27 Aprile 1996 Lucca Sicula (AG). Ucciso Calogero Tramuta, ex agente della Guardia di Finanza. Avrebbe intralciato gli affari della società di Emanuele Radosta.

Foto da: alqamah.it

Il 27 Aprile del 1996, a Lucca Sicula (AG), fu ucciso Calogero Tramuta, ex agente della Guardia di Finanza, commerciante di arance. Il delitto, avvenuto in una pizzeria del paese, era stato commissionato perché avrebbe intralciato gli affari della società di Emanuele Radosta, titolare di un’azienda agrumicola. I contrasti sarebbero sorti su una partita di arance commercializzata in Toscana e sull’acquisto di un terreno. Radosta è lo stesso condannato a 30 anni per l’omicidio di Giuseppe Borsellino ucciso nel 1992, padre di Paolo che abbiamo ricordato il 21 aprile.

 

 

 

Articolo del 21 Marzo 2017 da alqamah.it
Calogero Tramuta e il sogno delle arance di Sicilia libere dall’oppressione mafiosa
Di Marcello Contento

Il 31 Agosto del 1951, all’interno di una piccola casa siciliana a Villafranca Sicula, come si era soliti fare a quei tempi, nasceva Calogero Tramuta. Una terra in cui l’odore degli agrumi e della terra bruciacchiata dal sole si mescola con un caldo vento di scirocco che ti accompagna, in modo indelebile, per tutto il resto della tua vita.

Calogero è il secondogenito dei tre fratelli, prima di lui Nino, il fratello maggiore, e poi Piera, la più piccolina. Un’infanzia tranquilla, vissuta nel piccolo comune agrigentino, circondato dagli affetti dei familiari, degli amici e dei villafranchesi. In fin dei conti, a Villafranca ci si conosce tutti, è un paese tranquillo.

Eppure a Calogero quel paese stava stretto, sebbene fortemente legato alle sue origini, lui era uno spirito libero che non poteva pensare minimamente di vivere esclusivamente per tutta la vita relegato in un piccolo comune. Per questi motivi nel 1967, a soli sedici anni, decide di trasferirsi a Campi Bisenzio, in Toscana, ospitato da un cugino, per cominciare il lavoro di apprendista meccanico e guadagnarsi da vivere autonomamente. Esperienza che si arresta qualche anno dopo, nel 1972, per via di una chiamata ad arruolarsi nella Guardia di Finanza. Divisa che indosserà per più di vent’anni, prestando servizio tra Roma e Firenze.

Ma la svolta più importante della sua vita arriva nel 1993, dopo il congedo dal servizio, quando decide di ritornare nella sua terra natia e di inseguire il suo sogno di sempre: “commercializzare i frutti delle terre siciliane”.

E ci stava riuscendo e anche bene: aveva iniziato in piccolo, comprando le arance direttamente dagli alberi dei contadini per poi rivenderli nei mercati ortofrutticoli. E poi Calogero, oltre a rifornire i mercati di Ribera e Agrigento, aveva anche mosso i primi contatti in Toscana, regione che non solo conosceva bene ma in cui poteva trovare l’appoggio della sorella che viveva da quelle parti. Negli anni a cavallo tra il 94-95 avvia degli accordi per accedere all’importante Mercato Ortofrutticolo di Novoli a Firenze. Un colpaccio che avrebbe fatto la sua fortuna e quella di tanti contadini siciliani.

Ma a qualcuno il lavoro onesto di Calogero non andava proprio bene. E i diretti concorrenti dell’ex finanziere, non erano tipi qualunque, erano i boss del triangolo della morte, tra Villafranca, Lucca e Burgio. Ed erano proprio loro che avevano il monopolio del commercio delle arance sul territorio. E lu maresciallo, così veniva chiamato Calogero, non solo aveva conquistato una fetta importante del mercato locale ma era anche riuscito a pagare onestamente i contadini, senza imporgli i prezzi condizionati delle mafie. Insomma, era una figura scomoda che offriva una valida alternativa all’egemonia mafiosa del territorio.

