23 Ottobre 1989 Locri. Ucciso Giuseppe Tizian, 36 anni, bancario. Le indagini non hanno portato ad alcun colpevole.

Foto da Presidio Libera Peppe Tizian

Giuseppe Tizian viene assassinato nella serata del 23 ottobre del 1989 a Locri. Stava tornando a casa, a Bovalino, a bordo di una Fiat Panda, lungo la statale 106. All’altezza dell’area archeologica e del museo della Magna Grecia di Locri l’agguato, a colpi di lupara. Aveva 36 anni ed era funzionario del Monte dei Paschi di Siena di Locri. Era secondo gli investigatori un “funzionario integerrimo”. Le indagini del commissariato di Siderno, coordinate dal magistrato Carlo Macrì, non hanno prodotto risultati. Nonostante si sia subito profilata la pista legata all’attività bancaria, nel fascicolo Tizian sono parecchi i buchi neri, aspetti non chiariti e non scandagliati. Un caso che rimane ancora irrisolto

 

 

Nota di stopndrangheta.it
Giuseppe Tizian, un caso irrisolto
Bancario di Locri, viene assassinato il 23 ottobre del 1989. Le indagini non hanno portato ad alcun colpevole

Giuseppe Tizian viene assassinato nella serata del 23 ottobre del 1989 a Locri. Stava tornando a casa, a Bovalino, a bordo di una Fiat Panda, lungo la statale 106. All’altezza dell’area archeologica e del museo della Magna Grecia di Locri l’agguato, a colpi di lupara.

Aveva 36 anni ed era funzionario del Monte dei Paschi di Siena di Locri. Era secondo gli investigatori un “funzionario integerrimo”. Le indagini del commissariato di Siderno, coordinate dal magistrato Carlo Macrì, non hanno prodotto risultati.
Nonostante si sia subito profilata la pista legata all’attività bancaria, nel fascicolo Tizian sono parecchi i buchi neri, aspetti non chiariti e non scandagliati. Un caso che rimane ancora irrisolto.

 

 

 

Articolo del 3 Novembre 2009 da calabrianotizie.it 
Morire di ‘ndrangheta – Peppe Tizian fu ucciso il 23 ottobre 1989 mentre tornava a casa dal lavoro, da Locri a Bovalino. Per una pratica bancaria in odore di mafia. Ma il calvario per la famiglia iniziò dopo. Tra depistaggi e silenzi
di Danilo Chirico e Alessio Magro (ilmanifesto.it)

Venti minuti. Ci impiegava venti minuti esatti ogni sera Peppe Tizian per tornare a casa. Tanto ci si impiega in auto da Locri a Bovalino, nella Locride, profonda Calabria. Venti minuti e quella sera Peppe avrebbe mangiato salsiccia e broccoli, il suo piatto preferito. Così, felice, s’era messo di buona lena per rimettere a posto le pratiche e i registri nei cassetti e sugli scaffali. Poi un rapido saluto ai colleghi e via per quel lunedì sera casalingo, rubato insieme a tutta una vita da una mano vigliacca. Era il 23 ottobre 1989.

Il bancario Tizian lavorava nella sede del Monte dei Paschi di Siena a Locri. A bordo della sua Fiat Panda scivolava lungo la costa della Locride ogni mattina da Bovalino.

Tredici chilometri attraversando un paesaggio estremo fatto di spiagge mozzafiato e abusivismo selvaggio, di gloria antica e vergogna recente. E di ‘ndrangheta, che per farsi vedere sceglieva anche di usare i cartelli stradali come bersaglio per pistole e fucili. Tredicimila metri per pensare e riflettere, ogni mattina e ogni sera. Per accettare a testa bassa o dire di no, anche solo con uno sguardo.

Per un funzionario di banca di 36 anni, per un giovane professionista che vuole fare bene il suo lavoro la Locride non è una realtà facile. Ti vengono a chiedere i favori, ti pressano per chiudere un occhio o magari due. Ci sono i mutui da agevolare, i prestiti da facilitare, le autorizzazioni, le concessioni, i capitali da riciclare.

Difficile gestire una pratica in odore di ‘ndrangheta. E sono tante. È capitato a tutti, capita a tutti. Quelli vengono e chiedono col volto di uno sconosciuto. Magari offrono un facile e corrotto guadagno. Magari minacciano per vie traverse. Difficile barcamenarsi quando si vuol fare bene il proprio lavoro.

Perché le regole non sono quelle scritte, bisogna intenderle per evitare che un atto dovuto, come l’accoglimento o la bocciatura di una pratica, assuma un significato diverso, quasi una sottomissione al gioco sporco o viceversa un oltraggio all’onore e una mancanza di rispetto. Difficile per un giovane funzionario che è già responsabile dei servizi esterni di una delle tre filiali bancarie di Locri.

