
di Raffaele Sardo
A Napoli sentenza secondo grado dopo ricorso Procura Generale. L’imprenditore fu ammazzato il 16 maggio del 2008 a Castel Volturno, poco lontano dalla sua abitazione. La figlia: “Cercavo giustizia non vendetta”

I giudici della V Sezione Corte di Assise di Appello del Tribunale di Napoli, hanno condannato alla pena di 30 anni di carcere Francesco Cirillo, conosciuto con il soprannome di “coscia fina”. Cirillo è stato ritenuto colpevole di aver fatto parte del commando di camorra . guidato da Giuseppe Setola, che il 16 maggio di 11 anni fa uccise in località Baia Verde, a Castel Volturno, l’imprenditore Domenico Noviello. I camorristi gli scaricarono addosso più di 20 colpi di pistola. L’imprenditore originario di San Cipriano di Aversa, si era rifiutato di pagare il pizzo e aveva anche denunciato Cirillo e altri camorristi.

Alla lettura della sentenza, in aula c’erano i figli di Noviello, Massimiliano, Mimma, Matilde e Maria Rosaria. Al loro fianco anche i rappresentanti della Fai antiracket, il Coordinamento dei familiari delle vittime innocenti della criminalità organizzata, Il Comitato don Peppe Diana e numerosi amici dei figli di Noviello.

Il processo contro Cirillo è stato più lungo di quello degli altri componenti del commando che quella mattina uccise l’imprenditore, titolare di un’avviata scuola guida. Per tutti gli altri, infatti, le condanne già sono definitive. Cirillo condannato in primo grado all’ergastolo, fu assolto invece in secondo grado. La Procura Generale di Napoli fece ricorso in Cassazione, che rinviò il procedimento di nuovo alla Corte di Assise di Appello di Napoli. E oggi la sentenza che lo condanna a 30 anni di carcere.

“Questa sentenza credo sia giusta conferma che Cirillo ha fatto la sua parte contro papà; non ho mai cercato vendetta ma giustizia, anche per il bene di una verità processuale che faticava ad emergere”. Così Mimma Noviello, figlia di Domenico Noviello, l’imprenditore ucciso dal clan dei Casalesi, dopo la condanna comminata oggi dalla Corte di Assise di Appello di Napoli a Francesco Cirillo, una delle persone che prese parte a quel feroce assassinio.

Nel corso della requisitoria del 4 novembre scorso, il sostituto procuratore generale generale presso la Corte d’Appello di Napoli Carmine Esposito aveva chiesto l’ergastolo, spiegando che “la figura di Francesco Cirillo non è stata secondaria ma determinante per la realizzazione dell’omicidio di Domenico Noviello”.

Presenti in aula i figli dell’imprenditore, il primogenito Massimiliano, sotto scorta, Rosaria, Mimma e Matilde.

 

 

 

Fonte: mafie.blogautore.repubblica.it
Articolo del 6 aprile 2020
Domenico e il “pizzo” della camorra
a cura di Massimiliano Noviello e Alessia Pacini

Domenico Noviello ha un’autoscuola che gestisce insieme al figlio, Massimiliano. È il 2001 quando la Camorra inizia a interessarsi alla sua attività. L’obiettivo del clan era chiaro: il pizzo. Domenico, insieme alla famiglia, decide di denunciare e di aiutare la giustizia. Grazie alla sua collaborazione, cinque affiliati vengono arrestati, tra cui Pasquale Morrone, Alessandro e Francesco Cirillo, oggi condannato a 30 anni di carcere.
È il 16 maggio 2008 e Domenico si sta recando a lavoro, quando due sicari affiancano la sua macchina, aprendo il fuoco. Domenico cerca di fuggire, ma non ci riesce. Viene ucciso da 22 colpi di pistola e finito con tre colpi alla nuca: il mandante è Giuseppe Setola, dei Casalesi.

Quando vidi il corpo di mio padre a terra iniziai a farmi delle domande. Perché mio padre fu ucciso? Per quale motivo arrivammo a quel punto? Capii subito che la causa dell’uccisione di papà fu l’isolamento. Un pensiero che divenne poi sempre più chiaro quando iniziai a conoscere le storie delle persone del coordinamento campano dei familiari delle vittime innocenti della criminalità. Cercavo una risposta e trovai una conferma: ad accomunarle tutte era l’emarginazione.

