27 Gennaio 1976 Alcamo Marina (TP) uccisi i carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta. Una strage che ha una terza vittima: Giuseppe Gullotta, che ha trascorso 21 anni in carcere, condannato all’ergastolo, da innocente.

Foto da: Blog “Senza memoria – Viaggio nella storia dimenticata”

La notte del 27 gennaio 1976 un commando fece irruzione nella piccola caserma dei carabinieri di Alcamo Marina (stazione balneare di Alcamo ) ove trucidò l’appuntato Salvatore Falcetta e il carabiniere Carmine Apuzzo. Dopo 21 anni, l’unico che stava scontando la pena per questa strage, due fuggirono in Sudamerica e l’altro si è suicidato in circostanze misteriose, è stato assolto con formula piena per non aver commesso il fatto.
Una storia piena di depistaggi, estorsioni carpite con la tortura ed innocenti condannati all’ergastolo. La verità, secondo un poliziotto che ha ritrovato la memoria di recente, è che i due militari trucidati nella casermetta pagarono per avere fermato il furgone sbagliato. Doveva essere un controllo di routine, ma ai loro occhi apparvero casse piene di armi e decine di combattenti della cellula trapanese di Gladio. Dopo ben nove processi, la Procura della Repubblica di Trapani ha aperto un nuovo fascicolo contro ignoti per l’omicidio dei due carabinieri.

 

 

 

 

Foto e Articolo completo dal Blog “Senza memoria – Viaggio nella storia dimenticata”   
La strage di Alcamo Marina

Correva l’anno 1976. Nel bel mezzo di una notte fredda e piovosa del 27 gennaio un piccolo commando fece irruzione nella casermetta dei carabinieri di Alcamo Marina, in provincia di Trapani. Due militari, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta furono uccisi barbaramente nelle loro stanze. Il primo fu crivellato di colpi mentre dormiva, il secondo, svegliatosi a causa del rumore improvviso, non ebbe il tempo di impugnare la sua pistola.

Falcetta, colpito al petto e al viso, si trovava a terra nella sua stanza, Apuzzo sulla sua brandina, in un’altra stanzetta, in una pozza di sangue. All’esterno solo i segni della fiamma ossidrica nella serratura squagliata e divelta di un piccolo portoncino. Pioveva forte e tuonava continuamente quella notte ad Alcamo Marina, ma come mai i due giovani carabinieri non si erano svegliati?

Erano anni difficili gli anni settanta, anche e soprattutto in Sicilia: il pericolo terrorismo, le brigate rosse, la mafia, i servizi segreti “deviati” presenti in provincia, il traffico di droga e anche gli sbarchi notturni sulle coste del Golfo di Castellammare proprio dove era collocata “la casermetta di Alcamar”.

Alcamo Marina però a Gennaio è una zona apparentemente tranquilla. In quanto frazione balneare di Alcamo, d’inverno era ed è disabitata e desolata, d’estate invece viene presa d’assalto dagli alcamesi in vacanza. Apparentemente non accadeva mai nulla: solo qualche macchina che passava sulla strada statale che collega Trapani a Palermo, ma niente di più.

A segnalare la strage è la polizia: sono gli agenti di scorta dell’onorevole Giorgio Almirante che sta passando sulla statale alle sette del mattino. Vedono la porta della casermetta aperta con la serratura bruciacchiata e avvertono immediatamente i carabinieri.

Poche ore dopo l’eccidio della casermetta, i militari della stazione di Alcamo sono sul posto quando arriva una prima rivendicazione. Un gruppo terroristico sconosciuto, il Nucleo Sicilia Armata, diffonde un messaggio: “La giustizia della classe lavoratrice ha fatto sentire la sua presenza con la condanna eseguita alle 1.55 ad Alcamo Marina”, dice una voce priva di inflessioni al centralinista de La Sicilia. Nel registratore rimangono incise queste parole: “Il popolo e i lavoratori faranno ancora giustizia di tutti servi, carabinieri in testa, che difendono lo stato borghese. Il bottone perso da uno dei componenti del nostro commando armato che ha operato ad Alcamo Marina è una traccia inutile perché l’abbiamo preso da una giacca tempo addietro a Orbetello. Carabinieri e polizia fanno meglio a difendersi e a dedicare le loro energie ad altro.  Fanno meglio a difendersi assieme ai loro padroni fascisti e americani. Sentirete ancora molto presto parlare di noi. Possiamo agire ad Alcamo, a Roma, ovunque”.

Di questo commando terroristico non si sentirà più parlare in futuro ma di certo chi fece tale annuncio era stato sulla scena del crimine o comunque era molto informato: sul pavimento della casermetta infatti era presente proprio un bottone. La smentita delle stesse Brigate Rosse, il 30 gennaio dello stesso anno, sembra però non sbarrare la strada alla pista terroristica.

Quello che manca all’interno delle stanze sono le divise dei carabinieri, le loro pistole e altri oggetti personali. Chi è entrato perché ha preso roba così scottante?

Tante altre furono le ipotesi vagliate dagli inquirenti fin dalle prime ore della mattina del 27 gennaio 1976  perché Alcamo Marina è soltanto apparentemente tranquilla. In quei tre chilometri di spiaggia accadono un sacco di cose e soprattutto d’inverno: ci sono infatti interi sbarchi di sigarette di contrabbando, di droga e forse anche di armi. Altro aspetto importante da evidenziare è che la strage della casermetta non è il primo attacco subito dai carabinieri in quella zona: nel giugno del 1975 qualcuno, mai identificato, aveva già sparato a una pattuglia dei carabinieri verso le 2 di notte.

Sempre ad Alcamo Marina ci sono anche alcuni omicidi eccellenti come quello dell’assessore ai lavori pubblici di Alcamo Francesco Paolo Guarrasi (ex sindaco DC) ucciso nel maggio del 1975 con 4 colpi di pistola, mentre scende dalla sua auto proprio sotto casa. La pistola che lo uccide è la stessa calibro 38 che soltanto un mese prima aveva ucciso ad Alcamo il consigliere comunale Antonio Piscitello.

A capo delle indagini sulla casermetta fu posto il colonnello Giuseppe Russo, allora capitano del nucleo operativo di Palermo, braccio destro del generale Dalla Chiesa, che poi sarà ucciso dalla mafia nel 1977 nell’agguato di Ficuzza. L’orientamento che si diede alle indagini fu rivolto ai gruppi di estrema sinistra fino a quando non accadde il colpo di scena.

La svolta avvenne il 13 febbraio. A un posto di blocco fu fermato un giovane alcamese, Giuseppe Vesco, su una Fiat 127 verde con una targa di cartone “Trapani 121”. Questi aveva in mano una pistola (si pensa che fosse scarica dato che il giovane aveva un arto amputato) e dopo una perquisizione ne venne trovata una seconda. Era una Beretta in dotazione ai carabinieri, probabilmente rubata durante l’omicidio della casermetta. Dopo una perquisizione a casa del ragazzo e attente analisi si dimostrò che Vesco era in possesso dell’arma del delitto. Troppo poco però per condannarlo per omicidio volontario. Fu dunque interrogato dai carabinieri ma questi negò in modo deciso la sua partecipazione all’agguato dicendo che doveva solo consegnare le armi a qualcuno.

La situazione stava diventando sempre più critica. Alle indagini collaboravano anche esponenti dell’antiterrorismo di Napoli e i carabinieri erano molto tesi. Giuseppe Vesco fu bendato e legato. L’obiettivo iniziale era conoscere a tutti i costi il luogo dove erano tenute le armi e le divise trafugate dalla casermetta. Dopo essersi dichiarato “prigioniero politico” e negato in tutti i modi la sua partecipazione alla strage improvvisamente il fermato Vesco cambiò versione.

Dopo circa un’ora Vesco fece ritrovare armi e divise in una stalla di proprietà di Giovanni Mandalà, un bottaio di Partinico (piccolo paese vicino Alcamo). Ai carabinieri non bastava però il ritrovamento di armi, divise e tesserini. Chi faceva parte del commando? A questa domanda Vesco confessò di aver partecipato alla strage insieme ad altri tre ragazzi: Gaetano Santangelo, Giuseppe Gulotta e Vincenzo Ferrantelli.

I tre ragazzi alcamesi più il partinicese Mandalà furono tutti tratti in arresto per omicidio e costretti a confessare firmando un verbale di riconoscimento di colpevolezza.

La versione accertata dei fatti fu la seguente: Giovanni Mandalà, il bottaio di trentotto anni di Partinico, avrebbe forzato la porta della caserma con la fiamma ossidrica e  a sparare  invece sarebbero stati  Giuseppe Gulotta e Gaetano Santangelo, due giovani alcamesi di diciannove e diciassette anni, mentre Vincenzo Ferrantelli, uno studente di sedici anni di Alcamo, avrebbe solo messo a soqquadro le stanze.

Come mai Giuseppe Vesco cambiò versione così facilmente? Potevano mai 3 ragazzi giovanissimi (di cui due minorenni) uccidere a brucia pelo due carabinieri di notte entrando nella loro caserma? E se si, erano soli? Chi aveva progettato questa strage in piena notte in una caserma, un luogo non di certo facile per uccidere due militari?