In quel 23 ottobre di venti anni fa Giuseppe guidava attento alle insidie della famigerata statale 106. Guidava e di certo pensava alla sua famiglia. Era separato dalla moglie, che era tornata a vivere in casa dai suoi col figlio Giovanni. Mara si era sposata che era ancora una ragazza, con l’università da portare a termine.

Poi qualcosa era andato storto: s’erano separati. Ma i rapporti erano buoni e per Giuseppe c’era sempre il posto apparecchiato a tavola. Di certo Giuseppe pensava che tutto si aggiusta, in un modo o nell’altro, e quel figlio aveva voglia di vederlo crescere.

Era attento alle insidie della strada. Alla ‘ndrangheta non ci pensava proprio. E invece quella sera lo aspettavano sulla statale, di fronte all’area archeologica, al Museo di Locri Epizefiri. Un lampo, tutta la vita davanti agli occhi. Un colpo, due colpi di lupara. I finestrini vanno in frantumi, il sangue scorre. Ancora qualche attimo, diventato eterno.

Gli anni della ‘ndrangheta

Era il 1989, erano gli anni della seconda guerra di ‘ndrangheta a Reggio Calabria – cento morti ammazzati all’anno, dall’85 al ’91 – erano gli anni dell’anonima sequestri. E si viveva col terrore. Decine di famiglie colpite dalla piaga dei rapimenti. Decine di commercianti costretti a pagare la mazzetta.

Leggi scritte col sangue quelle della ‘ndrangheta, nessuna possibilità di chiamarsi fuori, pena la morte. È toccato a Cecè Grasso, fiero e onesto commerciante ucciso a Locri il 20 marzo di quel 1989. Non voleva pagare, non voleva lasciare la propria terra. E lo hanno ucciso. È toccato a tanti altri.

Toccherà anche a un altro giovane bovalinese, Totò Speranza, ammazzato come un cane il 13 marzo del ’97 per un debito di 300mila lire. Aveva 28 anni, fumava marijuana, non ha pagato il suo rampante pusher ed è morto. Come accade solo in Colombia.

Tutta Bovalino ha pagato un prezzo altissimo. Un paese tranquillo, sostanzialmente estraneo alla ‘ndrangheta. C’erano pure i turisti, il grande campeggio, i ristoranti, gli stranieri per le strade. Prima che le cosche di tutta la zona, da Locri ad Africo passando per San Luca, la cingessero d’assedio.

Una colonizzazione violenta e sanguinosa, fatta di mazzette imposte con la forza, edificazioni selvagge, minacce e ignoranza. E soprattutto sequestri. Un’intera zona del paese è stata costruita coi miliardi del rapimento di Paul Getty III, nipote di un riccone americano incatenato in Aspromonte nel ’73. Da allora una lunga processione di anime strappate ai propri cari salirà sui monti che furono dei Greci.

Nel ’93, alla fine della stagione dell’anonima, nella sola Bovalino si conteranno 18 rapiti. L’ultimo di loro, Lollò Cartisano, non tornerà più a casa: faceva il fotografo, Lollò, e aveva il vizio di non pagare la mazzetta.

Il muro della vergogna

Accanto al museo della Magna Grecia a Locri c’è un muro che è il muro della vergogna. Proprio lì hanno trovato il corpo di Giuseppe Tizian. Lo hanno trovato dentro l’auto, sul ciglio della strada. Hanno trovato l’arma del delitto, un fucile calibro 12, con matricola abrasa, caricato a pallettoni, abbandonata dietro un cespuglio 200 metri più avanti. Poi non hanno trovato più nulla. Il muro della vergogna e della dimenticanza.

Eppure le indagini erano partite col piede giusto. A caldo gli investigatori del commissariato di Siderno dissero che Peppe era un “funzionario integerrimo”. Una dichiarazione che già spiega in sé il movente, la dinamica, gli interessi e circoscrive la rosa dei potenziali mandanti.

Certo le prove sono altro dai sospetti. Le hanno subito cercate nel posto più ovvio, seguendo la pista dell’attività bancaria. Coordinati dal magistrato Carlo Macrì, i poliziotti sono andati in banca, hanno guardato fra le carte, hanno fatto qualche domanda ai colleghi di Tizian.

Tutti spaventatissimi e arrabbiati, tanto da serrare per un giorno le banche locresi e affidare alla stampa lo sfogo amaro di una categoria che “giornalmente, in maniera certamente emblematica, viene ad essere sottoposta a pressioni o minacce che, purtroppo, la classe datoriale, volutamente o no, finge di ignorare.

Tali episodi delittuosi rappresentano il degrado socio-economico, politico e istituzionale in cui versa la Locride, nonché l’intera provincia reggina”. Era venti anni fa e sembra oggi.

