20 Luglio 1998 Pomigliano D’Arco (NA). Alberto Vallefuoco, Rosario Flaminio e Salvatore De Falco, giovani operai, uccisi perché scambiati per altri.

Alberto Vallefuoco, Rosario Flaminio e Salvatore De Falco

Alberto Vallefuoco                                Rosario Flaminio                                   Salvatore De Falco  Foto da: Progetto di ricerca sulle vittime delle mafie “Un nome, una storia”

Il 20 luglio 1998 in Via Nazionale delle Puglie, nella zone nord-est di Napoli tre operai Salvatore De Falco, Rosario Flaminio e Alberto Vallefuoco, sono stati assassinati, durante l’ora di spacco, davanti al bar nei pressi del pastificio Russo dove lavoravano.
I giovani stanno per entrare in macchina quando tre sicari a bordo di una “Lancia Y” con in pugno revolver e kalashnikov ed il volto coperto da cappucci, sparano circa quaranta colpi uccidendo all’istante i tre colleghi e ferendo di striscio la cassiera.
I nomi delle tre vittime non dicono nulla a Carabinieri e Polizia. Nessuna segnalazione, nessun precedente, niente di significativo dal punto di vista criminale.
Gli investigatori subito ipotizzano che si sia trattato di un clamoroso errore. Sono stati scambiati per appartenenti ad un clan rivale a quello dei killer.
Per questo triplice omicidio sono stati condannati all’ergastolo Modestino Cirella, Giovanni Musone, Pasquale Cirillo, Pasquale Pelliccia e Cuono Piccolo come mandanti ed esecutori.
La famiglia di Alberto Vallefuoco è impegnata nel Coordinamento dei familiari delle vittime innocenti della criminalità e portono la loro testimanianza ai giovani campani affinchè Alberto sia ricordato e affinchè queste tragedie non si rinnovino.
Il papà di Alberto, Bruno Vallefuoco,  in un’intervista per “Storia Criminale. Camorra e bande criminali nella città di Napoli”, di Aldo Zappalà documentario promosso dalla Fondazione Pol.i.s per la trasmissione “la Storia Siamo noi” di Giovanni Minoli afferma quanto segue: “mio figlio e i suoi amici non si trovavano al posto sbagliato al momento sbagliato – come molti sostengono, sono “loro”, quelli che li hanno uccisi, che si trovavano al posto sbagliato al momento sbagliato. Sono loro che se ne devono andare”.
A Casalnuovo la sezione anagrafe del Comune è dedicata alla memoria di Alberto, Rosario e Flaminio.
Fonte: Fondazione Pol.i.s.

 

 

 

Fonte: archivio.unita.news
Articolo del 21 luglio 1998
Strage di camorra
Tre morti e un ferito
di Vito Faenza
Agguato a Pomigliano d’Arco, Napoli. Le vittime colpite da 40 proiettili di kalashnikov. Erano incensurati.

POMIGLIANO D’ARCO (Napoli). Quaranta proiettili per una strage. Li hanno esplosi con un kalashnikov, un fucile a canne mozze ed una pistola, tre sicari che hanno preso di mira, ieri pomeriggio intorno alle 14, all’esterno di un bar di Pomigliano d’Arco, tre giovani operai del pastificio Russo. Nella sparatoria è rimasta ferita anche Monica Nacca, 19 anni, cassiera del bar, colpita al polpaccio, nonostante si fosse, ai primi spari, nascosta dietro un mobile.

I sicari sono arrivati sul luogo dell’agguato con una «Lancia», hanno affiancato la «Y 10» sulla quale stavano salendo i tre operai ed hanno aperto il fuoco. Indossavano dei passamontagna e quando sono stati sicuri della morte delle tre vittime, sono scappati, abbandonando la Lancia a qualche chilometro di distanza. L’auto è stata data alle fiamme per distruggere ogni eventuale traccia. Sull’asfalto sono rimasti i corpi di Rosario Flaminio, 24 anni, Salvatore De Falco, 21 anni, Alberto Vallefuoco,24 anni.

Incensurati tutti e tre; tutti e tre assunti sei mesi fa, con un contratto di formazione lavoro, nel pastificio. «Bravi ragazzi», sostengono i compagni di lavoro, ed il loro giudizio è confermato da tutti quelli che li conoscevano. Flaminio e Vallefuoco sono stati assassinati, mentre stavano per salire sulla «Y 10» dal lato destro. De Falco (l’auto è intestata al padre), che stava per sistemarsi nel posto di guida, quando ha visto arrivare i sicari ed ha tentato una fuga disperata. Gli hanno sparato una sventagliata di mitra alle spalle, mentre cercava scampo all’interno del bar «Manila». È stato in questo momento che i colpi hanno raggiunta Monica Nacca, 19 anni, la cassiera del locale, ferita ad un polpaccio, che è stata operata, nel tardo pomeriggio, in un ospedale partenopeo. Le sue condizioni sono buone ed i medici dicono che si riprenderà molto presto.

Sgomenti i testimoni, sgomenti i parenti e gli amici delle vittime, sgomenti persino gli investigatori. La dinamica dell’agguato ha le caratteristiche di una spedizione della camorra. Nessun dubbio su questo. Ma è l’unico particolare che porta alla camorra. Infatti nessuna delle vittime aveva una «storia» alle spalle tale da giustificare tanta violenza. Non solo, nessuna di loro aveva frequentazioni con elementi della malavita, oppure era stato segnalato per far parte di qualche banda. Anche per gli archivi della polizia erano tre bravissimi ragazzi.

Così gli investigatori si trovano a dover battere tutte le piste: da quella di tre innocenti capitati in mezzo ad un regolamento di conti con una vittima designata scampata all’assalto, ad un errore di persona, da una vendetta «trasversale», nei confronti di qualcuno della famiglia delle tre vittime, ad una vendetta personale. Passano le ore ed il caso diventa sempre più intricato. Se una delle vittime ha tentato la fuga ed i sicari l‘ hanno inseguita uccidendola, significa che l’obiettivo erano proprio i tre operai e non altri. Poi i tre giovani erano soliti recarsi in quel bar prima e dopo il lavoro per prendere un caffè e i sicari hanno dimostrato di essere a perfetta conoscenza delle abitudini delle vittime.

