19 Agosto 1949 Palermo. Strage di Passo di Rigano – Bellolampo. Restarono uccisi i Carabinieri: Giovan Battista Aloe, Armando Loddo, Sergio Mancini, Pasquale Antonio Marcone, Gabriele Palandrani, Carlo Antonio Pabusa e Ilario Russo.

Strage dei Carabinieri di Passo di Rigano – Bellolampo (PA) 19 agosto 1949
La strage si inquadra nel difficile contesto del secondo Dopoguerra. L’eccidio fu consumato alle 21.30 del 19 agosto 1949 in quella che allora era una piccola borgata alle porte di Palermo, posta sulla strada provinciale SP1 di accesso alla città provenendo da Partinico e Montelepre. Una strada, dunque, di obbligato passaggio. Qui il bandito Salvatore Giuliano, detto “Turiddu”, fece esplodere una potente mina anticarro, collocata lungo la strada. La deflagrazione investì l’ultimo mezzo, con a bordo 18 carabinieri, di una colonna composta da 5 autocarri pesanti e da due autoblindo che trasportavano complessivamente 60 unità del “XII Battaglione Mobile Carabinieri” di Palermo. L’esplosione dilaniò il mezzo e provocò la morte di sette giovani carabinieri. Provenivano da varie città italiane: Giovan Battista Aloe, classe 1926, da Cosenza, Armando Loddo, classe 1927, da Reggio Calabria, Sergio Mancini, classe 1925, da Roma, Pasquale Antonio Marcone, classe 1922, da Napoli, Gabriele Palandrani, classe 1926, da Ascoli Piceno, Carlo Antonio Pubusa, classe 1926, da Cagliari, e il più giovane, Ilario Russo, classe 1928, da Caserta. Quel tragico pomeriggio i militari dell’Arma delle caserme “Carini” e “Calatafimi” erano pronti per uscire in permesso serale quando giunse la notizia dell’ennesimo attacco, con l’utilizzo di mitragliatrici e bombe a mano, della banda Giuliano alla caserma dei carabinieri dell’isolata località di Bellolampo. Erano le 18. Giunti a Bellolampo, effettuarono il rastrellamento dell’area insieme a un piccolo contingente di agenti di pubblica sicurezza, giunto a bordo di “camionette”. L’esito negativo li convinse verso le 21 a rientrare. Il piano di attacco del bandito Giuliano prevedeva però una esecuzione in due tempi: l’attacco dimostrativo alla caserma di Bellolampo, con lo scopo di attirare le forze di polizia in una zona particolarmente adatta all’agguato; la strage della colonna sulla via di ritorno. ( vivi.libera.it )

 

 

Articolo del 21 Agosto 1949 da L’Unità 
Salgono a sette i carabinieri morti nell ‘ imboscala dei banditi presso Palermo
di Giuseppe Speciale
Capi e favoreggiatori dei fuorilegge restano impuniti mentre si procede a centinaia di arresti indiscriminati tra i lavoratori

PALERMO 20. – Con la morte del giovanissimo carabiniere Ilario Russo, del distretto di Caserta, avvenuta nelle prime ore di stamattina, all’ospedale Militare di CorsoCalatafimi, il numero complessivo degli agenti vittime dell’attacco brigantesco di ieri sera è salito a 7. Questi caduti si aggiungono agli altri 93 che il banditismo ha ucciso negli ultimi quattro anni, senza contare i feriti che hanno ormai oltrepassato le due centinaia.

I corpi straziati degli ultimi morti giacciono ora in una stanza dell’ospedale militare in attesa che i rappresentanti ufficiali del governo compiano la -visita di prammatica.

I funerali avranno luogo nel pomeriggio di domani, alle ore 17. Ad essi presenzierà il sottosegretario Marazza avendo Scelba deciso di non venire a Palermo. I due si sono fatti vivi fin da stanotte con l’ordine perentorio di procedere ad arresti in massa in tutta la zona dalla periferia di Palermo a Torretta.

L’ordine è stato puntualmente trasmesso dall’Ispettorato P.S. agli organi dipendenti e da stanotte è un continuo affluire alle caserme dei carabinieri e della polizia di centinaia di vermati, uomini e donne.

Arrivano pigiati sul camion e vengono ammassati nei lunghi cameroni. Nessuno sa cosa farne di tutta questa gente strappata alle proprie case per un ordine assurdo. Non sanno nulla della strage. Gli stessi funzionari che li interrogano sono convinti che con questo sistema non riusciranno a cavare un ragno dal buco.

— E’ inutile tutto ciò — diceva uno di essi stamane — l’abbiamo visto nelle passate occasioni. E’ probabile, invece, anzi è quasi sicuro, che mentre noi rastrelliamo tutta questa gente, i veri responsabili dell’eccidio se ne stiano a prendere il gelato in qualche bar di Via Buggero o di Piazza Castelnuovo ».

— Quali metodi opporrete alla  nuova tattica, così tragicamente inaugurata dai banditi ieri sera? ­— abbiamo chiesto a bruciapelo al nostro interlocutore

­ E che vuole che le dica! Scelba ci dovrà pensare.

In verità, questo stato d’animo di profondo scoramento è spiegabile. Quello che è avvenuto ieri, dalle ore 18 alle 22,30 nel tratto di strada che si snoda una chilometro circa dal centro di Palermo fino a Bellolampo che è posta nella parte nord dei Monti della Conca d’Oro, prova non solo che il banditismo dispone di una forza notevolmente superiore a quella del passato, ma che essa è operativamente superiore alla polizia.

Il piano di attacco dei banditi, esaminato ora a mente fredda, risulta diabolicamente perfetto. Giuliano mirava a liquidare con un unico colpo tutto l’apparato dell’Ispettorato Generale di Polizia e per poco non c’è riuscito. Se infatti il dott. Verdiani, il Generale dei Carabinieri Polani,  i1 Vice questore addetto all’Ispettorato sono ancora vivi, ciò si deve unicamente a questo fortunato particolare; che il vetro dello sportello della macchina, a bordo della quale essi viaggiavano, diretti verso Passo di Rigano, era chiuso.