Omicidio passionale?

Tizian era separato dalla moglie, tanto basta a far circolare subito le voci tossiche e vigliacche dell’omicidio passionale, come sempre accade. Si uccide per la seconda volta con il fango sul morto ancora caldo. Ecco che il fascicolo del caso si riempie di accertamenti sulla vita privata e sentimentale, e la pista principale viene quasi abbandonata.

Non si arriva da nessuna parte. Che ci siano state o meno altre donne nella vita del bancario Tizian, resta un assurdo vuoto di indagini. La verità sta ancora tra quelle carte in banca, e la vergogna su quel muro.

Dal 23 ottobre dell’89 inizia per la famiglia di Giuseppe un lungo calvario, fatto di silenzi e ostilità. Di paura e solitudine. Di sacrifici per ricominciare e andare avanti. Le indagini a rilento, le strane richieste ai parenti impegnati nella fabbrica di famiglia. Fino all’incendio che ha distrutto tutto e ha imposto l’esilio volontario e la colpa di essere vittime.

I Tizian vivono oggi a Modena e tornano a Bovalino ogni estate. Per anni si sono tenuti dentro il dolore e la vergogna assurda e tutta calabrese di dover giustificare un morto ammazzato, colpevole fino a prova contraria.

Per anni, fino a un giorno come tutti gli altri di sei anni fa quando all’improvviso sono arrivate le lacrime: il figlio di Peppe, Giovanni, ha pianto per la prima volta a 21 anni, e da allora ha iniziato un coraggioso percorso di verità e di giustizia, personale e collettivo, facendo pace col passato.

Ha voluto studiare criminologia e dedicare mesi e sacrifici a un’ottima tesi sulla ‘ndrangheta (che è on line sull’archivio web Stopndrangheta.it), ha iniziato la carriera di giornalista e oggi si occupa di criminalità organizzata scrivendo per un quotidiano di Modena, dove nel frattempo la ‘ndrangheta ha messo radici.

Una ricerca di verità che è personale, ma anche e soprattutto collettiva. La voglia di dare un senso alla giustizia negata ha spinto Giovanni a cercare alleati. Ecco che inizia la collaborazione con Democrazia e Legalità, Liberainformazione.org e Rivistaonline.com, tre siti di informazione tematici.

Ecco che nel 2008 arriva la Lunga Marcia della Memoria – la manifestazione promossa dall’associazione daSud per ricordare le vittime della ‘ndrangheta – e il 22 luglio si va in processione a Pietra Cappa in Aspromonte. È un luogo mistico, che ha fatto innamorare i colonizzatori della Magna Grecia.

Lassù hanno trovato dopo dieci anni dal sequestro i resti di Lollò Cartisano. Dal 2003 la famiglia lo ricorda con una cerimonia semplice e toccante. Nel luglio di due estati fa insieme ai Cartisano c’erano i ragazzi stranieri del campo di volontariato di Libera Locride e quelli di daSud.

C’erano Deborah Cartisano e Stefania Grasso, due ragazze splendide e coraggiose che hanno deciso di proseguire le orme dei padri impegnandosi con l’associazione Libera. C’era Giovanni, che per la prima volta ha deciso di parlare davanti a tutti della sua storia. E la scorsa estate è toccato a Mara raccontarsi e ricucire i fili della memoria. Episodi intensi e commoventi di un lungo percorso di crescita e condivisione tra i familiari delle vittime, riuniti in tanti con Libera Memoria.

Per lo Stato Giuseppe Tizian è solo il nome di un fascicolo riposto in un archivio polveroso a Locri, tanto nascosto che ci è voluto un anno per ritrovarlo e consegnarlo alla famiglia. Un caso irrisolto, uno dei tanti. Un’altra ingiustizia da riparare.

Il primo passo è la richiesta del riconoscimento dello status di vittima della mafia, con le pratiche preliminari che la famiglia ha deciso adesso, e faticosamente, di avviare. Per fare chiarezza e per dare un po’ di sollievo al dolore.

Per la Calabria Giuseppe Tizian è ancora il nome dal sapore forestiero di uno sconosciuto. È per questo che la scorsa estate, durante la Lunga Marcia della Memoria 09 di daSud, vie e piazze di decine di città italiane sono state dedicate a Giuseppe e alle altre vittime delle mafie.

A Modena insieme ai Tizian e a Bologna con i parenti di Rocco Gatto (ucciso nel ’77 a Gioiosa Ionica), a Milano come a Roma, a Reggio Calabria come a Pordenone, Palermo e Napoli. Azioni pacifiche e colorate per intitolare simbolicamente i luoghi principali delle nostre città ai nostri migliori concittadini, quelli che hanno detto no e sono stati uccisi.