Negli ultimi mesi del 2007, un ex brigadiere dell’Arma dei Carabinieri, Renato Olino, membro del nucleo anti-terrorismo di Napoli, che partecipò allora alle indagini, ha spiegato come si sono svolti veramente i fatti. Dopo 32 anni dall’accaduto l’ex brigadiere Olino ha affermato chiaramente che sia a Vesco che agli altri ragazzi accusati, le confessioni furono estorte con violenza. Vennero messi nelle loro bocche imbuti e versati al loro interno grossi quantitativi di acqua e sale. Gli accusati furono anche picchiati (perfino nelle parti intime) e venne usato anche un “telefono da campo” in grado di produrre scariche elettriche per torturare ulteriormente i fermati.

Giuseppe Vesco però aveva dichiarato già nel 1976, dopo aver firmato la sua colpevolezza, di essere stato torturato. Il giovane alcamese racconta tutti dettagli delle torture subite e cosa gli è accaduto nelle sue lettere dal carcere San Giuliano di Trapani. In queste lettere descrive minuziosamente il comportamento dei carabinieri e come sono state estorte le confessioni dei fermati. Parole molto dure e scene davvero terribili.

Dopo qualche mese da quel tragico gennaio 1976 Vesco aveva provato anche a scagionare i presunti complici, purtroppo senza riuscirci.

Un altro colpo di scena però accade il 26 ottobre del 1976, pochi giorni prima di essere ascoltato dagli inquirenti: Giuseppe Vesco, nonostante avesse un arto imputato, viene ritrovato impiccato alle sbarre della finestra della sua cella. Tale circostanza non venne mai chiarita.

Gli accusati da Vesco, anche loro torturati, subiscono un’odissea di condanne dopo un iter giudiziario complicato. Ergastolo per il bottaio Giovanni Mandalà, che avrebbe aperto la porta della caserma con la fiamma ossidrica e custodito le armi, ergastolo a Giuseppe Gulotta, che avrebbe sparato, 20 anni a Gaetano Santangelo, che avrebbe sparato anche lui ma allora minorenne, e 20 anni anche a Vincenzo Ferrantelli, che ha rubato armi e divise anche lui minorenne.

Mandalà è deceduto di morte naturale dopo essersi fatto diversi anni di carcere, Santangelo e Ferrantelli, tra un appello e l’altro, si sono rifugiati in un paese del Sudamerica che non ha accordi di estradizione con l’Italia.

Il brigadiere Olino s’è presentato spontaneamente nel 2008 davanti al procuratore capo della Procura di Trapani e ha rivelato che furono mandati in galera degli innocenti, dopo sevizie di cui ancora si vergogna e a cui ha rifiutato di partecipare.

Gulotta ha chiesto e ottenuto la revisione del processo (che si riapre tra qualche mese a Reggio Calabria) e sarebbe un fatto clamoroso se i magistrati riusciranno a provare la sua innocenza visto che ha passato 23 anni all’ergastolo e solo da 2 anni è in libertà vigilata.

Recentemente la Procura di Trapani ha scoperto che per rendere vane le denunce delle sevizie da parte dei ragazzi, i carabinieri ritinteggiarono dopo gli interrogatori le pareti della caserma e cambiarono la disposizione dei mobili. Oggi purtroppo sono passati più di trent’anni, e i reati di sequestro di persona e di sevizie sono prescritti.

MA CHI ERANO I DUE CARABINIERI?
Carmine Apuzzo, diciannove anni, originario di Castellammare di Stabia, in provincia di Napoli, in servizio da circa un anno, era arrivato da poco ad Alcamo Marina. L’appuntato Salvatore Falcetta invece attendeva il trasferimento con ansia, vista la grave malattia che aveva colpito la madre. Contava i giorni, l’appuntato, per avvicinarsi al paese natale ed assistere l’anziana donna, costretta a letto da un enfisema polmonare. “Dovrò sostituite un collega che ha chiesto un periodo di licenza più lungo del previsto, poi andrò a Buseto”, disse ai familiari in una delle ultime telefonate dopo l’Epifania di quel 1976.

PERCHÉ SONO STATI UCCISI?
Prima che venisse fermato Giuseppe Vesco, le prime ipotesi, come abbiamo detto,  furono diverse. Si vagliò l’ipotesi di una vendetta organizzata contro i due militi che avrebbero intralciato, forse casualmente, un illecito affare di un clan mafioso della zona ( i Rimi di Alcamo o la famiglia di Castellammare del Golfo); venne seguita anche la tesi del disegno terroristico del delitto per creare confusione politica nel Paese; inoltre non si escluse il movente per questioni d’onore.

Anche Peppino Impastato è stato coinvolto nella vicenda. Questi, la cui casa fu inoltre oggetto di perquisizione pochi giorni dopo la strage di Alcamo,  riteneva invece che l’uccisione dei due carabinieri fosse maturata in un contesto diverso da quelli fino ad allora ipotizzati. In una delle registrazioni di Radio Aut, Peppino Impastato dice letteralmente: “Il duplice omicidio di Alcamo era un avvertimento sanguinoso dato ai carabinieri per la loro conduzione delle indagini sul rapimento e l’uccisione di Luigi Corleo, gabelliere ed erede del potentato di Bernardo Mattarella nel trapanese“. I carabinieri erano vicini all’individuazione del mandante e quindi è possibile che la strage della casermetta si collochi come espediente per distrarre l’arma dei carabinieri dalle indagini su questo caso.

LE ULTIME PISTE SEGUITE
Un collaboratore di giustizia, Leonardo Messina, della famiglia di San Cataldo di Caltanisetta, soltanto recentemente ha illustrato un’altra verità: quando era in carcere a Trapani venne a sapere da altri mafiosi di Alcamo che la strage della casermetta era stato un errore. Era stato stabilito di affidarla ad alcuni affiliati della famiglia di Alcamo ma poi era stato deciso di che non si sarebbe fatta più. Il contro-ordine purtroppo era arrivato troppo tardi e la mafia aveva ugualmente eseguito l’operazione. Perché la mafia doveva eseguire tale strage? Perché Cosa Nostra aveva pianificato una serie di attacchi allo Stato: era stata decisa una vera e propria strategia della tensione. Probabilmente accordi segreti tra mafia e servizi segreti deviati.

Un altro mafioso della famiglia di Alcamo, Giuseppe Ferro, conferma che la strage della casermetta non fu eseguita da quei giovani accusati e che la mafia questo lo sapeva bene.

Dopo la strage di Alcamo, Peppino Impastato scrive un volantino con le sue opinioni, davvero sorprendenti: l’eccidio dei due carabinieri è stato eseguito da alcuni carabinieri e da parti deviate dei servizi segreti. Ma aggiunge anche altro: su questo delitto i depistaggi erano all’ordine del giorno per coprire alcuni settori pericolosi e  nascosti a livello istituzionale.

Oggi dopo le rivelazioni di Renato Olino, i magistrati indagano ancora e sono tornati sulle tracce di GLADIO. La presenza di Gladio è documentata a Trapani negli anni 90 (con l’esistenza del misterioso Centro Scorpione) ma le indagini sulla casermetta inducono a ritenere che questa a Trapani ci fosse già da molto tempo prima.

Il 26 gennaio 1976 Apuzzo e Falcetta avrebbero fermato un furgone. Danno l’alt, vogliono vedere cosa trasporta. La scoperta è incredibile: ci sono tantissime casse piene di armi e gladiatori della sede trapanese di Gladio. Tutti vengono portati nella casermetta per il verbale ma Apuzzo e Falcetta vengono uccisi. Un poliziotto del trapanese ha riferito recentemente alla magistratura  che una fonte sicura gli riferì nel 1993 la vera storia della strage della casermetta: Il furgone fermato portava armi di Gladio, nella casermetta fu organizzata una messainscena, forse i carabinieri furono portati altrove e poi riportati morti all’interno della caserma. Dagli armadi probabilmente sparì anche qualcos’altro. E per questo furono uccisi perché non venisse svelata «Gladio» che per vent’anni ancora sarebbe rimasta segreta, ma forse anche per non far svelare qualcos’altro…

Le rivelazioni dell’ex brigadiere Olino hanno portato sotto inchiesta i componenti di quel gruppo: Elio Di Bona, Giovanni Provenzano, Giuseppe Scibilia, Fiorino Pignatella. Chiamati a rispondere davanti al pm nonostante la conclamata prescrizione si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Da loro nessuna conferma ma neanche alcuna smentita. Perché ancora silenzi?