Tutto ebbe inizio nel 2001. Io e mio padre gestivamo un’autoscuola, un’agenzia di pratiche auto e una scuola nautica a Castel Volturno che fa mediamente 25.000 abitanti. Prima del decreto Bersani, per ogni comune ci doveva essere un’autoscuola ogni 25.000 abitanti e quindi la nostra era la sola attività di quel tipo sul territorio. Un dettaglio importante per la mia storia.
L’autoscuola si trovava accanto al commissariato di polizia, a soli 100 metri di distanza dalla caserma dei carabinieri, ma questo non fece alcuna differenza quando, nel periodo di Pasqua, ricevemmo la visita da parte della criminalità organizzata. Il perché fu subito chiaro: volevano il pizzo, la tassa della tranquillità. Il primo a essere avvicinato fui io. A scuola entrò un mio coetaneo, dicendomi di dover duplicare la patente, ma la verità era un’altra: suo cugino era latitante e voleva parlare con mio padre. Era una richiesta insolita, mi allarmai. Quel giorno papà stava svolgendo delle pratiche ed era fuori ufficio, gli riferii l’accaduto quando rientrò. Da genitore, mi tranquillizzò: “non ti preoccupare, vediamo cosa succede”, mi disse.

La seconda volta arrivarono in due: il messaggio era chiaro e iniziammo a riflettere su ciò che stava accadendo. Ci vollero far capire che alle spalle avevano un’organizzazione criminale, non era il volere di un singolo individuo. All’epoca si poteva ancora pagare in lire e ce ne chiesero 30 milioni. Mio padre temporeggiò, prese tempo e ne discutemmo in famiglia. La sua posizione era chiara: non avrebbe pagato. Non si trattava di una questione economica, ma di dignità.

Fu a questo punto che gli feci notare quel dettaglio: dati gli abitanti di Castel Volturno, la nostra era la sola autoscuola nel comune, con una media di cinquecento patenti l’anno. Se la nostra fosse stata una famiglia diversa, si sarebbe messa d’accordo con la criminalità organizzata. Ma mio padre non solo decise di non pagare il pizzo e non chinare il capo a chi con la forza voleva togliergli la libertà, decise anche di collaborare con la giustizia. Nonostante il commissariato di polizia fosse proprio accanto all’autoscuola, decidemmo di parlare con la squadra mobile di Caserta, perché ci lavorava una persona che conoscevo. Dovemmo denunciare entrambi perché entrambi fummo avvicinati. Scoprimmo così che il cugino di questo mio coetaneo ricopriva un ruolo importante nella mafia locale e l’obiettivo della squadra mobile era incastrare manovalanza e capi. Mio padre era molto preoccupato: è insolito che a esporsi per una stessa denuncia siano due persone, in quella situazione addirittura padre e figlio.

Dopo la denuncia nell’autoscuola furono installate microspie e telecamere, fuori si trovava un furgone con agenti che registravano tutto, dovevano essere colti in flagrante. Inizialmente non fu facile raccogliere le prove: queste persone entrarono per parlare con mio padre e il mio compito era quello di far avviare la registrazione. Nel 2001 le attrezzature non erano avanzate come quelle di oggi e in un’occasione non si ottenne alcuna prova e con una scusa mio padre dovette farli tornare per far ripetere la richiesta.
Una volta ottenuta la registrazione, concordammo la data di consegna del denaro. Dal Ministero non arrivarono in tempo le banconote, quindi dovemmo svincolare delle somme personali, ogni banconota venne fotocopiata e siglata da mio padre. L’appuntamento fu dato in un bar. Dopo aver consegnato i 30 milioni di lire mio padre uscii fuori e si toccò la testa con la mano: era il segnale per la mobile.
Queste persone furono arrestate sul posto e condannate a sette anni di galera, di cui scontarono solo quattro grazie all’indulto.

Da quel momento, noi perdemmo la serenità. Mio padre era più protettivo e presente. Non temevamo per la nostra incolumità, ma ci aspettavamo danni all’immobile, alle attività, ai veicoli. Dopo la denuncia io e mio padre usufruimmo del porto d’armi per difesa personale. Avevo venticinque anni e per difendermi dovevo camminare con una pistola 9×21, dovevo iniziare a guardarmi intorno, a osservare i veicoli intorno a me. A venticinque anni si pensa alla discoteca, ai locali a divertirsi, non si pensa di poter perdere la serenità.
A mio padre venne anche data una sorta di tutela, tolta dopo tre anni e sostituita con una saltuaria vigilanza. Nei primi sei mesi dall’arresto subimmo anche un danno economico a causa di un calo degli iscritti, ma fu temporaneo perché poi nel tempo le cose si tendono sempre a dimenticare. Venimmo però isolati dalla cittadinanza, dalle associazioni di categoria: nessuno fece una dichiarazione a nostra difesa, né tanto meno l’associazione commercianti, niente. Fummo isolati, senza che ce ne rendessimo conto. Ma il nostro obiettivo era continuare a fare il nostro lavoro.