Per ridare vita alla meglio gioventù di questo sconsolato Paese occorre non dimenticare. Sono i Tizian ad insegnarci come fare. Ce lo hanno insegnato i ragazzi di Bovalino Libera, che con Deborah Cartisano, l’attore teatrale Nino Racco e Totò Speranza seppero scendere in piazza nel 1993 e dire al mondo che il loro non era un paese di sequestratori, ma di sequestrati.

Ce lo hanno insegnato don Luigi Ciotti e Libera, la grande associazione di associazioni che ha appena chiuso a Roma gli Stati generali dell’antimafia-Contromafie. Ce lo insegnano i risultati della Lunga Marcia della Memoria, di daSud, di Stopndrangheta.it. Basta volerlo e mettersi insieme.

Resta la vergogna su quel muro a Locri, nella terra che ci ricorda i fasti magnogreci. È lì da venti anni esatti. E va rimossa.

 

 

 

IL MURALE DELLA MEMORIA 2010
Associazione daSud Pubblicato il 26 lug 2010

Sabato 24 luglio, alle ore 11, sono iniziati i lavori di realizzazione del murales in ricordo di Peppe Tizian: siamo a Locri, SS 106 di fronte all’area archeologica. «Il “Crimine” non paga. La Locride è anti’ndrangheta», è il contenuto del murales realizzato sul “muro della vergogna”. Quel muro contro il quale Giuseppe Tizian – un giovane bovalinese che lavorava al Monte dei Paschi di Siena di Locri – è andato a sbattere con la sua macchina, dopo essere stato massacrato e sfigurato dal piombo di una lupara senza volto, imbracciata da due uomini in motocicletta. Uomini senza volto, ignoti. Una vita spezzata, quella di Peppe. Una memoria estorta che daSud vuole ricordare durante la terza Lunga Marcia della Memoria, dedicata quest’anno ai nuovi linguaggi antimafia.

 

 

 

 

In memoria di Giuseppe Tizian
Associazione daSud – Pubblicato il 24 gen 2012

La Lunga Marcia della Memoria 2011 dell’Associazione daSud è a Bovalino. Un anno dopo la realizzazione del murale in memoria di Giuseppe Tizian, vittima innocente di ‘ndrangheta, l’associazione daSud interviene per farsi carico di quello che le istituzioni hanno dimenticato, ancora una volta. Il murale, coperto dalle erbacce, nascosto da sterpaglia e illegibile, viene restituito alla cittadinanza. Per ricordare a chi passa sulla statale 106, laddove fu ucciso Giuseppe Tizian, che la Locride è anti-‘ndrangheta. Parola d’onore!

 

 

 

 

Articolo del  24 Ottobre 2012 da strill.it
Memorie – Chi era Peppe Tizian
di Anna Foti

Dirigersi a casa una sera di ottobre, senza mai arrivarci. Essere ucciso a colpi di lupara dentro la propria auto dopo una giornata di lavoro come tante, mentre da Locri si rientra a Bovalino, in provincia di Reggio Calabria. E’ accaduto il 23 ottobre 1989 a Peppe Tizian, ‘bancario integerrimo’ come detto a ridosso del ritrovamento dagli agenti del Commissariato di Siderno. Lì sulla Statale 106 di fronte all’area archeologica di Locri Epizefiri fu ritrovato il suo corpo esanime con l’arma del delitto, un fucile calibro 12 con matricola abrasa e caricato a pallettoni, a pochi passi. Oggi in quello stesso punto sorge un murales cui Istituzioni e Cittadinanza dovrebbero dedicare maggiore attenzione non come si ha cura di qualcosa di passato, vecchio e trascurabile ma come si coltiva un valore che genera futuro e speranza come appunto la memoria. La storia di Peppe Tizian potrebbe essere archiviata come tante altre storie di Giustizia denegata e potrebbe essere dimenticata come tante altre storie di resistenza e di ingiustizia non consentita.
Ecco perché, invece, occorre ricordarla.
Silenzi e depistaggi fino all’impunità. Oggi la famiglia Tizian vive in Emilia Romagna ma conserva un forte legame con la Calabria, con Bovalino dove torna ogni estate.  Questa estate il figlio di Peppe, Giovanni giornalista d’inchiesta che ha denunciato connivenze, malaffare e infiltrazioni mafiose della ‘ndrangheta e della camorra in Emilia e che per questo vive sotto scorta, non è sceso in quella Calabria alla quale non rinuncia. Nell’occasione del ventitreesimo anniversario della morte di suo padre, lui si è raccontato con la genuinità e la semplicità di un giovane che ogni giorno pratica la Resistenza Civile ed insegna Ottimismo e Speranza.