ALTRE STRANE VICENDE LEGATE ALLA STRAGE

Giovanni Mandalà è protagonista di altre tristi vicende legate a questa strage. Ha sostenuto infatti fin dall’inizio che il locale in cui sono state ritrovate le divise dei due militari uccisi era stato preso in affitto proprio da Giuseppe Vesco e che lui non era a conoscenza dei piani di Vesco. La moglie ha raccontato sempre al giornale trapanese Quarto Potere che la giacca di Mandalà su cui sono state ritrovate delle macchie di sangue era stata manomessa. Ha raccontato che quando questa fu sequestrata non c’era alcuna macchia di sangue. Dopo il sequestro il fratello di Mandalà si recò presso la caserma di Partinico. Gli fu assicurato che non c’era alcuna macchia e che potevamo stare tranquilli. Successivamente, attraverso i giornali, la famiglia Mandalà scoprì invece che erano state rilevate delle tracce. Sempre il cognato andò allora dal maresciallo con un registratore. Quest’ ultimo, secondo la versione della difesa, ancora una volta ammise che sulla giacca c’era la presenza di due sole macchioline che però non erano di sangue ma solo di semplice vino. Sempre la moglie di Mandalà ha dichiarato su Quarto Potere che consegnarono successivamente la bobina ai giudici e nel corso del processo furono inoltre sollevati molti dubbi in relazione all’attendibilità dei risultati della perizia effettuata sulla giacca. I giudici decisero così di disporre ulteriori esami ma quando andarono a cercare la giacca e la bobina erano entrambe scomparse. Il maresciallo, chiamato a deporre, non si presentò mai in aula adducendo motivi di salute e così i giudici, in assenza di ulteriori prove contrastanti, decisero di condannare Giovanni Mandalà all’ergastolo.
FONTI: Quarto Potere; Corriere della Sera;La Sicilia

 

 

 

 

Blu Notte – Misteri 
Sicilia Nera – Dall’omicidio di Peppino Impastato alla strage della Caserma di Alcamo Marina

Durata: 01:45:32
Andato in onda il: 06/11/2009
Diversi misteri si succedono in Sicilia negli anni ’70. Il 9 maggio 1978 viene ucciso a Cinisi in provincia di Palermo, Peppino Impastato. Peppino è figlio di un uomo d’onore, ma nonostante questo sceglie di sfuggire ad un destino segnato e riesce a mettere in difficoltà la mafia di Tano Badalamenti, con l’ironia tipica di quegli anni, ma soprattutto, con la controinformazione che viaggia sulle frequenze di una delle prime radio libere: “Radio Aut”. L’omicidio inizialmente è fatto passare per un attentato terroristico andato male, ma la tenacia della madre Felicia e del fratello Giovanni e del gruppo di tutti i suoi amici conducono ad una mobilitazione popolare e ad un film – “I cento passi” – smascherando l’iniziale depistaggio e arrivando alla condanna, per omicidio, di Tano Badalamenti.
Il 26 gennaio 1976 nella casermetta dei carabinieri di Alcamo Marina, in provincia di Trapani, vengono assassinati l’appuntato Salvatore Falcetta e il carabiniere Carmine Apuzzo. Sono arrestati e incriminati dell’omicidio cinque giovani del posto che confessano e vengono condannati. Dopo anni e ulteriori indagini si scopre che quei cinque giovani sono stati sottoposti a torture e che le loro confessioni sono state estorte. Il 10 giugno del 2009 la Prima Sezione della Corte di Cassazione ha stabilito la revisione del processo in cui quei giovani furono condannati. Uno di loro, in carcere da 21 anni, sta scontando ancora l’ergastolo. Il 27 ottobre 1972 Giovanni Spampinato – un giornalista che stava indagando sull’omicidio di un ingegnere imprenditore – viene ucciso a Ragusa da Roberto Campria, figlio dell’allora Presidente del tribunale della città. Il movente dell’omicidio è rimasto ambiguo e avvolto nel mistero.
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Strage in caserma Dopo 33 anni un nuovo processo Alcamo, la confessione estorta con la tortura – Un testimone riapre il caso
di Lirio Abbate
TRAPANI Il processo per la STRAGE alla casermetta dei carabinieri di ALCAMO Marina, che risale al 26 gennaio 1976, dovrà essere rifatto. Un ex sottofficiale dei carabinieri svela adesso di aver partecipato alla tortura con cui venne estorta la confessione ad un giovane pregiudicato, Vincenzo Vesco, che allora fu ritenuto l’assassino dell’appuntato Salvatore Falcetta e del carabiniere Carmine Apuzzo. E la Suprema Corte ha ordinato la revisione del processo, che ha condannato all’ergastolo Giuseppe Gulotta, uno dei giovani che Vesco indicò dopo essere stato «torturato». Il nuovo processo si svolgerà davanti ai giudici della corte di Appello di Reggio Calabria. «Finora – dice l’avvocato Baldassare Lauria che ha presentato istanza di revisione – Gulotta è stato sottoposto a 9 processi». Il difensore chiederà la sospensione della pena, in attesa del nuovo processo. L’uomo è in carcere da 21 anni e da 2 è in regime di semilibertà a San Gimignano (Siena). Gulotta venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell’Arma dopo la presunta confessione di Vesco, suicidatosi, in circostanze non chiare, nel carcere «San Giuliano» di Trapani, nell’ottobre dello stesso anno. Vesco era disabile: gli mancava una mano. Secondo la difesa, gli imputati confessarono di aver preso parte al duplice omicidio perché torturati. Per la STRAGE furono condannati, oltre a Gulotta, Giovanni Mandalà di Partinico (deceduto anni addietro) e gli alcamesi Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli. La notte del 26 gennaio 1976 un misterioso commando fece irruzione nella casermetta di ALCAMO Marina. L’appuntato Salvatore Falcetta e il militare Carmine Apuzzo furono fulminati dai killer, poi fuggiti dopo aver preso alcune divise, dei tesserini e 2 pistole. Erano anni di piombo, quelli. In Sicilia, però, il terrorismo non attecchiva perché «dissuaso» dalla mafia. Ecco perché la STRAGE risultò incomprensibile. Le investigazioni, però, trovarono dei colpevoli: 4 giovani che non erano mafiosi e neppure ideologicamente orientati. Dagli atti era emerso che Vesco, Ferrantelli, Santangelo e Gulotta avevano confessato, ma avevano anche ritrattato una volta a confronto col magistrato, a cui raccontarono le torture subite. Descrissero «quegli interrogatori violenti», ma non gli credettero. Furono condannati dopo anni di via vai tra la Cassazione e le Corti che si sono occupate dei processi. Fino al 1992, quando giunse l’ultima parola che inchiodava Gulotta all’ergastolo. Per Ferrantelli e Santangelo la pena veniva fissata in 14 e 22 anni, ma i 2 non sono mai tornati in carcere perché latitanti in Brasile. La vicenda è tornata alla ribalta grazie a un testimone eccezionale, le cui dichiarazioni sono state rese note per la prima volta nel dicembre 2007 da «La Stampa». Sosteneva che nel 1976 aveva avuto un ruolo importante nelle indagini e dopo 30 anni dichiarava la disponibilità a parlare. Lui è un ex sottufficiale dei carabinieri. Racconta che: «Nel 1976 facevo parte del Nucleo Anticrimine di Napoli e fui mandato ad ALCAMO per indagare sull’uccisione dei 2 militari. Mi porto dentro un peso che non sopporto più. I giovani fermati furono torturati. Stavo lì e ho visto. A Vesco, che poi accusò gli altri, gli fecero bere acqua e sale e lo seviziarono. Fece ritrovare anche alcuni oggetti e 2 pistole. Ma non bastò, volevano i nomi dei complici. Anche le confessioni di questi furono ottenute in quel modo». L’ex sottufficiale ha una registrazione dov’è impressa la voce dell’ufficiale che dirigeva le operazioni. Il carabiniere, dopo aver visto una puntata di «Blu Notte» sulla «mafia di Trapani», ha inviato un messaggio alla trasmissione, dichiarando la disponibilità a raccontare. E così un nuovo processo è stato riaperto.
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Articolo da La Stampa del 9 Novembre 2009
L’ombra di Gladio sulla strage di Alcamo E il condannato all’ergastolo avra’ un nuovo processo Il 27 gennaio 76 l’assassinio di due carabinieri
di Francesco La Licata

La STRAGE della casermetta di ALCAMO Marina, 27 gennaio 1976, potrebbe uscire dall’elenco dei misteri siciliani seppelliti dall’oblio. Venerdì sera l’inquietante vicenda è uscita dai corridoi giudiziari per approdare alla prima serata Tv (Blu Notte di Carlo Lucarelli) nell’ambito di una fosca ricostruzione degli Anni Settanta in Sicilia caratterizzata dall’intreccio di mafia, fascisti e servizi segreti. Un «romanzo nero» che ha visto tragici eventi come l’assassinio di Peppino Impastato, quello dei «Cento Passi», o l’uccisione del giornalista de L’Ora di Palermo, Giovanni Spampinato. Ma la notizia è che si fanno più concrete le speranze di Giuseppe Gulotta, ancora ergastolano (in semilibertà) per quel delitto «mai commesso», di vedere riconosciuta la propria dichiarazione d’innocenza. Sarà la Corte d’Appello di Reggio Calabria a «rivedere» il processo, alla luce delle novità prodotte dalle indagini riaperte dalla Procura di Trapani, pm Andrea Tarondo, sulla scorta delle rivelazioni di un ex sottufficiale dei carabinieri che ha confessato di aver fatto parte del team di investigatori che si occupò delle indagini sulla STRAGE di ALCAMO. L’ex brigadiere Renato Olino ha raccontato ai magistrati che le confessioni rese a suo tempo dai 4 giovani sospettati – insieme con Gulotta, Giovanni Mandalà, Vincenzo Ferratelli e Gaetano Santangelo, questi ultimi ancora transfughi in Sudamerica – sono false perché estorte con la violenza. Secondo Olino, che venerdì sera ha confermato in tv quanto riferito ai magistrati, i carabinieri furono indotti a «trovare un colpevole a qualunque costo» dall’ansia da risultato, ma un risultato funzionale al clima politico di allora fortemente condizionato dalla presenza del terrorismo. Quel 27 gennaio del 1976 dentro la casermetta dell’Arma di ALCAMO Marina furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Nessuna traccia, nessun movente: solo i segni del lucchetto aperto con la fiamma ossidrica e una scena del crimine che fece pensare ad un agguato notturno con le vittime sorprese nel sonno. Una rivendicazione, palesemente falsa, firmata da un gruppo terroristico siciliano di sinistra mai esistito. Due settimane di indagini a vuoto, poi il colpo di scena con il fermo di un giovane, Giuseppe Vesco, che gira con un’arma simile a una di quelle rubate nella casermetta. Vesco confessa, poi ritratta, poi dice al magistrato di essere stato maltrattato dai carabinieri. Poi firma una confessione che chiama in causa gli altri. Gulotta ammette anche oggi: «Non ne potevo più, ho chiesto ai carabinieri di confessare: ”Ditemi quello che devo confessare, basta che non mi picchiate più”». Insomma, un processo abbastanza sommario, segnato dal suicidio in carcere di Vesco. E tuttavia in primo grado tutti assolti. Verdetto ribaltato in Appello e in Cassazione. Da allora è calato il silenzio, fino all’irruzione di Renato Olino. Per le sue dichiarazioni 4 sottufficiali dei carabinieri – la squadra del 76 – sono stati indagati e proposti per la prescrizione. Ma le intercettazioni disposte su alcuni di questi avrebbero consegnato ai magistrati indizi abbastanza concreti sull’affidabilità delle rivelazioni di Olino. La moglie di un ex maresciallo oggi in pensione, parlando col figlio, avrebbe ammesso di ricordare la vicenda e anche le precauzioni prese allora per «sviare le tracce» dei maltrattamenti riservati ai sospettati. Ma c’è dell’altro. Un sottufficiale della Polizia afferma di aver saputo da uno strano confidente (attendibile perché gli fa scoprire un traffico d’armi condotto da apparati di sicurezza deviati) che i carabinieri di ALCAMO furono vittime della Gladio, la rete di controspionaggio della Nato, in funzione dalla fine della guerra fino al 1990. «Fermarono – dice – un furgone con un carico inconfessabile. Portarono i trasportatori in caserma per saperne di più, ma quelli furono più svelti». Ma, come in una spy-story, c’è anche il morto. Un corpo senza testa che, secondo il sottufficiale, fu lasciato nelle campagne di ALCAMO, dopo una sparatoria fra agenti segreti italiani e stranieri, forse libici.