L’esplosione della bomba a mano è cosi avvenuta all’esterno, mentre se fosse avvenuta  all’interno, l’effetto sarebbe stato disastroso. L’azione dei banditi prevedeva tre fasi: la prima, la sparatoria contro la caserma di Bellolampo, aveva lo scopo di attirare in una zona particolarmente adatta per l’agguato il grosso delle forze di polizia che presidiano Palermo e nelle altre zone viciniori. –

Questo scopo e stato raggiunto. Non appena infatti i carabinieri di Bellolampo hanno telefonato allo Ispettorato, da Palermo partivano una colonna autoblindo della Legione dei CC e il Reparto di Pronto Impiego dell’Ispettorato, mentre da Torretta, da Partinico e da Montelepre accorrevano altri reparti. Rastrellamenti nelle vicinanze della caserma, nessun risultato. Dei tre o quattro banditi che avevano avuto il compito di far l’azione dimostrativa, nessuna traccia. Entra a questo punto in azione il secondo gruppo di banditi col compito di portare la strage nella colonna già sulla via del ritorno.

La zona di Passo di Rigano è stata prima della guerra rimboschita con cipressi che ormai sono sufficientemente sviluppati Al riparo di questi, hanno sostato per tutta la durata del rastrellamento a Bellolampo altri due o tre banditi. Costoro hanno ingannato il tempo giucando a carte e bevendo birra (numerose bottiglie vuote e un mazzo di carte da gioco sono stati trovati stamattina sul luogo).

I banditi hanno posto sul bordo della strada una grossa mina (pare di fabbricazione americana), l’hanno legata con un filo di ferro e poi sono ritornati nel boschetto a bere e a giuocare. Quando i primi 4 gipponi della polizia avevano oltrepassato la zona, i banditi hanno tirato il filo e la mina è andata a finire fra le ruote posteriori dell’ultimo camion che era carico di Carabinieri. L’urto l’ha fatta scoppiare.

L’azione però non era ancora finita. I banditi sapevano che altre forze sarebbero accorse da Palermo al comando stavolta dei pezzi grossi dell’Ispettorato.

Pochi minuti dopo, a circa 300 metri da Piazza Noce, a un chilometro circa, cioè, da Via Ruggero VII, altri tre o quattro, fuorilegge entravano in azione. Appostati dietro i muri che costeggiano la strada che porta a Para di Rignano, hanno lanciato numerose bombe contro la macchina dell’Ispettore Verdiani, facilmente riconoscibile per le forme della carrozzeria e per l’antenna radio posta all’esterno.

I banditi lanciavano quindi bombe e sparavano raffiche di mitra contro una « 1100» Fiat che seguiva la macchina del Verdiani. Poi si dileguavano attraverso gli agrumeti in quel punto particolarmente fitti. Il resto è noto.

E’ inutile ridire quello che pensa il popolo siciliano di questi fatti. I suoi sentimenti sono ormai noti. I giornali governativi invece stamattina hanno pianto le solite ipocrite lacrime che non commuovono più nessuno, mentre il governo regionale non si è fatto vivo che attraverso la visita di Restivo alle vittime. L’unico avvenimento importate è la deliberazione della presidenza del gruppo parlamentare del Blocco del Popolo. Esso dopo aver espresso la sua completa solidarietà a favore delle vittime della grave strage, dopo aver condannato la politica del governo centrale e di quello regionale, dei gruppi di maggioranza che recentemente hanno respinto la mozione sull’ordine pubblico, ha deciso di riaprire al Parlamento siciliano il dibattito sulla mafia e sul banditismo, sicuro di avere nel paese l’appoggio di tutta la popolazione ed all’Assemblea il consenso dei deputati che, al di sopra dell’interesse di partito pongano l’interesse supremo della regione siciliana.

 

 

 

Fonte: archivio.unita.news
Articolo del 23 agosto 1949

Le salme dei carabinieri sottratte al commosso omaggio del popolo
Il governo vuole soffocare l’ndignazione dei lavoratori siciliani.
Le sette bare fatte uscire alla chetichella da una porta secondaria del Duomo di Palermo – Centinaia di arresti indiscriminati effettuati dalla Polizia.

«Tutti i componenti della banda (di Giuliano) sono stati intravisti molte volte a Palermo. Noi sappiamo che Giuliano è protetto dalla mafia di Palermo e ospitato in città da famiglie molto in vista».

«La mafia nelle recenti elezioni si è appoggiata a certi partiti politici per cui oggi trova spesso protezione, sia pure mascherata, in alte personalità».

Queste che riportiamo sono due citazioni dal rapporto del generale dei carabinieri Branca sulla situazione della sicurezza pubblica in Sicilia. Noi le dedichiamo al giornale «Il Tempo», il quale chiede a «l’Unità» le prove delle alte complicità di cui godono i banditi.

Le prove chiede «Il Tempo»?
Può averle subito, solo che si rivolga a Scelba, il quale come
Ministro degli Interni deve aver avuto nelle mani il rapporto del
generale Branca, in cui sono affermazioni dieci volte più gravi e più precise di quanto sia stato scritto su «l’Unità».

Le prove chiede «Il Tempo»?
Qualche mese fa i deputati siciliani di opposizione hanno chiesto al Senato e alla Camera una inchiesta parlamentare sulle cause e gli aspetti del banditismo siciliano. Due volte è stata avanzata la proposta d’inchiesta. In quella sede Li Causi affermò che egli possedeva elementi e informazioni, che era pronto a mettere a disposizione della eventuale commissione incaricata dell’indagine. Scelba e i deputati della maggioranza rifiutarono la inchiesta, malgrado ad essa fosse stato tolto ogni carattere di sfiducia verso il governo. Scelba affermò allora che il problema del banditismo in Sicilia era da considerare ormai solo un affare di ordinaria amministrazione. La unica conclusione a cui si può giungere oggi, – dopo i delitti rinnovati, dopo le stragi, dopo l’offensiva di Giuliano in pieno sviluppo, è in questa alternativa: o
Scelba è un cretino e non sa fare il ministro degli Interni oppure egli respinse consapevolmente la possibilità di far luce sulle complicità che denunciava l’opposizione.