Chi era Peppe Tizian, uomo e padre?
Un instancabile sognatore, ma con i piedi sempre per terra. Affettuoso e duro quando serviva. Amante delle moto e dei motori. Sentiva la giustizia sociale come un principio da cui la società non poteva prescindere. Come padre per i pochi anni che mi ha tenuto per mano è stato capace di trasmettermi coraggio e onestà. E con la sua morte mi ha insegnato a resistere.

Il 23 ottobre 1989, a colpi di lupara, veniva assassinato tuo padre, Peppe Tizian mentre da Locri rientrava a Bovalino dopo una giornata di lavoro. Quanti anni avevi? Cosa ricordi o cosa ti è stato raccontato di quella sera?
Avevo 7 anni, ricordo poco e niente. Immagini confuse, una nebulosa di ricordi. Ricordo che mi è stato raccontato subito come un incidente, poi la verità. Terribile.
Peppe Tizian, un funzionario di banca che non si è piegato al malaffare mafioso. Un esempio di integrità. Un uomo per bene che, come tanti (troppi!) per la sua rarità assurge, quando è troppo tardi per onorarne e difenderne la vita, ad eroe. Ma secondo te, tuo padre era un eroe o un uomo per bene. Come vorresti che fosse ricordato?
Come un lavoratore normale, non credo negli eroi (in questo pese gli eroi servono solo a liberare la collettività dalle responsabilità e dall’impegno quotidiano, come dire: “tanto ci pensano gli eroi a salvarci, noi possiamo stare tranquillamente a guardare’’). Vorrei che fosse ricordato come Peppe Tizian, padre, lavoratore, uomo, con i suoi sogni, i suoi ideali, i suoi sbagli, il suo impegno.
Quella sera la tua vita è cambiata e forse anche il futuro che avresti scelto. Tu oggi racconti la ndrangheta nella tua attività giornalistica. Ormai emiliano di adozione, hai drammaticamente ritrovato anche lì il fenomeno mafioso. Come sei arrivato scegliere questo mestiere e perché hai scelto di occuparti proprio di mafia?
Ho iniziato quando mi sono accorto di alcune logiche che regolano la vita economica anche in Emilia. Il favore, la corruzione, gli incendi dolosi, le minacce, la cocaina. Mi sono chiesto chi stesse dietro a tutto questo. E piano piano con la Gazzetta di Modena abbiamo iniziato a raccontare il potere dei clan in Emilia, e al nord. Potere che non porta il nome solo di ‘ndrangheta, ma anche di clan dei casalesi.

Gli emiliani cosa pensano della ndrangheta in casa loro e della Calabria?
C’è un pezzo di comunità che ha compreso la pericolosità sociale ed economica della ‘ndrangheta. Altri, la maggior parte, continuano a non pensarci, a minimizzzare, a rimuovere il problema. Soprattutto la politica e l’imprenditoria evitano di andare oltre e affrontare il problema per quello che è, cioè economico e non più roba di guardi e ladri. Di ordine pubblico.

Rischi la vita, come l’ha rischiata e drammaticamente perduta tuo padre. Perché pensi che valga la pena di onorare la funzione sociale del giornalismo fino a questo punto?
Quando ho iniziato a scrivere non credevo di dovere arrivare a questo punto per continuare a lavorare. Ma questa è l’Italia. Un Paese che mal sopporta l’informazione, la libera informazione. Onorare la funzione sociale del giornalismo vuol dire innanzitutto raccontare quello che costringe il nostro Paese in questa immobilità. Stretto tra corruzione e mafia. Quella funzione sociale non la si onora perché viene assegnata una scorta, ma si onora lavorando assiduamente per contribuire alla formazione di una coscienza collettiva, credo che il giornalismo e l’informazione possano essere uno strumento a disposizione dei cittadini con i quali essi possono leggere la realtà che li circonda. Spetta a loro poi chiedere conto alle Istituzioni. Spetta a loro boicottare i locali di cui scriviamo negli articoli e li indichiamo come mafiosi.

Ti sei mai sentito solo nel dire la verità? Le verità hanno un prezzo o un valore?
Solo mai. Siamo in tanti e altrettanti hanno creato una rete senza precedenti, una rete che chiede diritti, regole, giustizia. E verità. Senza verità non ci può essere giustizia. L’Italia dei misteri ha bisogno di sapere, di conoscere, chi l’ha ridotta così. Credo sia un valore fondamentale per una democrazia vera.

Cosa hai pensato quando hai saputo della campagna promossa da ‘DaSud’ ‘Io mi chiamo Giovanni Tizian’ ? Che valore ha la solidarietà?
Ha un valore enorme, i ragazzi di daSud sono persone splendide. Sempre vicine e compagni di viaggio nel recupero della memoria estorta.
Secondo te lo sfruttamento del lavoro, la privazione di un presente e di un futuro, costituiscono una forma di mafia?
Sono un ricatto a una generazione. ‘Vi diamo il futuro solo se ci votate’, in molti paesi funziona così. A volte questo ricatto si mischia al potere delle mafie, altre sono politiche neoliberiste. Stanno svuotando il senso del lavoro.