 

 

 

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Articolo da La Stampa del 23 Luglio 2010
LA STORIA IL CASO GULOTTA
di Laura Anello

«Ho pagato con 20 anni quella strage mai commessa»

La notte di mercoledì è stata la sua prima da uomo libero. Dopo 24 anni di carcere, processi, appelli, condanne, permessi, rivelazioni, richieste di revisione, semilibertà, adesso Giuseppe Gulotta ha dormito a casa, sapendo che mai più dovra guardare il mondo dietro le sbarre. Libero. Per la giustizia non ancora innocente, ma libero. Una storia, la sua, sprofondata nel pozzo nero dei misteri italiani, cominciata in quella provincia di Trapani che ha partorito la madre di tutte le imposture: la morte del bandito Salvatore Giuliano. Ma Gulotta non lo ricorda più nessuno. Eppure anche lui è un sasso annegato in quel pozzo, un uomo stritolato in un intreccio di mafia, Gladio, servizi deviati, in una storia che prelude in sedicesimo ai grandi depistaggi, agli accordi osceni, al grande pentolone dei segreti che quest’estate sembra sul punto di scoperchiarsi. E’ la storia della STRAGE alla casermetta di ALCAMO Marina, 27 gennaio 1976, e già quel diminutivo sul presidio dei carabinieri fa capire quanto insensato, inspiegabile, fuori registro sia apparso subito quell’agguato ai due giovani militari dell’Arma, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, che dormivano sulle loro brande in una notte di pioggia e tuoni, in un paesone spopolato e silenzioso tra Palermo e Trapani. Un’esecuzione in stile terroristico, con la fiamma ossidrica per far squagliare il portoncino corazzato, con le divise, i tesserini e le armi portate via con accuratezza militare. «Io quella notte dormivo – racconta Gulotta – dovevo alzarmi presto l’indomani mattina». Una nota stonata in una terra dove la mafia rivendicava diritto esclusivo, lontana dai fremiti, dalle tensioni sociali, dall’eversione brigatista. Eppure la macchina si mise in moto, con tanto di rivendicazione di uno sconosciuto Nucleo Sicilia Armata, fino a stritolare nei suoi meccanismi un balordo di ALCAMO, Giuseppe Vesco, «Peppe ‘u pazzo», trovato – o fatto trovare – in possesso dell’arma del delitto. E sottoposto, come ha rivelato dopo 30 anni l’ex brigadiere Renato Olino, schiacciato dal rimorso, a un interrogatorio da Torquemada alla fine del quale fece quattro nomi: Giovanni Mandalà, morto in carcere, Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli, scappati in Brasile. E Giuseppe Gulotta, muratore poco più che diciottenne. Furono botte e sevizie, pure per loro, nella caserma di ALCAMO dove alla fine dovettero essere ritinteggiate le pareti per nascondere il sangue, il vomito, i segni del dolore. «Ho passato la mia vita a cercare di dimenticare», racconta Gulotta che lunedì, all’una, ha avuto il foglio di scarcerazione dal penitenziario di San Gimignano dove è stato sin dal 1990. E che ieri, per la prima volta, ha firmato – come la legge gli impone ogni settimana – alla caserma dei carabinieri del paese in cui vive, Certaldo, dove si è trasferito nel 1978, due anni dopo il fattaccio, quando ebbe l’obbligo di allontanamento dalla Sicilia. Vent’anni in galera, e altri due prima dell’inizio del processo, un ping-pong di sentenze di primo grado, di Appello e di Cassazione che si è concluso il 19 settembre del 1990 con l’arresto, «quando mi portarono in galera, strappandomi dalle braccia il mio bambino di due anni e mezzo. Piangevano pure loro, i carabinieri che vennero a prendermi». Vent’anni a dirsi innocente, a raccontare la sua storia al magistrato che lo interrogò la prima volta, ai giudici, ai guardiani in carcere, «alla gente che in Toscana mi ha accolto, mi ha dato un lavoro, si è fidata». Ma c’è voluto il rimorso di quel carabiniere, e le sue rivelazioni sulle confessioni false perché estorte con la tortura, sulla ricerca di una colpevole a qualsiasi costo, perché scattasse la revisione del processo a Reggio Calabria. Processo che servirà solo a pronunciarsi sull’innocenza di Gulotta, perché il reato è comunque prescritto. «L’ultimo obiettivo della mia vita», dice lui. Che nonostante l’odissea attraversata, fa invidia a Gandhi, a Mandela, ai saggi buddisti. «Come sono sopravvissuto? Prefissandomi obiettivi da raggiungere. Vedere mia moglie e mio figlio ogni otto giorni, poi i primi permessi a partire dal ’96, poi nel 2000 la semilibertà». Il resto l’hanno fatto la fede e la speranza di avere verità. Verità pesante. Perché, secondo un poliziotto che ha ritrovato la memoria di recente, i due militari trucidati nella casermetta pagarono per avere fermato il furgone sbagliato. Doveva essere un controllo di routine, ma ai loro occhi apparvero casse piene di armi e decine di combattenti della cellula trapanese di Gladio. Che, uccisi i due militari (i quali sarebbero stati trucidati altrove e poi portati lì, come il bandito di Montelepre), visse nel segreto ancora per 20 anni prima di essere scoperta. Un’ipotesi avanzata in un volantino da Peppino Impastato. «Un depistaggio per coprire alcuni settori pericolosi e nascosti a livello istituzionale», scrisse. Finì steso sui binari di un treno due anni dopo. E il giorno dopo era già pronta la verità confezionata. Attentatore, anzi no: suicida.

 

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Articolo pubblicato da Antimafia Duemila 8 Gennaio 2011
La strage di Alcamo Marina: dietro il crocevia segreto dei contatti tra mafia e pezzi dello Stato
di Rino Giacalone

Trapani. C’è una nuova confessione che è entrata nelle indagini riaperte sulla strage di Alcamo Marina del 1976, quando dentro una casermetta dei Carabinieri furono uccisi due militari dell’Arma che erano lì comandati di servizio.
A quasi 35 anni dalla loro barbara uccisione (27 gennaio 1976) c’è il processo contro uno dei condannati per quella strage, Giuseppe Gulotta che è ripartito dinanzi la Corte di Assise di Reggio Calabria, stessa cosa avverrà per gli altri due pure condannati, Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo (fuggiti all’estero, in Brasile prima che la condanna divenisse esecutiva), tutti e tre hanno ottenuto la revisione dopo che un ex sottufficiale dei carabinieri, Renato Olino, già sentito a dibattimento, ha affermato che quella «banda» di balordi finita arrestata nulla c’entrava con la strage, e le loro confessioni furono estorte con le torture.
In manette erano finiti anche altre due soggetti, Giuseppe Vesco e Giovanni Mandalà (morto poi per un male incurabile). Vesco fu il primo ad essere arrestato a poco meno un mese dalla strage, fu lui a fare i nomi degli altri, poi anche lui ritrattò, ma prima ancora che l’istruttoria fosse terminata morì suicida nel carcere di Trapani dove era detenuto. Si impiccò con una corda legata alle sbarre della finestra, ci riuscì sebbene lui era monco di una mano. È sulla morte di Vesco che il pentito di mafia di Castelvetrano, Vincenzo Calcara, lo stesso che confessò a Borsellino il piano per ucciderlo, ha ora detto qualcosa che prima era solo «sussurata» e cioè il ruolo della mafia in questa strage. Fino a questo momento un possibile scenario emerso è quello che chiamava in causa «Gladio» la struttura militare segreta che nel trapanese già dagli anni ’70 aveva proprie basi, e che quei militari furono uccisi per avere fermato un furgone carico di armi destinati proprio a «Gladio». uccisi per avere visto ciò che non dovevano evadere.
Il coinvolgimento della mafia sembra non escludere questa ipotesi. Lo scenario è quello fatto di un crocevia dove mafia e servizi segreti da queste parti, nel trapanese, si sono sempre «frequentati» in un anomalo scambio di favori. Cosa dice Calcara. Racconta che all’epoca era detenuto a San Giuliano ed ebbe ordine dal campobellese Antonio Messina di lasciare da solo Vesco. «Fu ucciso da un mafioso con la complicità di due guardie carcerarie» ha detto Calcara.
Il suo racconto si lega a quello di altri due pentiti, il nisseno Leonardo Messina, e l’alcamese Peppe Ferro.
«All’epoca ero detenuto – dice Messina – seppi da esponenti della cosca di San Cataldo che amici della famiglia di Alcamo si erano messi nei guai, seppi che era stato programmato un attacco a varie sedi delle istituzioni ubicate in vari Comuni della Sicilia e che poco tempo prima che scattasse il piano era arrivato il contro ordine, bisognava soprassedere, ma la notizia ad Alcamo non era arrivata e perciò la casermetta era stata assaltata lo stesso».
«Li ho conosciuti in carcere quei ragazzi arrestati –ha detto Peppe Ferro – erano solamente delle vittime…pensavamo che era una cosa dei carabinieri, che fosse qualcosa di qualche servizio segreto».

