27 Ottobre 1981 Cetraro (CS). Assassinato il commerciante Lucio Ferrami.

A Lucio Ferrami, due killer gli sparano in macchina mentre era in compagnia della moglie. La donna si salva perché il marito le fa da scudo con il suo corpo.

L’uomo aveva denunciato poco tempo prima ai carabinieri di aver ricevuto la visita di alcune persone che gli avevano chiesto la tangente. La risposta dei malavitosi non si fa attendere. Nessuno può permettersi un gesto così rivoluzionario. Lucio Ferrami paga con la vita il suo atto di insubordinazione.

La vedova Ferrami per anni ha invocato giustizia denunciando indagini approssimative e collusioni. “Io ero in macchina con mio marito – affermò nel corso di una nota intervista televisiva – e nessuno mi ha mai chiamato per fare un riconoscimento”.

Dopo anni passati a vedere a passeggio “gli assassini del marito”, ha deciso di continuare la sua vita e di non credere più nell’umana giustizia.
Fonte: laboratoriolosardo.it

 

 

Foto da Wikimafia.it

Fonte: wikimafia.it

Foto e Testimonianza della famiglia, resa a Sabrina Lattuca per WikiMafia

Lucio Ferrami (22 febbraio 1949 Casalbuttano – 27 ottobre 1981 Acquappesa), è stato un commerciante ucciso dalla ‘ndrangheta perché deciso a non pagare il pizzo.

Nato a Casalbuttano, in provincia di Cremona, Lucio Ferrami iniziò a lavorare fin da giovane nel campo dell’edilizia stradale come dipendente di una ditta lombarda. Aveva circa ventun’anni quando gli impegni lavorativi lo portarono in Calabria, a Guardia Piementose (CS), dove conobbe Maria Avolio, sua futura moglie.

Dopo essersi sposato, Lucio con l’aiuto della famiglia decise di mettersi in proprio: avviò la Ferrami ceramiche per la vendita al dettaglio di materiali da costruzione che da subito diede grandi soddisfazioni al giovane imprenditore.

Dopo qualche tempo, però, la Ferrami ceramiche ricevette la prima richiesta di estorsione da parte delle ‘ndrine locali della costa tirrenica legate a Franco Muto, conosciuto come il “re del pesce” di Cetraro, boss indiscusso dell’alto tirreno cosentino. Alla richiesta del pizzo l’imprenditore cremonese decise di non cedere e denunciò i suoi estorsori alla giustizia facendo mettere per iscritto nomi e cognomi dei criminali.

Nonostante le immediate denunce però la giustizia non fece il suo corso e un anno dopo l’inizio di questa travagliata vicenda, il 27 ottobre 1981, Lucio Ferrami rimase vittima di un agguato pagando con la vita un gesto ritenuto fin troppo rivoluzionario.

Mentre era alla guida della sua auto in Contrada Zaccani, ad Acquappesa, Ferrami fu raggiunto da una raffica di colpi proveniente dal ciglio della strada dove i killer erano nascosti. Fu un’esecuzione in pieno stile ‘ndranghetista[4]. Quella sera, l’imprenditore stava rientrando a casa in compagnia della moglie, Maria Avolio, che si salvò dall’agguato perché suo marito le fece da scudo umano.

Lucio Ferrami fu vittima innocente di mafia all’età di 32 anni. Lasciò la giovane moglie e i figli Pierluigi e Paolo di 9 e 3 anni.

L’omicidio di Lucio Ferrami coincise con quello di altre due vittime innocenti, per questo motivo venne istruito un unico processo per il suo omicidio, quello di Giovanni Losardo e di Catello De Iudicibus presso il Tribunale di Cosenza (trasferito successivamente a Bari per motivi di ordine pubblico).

Nel corso del processo, in Corte di Assise, per l’omicidio Ferrami sia Franco Muto che suo figlio Luigi insieme a quattro uomini a loro vicini furono condannati all’ergastolo. In secondo grado furono però tutti assolti con formula dubitativa.

Nel 1988 gli avvocati di parte civile avanzarono la richiesta di riapertura del caso: con un gesto clamoroso e senza precedenti, Maria Avolio ricostruì l’intera vicenda fino a denunciare la Procura della Repubblica di Paola, competente sull’indagine per l’uccisione del marito, per omissione di atti d’ufficio; accusò i magistrati di non aver fatto tutto il possibile per impedire l’omicidio, di aver trascurato precise denunce della polizia che segnalavano l’escalation mafiosa a Cetraro, a Paola, a Guardia Piemontese e negli altri paesi limitrofi della costa tirrenica. Sotto accusa sono furono messi i silenzi delle istituzioni, della magistratura e delle forze dell’ordine.