Cadono gli ultimi dubbi su un possibile errore di persona. Ed allora si pensa anche ad una vendetta trasversale. Oppure ad una azione per intimidire l’azienda in cui lavoravano i tre giovani assassinati.

 

 

 

Fonte:  ricerca.repubblica.it
Articolo del 21 luglio 1998
Strage di camorra al bar
di Giovanni Marino

POMIGLIANO D’ ARCO – Rosario, Salvatore e Alberto hanno bevuto il loro caffè. Al solito bar. Un rito di una vita apparentemente normale, modesta, senza sussulti. Da operai di un pastificio. Con una paga di 800 mila lire al mese. Ma c’è chi li considera pericolosi come boss, c’è chi ha deciso di annientarli. Con un’azione militare. Che scatta un quarto d’ora dopo le 14. Un raid che sconvolge il silenzio di via Nazionale delle Puglie, uno stradone lungo e largo che attraversa Pomigliano d’Arco, a nord est di Napoli. Raffiche di kalashnikov, revolverate. Quaranta colpi. Per i tre non c’è scampo. Restano sull’asfalto. Fanno appena in tempo a vedere il commando di killer. A compiere qualche disperato passo verso una improbabile fuga mentre proiettili impazziti bucano le portiere della loro auto, frantumano le vetrine del locale e feriscono, di striscio, la cassiera.

Un triplice omicidio che nasconde un mistero di camorra. Rosario Flaminio e Alberto Vallefuoco, di 24 anni, Salvatore De Falco, di 21, sono tre nomi che non dicono assolutamente nulla a carabinieri e polizia. Zero. Nessun precedente. Nessuna segnalazione. Niente di significativo, dal punto di vista criminale. Assunti dal pastificio Russo con contratto di formazione professionale, vengono definiti da colleghi, amici e parenti, “tre bravi ragazzi”. Eliminati come tre padrini. “Con un volume di fuoco enorme, erano nove anni che non vedevo una esecuzione del genere”, ammette una donna con guanti da chirurgo, intenta a raccogliere bossoli e cercare frammenti. Si chiama Danila Amore, è il numero due della Scientifica.

Tanti, troppi occhi di bambini osservano la scena che si presenta in via Nazionale delle Puglie. Sangue e proiettili. In braccio alle madri, sulle spalle dei padri, vengono portati sul luogo del delitto, quasi fosse un’attrazione. Uno spettacolo. Le sirene della polizia, le sgommate dei carabinieri, il pianto disperato delle famiglie. In breve si raduna una folla. Resta lì, con i bambini in braccio, sulle spalle. Sino a tardi. Fino a che non arrivano le bare.

Gli investigatori sono in difficoltà. E non lo nascondono. “Non abbiamo elementi…”. Fanno una prima ipotesi. “Potrebbe essere stato un clamoroso errore: volevano uccidere qualcuno che somigliava a uno di quei tre giovani. Qualcuno che andava in quel bar, magari proprio a quell’ora. Che aveva la stessa macchina”. È una versione che, nel corso della giornata, prenderà quota e poi si affievolirà. In un continuo ribaltarsi di stati d’animo e di convinzioni contrastanti. Ricostruita la dinamica del triplice assassinio, probabilmente acquisiti altri elementi, gli inquirenti parlano poi di un’altra pista. E, in un certo senso, la antepongono alle altre. “Quei tre potrebbero essere insospettabili affiliati ad un clan. Potrebbero aver fatto un bidone su una partita di droga, cocaina. Cose che si pagano con la vita”. Oppure ancora, rimanendo sulla stessa linea: “Potrebbero far parte di una nuova leva camorrista, sconosciuta, ma già entrata in rotta di collisione con un’altra formazione criminale”. Condizionale obbligatorio per la fine di tre sconosciuti.

Grande attenzione viene dedicata ai particolari dell’azione criminale. “Indicativi, molto, al momento”. Alla fine della giornata, gli investigatori ritengono di aver ricostruito nei dettagli il raid. Le quattordici e qualche minuto di un pomeriggio torrido, dall’aria pesante, irrespirabile. Rosario, Salvatore e Alberto sono a bordo di una Y10 nera. Arrivano davanti al Manila Café. Scendono. Sfruttano la pausa dal lavoro per una sosta al bar. Entrano nel chiosco. Qualche chiacchiera fra di loro. Uno sguardo all’orologio. Si rientra al pastificio. Alberto e Rosario sono i primi a uscire. Salvatore li segue. A pochi metri una Lancia. I loro killer. Almeno quattro. Impugnano kalashnikov e revolver. Preparano le armi, scrutano gli obiettivi. Eccoli, inermi, facili bersagli. I sicari si calano sul volto dei cappucci. Parte la Lancia, arriva a pochi centimetri dalla Y10. Dai finestrini sporgono le armi. È un attimo. Un tiro a segno. Alberto e Rosario cadono subito. Salvatore fa qualche passo indietro, cerca un rifugio. Sono più rapidi i proiettili. Quaranta in tutto. Il commando sparisce, la Lancia verrà ritrovata più tardi. Interamente bruciata.

Come nei delitti di mafia. Al Manila Café, urla disperate. La cassiera, Monica Nacca, 18 anni, è sporca di sangue. Ha un proiettile nella gamba. La portano in ospedale. Le indagini proseguono. Vengono ascoltati e riascoltati, a lungo, amici, parenti, colleghi delle tre vittime. Da loro, solo stupore e lacrime. E una frase, sempre la stessa: “Hanno ucciso tre bravi ragazzi e non sappiamo proprio dirvi perché”. Ma non salta fuori nessun collegamento con ambienti o logiche criminali. Si cerca di attivare ogni fonte confidenziale. Di scavare nei segreti di una camorra dove, negli ultimi mesi, sono successe molte cose e tutte di segno diverso; dall’evasione dall’aula bunker di Ferdinando Cesarano e Giuseppe Autorino alla cattura di Francesco Schiavone.