Passò del tempo e dopo sette anni, il 16 maggio del 2008 mio padre venne barbaramente assassinato con oltre ventidue colpi di arma da fuoco: furono in dieci a uccidere un uomo di 64 anni. Persi la mia guida, persi il solo amico che mi era rimasto a fianco dopo la denuncia.

Quella mattina ricordo che io uscii prima di mio padre perché mio cognato mi chiese di andare a correre con lui. Abitavamo nella stessa casa, una villetta a due piani e spesso ci recavamo a lavoro insieme, fu una fatalità per me non uscire con lui. Quando rientrammo, mio cognato mi disse che mio padre aveva avuto un incidente a Baia Verde, a un chilometro da casa. Mi misi in macchina e iniziai a telefonargli: ero arrabbiato e agitato, ma mai mi sarei aspettato di arrivare e vedere mio padre in una pozza di sangue.

Non fu facile spiegare ai miei figli che il loro nonno non c’era più. Ancora oggi mi chiedono perché nonno Mimmo, un nonno così giovane, sempre attivo, che amava giocare con i nipoti, sia stato portato via da loro. Vivevamo con i miei genitori e improvvisamente quella casa divenne più vuota per i miei figli. La morte per i bambini è difficile da comprendere. Una morte così, impossibile.

Quello fu un periodo stragista. Nel 2008 ci furono diciotto omicidi, tra cui anche la strage dei nigeriani. In quel periodo l’attenzione mediatica era molto alta, quindi l’allora Ministro degli Interni Maroni con il sottosegretario Alfredo Mantovano decise di mandare l’esercito nelle nostre zone. L’obiettivo era quello di trovare questi delinquenti e così nacque un nucleo operativo a Casal di Principe. I criminali vennero individuati, arrestati e poi condannati. Questo non mi ridà papà, ma posso dire di sapere i nomi dell’esecutore e del mandante del suo omicidio. Non tutti i parenti di vittime di mafia possono dire lo stesso.

Io e la mia famiglia ci siamo costituiti parte civile nel corso del processo, insieme al Ministero degli Interni, a varie associazioni antiracket, al comune, alla regione e al comitato Peppe Diana. Durante il processo scoprimmo che mio padre fu ucciso per due motivazioni: aveva osato sfidare il clan e per questo doveva morire, ma anche perché era molto conosciuto sul territorio la sua morte doveva servire da monito per gli altri imprenditori. Il messaggio che volevano trasmettere era chiaro: questa è la fine che fanno gli imprenditori che vogliono sfidare la criminalità organizzata.

Non è facile comunicare il dolore e la rabbia di sentirsi lasciati soli, isolati. È stato l’isolamento ad aver trasformato mio padre in un bersaglio, sovraesponendolo. Dopo due giorni dalla morte di papà conobbi Tano Grasso: mi disse che il suo progetto era quello di fondare un’associazione antiracket in suo nome, la F.A.I. Fui onorato di poter partecipare a un progetto del genere, avere la possibilità di dare una mano ad altre vittime del racket, poter accompagnare gli imprenditori nelle aule per i processi, aiutarli con l’assistenza legale e nel risarcimento in caso di danni economici, come previsto dalla legge 44/49. Non ci sono scuse per non denunciare. Oggi sono il Presidente dell’associazione antiracket di Castel Volturno, Presidente onorario dell’associazione antiracket della Campania. Non mi tiro indietro nelle scuole e nel portare testimonianze perché è importante che ci sia un cambiamento ed è importante conoscere queste storie affinché non si ripetano, è cruciale che i ragazzi lo capiscano.

Papà è stato insignito della Medaglia d’oro al valore civile, la massima onorificenza che si dà a un civile, io ne sono onorato, ma mio padre è stato premiato per aver fatto semplicemente il proprio dovere. La verità è che dev’esserci un cambiamento di tendenza: la normalità dovrebbe essere la denuncia, sempre. Oggi non c’è bisogno di sovraesporsi, ci sono molti metodi e anche molto semplici come inviare una Pec o un’email alla procura: i canali non mancano.

Si è soliti associare la criminalità a un uomo con il mitra e la pistola, ma oggi la mafia si nasconde dietro ai colletti bianchi. Non è un caso che Giuseppe Setola, uno dei mandanti dell’omicidio di mio padre, si trovasse fuori dal carcere nel 2008. Setola era recluso al 41 bis ma, per 50mila euro, un medico compiacente dichiarò il falso facendolo trasferire in una clinica perché potesse godere delle cure adeguate. Da qui Setola scappò per commettere diciotto omicidi. L’obiettivo era trasmettere un segnale al territorio: alcuni collaboratori stavano iniziando a infangare il clan, che stava perdendo credibilità. L’ultimo di questi omicidi fu quello di mio padre.