Le prove chiede «Il Tempo»?
Ma se bruciano agli occhi di tutti gli italiani! Donde vengono le armi, le radio, persino le imbarcazioni? Donde vengono le informazioni preziose, che consentono al bandito di organizzare in maniera cronometrica l’attacco contro la persona stessa del capo della polizia in Sicilia, uscito qualche minuto prima dalla sua sede? Sono i disgraziati contadini di Montelepre ad assicurare questa macchina perfetta che permette al fuorilegge non solo di battere sanguinosamente, ma di ridicolizzare l’apparato di polizia?
Basta formulare la domanda per avvertirne il ridicolo.

Puntare le rappresaglie terroristiche contro quelle popolazioni e
quei disgraziati contadini significa non solo commettere un errore
delittuoso, ma, più ancora, voler confondere e occultare le vere,
decisive responsabilità. «Se dovessimo dare un nome a queste azioni di polizia le chiameremmo la strage degli innocenti: non si vince la battaglia contro il banditismo mandando in galera il contadino che ha visto passare un gruppo di fuorilegge..: ». Citiamo dalla «Voce Repubblicana» e dedichiamo la citazione al « Il Tempo», da due giorni in foia di leggi eccezionali.

Il «Tempo» infine dichiara falsa la nostra affermazione secondo cui si colpiscono le popolazioni e si lasciano indisturbati gli alti protettori e ispiratori della azione dei banditi. Un esempio fra mille ai tartufi del «Tempo»: nel settembre del 1944 in quel di Villalba i mafiosi organizzarono e realizzarono, dinanzi agli occhi di tutti, un vigliacco attentato contro Girolamo Li Causi, mentre parlava nella piazza del paese. Li Causi e altri cittadini ne portano il segno sulle loro carni. Ebbene a cinque anni dall’attentato il rpimo responsabile, don Calò Vizzini, e i suoi complici, non sono stati ancora assicurati alla giustizia e il don Calò può girare ancora a piede libero nell’isola malgrado gli accertamenti in sede istruttoria abbiano pienamente provato la sua responsabilità!

Si informi il «Tempo» da Scelba sulla figura di questo don Calò e
sulla rete che lo lega a tutta l’agraria siciliana

[illegibile]

una turpe macchia un governo e un regime. Il problema oggi non è di appurare le cause da cui si origina il banditismo siciliano, che furono già denunciate settant’anni fa persino da un conservatore, il Sonnino; il problema è di decidersi a combatterle.
Noi affermiamo che questo governo non ha alcuna intenzione di farlo, poiché, se lo facesse, sarebbe costretto a colpire forze che lo hanno condotto al potere e che lo sostengono. Perciò noi diciamo agli italiani, indignati e commossi per la strage di Bellolampo, che si tratta di levarsi non solo contro Giuliano ma anche contro il governo che non sa e non può colpirlo.
Speculazione politica? No: rispondenza alla realtà.
P. t.

 

I funerali di Palermo
di Giuseppe Speciale

Palermo, 22 — Il popolo di Palermo non ha potuto assistere stamane ai funerali dei 7 carabinieri massacrati dai banditi di Giuliano sullo stradale di Bellolampo: è restato tutta la mattinata sotto un sole feroce ed ostinato, fermo e silenzioso dietro i cancelli incatenati del Duomo, circondato da agenti armati.

Tutta la Via Vittorio Emanuele rigurgitava di una folla in angoscia. Mai forse tante donne e tanti bambini erano partiti dai quartieri operai e dai rioni più lontani della città per arrivare ai Quattro Canti dove hanno aspettato inutilmente che sfilasse il corteo funebre. Vana è stata anche l’attesa di tutti gli operai delle fabbriche palermitane che hanno sospeso il lavoro per rendere omaggio ai caduti.

Terminata la Messa funebre, officiata personalmente dal Cardinale Ruffini, le 7 bare, avvolte nelle solite – sbiadite bandiere tricolori
(quante bare, quanti morti hanno coperto queste vecchie bandiere!) sono state portate fuori da una porta secondaria del tempio e caricate su camionette militari che a corsa pazza sono sparite in un baleno lasciandosi dietro un grande polverone e l’indicibile strazio delle donne e degli uomini presenti.

Le donne di Palermo hanno pianto questi carabinieri come loro figli e mentre scrivo restano ancora ferme nelle strade a rammaricarsi per la fretta con la quale sono stati celebrati i funerali. Solo queste madri del popolo hanno saputo piangere i morti. I loro nomi non saranno certamente ricordati sulle cronache dei giornali che pur faranno l’elenco scrupoloso delle autorità civili, militari ed ecclesiastiche presenti alla cerimonia.

Il sottosegretario Marazza, abituato ormai a calare in Sicilia con un volto atteggiato alla mestizia d’obbligo, non ha perduto l’occasione per farsi tradurre e spiegare dal Sindaco Cusenza il latino barbaro delle lapidi murate all’ingresso del Duomo, mentre cercava di assumere un atteggiamento disinvolto davanti alla macchina da presa dell’INCOM.

Poi la chiesa si è fatta deserta: sul pavimento sono rimasti i fiori calpestati, le 40 macchine lucidissime hanno acceso i motori e via
di corsa, mentre la Celere cercava di contenere la folla che attendeva il formarsi del corteo. Così si è cercato di impedire che la città si
domandasse perché ancora tanto sangue è stato versato, perché la piaga del banditismo si allarga sempre più malgrado l’incosciente ottimismo del Ministro di Polizia che con sadica ostinazione annuncia ormai da anni l’agonia del banditismo in Sicilia.