Quello che tollerava meno di tutti l’attività di Calogero era certamente Emanuele Radosta, figlio d’arte dell’anziano boss Stefano Radosta. Il boss gestiva il commercio ortofrutticolo locale e Calogero si era allargato troppo. Bisognava dargli qualche lezione.

E i segnali non tardarono ad arrivare, tra il 1994 e il 1995 diversi “ignoti”, armati di tavole chiodate, entrarono nei giardini del Tramuta danneggiandogli tutte le arance. E qualora l’ex finanziere non avesse colto il segnale, ce n’erano pronti degli altri.

Ed ecco che poco tempo dopo si presentano: distrutte tutte le pompe di irrigazione dei giardini e sabotati i freni dell’auto. Intimidazioni che non fermano l’attività di Calogero, anche se iniziano ad innervosirlo parecchio. La situazione, però precipita nell’aprile del 1996, quando il solito autocarro pieno d’arance di proprietà del Tramuta e destinato alla Toscana, viene sostituito misteriosamente con un altro carico d’arance di pessima qualità. Calogero aveva capito tutto, la mafia aveva deciso di fermarlo con ogni mezzo.

Avevano deciso di togliergli quella libertà conquistata, per la quale aveva così tanto faticato sin da quando aveva sedici e andò a vivere lontano da casa. Calogero questo non poteva proprio accettarlo.

Il 26 aprile del 1996, carico di rabbia per le ritorsioni subite, sfida direttamente il boss Emanuele Radosta, intimandogli pubblicamente di risarcirgli i danni altrimenti l’avrebbe denunciato. Un affronto che la mafia non poteva accettare.

Lo stesso giorno Radosta ordina di eliminare Calogero. Aveva osato troppo, aveva sfidato la mafia. E il prezzo che dovrà pagare sarà altissimo e non tarderà ad arrivare.

La condanna a morte è stata emessa lo stesso giorno nella notte tra il 26 e 27 Aprile all’uscita della pizzeria “Charleston”, in una sottilissima linea di confine tra Villafranca e Lucca Sicula. La mafia voleva la sua vendetta. Un uomo armato di una mitraglietta, probabilmente con l’aiuto di diversi complici, scarica una raffica di colpi all’interno della sua auto, uccidendolo sul colpo.

Per Calogero non c’era più nulla da fare. Villafranca aveva perso uno dei suoi uomini più solari e liberi. Quando arriva Calogero arriva il sole, commentavano in accezione positiva le persone a lui care. Dall’altra parte il boss Emanuele Radosta che esclamò pubblicamente all’indomani dell’omicidio “Cu tocca a mia s’abbrucia”, nel tentativo di ripristinare il suo ruolo di Boss.

Ma a Radosta era sfuggito un particolare. Non avevano tenuto conto della forza dei familiari e delle persone del luogo che non avrebbero mai abbandonato Calogero anche dopo la morte. Nel giorno dei suoi funerali si racconta che a rendergli omaggio erano presenti tutti e tre i paesini dell’agrigentino al completo.

Pochi mesi dopo arrivano i primi arresti e, dopo una battaglia coraggiosa dei familiari, nel 1997 arrivano anche le condanne: 28 anni di carcere, per Emanuele Radosta, mandante dell’omicidio, e Choub Said, esecutore materiale dell’omicidio. A questa condanna Radosta sommerà anche i 30 anni per l’omicidio dei Borsellino di Lucca Sicula.

Oggi a distanza di ventun’anni Calogero non è stato dimenticato. E difficilmente la sua storia finirà nel dimenticatoio. Nel 2016 Don Luigi Ciotti l’ha voluto ricordare direttamente nel suo paese natale, davanti ad una folla di giovani e adulti, stretti in un abbraccio simbolico e pieno di commozione attorno al loro concittadino. Ma se è vero che questo è un Paese unito, la conferma arriva anche dall’altra Regione a cui era legato Calogero: la Toscana. Il gruppo di Libera Prato, infatti, ha deciso di intitolare a lui il coordinamento provinciale.