Articolo del 23 Febbraio  2011 da bennycalasanzio.com
Strage di Alcamo marina, La Licata testimone
di Benny Calasanzio

Una strage dimenticata avvenuta 35 anni fa. Un mistero di Stato e di mafia, un giallo che dispensa ancora segreti e veleni. Era la notte tra il 26 e il 27 gennaio 1976, quando due carabinieri, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, vennero uccisi nella casermetta di Alcamo marina, in provincia di Trapani. Movente sconosciuto, ma in cella finiscono subito cinque persone con l’infamante accusa di essere i giustizieri dei due militari. Oggi le nuove indagini e una testimonianza riscrivono quella storia. Con un ennesimo segreto da svelare.

L’ultimo colpo di scena è che il giornalista Francesco La Licata, storico inviato di punta de La Stampa in Sicilia, sarà chiamato in aula, durante il processo di revisione in corso presso la Corte d’Appello di Reggio Calabria a carico di Giuseppe Gulotta, accusato e condannato all’ergastolo per la strage. Per quell’eccidio con Gulotta vennero condannate al carcere a vita altre tre persone: di questi uno è morto e gli altri due sono fuggiti in Sudamerica.

Il loro calvario iniziò il 12 febbraio 1976, quando un giovane alcamese, noto come anarchico, Giuseppe Vesco, fu fermato durante i pattugliamenti dei carabinieri, insospettiti dall’auto del ragazzo, una Fiat 127 senza fari anteriori e con una targa di cartone. Nell’unica mano, essendo privo dell’altra, il giovane impugna una pistola e dunque viene portato immediatamente in caserma per dei controlli. In seguito ad una vera e propria tortura, condotta dalla squadra e alla presenza del colonnello Giuseppe Russo, poi ucciso il 20 agosto del 1977, Vesco confessa il duplice omicidio dei carabinieri e fa ritrovare parte della refurtiva sottratta dopo l’agguato.

Non finisce qui: avendo riscontri, Russo passa la conduzione dell’interrogatrorio-tortura ai sottufficiali Giuseppe Scibilia e Giovanni Provenzano, che costringono Vesco a fare i nomi dei fantomatici complici: tra questi c’era Gulotta. Nomi palesemente inventati tanto che Vesco arriva ad implorare: “Vi bastano cinque?”. A quelle sevizie, poi ripetute in maniera più blanda anche per i gli altri accusati, era presente anche il sottufficiale dell’Arma dei Carabinieri, Renato Olino. E qui entra in gioco Francesco La Licata. Durante l’udienza del 24 giugno 2010 del processo di reivisione, Olino, testimone chiave, viene chiamato dalla difesa di Gulotta. Racconta delle torture, “dell’acqua e sale che viene spinta in gola a Vesco con un imbuto, degli elettrodi collegati ai testicoli del presunto assassino e delle percosse”. Delle finte esecuzioni con le pistole puntate sulla fronte del ragazzo e dei suoi supposti complici.

Ma dice anche di aver provato a raccontare la sua versione dei fatti molto tempo prima, sia ai piani alti dell’Arma, che gli consigliano di non essere “inopportuno”, che ai giornalisti, uno su tutti Francesco La Licata: “Prima e dopo il 1990 avevo più volte stimolato il dottor La Licata a mettermi in contatto con magistrati per fare emergere questo fatto” dichiara durante l’udienza. “Io ho conosciuto – continua Olino – il dottor La Licata in quanto lui era cronista de L’Ora di Palermo, e io stavo al nucleo investigativo di Palermo, lui veniva spesso in ufficio dal colonnello Russo a prendere le cosiddette veline per le notizie stampa”. E aggiunge: “Ho sempre cercato attraverso lui di dire: ‘guarda Francesco, io ho questa esigenza, la strage di Alcamo Marina, per me non è chiarita, non è chiara, lì ci stanno delle persone secondo me, lo dico in un modo molto distaccato, innocenti, dobbiamo vedere cosa c’è veramente dietro la strage di Alcamo Marina’. Per questo l’avvocato di Gulotta, Saro Lauria, chiederà nella prossima udienza di ascoltare il giornalista.

“(Mi disse, ndr) di lasciare perdere. Che mi sarei messo contro l’Arma, che i miei colleghi che avevano torturato i ragazzi non avrebbero mai ammesso nulla. Gli ho ripetuto le stesse cose anni dopo, ma fu inutile, un muro di gomma. Non volle scrivere nulla. Gli dissi anche che volevo parlare con il maresciallo Scibilia che avevo visto prendere parte alle torture. Seppi poi che lui era in stretti rapporti proprio con Scibilia” disse Olino il 12/08/2010 a L’Unità e oggi ci dice: “Negli anni sono sempre tornato alla carica, avendo il suo numero privato, chiedendogli ogni volta di aiutarmi a raccontare la verità”. Circostanze confermate oggi dal giornalista: “Immaginavo che la difesa mi avrebbe convocato. All’epoca non ero molto convinto delle cose che diceva” ha ribattuto La Licata al telefono. Versione che fu poi ritenuta attendibile dallo stesso giornalista solo nel 2007 e presentata nel corso di una puntata della trasmissione “Blu Notte” di Carlo Lucarelli nel 2009.

Intanto la procura di Trapani, nei mesi scorsi, ha iscritto nel registro degli indagati quattro carabinieri per quelle sevizie, tra cui Scibilia, che di fronte al magistrato trapanese Andrea Tarondo si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, consci che ormai i reati contestati sono prescritti. Il racconto di Olino ha anche permesso di riaprire le indagini sulla strage e avviare il processo di revisione per Gulotta, che oggi di fronte a questo ennesimo colpo di scena ci rilascia un’amara considerazione: “Non potevo immaginare che La Licata che tanto aveva fatto per far emergere la verità sulla mia innocenza, ne era perfettamente a conoscenza molto tempo prima. Se avesse scritto quell’articolo del 2007 negli anni ‘90 forse mi avrebbe fatto risparmiare una condanna all’ergastolo”.

Un ulteriore conferma alla versione di Olino è un’intercettazione telefonica in cui i familiari di un altro carabiniere indagato, Giovanni Provenzano, parlano delle sevizie e delle modalità che i militari misero in piedi per evitare che si scoprissero: “Hanno spostato i mobili e ridipinto le pareti della caserma”. Chiamati in aula, Rossana e Michele Provenzano, anche lui carabiniere come il padre e oggi in forza al Ros, hanno negato tutto anche a fronte delle contestazioni del magistrati, tanto che il procuratore generale e l’avvocato difensore hanno chiesto che contro i testimoni si proceda per il reato di falso.

Rimane la domanda di fondo. Chi era a conoscenza dei segreti della strage di Alcamo Marina? E perché sono rimasti sepolti fino ad oggi? L’ultima ipotesi è che i due carabinieri uccisi avrebbero casualmente scoperto un traffico d’armi mediato dai servizi segreti e sarebbero morti perché tacessero. L’unico che poteva parlare è Vesco che è morto però suicida in carcere pochi mesi dopo la strage. All’eccidio seguì il depistaggio alla ricerca dei capri espiatori, dei colpevoli perfetti inguaiati dalla confessione di un’anarchico torturato e forse “suicidato” da qualcuno in carcere, considerato che impiccarsi con una sola mano è impresa assai ardua..

Articolo del 9 Dicembre 2011 da marsala.it
Strage di Alcamo Marina. Parte oggi la revisione del processo

Inizia oggi al Tribunale di Catania il secondo filone del processo di revisione sulla strage di Alcamo Marina. Quello che riguarda Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli, entrambi già condannati per l’omicidio dell’appuntato Salvatore Falcetta e del carabiniere Carmine Apuzzo, crivellati in una casermetta di Alcamo Marina, la notte tra il 26 e il 27 gennaio 1976.