Chi sono i responsabili di tutto questo sangue? Che cosa ha voluto significare la presenza dell’accaldato sottosegretario Marazza a
queste affrettatissime, clandestine esequie? E’ venuto forse per prendere visione ancora una volta della natura ideologica del triangolo
della morte? Diranno ancora i generali e gli strateghi della polizia, nelle loro conferenze stampa che il cerchio si chiude inesorabilmente e stringe senza misericordi ai superstiti della banda Giuliano? Sono interrogativi questi che si sarebbero posti per la millesima volta i palermitani se avessero veduto le 7 bare avvolte nelle bandiere tricolori.

Intanto in tutta l’Isola perdura ancora vivissima l’indicazione ed il cordoglio per l’infame massacro, mentre le proposte misure eccezionali per la Sicilia, ventilate da certa stampa sono sfavorevolmente commentate dall’opinione pubblica la quale ha visto rigettare dalla supina maggioranza la proposta per un’inchiesta sulle cause del banditismo avanzata dal Blocco del Popolo all’Assemblea Regionale.

Le affannose manovre degli organi governativi non fanno presa nei siciliani democratici ed onesti, essi sanno che questa macchia terribile non si lava con le leggi eccezionali che porterebbero nell’Isola una ventata di terrorismo, già sperimentato in altri tempi. Bisogna colpire il banditismo alla radice. La polizia invece arresta indiscriminatamente centinaia e centinaia di poveri diavoli mentre, secondo voci trapelate negli ambienti vicini all’Ispettorato Generale di P.S. lascia cadere ogni indagine se le viene segnalata, com’è successo tempo addietro, la presenza di Giuliano a Palermo in una macchina pilotata personalmente d un notissimo barone siciliano.

La polizia non ha mosso ancora un dito per accertare le responsabilità di quel deputato monarchico che fece pervenire a Giuliano una lettera alla vigilia della strage di Portella della Ginestra. Il suo nome circola ormai sulla bocca di tutti, ma l’Ispettorato fa finta di niente.
Tutte le connivenze con i criminali, tutte le alleanze politiche, tutto il marcio che emana da questo bubbone è stato più volte denunciato ad altissima voce e con grande coraggio dal senatore Girolamo Li Causi nelle piazze siciliane ed al Senato.

Il Comitato Regionale del P.C. intanto, convocato per domani, approverà una risoluzione contro la proposta di leggi eccezionali per la Sicilia avanzata dalla stampa.

In questa situazione le autorità, oltre ad alimentare sulla stampa ufficiosa, la campagna per le repressioni eccezionali, non sanno che pesci pigliare e continuano a riunirsi più volte al giorno mentre centinaia di lavoratori che non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, con l’eccidio vengono gettate in carcere e sottoposte a estenuanti interrogatori.

Nel quadro di queste repressioni antipopolari assume un significato, quasi grottesco l’azione messa in atto con grande spiegamento di forze per arrestare il deputato regionale separatista Concetto Gallo. Circa 200 agenti hanno circondato in pieno assetto di guerra la casa del dirigente del Movimento Indipendentista sottoponendola ad una minuziosissima perquisizione. Naturalmente Concetto Gallo non c’era. I poliziotti sono tornati ancora due volte senza trovare nessuno.

Eppure il Gallo, fino al giorno prima, aveva partecipato tranquillamente alle riunioni del suo partito svoltesi in via S. Giuliano fino a tarda ora della sera, senza che nessuno lo molestasse.

Cosa era avvenuto perché la polizia cercasse improvvisamente il deputato separatista? Il Procuratore della Repubblica di Caltagirone aveva spiccato mandato di cattura per la partecipazione di Gallo ai delittuosi avvenimenti di San Mauro in cui altri carabinieri perdettero la vita.

Ma — vedi che strano caso — il questore di Catania ha lanciato i suoi segugi quando il deputato separatista, avvertito in tempo, era divenuto uccel di bosco. L’episodio ha tutte le linee di una operetta poiché fino al giorno prima chiunque, compresi i questurini, avrebbe potuto trarre in arresto l’on. Gallo mentre si trovava fra i suoi amici a discutere.

Il giorno precedente il mandato di cattura esisteva ma nessuno si era mosso. All’indomani, il questore che già doveva sapere che il ricercato era fuggito, si sveglia e lancia la polizia alla ricerca di un fantasma dando però alle operazioni di ricerca una ampiezza ed una severità degne dei più grandi avvenimenti polizieschi come per dire: non è dipeso da noi se non l’abbiamo preso.

 

 

 

Fonte:  archiviolastampa.it
Articolo del 24 agosto 1949
La tecnica della guerriglia contro la banda Giuliano
di Igor Man
Battere ogni recesso o anfrattuosità, con plotoni che frughino, autonomi, la campagna – I grandi spiegamenti di forze fanno il gioco dei banditi – Mafiosi e confidenti: problema delicato – Ispirare fiducia.

Palermo, 23 agosto. Il sole ha già seccato la terra fresca dei tumuli al cimitero; i morti sono definitivamente morti; proseguono accanitamente i rastrellamenti nella zona di Passo di Rigano, Bellolampo, Torretta — nelle ultime ore anzi hanno raggiunto proporzioni più ampie — di pari passo con gli stringenti interrogatori dei tredici fermati più sospetti. Ieri sera il vice-comandante dei Carabinieri è partito per Roma, il Sottosegretario all’Interno pure assieme al presidente della Regione e al prefetto. Stamane in aereo è partito l’ispettore Verdiani. Questi ultimi vanno a Roma per riferire, come sempre hanno fatto in casi analoghi.