È notte fonda. In caserma e in Questura continuano gli interrogatori. La domanda degli investigatori resta la stessa del primo pomeriggio: “Perché tre giovani, considerati tre bravi ragazzi, operai da 800 mila lire al mese, vengono ammazzati come belve feroci?”.

 

 

 

Articolo di La Stampa del 22 Luglio 1998
Uccisi per sbaglio dai killer dei clan
di Mariella Cirillo
Uccisi per sbaglio dai killer dei clan

NAPOLI. Giovani vite spezzate e per ora nessun movente che spieghi la ferocia con cui quattro killer armati di Kalashnikov, fucili e pistole hanno assassinato a Pomigliano d’Arco i tre operai del pastificio Russo. La strage resta ancora un mistero per gli inquirenti che sono costretti a non escludere neppure l’ipotesi più inquietante e angosciosa: un clamoroso errore di persona, l’esistenza di un obiettivo sfuggito miracolosamente ai sicari che avrebbero colpito degli innocenti.

Una giornata di febbrili indagini – con un vertice presieduto dal questore Arnaldo La Barbera, l’interrogatorio di decine di pregiudicati e l’esame accurato della vita delle tre vittime della sparatoria non è servita a far luce sull’agguato di via Nazionale delle Puglie. Polizia e carabinieri non trascurano alcuna pista e, partendo dalle modalità del triplice omicidio, analizzano la mappa dei clan della camorra in lotta per la supremazia. L’unica cosa certa, infatti, è che ad agire sono stati killer professionisti e le caratteristiche del commando riportano agli schieramenti del crimine organizzato nella zona. Dopo l’omicidio del boss Antonio Egizio, capoclan storico nell’area di Pomigliano d’Arco, si fanno guerra le famiglie Veneruso e Cirella, che muovono dai vicini paesi di Volla e Casalnuovo per conquistare un’altra fetta di territorio. Affiliati alle due bande sono stati sottoposti alla prova dello «stub» per accertare se abbiano usato di recente armi da fuoco. Ma se questo è lo scenario, resta da capire che cosa mai avessero a che fare con camorra e cosche le vite «normali» di Salvatore Di Falco, Rosario Flaminio e Alberto Vallefuoco. Nulla, giurano i familiari disperati, piegati dal dolore. Nulla, sembra emergere dagli accertamenti in corso da ore da parte degli investigatori che stanno passando al setaccio le vite dei tre uccisi.

L’agguato davanti al pastificio ha sfiorato anche Monica Nacca, la cassiera dicianno- venne del bar in cui i tre giovani operai erano entrati poco prima che su di loro si abbattesse una pioggia di proiettili. Colpita ad un polpaccio, è stata dimessa ieri mattina dall’ospedale Nuovo Pellegrini di Napoli dove le hanno estratto alcune schegge. E ieri la ragazza, per oltre due ore, è stata interrogata in questura dal pm Simona Di Monte che conduce l’inchiesta sulla strage di Pomigliano d’Arco. Monica non ha saputo dire molto al magistrato: è ancora dolorante e sotto choc, e ha paura. Le fitte alla gamba hanno indotto il pm a sospendere il colloquio che forse riprenderà oggi. Ma gli inquirenti hanno cercato indizi anche tra i compagni di lavoro, gli amici e i familiari dei tre giovani ammazzati: niente da fare, non ci sono «macchie», né parentele pericolose.

A riflettere su una strage senza movente che li ha toccati molto da vicino si sono riuniti ieri in assemblea nel pastificio Russo tutti gli operai. Chiamati dai sindacati e dai delegati di fabbrica, i lavoratori hanno proposto una «giornata di mobilitazione» per chiedere alle «forze istituzionali e sociali di far sentire la propria voce». I colleghi dei tre ragazzi ammazzati manifestano fiducia nella magistratura, ma chiedono anche che «siano ripristinate al più presto le condizioni di serena convivenza sociale». «Quanto è accaduto – sottolineano i sindacati deve ulteriormente convincerci, come società civile, a mantenere e difendere le regole dello Stato democratico». E si mobilitano pure Cgil, Cisl e Uil che invitano il prefetto di Napoli, Giuseppe Romano, a convocare una riunione del Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica proprio a Pomigliano d’Arco. Nel frattempo per venerdì hanno indetto un incontro in municipio con il sindaco e i parlamentari della zona perché temono «una recrudescenza delle attività criminose» e chiedono «la difesa del tessuto sociale».

 

 

 

Fonte:  /ricerca.repubblica.it
Articolo del 2 giugno 2001
Operai uccisi per errore: 5 condanne all’ergastolo

Cinque ergastoli sono stati inflitti dalla quarta sezione della Corte d’Assise di Napoli (presidente Grassi) per il triplice omicidio di tre operai (Alberto Vallefuoco e Rosario Flaminio, 24 anni, e Salvatore De Falco, 21) avvenuto il 20 luglio del ’98 a Pomigliano D’Arco. L’agguato avvenne all’interno di un barchiosco che gli operai utilizzavano nella pausa di pranzo: tre dipendenti del pastificio Russo furono uccisi per errore da un commando di killer che li scambiarono per appartenenti a un clan rivale. Ieri la sentenza: ergastolo a Modestino Cirella, Giovanni Musone, Pasquale Cirillo, Pasquale Pelliccia e Cuono Piccolo. Erano accusati di essere mandanti ed esecutori. Al collaboratore di giustizia Carmine Franzese sono stati inflitti invece 22 anni di reclusione.