Quando parlo ai ragazzi cerco sempre di trasmettere questo messaggio: mio padre è stato ucciso perché lasciato solo ed è contro l’isolamento che dobbiamo sensibilizzare. Penso che il territorio non abbia bisogno né di simboli né di eroi, penso che basti fare il proprio dovere. Cerco di far capire ai ragazzi che ciò che è successo a me può succedere di nuovo e spiego loro la nuova pelle della mafia: mentre prima chiedeva denaro sotto forma di estorsione, oggi invece dà servizi. Un esempio molto semplice sono i sacchetti della spesa: se distribuiti in maniera capillare per Castel Volturno, si ottiene il monopolio sul territorio, ormai contaminato. In questi casi, non si riesce più a inserirsi con attività legali.

Per questo motivo insieme a Gennaro di Prete, conosciuto all’interno del coordinamento dei familiari delle vittime, ho creato “Cop21”, una cooperativa che si occupa di commercializzazione e diffusione di shopper biodegradabili e compostabili. Insieme a Legambiente abbiamo girato lo spot “Un sacco giusto” con Fortunato Cerlino, l’attore che interpreta don Pietro Savastano in Gomorra. Volevamo veicolare il messaggio a tutti e far riflettere su come dietro a un sacco della spesa si può nascondere la mafia che gestisce il monopolio della plastica, non solo al sud ma in tutta Italia. Si pensa che la filiera legale arrivi a perdere un fatturato di oltre 160milioni di euro.

Mio padre è stato riconosciuto da subito come vittima innocente, non ho dovuto lottare: basti pensare che la Medaglia d’oro al Valore civile gli è stata data il 17 marzo del 2009 e il processo non era ancora iniziato. Quindi era già un dato di fatto: il Ministero gli ha riconosciuto la massima onorificenza prima della sentenza e non avevamo nessun dubbio su quale fosse la causa. Mi chiesero anche se volessi entrare nel programma di protezione, ma rifiutai. Ricordo che Alfredo Mantovani me lo chiese due volte e la mia risposta fu negativa: non dovevo essere io a cambiare nome e cognome, hanno un’importanza e una storia e non sono io a dover scappare dal territorio, non sono io che devo fuggire.

Spero che l’esempio di mio padre venga portato avanti: dopo un anno si viene dimenticati, dopo undici eliminati. Io, invece, voglio che il messaggio si faccia sempre più forte: si può e si deve lottare, insieme.

 

 

 

 

Domenico Noviello – La scelta di Mimmo
Cose Nostre – RaiPlay – 06/2020
La puntata è dedicata a Domenico Noviello, un uomo onesto e perbene che ha avuto il coraggio di denunciare il clan dei Ca salesi per estorsione, clan che gestiva ogni settore produttivo, dagli esercizi commerciali, alle imprese, agli appalti pubblici, dal traffico di stupefacenti a quello dei rifiuti. La scelta di Mimmo Noviello in quest’ottica criminale doveva essere puni ta in modo eclatante. Cade così un uomo innocente che ha difeso il suo lavoro e non ha esitato a schierarsi dalla parte della legalità. Un programma di Emilia Brandi Scritto da Emilia Brandi, Vincenza Berti, Sergio Leszczynski, Federico Lodoli, Fulvio Paglialunga, Carlo Puca Produttore Esecutivo Gloria Piazzai Regia di Raffaele Maiolino

 

 

Leggere anche:

 

vivi.libera.it
Domenico Noviello – 16 maggio 2008 – Castelvolturno (CE)
Ci sono due parole che riassumono la vicenda di Domenico Noviello: libertà e tempo. Sono gli elementi chiave della vita e del destino tragico di un uomo onesto e coraggioso, che ha scelto di non piegarsi alla logica perversa della camorra.

 

 

napoli.repubblica.it
Federazione antiracket ricorda Domenico Noviello, ucciso 14 anni fa per aver denunciato i suoi estorsori
di Raffaele Sardo
Intervista a Luigi Ferrucci, presidente nazionale della Fai che come Noviello si ribellò al racket: “Agli imprenditori dico: denunciate. Dopo tanto dolore non diamo la possibilità ai clan di riorganizzarsi”. Alle celebrazioni anche il neo procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo

 

 

 

 

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