I due, latitanti in Brasile, sono stati già condannati al termine di una lunga serie di processi rispettivamente a ventidue e quattordici anni di reclusione.
La storia della strage nella casermetta è costellata di misteri e depistaggi sin dalle prime battute. Qualche giorno dopo la strage venne arrestato Giuseppe Vesco, un giovane alcamese senza una mano. A bordo della sua auto vennero trovate due pistole, una delle quali ritenuta un’arma del delitto. Vesco, messo sotto torchio nel corso dell’interrogatorio, confessò di aver preso parte al delitto e fece il nome degli altri conoscenti. Qualche mese dopo ritrattò scagionando i suoi complici. Inoltre annunciò un memoriale che avrebbe svelato parecchi misteri sulla strage. Vesco non fece in tempo a preparare il documento che venne trovato misteriosamente impiccato in cella.
La storia venne dimenticata fino al 2007, quando un ex carabiniere che allora partecipò alle indagini svelò che allora Vesco e gli altri furono seviziati e picchiati durante gli interrogatori. Qualche tempo dopo la procura di Trapani rispolvera i fascicoli e riapre l’inchiesta. A questo punto gli avvocati di Ferrantelli e Santangelo sono riusciti a far rifare il processo  che, appunto, parte oggi anche alla luce dell’altro filone del processo che invece si svolge a Reggio Calabria. L’altro alcamese coinvolto nella trentennale inchiesta, Giuseppe Gullotta, è riuscito ad ottenere la revisione del processo partito qualche mese fa e nel 2010 è stato scarcerato. E dal filone calabrese arrivano importanti retroscena. Infatti il 19 dicembre sarà sentito Vincenzo Calcara, vicinissimo a Matteo Messina Denaro prima di diventare collaboratore di giustizia. Le rivelazioni di Calcara possono arrivare anche oltre lo stesso. Secondo Calcara, sentito qualche tempo fa dagli inquirenti, i due carabinieri sarebbero stati uccisi dalla mafia perché sapevano scontanti verità sull’ “Organizzazione Gladio”, la struttura militare segreta che in quegli anni aveva anche un certo radicamento in provincia di Trapani. E Vesco, sempre secondo Calcara, non si sarebbe impiccato da solo ma sarebbe stato ucciso sempre dalla mafia.

 

 

 

 

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Articolo del 13 Febbraio 2012 da scirocconews.it
Corte d’Appello di Reggio Calabria assolve ergastolano dopo 21 anni. Giuseppe Gulotta non colpevole, vittima di un gioco di potere

Alcamo Marina, 26 gennaio 1977. In caserma vengono uccisi l’appuntato Salvatore Falcetta ed il carabiniere Carmine Apuzzo. Dalla sentenza di stasera emergono i depistaggi per tutelare i veri autori dell’eccidio. Le indagini, all’epoca, furono coordinate dal colonnello Giuseppe Russo, assassinato a Ficuzza al termine del lavoro

La Corte di Appello di Reggio Calabria ha assolto, nel processo di revisione, Giuseppe Gulotta, che era stato condannato all’ergastolo per la strage di Alcamo Marina del 26 gennaio 1977. Aveva scontato finora 21 anni di reclusione. Furono uccisi, in caserma, l’appuntato Salvatore Falcetta ed il carabiniere Carmine Apuzzo.

Anche il procuratore generale aveva chiesto l’assoluzione dell’imputato. Gulotta, presente in aula, è scoppiato a piangere. Esulta l’avvocato Baldassare Lauria, che lo ha assistito assieme a Pardo Cellini: “Gulotta è stato vittima di un gioco di potere. Anche se nessuno potrà mai cancellare lo stravolgimento della sua vita, oggi, questa, è una sentenza che fa giustizia”.
Ed è intanto in corso il processo di revisione a carico di altri due soggetti condannati per lo stesso eccidio: Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli, da anni rifugiatisi in Brasile. Morti invece Giuseppe Vesco (suicidatosi in circostanze misteriose sei mesi dopo l’arresto) e il bottaio di Partinico Giovanni Mandalà.

Subito dopo avere ascoltato la sentenza che lo dichiarava innocente si è accasciato sulla sedia ed è scoppiato in lacrime. Per Giuseppe Gulotta, 55 anni, gli ultimi 21 dei quali trascorsi in carcere, “l’incubo è finito”, come dice lui stesso con la voce ancora rotta dall’emozione. Era stato infatti condannato all’ergastolo, a conclusione di un tormentato iter processuale per la strage di Alcamo Marina in cui furono uccisi due carabinieri. “La prima cosa che ho fatto – dice al telefono – è stata quella di sedermi perché non mi reggevo in piedi. Ci siamo abbracciati con mio figlio William, che ha 24 anni, e con mia moglie Michela, senza parlare”. Gulotta ricorda poi di essere stato arrestato la prima volta esattamente il 12 febbraio 1976, a poco meno di un mese di distanza dalla strage:

“E’ stato come tornare indietro con l’orologio a 36 anni fa. Non so perché lo hanno fatto, cercavano un colpevole a tutti i costi. Posso solo dire che condannando me hanno trovato sì un colpevole ma non hanno fatto giustizia”. L’ormai ex ergastolano parla poi del suo futuro: “Pensare che potrò muovermi liberamente e tornare a lavorare è una sensazione che non si può descrivere con le parole: posso solo dire che sono emozionato”.
Giuseppe Gulotta, subito scarcerato, adesso sta per fare rientro ad Alcamo, dove l’aspettano gli altri suoi familiari: “Voglio abbracciare mia sorella Maria che è stata la prima a cui ho telefonato dopo l’assoluzione”, dice con la voce gioiosa prima di allontanarsi dall’aula.

A consentire il processo di revisione che ha portato oggi la Corte di Appello di Reggio Calabria ad assolvere Giuseppe Gulotta, che era stato condannato all’ergastolo per la strage di Alcamo Marina del 26 gennaio 1976, dopo 21 anni di reclusione sono state le dichiarazioni rese tre anni fa da Renato Olino, un sottufficiale dei carabinieri in pensione che, nel 1976, partecipò alle indagini. Furono uccisi, in caserma, l’appuntato Salvatore Falcetta ed il carabiniere Carmine Apuzzo. Il militare ha sostenuto che le confessioni furono estorte a seguito di torture inflitte a tutti i presunti componenti della banda. Durante il dibattimento sono emersi numerosi riscontri. Ed altre anomalie.

Le armi trafugate nella caserme, ad esempio, che, secondo la versione ufficiale furono rinvenuti nel magazzino di uno degli imputati, in realtà furono trovate nelle campagne di Alcamo e, quindi, solo successivamente, portate in quel deposito. Sullo sfondo emergono depistaggi compiuti per tutelare i veri autori dell’eccidio. Le indagini, all’epoca, furono coordinate dal colonnello Giuseppe Russo, assassinato nel 1977 a Ficuzza.

[…]

Torturato per confessare colpa: il punto di Franco Nicastro
Assolto. Per sentirsi restituire l’innocenza soffocata dalle torture Giuseppe Gulotta ha aspettato 36 anni. Ne aveva 18 quando fu arrestato e accusato di avere partecipato alla strage di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani). Fu l’inizio di un incubo che finalmente si scioglie, nell’aula della Corte d’assise di appello di Reggio Calabria, quando al termine del processo di revisione viene letta la sentenza. Anche se l’esito è annunciato da una richiesta di assoluzione da parte dell’accusa, Gulotta non trattiene le lacrime. Abbraccia la moglie Michela, il figlio William di 24 anni e si accascia su una sedia. “Ora posso dire – riesce a sussurrare – che giustizia è stata fatta.

La mia vita era stata bruciata. Ora è come portare indietro l’orologio di 36 anni. Chi potrà mai restituirmi quello che mi é stato tolto?”. Da uomo libero, che ha passato in carcere 21 anni, cerca di riannodare almeno gli affetti familiari. La prima persona a cui telefona, per annunciare l’esito del processo, è la sorella Maria che vive ad Alcamo mentre lui da tempo ormai si è stabilito a Certaldo, in provincia di Firenze. “Il paese di Boccaccio” tiene a precisare. Ma se proprio un riferimento letterario va cercato la sua storia appartiene al genere delle tragedie ma soprattutto dei misteri. “Non so perché – dice – sono finito in questo inferno. Cercavano un colpevole a ogni costo. Lo hanno trovato sì ma non hanno fatto giustizia”.
Era il 27 gennaio 1976 quando un commando assaltò la caserma di Alcamo Marina e uccise due giovani carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta. Da Palermo arrivò una squadra di investigatori guidata dal colonnello Giuseppe Russo, che l’anno dopo sarà ucciso dalla mafia a Ficuzza nel Corleonese. Seguendo una pista ‘terroristica’, fermarono Giuseppe Vesco, un giovane anarchico che aveva perso una mano maneggiando esplosivo. Vesco fu costretto, con le torture, a confessare la partecipazione alla strage (un atto “rivoluzionario”) e ad accusare un gruppo di giovani che frequentava: Giuseppe Gulotta, Giovanni Mandalà e due all’epoca minorenni, Vicenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo. Furono tutti arrestati mentre Vesco, alcuni mesi dopo, fu trovato impiccato in cella: non è stato mai chiarito se si sia trattato davvero di un suicidio. Nel corso di un lungo iter processuale, Ferrantelli e Santangelo sono stati prima condannati e poi assolti. Ora vivono in Sud America. Mandalà è morto. Gulotta è stato condannato a 27 anni e, tra una carcerazione e l’altra, ha cercato di formarsi una famiglia. Dal luglio 2010 era tornato in libertà vigilata perché intanto un maresciallo in pensione, Renato Olino, che faceva parte del gruppo guidato dal colonnello Russo, ha confermato la storia delle torture. Alle violenze fisiche si univano anche quelle psicologiche. “Mi puntarono – racconta Gulotta – anche una pistola in faccia e mi dissero: se non confessi ti uccidiamo”.
La testimonianza di Olino non solo ha fatto riaprire il processo ma ha indotto la Procura di Trapani a promuovere una nuova indagine sulla strage “contro ignoti” e a iscrivere nel registro degli indagati quattro degli investigatori che avrebbero estorto le false confessioni. La prescrizione coprirà tutto. E’ passato troppo tempo. Sono stati celebrati nove processi, la verità è rimasta nell’ombra e l’unica certezza era finora la condanna dell’Italia davanti alla corte europea per i diritti dell’uomo per l’estrema lunghezza della giustizia.
(ANSA).