 

 

 

 

 

Alberto Vallefuoco, vittima innocente di camorra 1/3

 

 

Alberto Vallefuoco, vittima innocente di camorra 2/3

 

 

Alberto Vallefuoco, vittima innocente di camorra 3/3

Vittime di camorra  –  Rubrica di Anna Copertino ed Eliana Iuorio

Incontro con Bruno Vallefuoco, papà di Alberto.

Il 20 luglio 1998 in Via Nazionale delle Puglie a Pomigliano D’Arco, nella zona nord-est di Napoli, tre operai, Salvatore De Falco, Rosario Flaminio e Alberto Vallefuoco, sono stati assassinati, durante l’ora di spacco, davanti al bar nei pressi del pastificio Russo dove lavoravano.
I giovani stanno per entrare in macchina quando tre sicari a bordo di una “Lancia Y” con in pugno revolver e kalashnikov ed il volto coperto da cappucci, sparano circa quaranta colpi uccidendo all’istante i tre colleghi e ferendo di striscio la cassiera.
I nomi delle tre vittime non dicono nulla a Carabinieri e Polizia. Nessuna segnalazione, nessun precedente, niente di significativo dal punto di vista criminale.
Gli investigatori subito ipotizzano che si sia trattato di un clamoroso errore. Sono stati scambiati per appartenenti ad un clan rivale a quello dei killer.
Per questo triplice omicidio sono stati condannati all’ergastolo Modestino Cirella, Giovanni Musone, Pasquale Cirillo, Pasquale Pelliccia e Cuono Piccolo come mandanti ed esecutori.
La famiglia di Alberto Vallefuoco è impegnata nel Coordinamento dei familiari delle vittime innocenti della criminalità e porta la propria testimanianza ai giovani campani affinchè Alberto sia ricordato e affinchè queste tragedie non si rinnovino
(da fondazionepolis.regione.campania.it)

 

 

Fonte: facebook.com
pubblicato il 20 luglio 1015
I TRE GIOVANI OPERAI MASSACRATI PER ERRORE
di Bruno De Stefano

IL 20 LUGLIO DEL 1998, A POMIGLIANO D’ARCO, SI CONSUMA UNA DELLE STRAGI PIU’ ASSURDE: TRE BRAVI RAGAZZI VENGONO ABBATTUTI A COLPI DI KALASHNIKOV MENTRE PRENDONO IL CAFFE’ AL BAR. NON AVEVANO NESSUNA COLPA: I KILLER LI AVEVANO SCAMBIATI PER TRE COMPONENTI DEL CLAN AVVERSARIO. IL TESTO E’ TRATTO DA “NAPOLI CRIMINALE” (NEWTON COMPTON, 2006).

Forse avevano tentato di fare la cresta su una partita di droga, oppure stavano pensando di mettersi in proprio voltando le spalle ai vecchi compari. In ogni caso devono averla fatta davvero grossa per meritare quella fine, perché solo chi commette uno di quegli sgarri imperdonabili viene giustiziato con tanta ferocia.

È il 20 luglio del 1998. Sono da poco passate le due del pomeriggio. Fa caldo, caldissimo, e l’ideale sarebbe stare all’ombra, magari sorseggiando una Coca Cola ghiacciata o un caffè freddo. Vorrebbero stare sicuramente al riparo dalla temperatura africana pure una dozzina tra carabinieri e poliziotti che invece, sotto un sole che picchia, si aggirano sconcertati davanti allo Chalet Manila, un bar di via Nazionale delle Puglie, uno stradone che collega Pomigliano a Napoli. A terra ci sono tre morti. I killer li hanno uccisi con un agguato che per spietatezza ricorda i massacri ordinati da Al Capone nella Chicago degli anni ’20. Hanno sparato all’impazzata con kalashnikov e fucili a canne mozze, e carabinieri e poliziotti sono tutti d’accordo nel sostenere che era da un pezzo che non si vedeva una sventagliata di piombo così massiccia. Ecco perché è naturale pensare che quei tre ragazzi siano stati puniti in quel modo per aver commesso un intollerabile sgarro.

Davanti allo Chalet Manila ci sono i cadaveri di Rosario Flaminio, Alberto Vallefuoco e Salvatore De Falco. I primi due sono accanto ad una Y10 grigia: le portiere dell’auto sono aperte, evidentemente stavano per salire in macchina. Salvatore, invece, è stato ucciso davanti all’ingresso del locale. La Y10 era sua, anzi, di suo padre. Rosario e Alberto avevano 24 anni, Salvatore ne aveva 21.

Tutti e tre lavoravano al Pastificio Russo, il cui stabilimento è a qualche centinaio di metri dal bar dov’è avvenuta la mattanza. Da febbraio, quando erano stati assunti con un contratto di formazione, Rosario, Alberto e Salvatore facevano abitualmente tappa al Manila dopo la pausa pranzo. Li conosceva bene l’unica sopravvissuta, Monica Nacca, la barista. Monica, che ha 19 anni, è viva per miracolo, e non è un modo di dire, perché è stato veramente un miracolo che sia riuscita a scamparla da quella pioggia di fuoco che ha devastato le vetrine e le suppellettili del bar. La scheggia di un proiettile l’ha ferita ad un polpaccio, ma lo shock provocatole dall’agguato è ovviamente più doloroso di ogni altra cosa. Prima di sette figli, lavorava al Manila da quasi un anno. Quando ha capito cosa stava succedendo, ha cercato di ripararsi dietro la cassa. È viva, d’accordo, però è una ragazza decisamente sfortunata, come racconta la madre: «Dieci anni fa perse la vista ad un occhio per una pietra che le avevano gettato contro per gioco. Per questa ragione dovette interrompere gli studi. Un anno fa quando trovò lavoro era veramente felice. Solo tre dei miei sette figli lavorano. Sapete, la disoccupazione…» (Ansa, 20 luglio 1998).