Ti sei mai pentito delle tue scelte?
No mai, anzi siamo sulla strada giusta.
Dopo il libro inchiesta “Gotica. ’Ndrangheta, mafia e camorra oltrepassano la linea”, di cosa ti stai occupando in questo momento e che progetti hai?
Sto scrivendo un secondo libro. E lavoro per il gruppo Espresso
Cosa è per te la paura e cosa il coraggio?
La paura è la sensazione di trovarsi da solo di fronte al pericolo, agli ostacoli, alle tragedie. Il coraggio è una forma di resistenza, diversa dal coraggio prepotente e gradasso del mafioso o del corrotto, il coraggio vero è la spinta a dire di no alle ingiustizie, opporre dei no di fronte a scorciatoie che possono anche avere conseguenze sulla propria vita.
Da quanto manchi dalla Calabria e come è ritornare in questi luoghi straordinari e maledetti al contempo? Che legame hai con questa terra?
A Bovalino ci torno ogni estate. Prima ci tornavo tre volte all’anno. Solo quest’anno non ho visto il mio mare. Ho un legame fortissimo, per il mare dello Jonio è un elemento essenziale. Non potrei farne a meno. Certo, mi ha fatto molto male. Ma ho imparato a vivere il bello della Locride. Nonostante tutto e nonostante le critiche subdole che ho ricevuto proprio da quei paesi.

Hai partecipato alla Lunga Marcia della Memoria, con Deborah Cartisano e Stefania Grasso. Che valore attribuisci alla memoria di coloro che hanno pagato con la vita il coraggio di opporsi e di resistere civilmente alle mafie?
Il punto di partenza per il cambiamento. La memoria è il motore del cambiamento. La memoria non si può rottamare o cancellare. E’ più forte di tutto. E ritorna sempre. La Lunga marcia è un esperienza unica. Che tutti gli italiani dovrebbero fare.

Se tuo padre fosse vissuto in questo frangente storico ed avesse oggi opposto resistenza… l’epilogo sarebbe stato il medesimo? Perché?
Non lo so. Non credo. Quei tempi erano di una ferocia unica.

Il delitto di tuo padre non ha responsabili. Un’altra vergognosa impunità. Perchè secondo te?
Non ho una risposta, o meglio la risposta è agli atti e nel decreto di archiviazione. Mancanza di indagini approfondite. Il fatto è che, come mio padre, altre vittime sono rimaste senza giustizia. Erano anni terribili, i sequestri, gli omicidi, le faide. Massoneria e ‘ndrangheta a braccetto. Imprenditori impuniti. A distanza di anni, quel vuoto mi fa ancora molto male. E ancora più male mi ha fatto avere constatato che le indagini sono state superficiali. Lo raccontano bene Alessio Magro e Danilo Chirico in ‘Dimenticati’.

Come tu e la tua famiglia avete convissuto in questo lungo ventennio e come continuate a convivere con questa ingiustizia perdurante? Quanto questo incide sulla fiducia che nutrite nelle Istituzioni?
Viviamo con un vuoto. E’ come se ci mancasse un pezzo della nostra vita. La fiducia nelle Istituzioni c’è sempre stata. Il problema sono certe figure che popolano le istituzioni, questa è un’altra storia.

Che opinione hai dell’Antimafia? Cosa pensi dei ‘professionisti dell’antimafia’ di Leonardo Sciascia? Credi che oggi vi siano politici, magistrati, giornalisti ed altri professionisti capaci di strumentalizzare la fondamentale ed ineludibile lotta al crimine organizzato per carpire voti, fare carriera, ottenere visibilità e stare sul mercato?
Credo solo che la competizione faccia molto male all’antimafia. Professionista dell’antimafia hanno chiamato pure me, colleghi di Modena e calabresi. Ma che dicano quello che vogliono, personalmente continuo a scrivere, a impegnarmi e a lottare insieme alle realtà impegnate nell’antimafia. Il resto lo lascio a chi vorrebbe contrapporre blocchi.

Quali risultati importanti ha raggiunto, secondo te, l’Antimafia oggi e quali ancora non è riuscita a raggiungere?
Occupare i beni un tempo dei padrini. Far pentire affiliati. Offrire un’alternativa. Non è ancora stata capace di vincere. Ma la strada è quella giusta. Forse i nostri figli…chissà.