La zona infetta
Abbiamo condotto una rapida ma analitica inchiesta sulla situazione in atto qui nella provincia di Palermo. Diciamo provincia di Palermo perchè è bene, per maggior chiarezza e per ristabilire l’esatta proporzione delle cose, precisare che il fenomeno Giuliano è un fatto assolutamente locale, periferico, circoscritto, ma, s’intende, non per tanto meno grave. Il problema dell’ordine pubblico, in Sicilia, sconvolta dall’attività delle varie bande Stimoli, Russo ecc. problema che rese necessaria l’istituzione dell’Ispettorato di Pubblica Sicurezza per la Sicilia, è risolto da un pezzo. Le pistole di cui i bravi celanesi e messinesi si armavano giorno e notte, arrugginiscono ormai da tempo in fondo ai cassetti dei comò. Tranne i normali casi sporadici di delinquenza comune il problema dell’ordine pubblico in Sicilia, così come l’Ispettorato di Pubblica Sicurezza dal momento che i vari in Italia, è un fatto superato. Eliminati i vari focolai di infezione, il pus è stato circoscritto nella zona compresa fra i comuni di Partinico, San Giuseppe Iato, Montelepre e San Cipirrello, cinquemila chilometri quadrati. In tale zona, favorita soprattutto dal terreno e da certe «complicità locali» Giuliano spadroneggia pressoché indisturbato da parecchio tempo.

Orbene può sembrare un assurdo, ma il fatto che questa infezione è così chiaramente delimitata e circoscritta, è proprio il coefficiente più negativo per una rapida soluzione di essa da parte delle forze dell’ordine. O meglio è stato così fino ad oggi a causa della tattica operativa perseguita. Autoblindo e jepponi carichi di armati, di riflettori ecc., l’abbiamo già detto, non fanno, con il loro impiego, che il gioco di Giuliano, il quale dall’alto dei monti, attraverso le «portelle» domina i movimenti degli avversari, controllandoli fin dal loro inizio. I carabinieri chiusi in caserma non risolvono poi un bel niente. Bisogna sconfinare, uscire dagli stradali e dalle caserme, eliminare i grandi spiegamenti di forze che non impressionano più nessuno, gettarsi a frugare la macchia. Senza dire che evitando i percorsi obbligati si eviteranno attentati come l’ultimo.

Le forze a disposizione sono numerose, il loro armamento ottimo. Il morale altissimo. Difettano solo i collegamenti radio. Ebbene si ripari a quest’ultimo inconveniente e si dia finalmente inizio alla sospirata guerriglia da tutti, ripetiamo, da tutti ritenuta un toccasana. Non si bonificano cinquemila chilometri quadrati con azioni a distanza, occorre battere ogni recesso, ogni anfrattuosita, dividere il teatro di operazione in scacchieri da riempire di plotoni autonomi con viveri a secco e munizioni bastevole per un periodo di almeno sette giorni. Questi plotoni agiscano sul terreno giorno e notte e battano con ostinazione, implacabilmente, e ogni plotone sia pure in collegamento con l’altro, ma debba sempre agire nel settore assegnatogli. Irradiati così per la montagna, prima o poi i fuorilegge incapperanno nelle maglie di una rete facilmente non attraversabile. Il che fino adesso non è avvenuto. Il colpo di grazia alla tattica finora perseguita è stato dato proprio oggi con il clamoroso rilascio da parte dei banditi del settantenne deputato Giovanni Lo Monte, non meno clamoroso del suo sequestro, avvenuto alla fine di luglio. Indisturbati i banditi lo hanno riaccompagnato fino alle porte del grosso centro di Vicari!

I vari esperimenti
La tattica della guerriglia, applicabile con relativa facilità, dovrebbe essere esplicata dalle forze di primo impiego, dipendenti dall’Ispettorato di Pubblica Sicurezza, i cui compiti dovrebbero pertanto essere assolutamente di carattere militare. Così facendo non ci sarebbe bisogno di ricorrere a leggi eccezionali per altro non previste dalla nostra Costituzione. Si potrebbe semmai dare più ampi poteri alla polizia con la facoltà di prendere di volta in volta distinti provvedimenti di carattere straordinario e assolutamente temporanei. Intelligente, capillare, decisa azione «militare» dunque, da parte dell’Ispettorato di Pubblica Sicurezza dal momento che i vari «esperimenti» di questi ultimi tempi non hanno dato i risultati sperati. Si era sperato, infatti, (e l’idea sulla carta poteva apparire come un geniale uovo di Colombo) di iniziare la nuovo fase (stavamo per dire: la nuova gestione) con un’azione tendente a recidere il cordone ombelicale che legava Giuliano a una fitta rete di favoreggiatori e protettori. Colpire la mafia quindi. Ma la mafia non è un partito. E’ costituita da determinati individui che godono un certo ascendente su questa o quella parte di popolazione, di individui spesso contrastanti fra loro e semmai tacitamente d’accordo su questioni di principio. Ma non appena la polizia ha cominciato a mandare al confino don Beppe o don Calò, gli altri don Calò e don Beppe davanti al pericolo hanno fatto quello che mai si sarebbero sognati di fare: hanno stretto alleanza e si sono «guardati»; i più abbienti si sono trasferiti in campagna al sicuro; i meno abbienti dai oggi e dai domani, sono affluiti alla banda Giuliano, dando a questa nuova insperata linfa.

Accortisi dell’errore commesso, si è cercato di fare macchina indietro ma, perchè non dirlo, maldestramente. «Trasformiamo i mafiosi in confidenti»: altro uovo di Colombo. E così dall’oggi al domani don Calò invece di avere cinque anni di confino è stato rimandato a casa con l’ammonizione di rito. Nessuno ha pensato che Giuliano — il quale non è un cretino, anzi! — ha subito capito che il mafioso ammonito era un potenziale informatore della polizia. Per cui gli ha «fatto sapere» che se ne stesse buono e zitto, pena la vita. Ed ecco come svanì così anche la chimera degli informatori informatissimi.