 

 

 

 

Articolo del 29 Gennaio 2012 da unita.it
Come via D’Amelio: riscritta la strage di Alcamo Marina

Sedici udienze per avere finalmente giustizia. 16 udienze che aprono uno squarcio su un mistero italiano quasi sconosciuto e sempre più profondo, l’ennesimo rebus siciliano tra mafia e stato. È la strage di Alcamo Marina, provincia di Trapani, dove il 27 gennaio 1976 vengono uccisi nel sonno due carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta. Un caso chiuso come un delitto perfetto – un innocente in carcere e i colpevoli fuori – ma pronto a riaprirsi dopo le sedici udienze del processo di revisione per Giuseppe Gulotta, uno dei tre condannati per quell’eccidio. «Gulotta non c’entra nulla – ha detto venerdì scorso il Pg reggino Riva – abbiamo il dovere di proscioglierlo da ogni accusa e restituirgli la dignità che la giustizia gli ha indebitamente tolto». A meno di clamorose sorprese tra poche settimane Gulotta, che ha trascorso vent’anni in carcere, verrà assolto. Con la sua uscita di scena, si riapre il giallo sulla strage. Un rebus in cui appaiono oscuri traffici di armi, uomini in divisa e mafiosi in mezzo ad una lunga scia di sangue iniziata negli anni 70 – dal giornalista Mario Francese agli omicidi di Peppino Impastato e del colonnello Giuseppe Russo – e che arriva fino alla trattativa stato mafia del ’92-’93, sfiorando alcuni ufficiali dei carabinieri.

– LEGGI LE CARTE

Le indagini sulla strage di Alcamo furono inquinate fin dall’inizio. Gulotta insieme agli altri due condannati (riparati da due decenni in Sudamerica) è stato torturato per costringerlo a confessare una colpa che non aveva commesso. A testimoniarlo nel processo di revisione di Reggio Calabria è stato il maresciallo in pensione Renato Olino, presente a quelle sevizie. Oggi alla procura di Trapani ci sono due inchieste: una contro ignoti per l’eccidio, l’altra contro 4 carabinieri accusati di sequestro di persona e lesioni gravissime. Sono i carabinieri Elio Di Bona, Fiorino Pignatella, Giovanni Provenzano e Giuseppe Scibilia. Avrebbero torturato quattro ragazzi per fargli confessare l’uccisione dei due militari. Oltre a Gulotta, tra le mani dei 4 carabinieri c’erano Gaetano Santangelo, Vincenzo Ferrantelli e Peppe Vesco. È lui il primo rebus di questa storia. «Un piatto ben servito» secondo il Pg Riva. Vesco è anarchico e ha perso la mano maneggiando esplosivo. Viene fermato un mese dopo l’eccidio mentre guida una macchina rubata con una targa di cartone. A bordo ha una delle pistole rubate sul luogo della strage. In caserma subisce scariche elettriche, botte e minacce. Confessa e fa i nomi di tre ragazzi: Gulotta, Ferrantelli e Santangelo. Un piatto ben servito e caso chiuso. Vesco si impicca in carcere 8 mesi dopo.

Passa poco più di un anno – è il 20 agosto 1977 – e il responsabile delle torture viene ucciso. È il colonnello Giuseppe Russo, uomo di fiducia di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Per il suo omicidio tutti parlano di mafia a partire da un giornalista di razza come Mario Francese. E invece no. Si ripete la scena delle torture in una caserma. Il nucleo di Russo sevizia per ore tre pastori fino a che non confessano. Un’altra falsa verità che durerà vent’anni quando nel 1997 grazie ai pentiti si scopre che ad uccidere Russo è un commando guidato da Leoluca Bagarella. Ma come una matrioska viene fuori altro. Peppino Impastato si era occupato della strage di Alcamo Marina: in un volantino parla di strage di stato, di servizi segreti, di oscure trame. Quel volantino finisce sequestrato dopo la sua morte e scompare: ad operare quel sequestro è il maresciallo Scibilia, uno dei torturatori di Alcamo. Impastato aveva buone fonti: in quel periodo infatti nel trapanese si muoveva la primula nera Pierluigi Concutelli che organizzava campi militari, con una sorta di join ventur tra mafia e neofascismo.

C’È DI PIÙ
Il colonnello Russo ha rapporti confidenziali con il boss Tano Badalamenti, il mandante dell’omicidio Impastato. Russo prima di finire ucciso accetta delle consulenze nel campo degli appalti per un azienda della galassia dei cugini Salvo, gli imprenditori mafiosi legati alle vecchia guardia mafiosa, quella di Badalamenti e Bontade: «L’ufficiale si era lanciato in un “campo” minato come manager di super colossi dell’imprenditoria, in una zona che negli ultimi due anni lo avevano visto protagonista, come comandante del nucleo investigativo dei carabinieri. È per questo che è morto o c’è una terza causale?» – scrive Francese. Che proprio per quegli articoli – “suggeriti” dai colleghi di Russo – finirà ucciso nel ’79. Per i corleonesi Russo sarebbe stato visto come un ostacolo alla loro conquista, uno che per combatterli si avvicinava alle famiglie rivali.

Un’altra coincidenza: a condurre fuori strada le indagini sull’omicidio Russo è il suo successore, Antonio Subranni – oggi sospettato di aver avuto un ruolo nella trattativa condotta da Vito Ciancimino nell’estate delle stragi. Lo stesso che ha negato il movente mafioso per Impastato. Torture, depistaggi, omicidi: in questo rebus sono arrivate i contributi di alcuni pentiti. Secondo Leonardo Messina «Cosa Nostra aveva pianificato una serie di attacchi allo Stato». Nel programma rientrava la strage di Alcamo Marina? Un investigatore trapanese Antonio Federico ha messo a verbale la voce di una sua fonte: la strage servì a coprire un traffico d’armi istituzionale ma occulto scoperto dai due carabinieri uccisi. Oggi rimane una certezza. Quella di Giuseppe Gulotta la «terza» vittima di quella strage: «Vorrei sapere chi e perché mi ha fatto questo – dice all’Unità – siamo stati i capri espiatori di una cosa più grande di noi».

 

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Fonte:  alqamah.it
Articolo del 27 gennaio 2020
Strage casermetta Alcamo Marina: ancora quarantaquattro anni lontani da verità e giustizia
Articolo del 27 gennaio 2020
di Marcello Contento

Oggi, come ogni anno, si celebra l’anniversario della strage della casermetta di Alcamo Marina. Una ferita tristemente aperta da quarantaquattro anni che non vedrà la sua rimarginazione senza il raggiungimento della verità e giustizia.

Per comprendere meglio ciò che è accaduto occorre tornare indietro con il tempo ad Alcamo Marina, in una notte d’inverno tra il 26 e il 27 Gennaio del 1976, quando, due carabinieri, in servizio presso la stazione “Alkamar”, furono sorpresi durante il sonno e barbaramente uccisi. Quella notte persero la vita Carmine Apuzzo, diciannovenne, originario di Castellammare di Stabia (Napoli), e l’appuntato Salvatore Falcetta, trentacinquenne di Castelvetrano.

A distanza di quarantaquattro anni, quello che accadde di preciso quella notte ed il movente per cui è accaduto restano per gran parte avvolti nel mistero. Le poche informazioni certe su ciò che è accaduto in quei giorni sono: la morte dei due militari colpiti da arma da fuoco, la scoperta fatta all’alba dagli agenti della scorta di Giorgio Almirante in transito verso l’aeroporto, la scena del delitto descritta all’arrivo dei Carabinieri della Compagnia di Alcamo e la registrazione-rivendicazione a poche ore dalla strage di un presunto gruppo terroristico Nucleo Sicilia Armata. Nelle ventiquattro ore successive, superato lo sgomento iniziale per quanto accaduto, l’attenzione si rivolse tutta alla ricerca dei colpevoli e delle motivazioni che hanno portato all’assalto di una struttura militare italiana (il primo agguato finora dal dopoguerra ad una caserma nel territorio italiano).

Va detto, però, che il contesto storico alcamese già in quel periodo brulicava di tensione, infatti, appena un anno addietro furono assassinati nel 1975 il consigliere comunale Antonio Piscitello (Aprile 1975) e l’Assessore ai lavori pubblici della Democrazia Cristiana, già Sindaco in passato, Francesco Paolo Guarrasi (25 maggio del 1975). Entrambi uccisi con la stessa pistola, una calibro 38. Pochi settimane dopo questi due omicidi, nel giugno del 1975, qualcuno in piena notte sparò dei colpi di arma da fuoco nei confronti di una pattuglia dei carabinieri. Nessuno venne successivamente identificato come autore del gesto.

Il caso fu subito affidato al colonnello Giuseppe Russo, braccio destro del Generale Dalla Chiesa, all’epoca capitano del nucleo operativo di Palermo. Russo venne poi assassinato, l’anno successivo (20 Agosto 1977), da un commando mafioso, guidato da Leoluca Bagarella, nella frazione di Corleone denominata “Ficuzza”.