Quale la sfida che ti attende adesso e quale credi sia la sfida che attende l’Italia e la Calabria?
All’Italia spetta la sfida di diventare un Paese normale, senza misteri e trame torbide. Un paese giusto. E idem per la Calabria dove i segnali importanti non mancano. Tanti imprenditori rialzano la testa.

Che cosa oggi Giovanni vorrebbe poter dire a suo padre Peppe?
Vorrei dirgli tante cose. Che mi manca, che con lui mi hanno strappato i ricordi, che il capanno ogni anno è sempre più bello, che il murales di Locri è per lui, che da domani ci sarà un murales anche a Carpi(Mo), che siamo ancora qui a resistere, nonostante tutto e tutti.  E che forse questa guerra la vinceremo.

 

 

LA NOSTRA GUERRA NON È MAI FINITA
di Giovanni Tizian
Editore Mondadori

“Un corpo irriconoscibile abbandonato come un cane nelle campagne della Locride. L’interminabile, soffocante stagione dei sequestri di persona. E poi, nella nostra carne, le fiamme che divorano il mobilificio di nonno Ciccio, l’omicidio di mio padre. E nessun colpevole. Perché continuare a vivere in una terra che ripagava il nostro amore incondizionato con tanta spietata ferocia? Andarsene via, ovunque, purché lontano da Bovalino, fuori da quei confini diventati così angusti. Approdare in una città accogliente come Modena, nel tentativo di rimuovere, di dimenticare il passato, di trovare una normalità. Nascondendo a tutti, persino a me stesso, la rabbia e la sofferenza. E così ho fatto per tanto tempo, fino a quando, ormai ventenne, ho chiesto in lacrime a mia madre di guidarmi nel doloroso esercizio della memoria. Ho voluto sapere tutto di quella sera del 23 ottobre 1989, di quei colpi di lupara sparati contro la Panda rossa di mio padre. Dopo, per me è stato l’inizio di una nuova vita. Senza più vergogna, senza più sentirmi addosso gli sguardi di commiserazione della gente. Ma ricordare e raccontare sono atti troppo rivoluzionari, troppo scomodi per chi ha costruito il proprio impero sulla menzogna e sull’omertà. Intanto la ‘ndrangheta aveva viaggiato più veloce di noi ed era già lì, nell’Emilia terra della Resistenza, a conquistarsi sul campo il predominio della criminalità organizzata e pronta a zittire le mie inchieste giornalistiche.” (Giovanni Tizian)

 

 

 

Fonte: cosavostra.it
Articolo del 21 ottobre 2018
Giuseppe Tizian. La memoria come motore del cambiamento
di Ludovica Mazza

Giuseppe Tizian, il bancario integerrimo. Una definizione, questa, che sfida i muri del tempo, che sorvola gli abissi della memoria, che rimane attaccata alla storia. Difficile concepire la memoria come qualcosa di nebuloso e sfocato, plasmato dai mille giorni del dopo, quando si fa carne, uomo, padre.

Il 23 ottobre del 1989 Giuseppe Tizian viene ucciso a colpi di fucile mentre tornava a casa dal lavoro. A Locri, in quella che fu una delle anse sinuose della Magna Grecia, il suo corpo fu trovato accasciato in macchina.

Il 23 ottobre del 1989 Giovanni Tizian, suo figlio, che aveva 7 anni, ancora non sa che il padre non ci sarà più. Il 23 ottobre del 1989 rimarrà per lui uno di quei giorni strappati al tempo, uno di quei giorni in cui le pieghe delle lancette si incastreranno nei pensieri sanguinanti.

Dopo c’è la cronaca, c’è la storia.

Chi era Giuseppe Tizian? Un uomo, semplicemente un uomo. Un funzionario di banca. Con l’aggiunta di quell’aggettivo che delinea lo spazio della virtuosità e, probabilmente, ha delineato anche i motivi del suo omicidio. Integerrimo. Superlativo di integer, intero. Nessuna spaccatura in quest’uomo. Nessun solco tracciato da corruzione. Onesto, semplicemente.

E l’onestà fa paura.

Le indagini seguirono subito la pista del lavoro. Come dissero i colleghi, infatti, la loro categoria lavorativa giornalmente veniva ad essere sottoposta a pressioni o minacce che, purtroppo, la classe datoriale fingeva di ignorare. Ma qui si fermarono. Il bancario integerrimo era troppo pulito, troppo chiaro, troppo perbene per poter trovare qualche elemento da cui far partire le indagini. L’integer non ha abissi. E senza abissi non si può scavare. “Il paradosso dell’onestà”, come lo definì anni dopo il figlio Giovanni.