Anche se la barista non è ancora in grado di fornire il benché minimo aiuto, gli investigatori non hanno dubbi: un’esecuzione così brutale non può che essere maturata per uno scontro esploso all’interno della galassia camorristica. Dopo il pentimento di diversi boss di prima grandezza, a partire da Carmine Alfieri e Pasquale Galasso e la conseguente dissoluzione del cartello della Nuova Famiglia, le organizzazioni criminali si sono moltiplicate. Adesso la provincia di Napoli è infestata da decine e decine di bande al vertice delle quali spesso ci sono leader dalle scarse capacità strategiche ma dalla pistolettata facile. Ogni gang agisce per conto suo, e siccome gli spazi si sono ristretti si ricorre con molta più frequenza alle armi per terrorizzare la concorrenza. E nella zona di Pomigliano e dintorni di clan ce ne sono almeno quattro o cinque. Troppi. Farsi la guerra, quindi, è inevitabile.

Dunque, l’ipotesi più attendibile è che pure la strage allo Chalet Manila rientri in uno dei tanti regolamenti di conti tra cosche rivali. Il ragiona- mento fila, ma solo fino a un certo punto. Perché se i mandanti sono camorristi e gli assassini sono camorristi, devono essere camorristi pure Rosario, Alberto e Salvatore. Ma nessuno dei tre lo è. Non sono neppure delinquenti comuni. E nemmeno spacciatori di droga o tossicodipenden-ti. Sono solo tre bravi ragazzi. Caterina De Falco, madre di Salvatore, è distrutta: «È tornato a casa nell’ora di spacco, ha mangiato. Poi mi ha detto che avrebbe preso il caffè con gli altri amici suoi. Stavo guardando una telenovela in tv, mi ero quasi appisolata. Hanno bussato alla porta, erano i carabinieri: c’è un problema, hanno ferito il ragazzo. Salvatore aveva sempre fatto l’imbianchino, e continuava a farlo quando era libero dal lavoro del pastificio. Voleva entrare nell’azienda e magari prendere il posto del padre che lavorava lì da 30 anni, ed era prossimo alla pensione» («Corriere del Mezzogiorno», 21 luglio 1998).

Ma che le vittime fossero giovani senza grilli per la testa non lo gridano soltanto i loro familiari, dilaniati da una disgrazia orribile che non sanno spiegarsi. No, lo dicono anche i colleghi di lavoro, gli amici, i conoscenti. Lo conferma pure la barista dello Chalet Manila: quei tre li vedeva quasi tutti i giorni e li ha sempre considerati dei giovanotti a modo.

Stando alle testimonianze raccolte dagli inquirenti, non c’è una sola ragione per dubitare della reputazione delle vittime, però, oggettivamente, è strano che la camorra decida di sterminare tre bravi ragazzi con un volume di fuoco tale da lasciare sbigottiti perfino gli investigatori più avvezzi alle stragi di camorra. Insomma, qualcosa sotto ci dovrà pur essere per giustificare un raid così sanguinario.

Ma dalle prime indagini, su Rosario, Salvatore e Alberto non salta fuori alcuna traccia che possa condurre alla camorra o alla criminalità comune. Si scava in tutte le direzioni, ma sul conto di quei tre operai non si trova nulla. Niente di niente, lo zero più assoluto. A un certo punto si ipotizza che l’obiettivo dei sicari potesse essere uno solo dei tre, e che gli altri due siano finiti in mezzo alla strage perché ritenuti dei pericolosi testimoni. Può essere. Tuttavia manca sempre un movente forte. E, inoltre riesce davvero difficile pensare che uno di loro abbia avuto una doppia vita e sia stato così scaltro da nasconderla allo stesso tempo a fa- miliari, amici e colleghi di lavoro. Si spulcia in particolare nel passato di Salvatore, è probabile che i sicari abbiano seguito la Y10 perché cercavano proprio lui. Ma l’esistenza di Salvatore è senza ombre: aveva fatto l’imbianchino ed ora sperava di prendere il posto del padre, dipendente del Pastificio Russo prossimo alla pensione. Con un lavoro sicuro avrebbe presto sposato Wanda, la sua fidanzata. Tutto qui.

Le indagini si spingono fin dentro la fabbrica di alimentari, si cerca di capire se l’imboscata abbia a che fare in qualche modo con il loro luogo di lavoro. Ma è un buco nell’acqua. Polizia e carabinieri non sanno che pesci pigliare. Di fronte all’impossibilità di dare una spiegazione all’accaduto, ci si aggrappa a tutto, anche alle piste più improbabili. Scartata l’ipotesi di una vendetta trasversale – nessuno dei tre ha parenti coinvolti in vicende di camorra – si pensa che l’esecuzione possa essere stata provocata da una storia di femmine. Uno dei ragazzi uccisi forse si è lanciato in un imprudente corteggiamento ad una donna già sentimentalmente impegnata con qualche “guaglione” del posto. Uno scenario teoricamente probabile: i tre erano giovani e come tutti i ventenni erano esuberanti e volevano divertirsi. Magari, si ipotizza, avranno incauta-mente gettato lo sguardo sulla ragazza sbagliata senza informarsi preventivamente delle frequentazioni della fanciulla. A sostegno di questa tesi c’è un litigio che qualche settimana prima una delle vittime avrebbe avuto in un pub della zona con un delinquente infastidito da uno sguardo di troppo alla sua fidanzata. Ma in ogni caso, ed è questa la riflessione che sgonfia l’ipotesi, per placare i bollori sarebbe stato sufficiente un “avvertimento”, non una strage con i kalashnikov. Sebbene sensibile agli affari di cuore, un boss che si ritiene offeso nell’onore non sguinzaglia i killer ordinando loro di fare fuoco in quel modo.

Dunque, resta in piedi un’altra pista, l’ultima, la più dolorosa: l’errore di persona. Un clamoroso errore di persona. Forse Rosario, Alberto e Salvatore sono stati trucidati per sbaglio. Al posto loro dovevano mori- re tre camorristi. È l’unica soluzione al rebus, questa, anche se è piuttosto strano che gli assassini prendano un abbaglio così impressionante da sterminare tre innocenti.