Le prime indagini dell’allora Capitano Russo si concentrarono subito sulla pista rossa, anche a seguito del messaggio ricevuto poche ore dopo la scoperta dei due cadaveri da un centralinista del quotidiano La Sicilia: “La giustizia della classe lavoratrice ha fatto sentire la sua presenza con la condanna eseguita alle 1.55 ad Alcamo Marina. Il popolo e i lavoratori faranno ancora giustizia di tutti servi, carabinieri in testa, che difendono lo stato borghese. Il bottone perso da uno dei componenti del nostro commando armato che ha operato ad Alcamo Marina è una traccia inutile perché l’abbiamo preso da una giacca tempo addietro a Orbetello. Carabinieri e polizia fanno meglio a difendersi e a dedicare le loro energie ad altro. Fanno meglio a difendersi assieme ai loro padroni fascisti e americani. Sentirete ancora molto presto parlare di noi. Possiamo agire ad Alcamo, a Roma, ovunque”. Il messaggio venne firmato dal Nucleo Sicilia Armata.

Un messaggio di rivendicazione, avvenuto a poche ore dal delitto, che misero in luce dei particolari che potevano essere a conoscenza soltanto di qualcuno presente sulla scena del crimine. Sulla base di questa prima ipotesi le indagini si concentrarono su diverse persone legate agli ambienti di sinistra considerate “teste calde”, dal Partito Comunista ad altri movimenti operai e di lotta. Tra questi venne perquisita l’abitazione del giovane Peppino Impastato a Cinisi. Poco dopo, però, la pista rossa venne gradualmente abbandonata sulla base di una secca smentita da parte delle Brigate Rosse, avvenuta il 30 Gennaio del 1976. Abbandonata la pista legata al mondo politico di sinistra, rimane comunque quella del terrorismo (in Sicilia c’erano diversi gruppi di destra legati alle cosche locali) e degli uomini di cosa nostra locale. Ad Alcamo in quel periodo Cosa Nostra era affidata alla famiglia Rimi. Nel frattempo del neonato movimento “Nucleo Sicilia Armata” non si seppe più nulla, dopo il 27 Gennaio sembrò sparire nel nulla.

La svolta nelle indagini arriva circa quindici giorni dopo, tra il 12 e il 13 Febbraio 1976, con l’arresto, durante un posto di blocco dei carabinieri, del giovane alcamese Giuseppe Vesco. Il ragazzo fu fermato mentre si trovava alla guida di una 127. Le forze dell’ordine, a seguito di una perquisizione in auto e nell’abitazione del Vesco, trovarono l’arma utilizzata durante l’agguato e una pistola d’ordinanza rubata ai due militari. Vesco a seguito di un duro interrogatorio, in cui i militari non andarono per il sottile, confessò di aver partecipato all’agguato, indicando il covo dove nascosero la refurtiva e i quattro ragazzi che parteciparono con lui all’agguato. Tre di questi erano dei suoi amici di Alcamo: Giuseppe Gulotta, Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli. L’ultimo chiamato in causa è Giovanni Mandalà un conoscente di Partinico. Poco dopo, sulla base della testimonianza di Vesco, vennero ritrovate le armi e le divise in una stalla a Partinico di proprietà di Giovanni Mandalà.

Vesco, successivamente alla confessione e ai mandati d’arresto per i quattro presunti complici, cerca di smentire tutto informando che la confessione gli venne estorta sotto tortura. Fino alla fine dei suoi giorni tenta di scagionare i giovani indiziati, senza riuscirci. Nell’ottobre dello stesso anno (26 Ottobre 1976) viene però trovato suicida in circostante misteriose presso il carcere San Giuliano di Trapani, poco prima di essere ascoltato dagli inquirenti.

Tutti e quattro i giovani (quasi tutti diciottenni), dopo l’assoluzione in primo grado e la temporanea scarcerazione, furono condannati. Per Giuseppe Gulotta e Giovanni Mandalà fu disposto l’ergastolo, mentre per Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli a 20 anni di reclusione. Questi ultimi due, nel frattempo, fuggiti in Brasile ottenendo lo status di rifugiati.

Ma i dubbi sul reale coinvolgimento dei quattro giovani in città furono tanti. Che Vesco avesse un coinvolgimento diretto con la strage è provato dai tantissimi indizi che ricadono sulla sua persona. Ma gli interrogativi in città andavano via via moltiplicandosi: il giovane Vesco, insieme a quattro giovani inesperti, poteva compiere un agguato del genere? E se per caso fossero in qualche modo coinvolti, erano manovrati da qualcuno per altri scopi? Sono attendibili le confessioni di Vesco ottenute sotto tortura?.

A complicare la matassa si aggiungono i dubbi derivanti dal rapporto-dossier di Peppino Impastato in cui si racconta che la strage fu organizzata da apparati deviati dei servizi segreti. In realtà una decina di anni dopo venne documenta la presenza di Gladio sul territorio trapanese, con l’esistenza di un misterioso Centro Scorpione. Secondo alcune ipotesi questa esisteva già dal 1976 e fu in qualche modo coinvolta nella strage della casermetta. L’ipotesi è quella che i carabinieri avrebbero fermato un furgone contenente armi e gladiatori della sede trapanese di Gladio. Di lì a poco i militari vennero uccisi e fu organizzata una messinscena all’interno della casermetta per depistare gli investigatori e non far scoprire la presenza di Gladio.

Negli anni successivi, però, scese il sipario sulla strage della casermetta. I colpevoli rimasero i cinque giovani: due detenuti in carcere, due in brasile e uno morto suicida. Sembra tutto risolto, manca solo il movente. La pista del terrorismo rosso, il Nucleo Armato Sicilia, la cellula di Gladio, gli uomini di cosa nostra, tutto cadde nell’oblio.

Nel 2007, improvvisamente, si ritorna a parlare della Strage di Alcamo Marina, un ex maresciallo dei Carabinieri, Renato Olino, in servizio ad Alcamo all’epoca dei fatti, testimoniò spontaneamente ai magistrati le modalità con cui sono state condotte le investigazioni e ottenute le confessioni. Questa testimonianza portò ad un immediato processo di revisione.

La conclusione del processo di revisione portò all’assoluzione, il 13 febbraio del 2012, dinanzi alla Corte di Appello di Reggio Calabria, di Giuseppe Gulotta. Si legge nella sentenza della Corte: Giuseppe Vesco, il chiamante in correità, è stato torturato, la sua chiamata in correità, dunque, è illegale, Gulotta Giuseppe ha confessato dopo essere stato picchiato e minacciato dai Carabinieri, violati fondamentali diritti dell’uomo. Il 20 luglio 2012 la sezione per i minorenni della corte d’appello di Catania assolve Ferrantelli e Santangelo (minori di 18 anni all’epoca). Nel 2014 la corte d’appello di Trapani ha assolto ufficialmente post-mortem – riabilitandolo – anche Giovanni Mandalà.

Sentenze che vanno sicuramente rispettate e accettate ma che lasciano ancora aperte delle ferite lunghe quarantaquattro anni. Adesso, si brancola nel buio più di prima. Il processo di revisione, infatti, si è basato sulle confessioni ottenute tramite atti di violenza, fatti senz’altro deplorevoli e da condannare, però non sono state prese in considerazione, durante il processo, le analisi probatorie dell’epoca. Oggi forse si potrebbe ripartire da lì, da quelle armi trovate in possesso da Vesco, dalle divise nella stalla di Mandalà, dalle loro amicizie, dai rapporti e dalle relazioni non portate a processo e da tutto quello che ancora è possibile ritrovare all’interno degli archivi giudiziari. La risposta si potrebbe ancora trovare negli indizi probatori e nelle carte in possesso dello Stato. Forse, ad oggi, è l’unica strada percorribile se si vuole davvero raggiungere la verità sui fatti e far riposare in pace i due militari che con onore e lealtà, fino a perdere la vita, hanno servito lo Stato e la divisa che tanto amavano.

 

 

 

Leggere anche:

ilfattoquotidiano.it
Articolo del 11 febbraio 2020
Antimafia, in commissione la strage di Alcamo Marina. Gulotta: “Io in carcere 22 anni da innocente. Giustizia per i carabinieri uccisi”
L’organo parlamentare ascolta il racconto dell’uomo accusato di aver partecipato al duplice omicidio di due carabinieri, all’interno della casermetta di Alcamo Marina, in provincia di Trapani, nel 1976. Il giovane fu condannato all’ergastolo, ha scontato 22 anni di carcere da innocente ed è stato assolto solo nel 2012, dopo aver subito nove processi.

 

 

Articolo del 27 gennaio 2021 – alqamah.it

Apuzzo e Falcetta, vittime del dovere senza verità e giustizia

 

 

alqamah.it
Articolo del 27 gennaio 2021
Una storia che resta carica di interrogativi
di Stefano Santoro
Stefano Santoro, alcamese, trapiantato a New York, free lance video, da alcuni anni si occupa della strage di Alcamo Marina, la sua ricostruzione proverebbe l’esistenza di falsi nella verità uscita fuori dai processi di revisione

 

 

corriere.it
Articolo del 28 ottobre 2021
Giuseppe Gulotta e la strage di Alcamo: «I miei 22 anni in carcere per un delitto mai compiuto»
di Walter Veltroni
L’uomo accusato della morte di due carabinieri: «Confessai dopo ore di tortura. Ora penso a quei ragazzi uccisi». La caserma: «Mi legarono mani e piedi a una sedia, iniziarono a bastonarmi: avevo 18 anni, ero terrorizzato. Volevo solo che finisse presto»

 

 

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