Odio e terrore
Giacchè la sfiducia della popolazione di questi paesini — che ho visitato di nuovo e che ho trovato più ermetici che mai — e la conseguente cosiddetta omertà, c’è da chiarire che quest’ultima non nasce da amore o da ammirazione verso Giuliano. Tutt’altro. Un tempo, forse, al sorgere del «mito» del brigante generoso qualcuno gli volle bene. Oggi i contadini l’odiano tutti. Ha distrutto la loro pace familiare, ha infangato la loro reputazione di onesti lavoratori. Ma hanno terrore di lui e così non parlano e diventano tutti complici. Diffidano della polizia perchè è poco riservata, almeno nei suoi organi periferici e perchè si dice (voce abilmente messa in giro da Giuliano) che nelle sue file vi siano informatori del bandito e nessuno si arrischia quindi di andare dal maresciallo a dirgli che ha saputo come Giuliano si trovi al tal posto.

Ma perchè la polizia riacquisti la fiducia di queste popolazioni disprezzate e guardate in cagnesco non basta soltanto una decisa, azione militare, ma occorre che sia lo Stato a ispirare fiducia. Lo Stato è lontano, assente, è una astratta entità che fa pagare le tasse. Questi sono paesi abbandonati da Dio. Occorre agire in profondità; non si risolve il problema del banditismo solo con un’azione di polizia; scuole ci vogliono, ospedali, centri profilattici, ambulatori, cinematografi ecc.

Anche la Chiesa può fare molto in questo campo. Cerchi di elevare il livello culturale dei parroci di campagna. Che quassù vengano mandati preti giovani e preparati come per una missione. Ci sono anime bellissime da liberare soltanto da certe sovrastrutture. Sarebbe peccato perderle. Non è solo un problema di polizia dunque, ma un vasto e complesso fatto sociale il cui aspetto più immediato si sintetizza nell’eliminazione del bubbone delinquenziale. Bolo così facendo si darà pace e serenità a queste popolazioni, solo cosi facendo i contadini di Montelepre e di San Cipirrello guarderanno allo Stato italiano come ad un amico, a un padre generoso.

 

 

 

Fonte:  archiviolastampa.it
Articolo del 18 luglio 1954
Il processo per la strage dei carabinieri di Bellolampo
Tre superstiti della banda Giuliano si presentano alle Assise

Palermo, 17 luglio. Davanti alla prima Sezione della Corte d’Assise ha avuto inizio stamane il processo a carico di quattro imputati superstiti della banda Giuliano, i quali devono rispondere della strage, commessa il 28 agosto 1949 a Bellolampo. Quella sera, al passaggio di un autocarro carico di militi dell’Arma, fu fatta esplodere una mina che – lo fece saltare in aria, uccidendo sette carabinieri e ferendone altri undici. L’autocarro era stato attirato sul luogo dalla banda Giuliano, col fingere un attacco contro la caserma dei carabinieri.

Dei quattro imputati superstiti – Nunzio Badalamenti, Tito Vitale, Giuseppe Zito e Castrense Madonia – solo tre erano stamani presenti nell’aula poichè il Madonia è in osservazione all’ospedale psichiatrico, dato che in questi ultimi tempi ha dato chiari segni di squilibrio mentale.

Aperta l’udienza, il presidente della Corte dottor Aiello, ha rievocato i fatti e ha inviato un saluto ai carabinieri che si sacrificarono per il dovere. Si è alzato poi uno dei sei difensori, l’avv. Giuseppe Romano Battaglia: a nome dei colleghi del Collegio di difesa, ha reso omaggio al sacrificio dei carabinieri ed espresso il cordoglio ai loro parenti. Quindi ha chiesto alla Corte che il dibattimento venisse rinviato di almeno trenta giorni, per dare modo ai periti di accertare lo stato di salute dell’imputato Madonia, figura di primo piano nell’odierno processo, la cui presenza in aula sarebbe necessaria.

La Corte si è ritirata per decidere; dopo quarantacinque minuti il Presidente ha comunicato che la richiesta era stata respinta.

Ha avuto quindi inizio la sfilata dei testi. Era stato citato per oggi il generale Luca, ma non ha potuto giungere in tempo e sarà ascoltato nei prossimi giorni. Primo a deporre è stato il generale dei carabinieri Polani, che al tempo della strage di Bellolampo comandava la VI Brigata ed ora è presidente del Tribunale Militare di Firenze. La sera in cui avvenne l’eccidio, il generale Polani si recò sul luogo della strage con una 1100, a bordo della quale si trovavano anche l’allora ispettore generale di Pubblica Sicurezza Ciro Verdiani, il colonnello Luca e il vice-questore Lo Casto: poco dopo la cinta daziaria di Passo di Rigano, la macchina veniva fatta segno a nutrite scariche di mitra e a fitto lancio di bombe a mano. Per fortuna l’attentato non provocò alcuna vittima.

Hanno deposto successivamente i maggiori dei carabinieri Giglio e Jodice, e il colonnello Denti, che nell’agosto 1949 comandava il Gruppo Interno della Legione di Palermo. Il colonnello Denti ha fatto una particolareggiata narrazione del delitto organizzato dalla banda Giuliano, ed ha affermato che dopo alcuni giorni dalla strage venne scoperta nei pressi di Partinico una mina interrata nella strada, il che sta a dimostrare come i banditi avessero premeditato la strage e avessero anche preparato un altro agguato.

 

 

 

 

Fonte: Antimafiaduemila.com – Articolo del 19 Agosto 2009
Strage dei Carabinieri di Passo di Rigano – Bellolampo (PA) 19 agosto 1949

L’eccidio fu consumato alle ore 21.30 del 19 agosto del 1949, in località Passo di Rigano.