Ma la cosa che più di tutti terrà in vita la memoria e il coraggio di Calogero sarà la speranza che la Sicilia e l’Italia tutta possano continuare a produrre i propri frutti sempre alla luce del sole.

 

 

 

Articolo del 17 Marzo 2013 da  ricerca.gelocal.it
Giustizia per mio fratello che osò sfidare il boss

Era un uomo onesto, Calogero. Uno con la schiena dritta, che amava la fatica del lavoro e della vita che non cede al compromesso, all’omertosa contiguità. L’hanno ammazzato a 45 anni. «Mio fratello credeva nello Stato, così gli avevano insegnato in Finanza», racconta Piera Tramuta, 56 anni, siciliana emigrata a Carmignano nel ’68. La storia di Calogero Tramuta assomiglia a quella di tanti siciliani della sua generazione. Nel 1970 ha diciotto anni, da due lavora a Prato come meccanico in un’officina. Il suo sogno però è di entrare nella Guardia di Finanza. E ci riesce, vince il concorso. «Una carriera fra il centro Italia e il nord», dice Piera. «La chiude a Prato e va in pensione giovane, a 42 anni. Voleva tornare nella sua terra, così nel 1993 si trasferisce a Villafranca Sicula, in provincia di Agrigento». Calogero compra un pezzo di terra e coltiva arance, i frutti li vende ai grandi mercati di Agrigento e a Palermo, se la cava bene. A Villafranca però impera il boss Emauele Radosta, 24 anni, uno feroce. Il paese sta tra Lucca Sicula e Burgio, una zona che è chiamata “il triangolo della morte”. «L’attività di Calogero entra in rotta di collisione con la mafia», dice Piera. «Cominciano le minacce, i sabotaggi ai trattori, i carichi di arance improvvisamente marciscono». Calogero il 27 aprile del 1996 dice basta: va in piazza e di fronte a tutti sfida il boss, ci litiga, lo accusa. «Passarono 4 ore, poi Radosta mandò un sicario alla pizzeria in cui era andato a mangiare mio fratello. Calogero uscì, entrò in macchina e gli furono scaricati addosso 26 colpi di mitraglia». Oggi il boss è in carcere, condannato a 28 anni. «Il processo è stato veloce, ma mio fratello per lo Stato non è una vittima di mafia, chi l’ha ucciso – dice la sentenza – l’avrebbe fatto per un litigio finito male. I giudici non hanno attribuito al gesto la matrice mafiosa». Piera non si è mai rassegnata, ha scritto al presidente della Repubblica, al ministro della Giustizia, ai politici e al prefetto di Sciacca. «Non è stato un omicidio di mafia?», continua a ripetere, «non è tipico dei mafiosi usare i sicari? Per di più pagato al prezzo di un permesso di soggiorno, uno straniero che sarebbe stato disposto a tutto pur di ottenerlo? Fuori da quella pizzeria c’erano almeno dieci persone che hanno visto eppure gli unici a parlare sono stati i titolari del locale, che oggi sono costretti a vivere in anonimato e in esilio». (m.n.)

 

 

 

Fonte: Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” Palermo

Per il delitto, avvenuto in una pizzeria del paese, è stato condannato a 28 anni, come mandante del delitto, Emanuele Radosta, figlio del capomafia Stefano, e Said Aziz, un cittadino marocchino, come esecutore. Secondo i collaboratori di giustizia, l’extracomunitario avrebbe eliminato Tramuta su commissione di Radosta, titolare di un’azienda agrumicola, in contrasto con la vittima per motivi d’interesse. Tramuta, secondo la ricostruzione degli inquirenti, avrebbe intralciato gli affari della società di Radosta. I contrasti sarebbero sorti su una partita di arance commercializzata in Toscana e sull’acquisto di un terreno.