Sarà strano, sarà orribile, ma purtroppo è proprio quello che è successo.

E, infatti, dopo aver cercato inutilmente un movente alla terribile imboscata, gli inquirenti approdano ad una conclusione che rende ancora più tragica e inaccettabile la fine di tre giovani: sono morti perché i killer hanno sbagliato bersaglio. Una tesi che qualche anno più tardi sarà con-fermata dalle rivelazioni di un pentito, Carmine Franzese, che appartiene al clan capeggiato da Modestino Cirella. Rosario Flaminio, Salvatore De Falco e Alberto Vallefuoco non erano camorristi, delinquenti o spacciatori, e non si erano neppure sconsideratamente infilati in qualche brutto guaio. Erano semplicemente bravi ragazzi senza nessuna colpa, tre innocenti che hanno pagato con la vita l’incredibile svista degli assassini. Perché, come racconterà Franzese ai magistrati, in quel pomeriggio del 20 luglio del 1998 gli assassini hanno preso una cantonata. Infatti, l’agguato era stato organizzato per punire esponenti di un clan rivale che andavano in giro a chiedere tangenti a imprenditori che non dovevano essere disturbati. E i tre della cosca rivale si muovevano a bordo di una Y10 grigia, maledettamente uguale a quella di Salvatore De Falco. Quando il commando ha visto uscire dal Pastifico Russo la Y10 ha avuto la confer- ma che la gang della concorrenza aveva appena molestato un altro potenziale “cliente”. I sicari hanno seguito l’auto fino allo Chalet Manila ed hanno aspettato che Rosario, Alberto e Salvatore prendessero il caffè, come facevano ogni pomeriggio. Poi sono entrati in azione senza badare troppo alla fisionomia delle vittime. In quei momenti si spara, punto e basta. Il pentimento di Franzese consentirà agli investigatori di dare un nome e un volto ad esecutori e mandanti dell’imboscata che saranno tutti condannati.

Ora lo Chalet Manila non si chiama più così, e Monica Nacca non fa più la barista in quel locale. A Pomigliano, intanto, la camorra continua a incassare il pizzo da molti imprenditori.

 

 

 

Fonte:  raffaelesardo.blogspot.com
Articolo del 20 luglio 2012
SALVATORE, ROSARIO E ALBERTO. VITE SPEZZATE IL 20 LUGLIO DEL 1998

Salvatore De Falco, Rosario Flaminio e Alberto Vallefuoco, sono felici. Sono tre ragazzi che ce l’hanno fatta. Tra poco saranno assunti nel pastificio Russo di Pomigliano, dove da alcuni giorni lavorano attraverso una “borsa lavoro”. Salvatore ha 21 anni, Rosario e Alberto 24. I tre hanno legato subito. Sono diventati amici. Sono sempre insieme in fabbrica e anche fuori. Hanno gli stessi ideali, gli stessi sogni, la passione per lo sport, per le ragazze. Così quando il 20 luglio del 1998 escono dal pastificio durante la pausa pranzo, vanno insieme in un bar proprio vicino al pastificio Russo. Un caffè, quattro battute con la giovane cassiera e poi il rientro in fabbrica. Ma proprio in quel momento giungono tre persone a bordo di una “Lancia Y” . Hanno in mano pistole e kalashnikov ed il volto coperto da cappucci. Sparano in direzione di Salvatore, Rosario e Alberto. Sono loro l’obiettivo di morte dei killer. Sparano decine di colpi. Li uccidono all’istante. Viene ferita anche la cassiera del bar. Attimi di terrore che creano scompiglio tra gli altri avventori del bar e i pochi passanti. In zona è in atto una guerra tra clan. Precisamente tra il clan “Cirella” e “Veneruso”. I tre sono stati scambiati per emissari del clan “Veneruso”, alleato dei “Piccolo” di Marcianise venuti per chiedere il pizzo ai titolari del Pastificio Russo. Invece sono solo tre ragazzi che aspettavano di vivere la loro vita. A rivelare i particolari di questa vicenda nel dicembre 2010, dodici anni dopo, è stato un collaboratore di giustizia. I tre ragazzi furono uccisi per rappresaglia dopo la strage del “giovedì Santo”, avvenuta a Marcianise nell’aprile del 1998. Quella strage è l’antefatto che porta alla morte di Salvatore, Rosario e Alberto. I particolari di tutta la vicenda sono ricostruiti dall’Agenzia Ansa il 7 dicembre del 2010:

“Un falso geometra e un falso ingegnere bussarono alla porta del boss Achille Piccolo, sperando di ingannarlo e di ucciderlo. Lui però aveva intuito il tranello e si fece trovare circondato da uomini armati. Ne scaturì una feroce sparatoria che si concluse con la morte di tre persone dell’uno e dell’altro gruppo: è quella che a Marcianise (Caserta) si ricorda come «la strage del giovedì santo». Dodici anni dopo, grazie ad alcuni collaboratori di giustizia, di quell’episodio si conoscono nel dettaglio dinamica, movente, mandanti ed esecutori. Quattro le ordinanze di custodia cautelare notificate oggi dai carabinieri di Napoli: destinatari sono Salvatore Belforte, Michele Cirella, Roberto Vicale ed Achille Piccolo. Tra i Belforte e i Piccolo, un tempo alleati tra loro sotto l’egida del boss Raffaele Cutolo, era in atto da tempo una faida cruenta. Nel conflitto a fuoco dell’aprile 1998 morirono Elpidio Gravante e Giuseppe De Crescenzo, legati al clan Piccolo; Achille Piccolo, benchè ferito, riuscì a sua volta ad uccidere Aniello Cirella, alleato dei Belforte. Di lì a pochi mesi la strage di Marcianise ebbe un tragico corollario: il padre di Aniello Cirella chiese al boss Salvatore Belforte di vendicare il figlio. Fu organizzata una spedizione punitiva a Pomigliano d’Arco, davanti al pastificio Russo. Qui, secondo le informazioni raccolte, dovevano giungere, per chiedere una tangente ai proprietari dell’azienda, tre taglieggiatori di un gruppo alleato dei Piccolo. Per un tragico errore, invece, gli uomini inviati dal boss Salvatore Belforte (paragonato dal gip al re Erode, che ordinò una strage di bambini per uccidere Gesù ed eliminare un potenziale rivale) scambiarono per taglieggiatori tre operai del pastificio che stavano prendendo un caffè a uno chalet vicino. Così il pentito Giovanni Messina racconta la strage di Marcianise: «Io ed il Cirella ci accordammo che sarebbe sceso prima lui ed entrato nel portone del Piccolo per verificare l’eventuale presenza di persone armate e, in caso di necessità, avrebbe usato una frase convenzionale per consentirmi di intervenire già armato e cominciare a sparare. La frase era: ‘ingegnere, potete entrare. Fu così che quando giungemmo nuovamente al portone di ingresso dell’abitazione del Piccolo, io attesi vicino alla macchina, mentre il Cirella citofonò e si fece aprire. Quando venne aperto il portoncino d’ingresso, il Cirella, dopo aver fatto un passo avanti, si girò verso di me e mi invitò ad avvicinarsi con la frase convenzionale. Intuii immediatamente che si trattava di una situazione di pericolo per cui mi avvicinai impugnando la pistola semiautomatica già pronta all’uso. Appena fui alle spalle del Cirella, che era appena entrato nel portoncino, udii alcuni colpi di arma da fuoco e vidi il Cirella cadere davanti a me. Di fronte intravidi una persona con una pistola semiautomatica, contro cui feci immediatamente fuoco, vedendola cadere all’istante. Con la coda dell’occhio mi accorsi che sulla mia sinistra, appoggiato all’interno del portone, vi era una persona armata, contro cui girai l’arma che impugnavo con la destra e feci fuoco a ripetizione, scaricandole addosso tutto il caricatore. Contemporaneamente estrassi dalla cintola il revolver e con la sinistra esplosi altri tre o quattro colpi all’indirizzo della persona che era di fronte a me e che già era a terra. Sono certo di aver ucciso entrambi. Il tutto ebbe luogo in pochissimi secondi».

«Sembra che l’inferno si sia trasferito sulla terra, con il Maligno che spinge gli uomini a compiere azioni terrificanti»: così una delle più alte cariche ecclesiastiche della provincia di Caserta cominciò l’omelia tenuta in occasione della celebrazione eucaristica della Pasqua del 1998, avvenuta tre giorni dopo la strage di Marcianise. La citazione è agli atti dell’inchiesta che ha portato questa mattina alla notifica di quattro ordinanze di custodia cautelare. Anche in altre occasioni i Belforte avevano scelto giorni festivi per commettere omicidi: oltre al Natale del 1997, in cui vennero assassinati due uomini vicini ai Piccolo, era accaduto per esempio l’11 novembre del 1986, quando, nella stessa abitazione teatro del massacro del giovedì santo, c’era stata un’altra feroce sparatoria in cui era caduto, tra gli altri, il boss Antimo Piccolo, padre di Achille, arrestato questa mattina; quell’episodio è tuttora ricordato in zona come «la strage di San Martino».

«Il boss Salvatore Belforte, destinatario di una ordinanza di custodia per un triplice omicidio avvenuto 12 anni fa, è paragonato dal gip al re Erode: «Una vicenda – scrive il giudice riferendosi alla strage del giovedì santo – animata da autentica sete di sterminio, riassumibile nelle rivelate intenzioni di Salvatore Belforte, moderno Erode, il quale vagheggia l’annientamento fisico di tutti i discendenti maschi del gruppo rivale, a prescindere dalla loro età. Eliminato in un’azione analoga, oltre dieci anni prima, il capoclan Antimo, tutti i Piccolo, anche i giovanissimi, devono ora morire, affinché di loro non resti neppure il ricordo e la genia si estingua definitivamente, soffocata nel sangue». Il gip si riferisce alle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia. Spiegando le perplessità nell’attuare il piano per colpire i Piccolo (i killer dovevano spacciarsi per geometri e ingegneri di un cantiere che volevano concordare il pagamento di una tangente) il pentito Giovanni Messina, che partecipò alla strage e uccise sia Elpidio Gravante sia Giuseppe de Crescenzo, racconta infatti: «Gli raccontammo (a Belforte, ndr) anche di quei passaggi di quelle persone sui ciclomotori ed in particolare di quel ragazzino biondo, che mi aveva colpito in maniera particolare. Il Belforte mi disse che quello era il fratello minore di Piccolo Achille, e mi aggiunse di ucciderlo qualora se ne fosse ripresentata l’occasione. Ricordo ancora che mi disse che era sua intenzione estirpare alla radice tutta la famiglia Piccolo, a prescindere dall’età dei suoi componenti». Belforte, è scritto ancora nell’ordinanza, «si vanterà coi suoi accoliti di aver rovinato anche la Pasqua ai Piccolo, dopo avergli rovinato il Natale (nelle precedenti festività natalizie lo scontro aveva lasciato sul terreno due cadaveri, inducendo le autorità a disporre un inutile coprifuoco».