In quella che allora era una piccola borgata alle porte di Palermo, posta sulla strada provinciale SP1 di accesso alla città provenendo da Partinico e Montelepre, di obbligato passaggio, il bandito Salvatore GIULIANO, detto “Turiddu”, fece esplodere una potente mina anticarro, collocata subdolamente lungo la strada.
La deflagrazione investi l’ultimo mezzo, con a bordo 18 Carabinieri, di una colonna composta da 5 autocarri pesanti e da due autoblindo che trasportavano complessivamente 60 unità del “XII Battaglione Mobile
Carabinieri” di Palermo. L’esplosione dilaniò il mezzo e provocò la morte di sette giovani Carabinieri, di umili origini, provenienti da varie città italiane:

Giovan Battista ALOE classe 1926 da Cosenza (Lago),

Armando LODDO classe 1927 da Reggio Calabria,

Sergio MANCINI classe 1925 da Roma,

Pasquale Antonio MARCONE classe 1922 da Napoli,

Gabriele PALANDRANI classe 1926 da Ascoli Piceno,

Carlo Antonio PABUSA classe 1926 da Cagliari

Ilario RUSSO classe 1928 da Caserta.

Altri 10 carabinieri rimasero feriti, alcuni subendo gravi mutilazioni.

Tra i feriti vi fu anche il 35 enne Tenente CC Ignazio MILILLO, Comandante della Tenenza suburbana di Palermo.

Nel tardo pomeriggio di quel giorno questi carabinieri, accasermati alla caserma “S.Vito”(caserma Carini) ed alla caserma “Calatafimi” erano pronti per fruire di un permesso serale quando giunse la notizia dell’ennesimo attacco, con l’utilizzo di mitragliatrici e bombe a mano, da parte di circa 15 elementi della banda GIULIANO alla caserma dei carabinieri dell’isolata località di Bellolampo (allora in piena campagna, a circa 10 km da Palermo).

Erano le ore 18,00. A seguito dell’allarme, molti ragazzi si presentarono volontariamente al punto di raccolta. Con generoso slancio si equipaggiarono rapidamente e non esitarono a salire sui mezzi per portare aiuto ai colleghi, pur consci del grave pericolo a cui andavano incontro. Giunti a Bellolampo, effettuarono il rastrellamento dell’area unitamente ad un piccolo contingente di agenti di P.S. giunto a bordo di “camionette”, in condizioni difficili sia per l’aspra orografia del terreno sia per l’orario notturno. Visto l’esito negativo verso le ore 21,00 si avviavano per far rientro nella propria caserma.

Il diabolico piano di attacco del bandito Giuliano, prevedeva una esecuzione in tre tempi:attacco dimostrativo alla Caserma di Bellolampo con lo scopo di attirare le forze di polizia in una zona particolarmente adatta all’agguato; strage della colonna sulla via di ritorno; assalto alle forze che da Palermo sarebbero accorse agli ordini del responsabile dell’Ispettorato di P.S. e degli ufficiali dell’Arma.

A Passo di Rigano i banditi avevano posto una grossa mina legata con un filo di ferro, nascondendosi sul lato opposto in un folto boschetto, attendendo il rientro a Palermo dell’autocolonna. Il rumore dei motori annunciò agli attentatori l’arrivo dei mezzi dei carabinieri, uno strappo al filo di ferro e la mina si posizionò tra le ruote posteriori dell’ultimo autocarro al comando del tenente Milillo e del brigadiere Tobia, che erano nella cabina di guida. Il fragoroso scoppio fece fermare l’autocolonna, i carabinieri ed i poliziotti saltarono a terra dai mezzi e corsero verso il luogo dell’esplosione. Fra i feriti, il più grave il Carabiniere Ilario RUSSO, morirà il giorno dopo all’ospedale militare di Palermo. Alla notizia dell’attentato l’Ispettore Generale di P.S. VERDIANI, il Generale dei Carabinieri POLANI, il Colonnello TUCCARIN, il Maggiore JODICE ed un vice Questore con due automobili si dirigono verso Passo di Rigano.

Attraversata piazza Noce, nel tratto di strada (attuale via G.E. Di Blasi) che conduce a Passo di Rigano, le autovetture subirono una aggressione da parte di un gruppo di fuorilegge appostati dietro un muro che costeggiava la strada.
Una prima bomba colpì l’autovettura dell’Ispettore VERDIANI e del Generale POLANI, altre bombe e raffiche di mitra colpirono l’altro mezzo.
Gli occupanti scendendo fulmineamente dai mezzi poterono salvarsi la vita.
Il bandito GIULIANO compì così la più spavalda delle imprese contro i Carabinieri.
Ai funerali, svoltesi nella Cattedrale di Palermo – officiati dal Cardinale Ernesto RUFFINI – partecipò una grande folla e tutte le Autorità del capoluogo regionale, nonché rappresentanti del Governo nazionale.

Per meglio comprendere l’ambiente operativo in cui è maturato l’attentato e il coraggio con cui i carabinieri affrontarono la loro missione a Bellolampo, è bene ricordare che in quegli anni la banda GIULIANO teneva in scacco lo Stato.
La convergenza di interessi tra la malavita, i separatisti dell’EVIS (Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia), i grandi latifondisti ed i boss mafiosi diede luogo ad una vera e propria guerra contro lo Stato: vennero messe in atto violente azioni di guerriglia militare contro l’Arma dei Carabinieri e l’Esercito quali baluardi dell’unità nazionale e, successivamente, contro istituzioni pubbliche e politiche.

Tra gli episodi più significativi si ricorda il precedente assalto alla caserma dei carabinieri di Bellolampo (26 dicembre 1945) quando una cinquantina di banditi incappucciati attaccarono l’edificio e lo occuparono, dopo un violento combattimento, devastandolo e razziando armi e munizioni.
Tre giorni più tardi venne assalita la caserma di Grisì (PA). Dopo 8 giorni toccò alla casermetta di Pioppo (PA) e nelle quarantott’ore successive fu la volta di quella di Borgetto (PA). Ancora più sanguinoso fu l’attacco a quella di Montelepre (PA), paese nativo di GIULIANO, che fu espugnata dopo ore di combattimento.