Emanuele Radosta deve scontare anche una pena di 30 anni per l’omicidio di Giuseppe Borsellino, avvenuto a Lucca Sicula, che dopo l’uccisione del figlio Paolo, aveva scoperto i probabili assassini.

Radosta è fuggito dal carcere di Bergamo, nell’ottobre del 2004, assieme al rapinatore Max Leitner, con la complicità di un agente, ed è stato arrestato in Marocco il 30 dicembre dello stesso anno.

 

 

 

Articolo da:  akragas.net
Evasione. Ancora nessuna notizia di E. Radosta.

Svanito nel nulla. Volatilizzato dal carcere di Bergamo praticamente senza lasciare traccia. Per Emanuele Radosta, di Villafranca Sicula, figlio del presunto boss locale Stefano Radosta, assassinato nel gennaio del 91, evaso ieri assieme all’altoatesino Max Leitner, alla sua quarta fuga, sono state fondamentali quelle otto ore trascorse prima che la fuga venisse scoperta. Una fuga favorita dalla complicità di un agente penitenziario che ha confessato tutto. Un giovane sulla trentina che ha detto di avere fatto tutto per denaro. Ha atteso che un collega si assopisse per aprire la cella e far uscire i due detenuti, ai quali ha anche procurato una scala di fortuna per scavalcare il muro di cinta del carcere. L’evasione sarebbe avvenuta attorno all’una di notte. Al loro posto, nei letti della cella, i due detenuti hanno collocato due fantocci confezionati con carta e stracci. Le ricerche si sono estese anche a Villafranca Sicula, paese natale dove vive l’anziana madre e due fratelli, sentiti dai Carabinieri e che si sono detti assolutamente sorpresi dell’evento. Emanuele Radosta, 32 anni, deve scontare una pena di 28 anni di reclusione inflittagli dai giudici d’appello di Palermo e confermata in Cassazione per l’omicidio di Calogero Tramuta, un commerciante di arance di Lucca Sicula, ucciso il 27 aprile del 96. Ma anche una pena di 30 anni per l’omicidio di Giuseppe Borsellino, avvenuto a Lucca Sicula, che dopo l’uccisione del figlio Paolo, aveva scoperto i probabili assassini. I Borsellino, proprietari di una impresa di calcestruzzo, furono assassinati perché non si vollero piegare alle richieste di pizzo. Per il delitto di Calogero Tramuta, avvenuto in una pizzeria del paese, era stato condannato anche Said Aziz, un cittadino marocchino. Secondo i collaboratori di giustizia, l’extracomunitario avrebbe eliminato Tramuta su commissione di Radosta, titolare di un’azienda agrumicola, in contrasto con la vittima per motivi d’interesse. Tramuta, secondo la ricostruzione degli inquirenti, avrebbe intralciato gli affari della società di Radosta. I contrasti sarebbero sorti su una partita di arance commercializzata in Toscana e sull’acquisto di un terreno.

 

 

 

Articolo da: ildue.it
Presi gli evasi di Bergamo
da Ansa
Bolzano, 30 dicembre 2004

Max Leitner e Emanuele Radosta sono stati arrestati ieri sera a Rabat, la capitale del Marocco, in una operazione congiunta delle forze dell’ordine locali e degli inquirenti altoatesini.
I due erano in possesso di passaporti falsi.

È finito a Rabat, in Marocco, il sogno di libertà di Max Leitner, detto il «re delle evasioni».
L’altoatesino è stato arrestato ieri sera nella capitale marocchina assieme al siciliano Emanuele Radosta, figlio di un presunto boss assassinato nel 1991 e originario di Villafranca Sicula, con il quale era scappato dal carcere di Bergamo il 15 ottobre scorso.

I due fuggiasti sono stati bloccati dalla polizia locale in una operazione congiunta con gli inquirenti italiani, ha detto il procuratore capo di Bolzano, Cuno Tarfusser.
Hanno ancora tentato di esibire dei passaporti falsi, ma la loro fuga era ormai finita.