Si volsero all’uomo, allora. Alla sua vita privata, a un probabile omicidio passionale. Scandagliare la vita, frugare negli anfratti più privati, più personali, ribaltarli ed esporli a giudizio. Perché pensare ‘ndrangheta fa paura. Scriverlo, fa paura. Sostenerlo, ancora di più. E allora far scivolare il tempo, inesorabile, tempo che insabbia e soffoca e offusca. Tempo che non dà spiegazioni, che trascina sempre più la verità nei confini dell’indistinto, tempo che toglie la dignità ad un uomo, che toglie la dignità della morte e lascia le risposte intrappolate in fogli di carta.

A Giuseppe Tizian fu rubata la vita. Fu rubata l’integrità. Di Giuseppe Tizian si sarebbe dovuto dimenticare persino il nome, affossato nei gorghi dell’irrisolto. Alla sua famiglia fu negata la giustizia. Fu negato sapere. E fu costretta a un esilio volontario in Emilia Romagna, anche a causa dell’incendio dell’azienda di proprietà avvenuto un anno prima della morte di Giuseppe. Anche questo senza volto, senza nome, senza perché.

Ma la memoria, la memoria ridona, così come toglie.

Perché quel figlio, quel Giovanni, ha portato con sé quei giorni, incastrati nel cuore e nell’anima. Ha portato con sé, sfidando il tempo, suo padre. E ha portato con sé la voglia di verità. L’ha assecondata, ha fatto sì che crescesse, integerrima, e germogliasse. Ha fatto sì che la morte del padre potesse trovare riscatto, o quantomeno pace.

Ha studiato, si è laureato in criminologia. È diventato giornalista di inchiesta, si occupa di criminalità organizzata e, guarda caso, specialmente di ‘ndrangheta. E ha iniziato a cercare. Dopo due anni dalla richiesta ha ottenuto dal Tribunale di Locri il fascicolo relativo al caso del padre. Gli ha restituito dignità quale vittima di mafia e non dell’ignoto. Ha intrapreso un cammino per rendere giustizia a tutti coloro che sono rimasti senza volto, persi nei labirinti della corruzione che devasta il nostro Paese. E combatte, a colpi di parole, integerrime anche esse. Combatte resistendo alle minacce, senza piegarsi. Vive sotto scorta, amaro destino per chi ha il coraggio di servire La Verità. “Onorare la funzione sociale del giornalismo vuol dire innanzitutto raccontare quello che costringe il nostro Paese in questa immobilità. Stretto tra corruzione e mafia. Questa funzione sociale […] si onora lavorando assiduamente per contribuire alla formazione di una coscienza collettiva”[1]. Una coscienza che sappia far memoria della verità. Che sappia ricordare. E che sappia urlare. Perché il silenzio è l’altro volto dell’oblio. E il dimenticare soffoca qualsiasi dignità. Che se ne parli, quindi, di coloro che il male voleva dimenticare. Che divengano materia condivisa, memoria condivisa, collettiva. Perché se nessuno coltiva la memoria niente potrà cambiare. Perché la memoria è il motore del cambiamento.

“La nostra guerra non è mai finita” è il titolo del libro scritto da Giovanni nel 2013. Ne ripercorre la vita, vita che si intreccia a tutte quelle che sono state accatastate negli archivi polverosi della giustizia e dimenticate. Vite che devono essere portate alla luce. Perché opporsi alla mafia è opporsi al silenzio, alla menzogna, all’omertà. Combattere per la verità non ha tempo. Combattere per la verità spesso significa ridare dignità al tempo, alla memoria, al dimenticato. Combattere per verità è combattere per ogni forma di libertà. Quindi si, la nostra guerra non è mai finita. Ma, alti i vessilli, noi ricordiamo. Noi domandiamo, cerchiamo, chiediamo. Noi vogliamo risposte. Vogliamo la verità.

“Memoria, memoria, che sei tu mai! Tormento, ristoro e tirannia nostra, tu divori i nostri giorni ora per ora, minuto per minuto e ce li rendi poi rinchiusi in un punto, come in un simbolo dell’eternità! Tutto ci togli, tutto ci ridoni; tutto distruggi, tutto conservi; parli di morte ai vivi e di vita ai sepolti!”

Ippolito Nievo, “Le confessioni di un italiano”

 

 

 

 

One Comment

  • Nuccia

    Pur vivendo in provincia di Reggio Calabria e lavorando in banca devo dire sinceramente che non conoscevo la storia di Giuseppe Tizian ….solo grazie al servizio andato in onda su Rai1 domenica 23 maggio (ahimè spiace dirlo a mezzanotte)…. ho conosciuto la sua triste storia. Tragicamente ucciso e nessuno ha pagato. Poi inaccettabile è chi impropriamente si riempe la bocca di finta solidarietà per i magistrati che lottano la Ndrangheta e rischiano la propria vita….solo per farsi pubblicità mentre in realtà camminano in direzione opposta….

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