Dopo la strage del 1° maggio 1947, a Portella delle Ginestre, quando i banditi sparano su circa 1.500 contadini radunatisi per la festa del lavoro, il 19 dicembre successivo gli squadroni della morte di GIULIANO piombarono all’improvviso a Partinico e attaccarono in forze la tenenza dei Carabinieri.
Dal 1943 al 1949 il banditismo sembrò invincibile. Gli scontri si susseguirono senza interruzioni mietendo decine di vittime tra i militi dell’Arma. Quando il 19 agosto 1949 avvenne la strage di Bellolampo, l’Arma contava quasi 100 carabinieri caduti in conflitti a fuoco.
Il 26 agosto 1949, sette giorni dopo quest’ultima strage, per arginare la violenza della banda GIULIANO, il Governo italiano soppresse l’Ispettorato Generale di P.S. per la Sicilia e costituì il CFRB (Comando Forze Repressione Banditismo) e ne affidò il comando al Colonnello CC Ugo LUCA.

Nel 1992, a ricordo degli eroi di Bellolampo, l’Amministrazione comunale eresse, su proposta dell’Ispettore Regionale dell’Associazione Nazionale Carabinieri, Generale di C.A. dei carabinieri Ignazio MILILLO, un monumento nei pressi del luogo dell’eccidio, esattamente in via Leonardo Ruggeri.

La strage di Bellolampo è una pagina di eroismo dell’Arma, poco nota agli italiani. In un difficile contesto socio-politico come quello del 2° dopoguerra in Sicilia, a Passo di Rigano, sette carabinieri persero la vita perché impegnati nel ripristino della legalità. Anche grazie al fulgido esempio di questi ragazzi, dimenticati da molti, che oggi vive in Sicilia la cultura della legalità. A queste vittime va rivolto un commosso, doveroso pensiero.

 

 

 

 

Casarrubea: «Servì ad aprire la trattativa»
di Dino Paternostro
Gli obiettivi: la libertà per il bandito Giuliano e la garanzia per Ugo Luca del segreto sugli atti relativi alle stragi del ’47
Per meglio comprendere il contesto in cui era maturata la strage di Bellolampo, bisogna ricordare che in quegli anni Salvatore Giuliano e la sua banda avevano ingaggiato una dura lotta contro lo Stato. In quel secondo dopoguerra siciliano, infatti, si era registrata una convergenza di interessi tra i banditi, i  separatisti dell’Evis (Esercito Volontario per l’Indipendenza della Sicilia), i grandi latifondisti, i boss mafiosi e pezzi della politica conservatrice e reazionaria nazionale ed internazionale. In questo contesto, furono messe in atto violente azioni di guerriglia militare contro i Carabinieri, la Polizia e l’Esercito. Tra gli episodi più significativi bisogna ricordare un precedente assalto alla caserma dei carabinieri di Bellolampo, avvenuta il 26 dicembre 1945. Allora, una cinquantina di banditi incappucciati attaccarono l’edificio e, dopo un violento combattimento, lo occuparono e lo devastarono, razziando armi e munizioni. Tre giorni dopo venne attaccata anche la caserma dei carabinieri di Grisì, frazione di Monreale. Dopo otto giorni toccò alla piccola caserma di Pioppo, anch’essa frazione di Monreale. E 48 ore dopo fu la volta di quella di Borgetto. Ancora più sanguinoso l’attacco alla caserma dei carabinieri di Montelepre, il paese natale di Giuliano, che fu espugnata dopo ore di combattimento. Dall’assalto ai carabinieri, Giuliano passò alla strage di Portella delle Ginestre del 1° maggio 1947. Qui i banditi (ma non solo loro) spararono sui contadini e le loro famiglie, radunati attorno al “sasso” di Barbato per la festa del lavoro, uccidendo 11 persone e ferendone altre 35. Il 22 giugno di quell’anno, a poco più di un mese e mezzo dalla strage di Portella, anche le Camere del Lavoro e le sedi della sinistra di Partinico, Monreale, San Giuseppe Jato, Borgetto, Terrasini, Carini, Cinisi furono prese d’assalto dalla banda Giuliano, con mitra e bombe a mano. L’operazione terroristica ebbe il supporto della mafia locale. A Partinico si ebbero due morti (Giuseppe Casarrubea e Vincenzo Lo Iacono) e dieci feriti, alcuni dei quali (Salvia, Patti, Addamo) rimasero invalidi per tutta la vita.
Il 19 dicembre 1947 gli squadroni della morte di Giuliano piombarono all’improvviso a Partinico e attaccarono in forze la tenenza dei Carabinieri.
Dal 1943 al 1949, quindi, il banditismo sembrava invincibile. Gli scontri si susseguirono senza interruzioni, mietendo decine di vittime tra i militi dell’Arma. Quando il 19 agosto 1949 avvenne la strage di Bellolampo, l’Arma contava quasi 100 carabinieri caduti in conflitti a fuoco. Ma perché questo accanimento di Giuliano contro i carabinieri? Fino alle elezioni politiche del 18 aprile 1948, il bandito aveva colpito di più quella che chiamava la “canea rossa”, cioè i comunisti,
i socialisti e la Cgil, per acquisire “meriti”  nei confronti delle forze di centro-destra, in particolare, della DC. Ma, “dopo le elezioni del ’48 e le promesse non mantenute della Dc e della mafia – sostiene lo storico Giuseppe Casarrubea – Giuliano risponde uccidendo in modo plateale due tra i suoi più autorevoli rappresentanti: Leonardo Renda ad Alcamo e Santo Fleres a Partinico, nel luglio 1948”. La strage di Bollolampo, secondo Casarrubea, servì ad aprire “le
trattative occulte”, che avevano l’obiettivo della libertà per Giuliano e per Luca della certezza che documenti scottanti sulle stragi della primavera del ’47 “non sarebbero mai venuti alla luce”. Che le cose siano andate veramente così lo dovrebbe appurare la magistratura.
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