Quella di Bergamo è stata la quarta evasione per Leitner che prima era già riuscito ad andarsene da una prigione austriaca, da Bolzano e da Padova.
L’uomo era rinchiuso a Bergamo dal luglio dell’anno scorso. Leitner è uno dei più noti banditi altoatesini che dice di non poter stare in carcere.

Max Leitner – 45 anni, di Bressanone – aveva cominciato a far parlare di sè per una serie di rapine in banca nel Nord Italia e in Alto Adige verso la fine degli anni ’80.
Poi si spinse anche in Austria dove, nell’agosto del ’90, fu catturato dalla polizia austriaca durante un assalto ad un furgone portavalori.
Rinchiuso in carcere in Austria, Leitner riuscì ad evadere da quello che definì un carcere «medievale».
Dopo qualche giorno si consegnò, al confine di Prato Drava, alla polizia italiana: «meglio stare in un carcere italiano che in uno austriaco», aveva detto.
Rinchiuso poi a Bolzano, all’apparenza detenuto modello, fu protagonista della più classica delle evasioni calandosi da una finestra usando lenzuola annodate.
Resta latitante per sei mesi e ritorna poi in carcere a Padova dove ci fu la terza evasione.
Max Leitner era stato catturato a luglio dell’anno scorso nei pressi di Brunico durante le ricerche seguite ad una rapina ad una banca del piccolo paese di Molini di Tures, con un bottino di 30 mila euro.
Prima erano stati catturati i suoi due complici e poi – dopo una gigantesca battuta con intervento anche di uomini della Guardia di finanza, cani poliziotto, un elicottero e le fotoelettriche dei vigili del fuoco per illuminare a giorno tutta l’area – era stata la volta di Max Leitner che i giornali locali avevano chiamato il «Vallanzasca dell’ Alto Adige».
Durante le sue fughe Leitner era sempre rimasto in contatto con i suoi parenti e con la stampa altoatesina.
Così anche dopo l’evasione dal carcere di Bergamo si era fatto vivo ben due volte.
Aveva inviato una lettera al suo avvocato che recava il timbro postale di Torino.
Il rapinatore chiedeva al legale di presentare appello per l’ultima condanna che gli era stata inflitta, sette anni per rapina, e chiedeva inoltre di aprire delle non meglio definite trattative con la procura di Bolzano facendo intendere di essere in grado di far trovare dell’ esplosivo nascosto in Alto Adige.
In un’altra lettera aveva invece difeso la guardia carceraria, accusata di aver preparato la fuga.
«Il secondino non c’entra, è soltanto un peone e per la mia fuga ci sono state protezioni dall’alto», aveva scritto.
«Se fosse stato soltanto il secondino ad aiutarmi – diceva il rapinatore – come avrei potuto telefonare indisturbato per mesi dalla mia cella con un telefono portatile?
In effetti, c’è stata una corruzione, ma a livelli molto più alti».
Leitner diceva inoltre di stare bene e di trovarsi «in un luogo sicuro, dove non c’è il rischio nè di venire trovati, nè di essere estradati».
La fuga, dal carcere di via Gleno a Bergamo, dell’altoatesino Max Leitner, già noto come ‘re delle evasioni’ e del siciliano Emanuele Radosta (nella foto), figlio di un presunto boss assassinato nel 1991 e originario di Villafranca Sicula, era avvenuta la notte del 15 ottobre scorso in maniera tanto sorprendente da far subito sospettare una complicità interna.
E infatti in serata uno dei due agenti di polizia penitenziaria messi sotto interrogatorio aveva confessato di aver favorito l’evasione, pare dietro compenso di denaro.
Estranea al fatto l’altra guardia.
L’agente corrotto aveva atteso che il suo collega si assopisse per aprire la cella e far uscire i due detenuti.
Ai due avrebbe anche procurato una scala di fortuna per scavalcare il muro di cinta del carcere, dal quale Leitner e Radosta erano saltati verso la libertà, facendo subito perdere le loro tracce.
Al loro posto, nei letti della cella, i due detenuti avevano messo due fantocci confezionati con carta e stracci, così da fingere di essere sempre lì, tranquilli e addormentati.