Bruno Vallefuoco, il papà di Alberto, in un’intervista a Road TV: “Alberto era un ragazzo come tanti. Aveva 24 anni e i suoi sogni erano quelli dei ragazzi della sua età. Aveva già dovuto misurarsi con la realtà, quindi i suoi sogni erano qualcosa di più concreto. Sognava un lavoro. Perché dalle nostre parti anche il lavoro è un sogno. Sognava di farsi una famiglia. Ed è stato ucciso mentre cercava di concretizzare qualche suo sogno. E’ stato ucciso insieme a due suoi coetanei, Rosario e Salvatore, mentre frequentava una borsa lavoro. Erano già sicuri che alla scadenza sarebbero stati assunti da questa azienda di Pomigliano. Loro non sapevano, però che questa azienda pagava il pizzo al clan Cirella ex clan Egizio e che nel luglio del 1998 un altro clan stava cercando di farsi spazio sul territorio. I titolari del pastificio anziché comportarsi come esemplari cittadini e denunciare tutto alla polizia, preferirono stare zitti, contribuendo ad alimentare voci diffamanti sui tre ragazzi. Il 20 luglio del 1998, questi tre ragazzi vengono trucidati perché qualcuno è stato troppo vigliacco per rivolgersi alla polizia. E sono stati ancora trucidati nel corso delle indagini. I titolari del pastificio Russo non hanno fatto niente per aiutare le forze dell’ordine nelle indagini e nemmeno quando i giornali prezzolati dalla camorra hanno continuato a massacrare Salvatore, Rosario e Alberto. Quando hanno tentato di far credere a tutti che in fondo se la sono meritata. Non hanno mosso un dito quando sui giornali si scriveva che i tre sono stati puniti perché: “Hanno violentato una ragazza; Hanno spacciato droga per clan rivali, o uno di loro era l’amante della moglie di uno che stava in galera”. Il pastificio sapendo quello che veramente era successo ha lasciato fare. Ha continuato a negare e a non dire la verità. Vigliacchi”.

 

 

 

Fonte: ilmattino.it/polis
Articolo del 16 luglio 2018
«Mio figlio Alberto, un ragazzo normale ucciso per trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato»
di Bruno Vallefuoco

Alberto, mio figlio, aveva 24 anni. Era un ragazzo normale. Come tanti. Come i suoi amici Rosario Flaminio e Salvatore De Falco.Tutti e tre frequentavano un corso di formazione presso il Pastificio Russo di Pomigliano d’Arco.

Il 20 luglio di venti anni fa, usciti per consumare un caffè durante la pausa pranzo, furono scambiati per affiliati di camorra e massacrati a colpi di kalashnikov. I responsabili sono stati tutti individuati, sottoposti a processo e condannati.

Tante volte in questi venti anni ho sentito l’espressione “uccisi perché trovatisi al posto sbagliato nel momento sbagliato”. Nulla di più falso. Alberto, Rosario, Salvatore, tutti gli innocenti colpiti dall’assurda e ingiustificabile violenza criminale si trovavano al posto giusto nel momento giusto. Chi svolgeva il proprio lavoro, chi trascorreva una serata con gli amici, chi era in compagnia della propria famiglia. Tutte persone perbene a cui sono stati sottratti sogni e aspirazioni. In una parola, il futuro. A trovarsi nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, al contrario, erano i loro killer. Occorre ribadirlo sempre.

Reagire alla perdita di un figlio è di per sé complicato. Ancor di più se la morte è generata da una mano violenta. Il nostro vocabolario è ricco di termini e di significati. Eppure non esiste ancora una parola per esprimere la sopravvivenza di chi perde un figlio. Esiste l’orfano, il vedovo. Ma non c’è modo di “classificare” un genitore che vive il dolore generato dalla perdita di un figlio. E’ tutto così innaturale e spietato.

Eppure, un senso alla mia sopravvivenza ho voluto darlo. Attraverso l’impegno nell’associazione Libera e nel Coordinamento campano dei familiari delle vittime innocenti della criminalità, i cui rappresentanti siedono di diritto nel Consiglio di Amministrazione della Fondazione Polis per portare avanti, tutti uniti, le istanze e le battaglie a tutela dei familiari delle vittime. Attraverso la memoria del sacrificio di Alberto, che racconto nelle scuole, nelle parrocchie, nelle associazioni, nei circoli, negli istituti penitenziari minorili. Mi piace rivolgermi soprattutto ai giovani, perché è su di loro che dobbiamo agire per sperare in un futuro in cui ciò che è accaduto alla mia e a tante, troppe famiglie non accada ad altre.

Più di una volta ho avuto modo di dire che l’uccisione di una persona cara è paragonabile all’attentato alle Torri Gemelle. All’improvviso crolla tutto. Eppure, Alberto continua a vivere. Lo fa attraverso il culto della memoria, come esperienza di un dolore condiviso. Lo fa attraverso lo stadio di Mugnano a lui intitolato, il presidio di Libera che hanno dedicato a lui, Rosario e Salvatore, come la cooperativa A.R.S. che gestisce un terreno confiscato alla camorra a Casalnuovo e tre strade della città di Pomigliano d’Arco. Alberto continua a vivere attraverso la mostra NONINVANO. Ora che gli anni della sua assenza fisica si avvicinano a quelli della sua breve esistenza, Alberto continua ad essere fortemente presente attraverso il mio impegno sociale. Questa è la mia risposta a un dolore che nemmeno il nostro ricco vocabolario riesce a spiegare. Perché Alberto aveva appena 24 anni. Alberto, mio figlio.

*Papà di Alberto Vallefuoco, ucciso insieme a Rosario Flaminio e Salvatore De Falco il 20 luglio 1998

 

 

 

Leggere anche:

 

 campaniavittimeinnocenti.it
Alberto Vallefuoco, 24 anni

 

vivi.libera.it
Alberto Vallefuoco – 20 luglio 1998 – Pomigliano d’Arco (NA)
Alberto era un ragazzo normale. Come tanti. Come i suoi amici Rosario Flaminio e Salvatore De Falco.

 

vivi.libera.it
Rosario Flaminio – 20 luglio 1998 – Pomigliano d’Arco (NA)
Rosario, Alberto e Salvatore, quel maledetto pomeriggio del 20 luglio, erano esattamente dove dovevano essere, nel momento giusto e a fare la cosa giusta.

vivi.libera.it
Salvatore De Falco – 20 luglio 1998 – Pomigliano d’Arco (NA)
Salvatore De Falco era proprio così, “nu buon guaglione”. Non si era accontentato di un guadagno facile o di scendere a compromessi. Ma si rimboccava le maniche ogni giorno lavorando in un pastificio per potersi costruire una vita onesta.

 

 

 

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