In mattinata un agente della polizia penitenziaria, stupito dal loro sonno profondo, era entrato nella cella e aveva scoperto di trovarsi davanti a due fantocci.
Leitner, 45 anni, di Bressanone, era rinchiuso nel carcere di Bergamo dal luglio dell’ anno scorso, e sarebbe dovuto restare dietro le sbarre fino al 2012.
A Bergamo era comunque considerato un detenuto ad alta pericolosità, resosi responsabile in passato di numerose rapine e con alle spalle già tre evasioni.
Per Radosta, invece, le porte della casa circondariale di via Gleno si sarebbero dovute riaprire in teoria soltanto nel 2054. Fra le varie pene, doveva scontare anche una condanna a 28 anni, già confermata dalla Cassazione, per l’omicidio di Calogero Tramuta, un commerciante assassinato il 27 aprile del 1996 a Lucca Sicula.

L’altoatesino che ora si trova in un carcere del Marocco (nella foto una caratteristica strada della capitale marocchina)probabilmente aveva sottovalutato il pericolo di essere scovato.

Sembra che sia stata proprio una telefonata di Radosta a casa in Sicilia ad aver tradito il loro nascondiglio.
Si è conclusa così una minuziosa operazione investigativa della polizia di stato italiana con le squadre mobili di Bergamo e Brescia, coordinate dal servizio centrale operativo (Sco).
Iniziano ora le procedure di estradizione per riportare Leitner e Radosta in Italia.

 

 

“Aiutatemi, ci stanno uccidendo” dice Leitner dal Marocco
da Ansa
Rabat, 30 maggio 2005

«Aiutatemi, sto morendo»: con questo drammatico appello comincia una lettera inviata dal re delle evasioni, l’altoatesino Max Leitner, rinchiuso da mesi in un carcere di Rabat dopo l’ennesima fuga, l’ultima di una serie di quattro, dalla prigione di Bergamo assieme a Emanuele Radosta, detenuto per reati di mafia.
I due erano stati arrestati in Marocco dopo l’ultima fuga.
«Sono ormai sei mesi che sono qui in carcere, dove sono rinchiuso in isolamento in una cella grande tre metri quadrati al cui interno c’è solo una brandina.
Sono sempre solo, lontano anche dal mio amico Radosta», dice l’altoatesino, condannato per una serie di rapine a banche e furgoni portavalori, in una lettera inviata al
quotidiano Alto Adige.

«La cella – scrive Leitner – è sempre al buio ed è piena di sporcizia. Non ho nemmeno un gabinetto come si deve, figurarsi il lavandino. Da quando mi hanno arrestato non ho mai potuto fare la doccia e per oltre un mese mi hanno legato i piedi alla brandina. Ma la cosa peggiore è che qui mi fanno morire di fame. Il rancio che mi passano è pieno di parassiti e di batteri, non mi basta e allo stesso tempo è mortale.
Sono ormai magro fino all’osso e anche se mio fratello mi ha spedito qualche soldo, mi hanno consegnato solo un terzo della somma e soltanto perchè ho corrotto le guardie».

Leitner nella sua lettera dice di temere per la sua vita:
«Dopo che mi erolamentato per le condizioni in cui sono rinchiuso la dirigenza del carcere ha minacciato di uccidermi.
In prigione gli avvocati hanno avuto l’ordine di minimizzare quello che di illegale sta accedendo qui ma la verità è che la nostra vita è in grande pericolo».
Leitner conclude con un accorato appello alle autorità perchè gli vengano in aiuto:
«Qui – scrive il rapinatore – ci fanno morire di fame e di sete. Il governo italiano o qualcuno dell’ambasciata venga qui così magari riusciranno a salvarci».

 

 

 

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vivi.libera.it
Articolo del 27 aprile 2020
La memoria di Calogero, l’impegno di Piera
di Carmela Pistone

 

 

 

 

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