 

 

 

 

Articolo da L’Unità del 27 Febbraio 1983
«Nel nome di mio marito accuso quei magistrati succubi della mafia»
di Filippo Veltri
Maria Avolio, moglie del commerciante Lucio Ferrami, ha presentato un esposto contro la Procura di Paola

Catanzaro – Aveva parlato alla manifestazione contro la mafia a Cetraro, poco più di un mese fa Maria Avolio, vedova  di Lucio Ferrami, un commerciante barbaramente ucciso nell’ottobre dell’81, vestita a lutto, aveva denunciato lo strapotere della mafia lungo la costa tirrenica in provincia di Cosenza, ma anche l’impotenza e l’inefficienza di uno Stato che non era in grado di proteggere e salvare suo marito e quanti si opponevano alla mafia. Vicino a lei, le altre vedove della violenza mafiosa, tra esse la moglie del compagno Giannino Losardo, l’assessore di Cetraro assassinato.
Mercoledì scorso Maria Avolo è andata oltre e con un gesto clamoroso e senza precedenti ha denunciato la Procura della Repubblica di Paola,  competente ad indagare sull’uccisione di suo marito, per omissione di atti d’ufficio: accusa i magistrati di non aver fatto tutto il possibile per impedire l’omicidio, di aver trascurato precise denunce della polizia che segnalavano l’escalation mafiosa a Cetraro, a Paola, a Guardia Piemontese e negli altri paesi del litorale tirrenico. Assistita dal suo avvocato, Vincenzo Azzeriti Bova, Maria Avolio si è presentata a Catanzaro dal Procuratore Generale presso la Corte d’Appello, il dottor Pasquale Carnovale e gli ha consegnato la denuncia che, in copia, è partita anche per Roma con destinazione il Consiglio Superiore della Magistratura.
La vedova Ferrami ha ricostruito puntigliosamente le date di una vera e propria tragedia, di un allucinante silenzio degli organi dello Stato dinanzi alla lotta solitaria di un uomo contro la mafia. Il marito, un onesto commerciante di Guardia Piemontese, era taglieggiato dalle cosche, perseguitato dalle richieste di “mazzette”, nella zona d’influenza della banda di Franco Muto, il «re del pesce» di Cetraro, dominatore e boss incontrastato, accusato insieme ad altri dell’omicidio del compagno Losardo.
Ferrami si rifiutò di pagare le tangenti, non volle cedere ai ricatti, denunciò ai carabinieri l’estorsione, fece individuare i responsabili, tutti uomini di Muto. Ma la macchina della giustizia non andò avanti. Nell’estate del 1980, per la prima volta, il commissariato di Pubblica Sicurezza di Paola stese un dettagliato rapporto: Muto e altre ventidue persone vennero accusate di associazione per delinquere, omicidi, taglieggiamenti, ferimenti, intimidazioni, attentati. Su tutti spiccava il delitto, consumato nella notte fra il 22 e il 23 giugno del 1980.
Ma quel rapporto restò lettera morta: la Procura di Paola, un ufficio giudiziario da anni nell’occhio del ciclone per polemiche e sospetti, non lo considerò e non se ne trovò traccia negli atti del processo per l’uccisione di Giannino Losardo (e tale, gravissima lacuna porterà poi al rinvio del dibattimento).
Lucio Ferrami — e quanti come lui? — rimasero così in balia della prepotenza e dell’arroganza mafiosa.
La moglie ricorda con lucidità: «Mio marito — dice — non era un eroe, solo chiedeva allo Stato di proteggerlo. Ricordo che, dopo la denuncia degli estorsori, passammo un anno d’inferno: chiesi a mio marito di andarcene dal paese, gli dissi che ce l’avrebbero fatta pagare. Ma lui non volle cedere». Il 27 ottobre dell’81, quasi un anno dopo la denuncia, Lucio Ferrami fu ucciso in un agguato mentre tornava a casa.

 

 

 

Articolo da L’Unità del 22 Gennaio 1988
Per il delitto Losardo la Cassazione conferma: tutti da assolvere
di Giancarlo Summa
Sono destinati a restare senza volto gli assassini di Giovanni Losardo,l’amministratore comunista ucciso dalla ‘ndrangheta calabrese otto anni fa. E
insieme al suo, rimangono impuniti mandanti ed esecutori di altri due omicidi commessi a Cetraro (Cosenza) tra il ’79 e l’83. E’ questo il responso della Corte di cassazione di Roma, presieduta da Corrado Carnevale.

Roma. La prima sezione penale della Corte dì Cassazione di Roma ha impiegato solo poche ore, mercoledì notte, per rigettare il ricorso del procuratore generale dì Bari Leonardo Rinella contro la sentenza emessa nello scorso marzo dalla Corte d’Assise d’appello del capoluogo pugliese.
La sentenza definitiva rinane dunque quella: assoluzione per insufficenza dì prove per i 10 indiziati di tre omicidi (quello di Giovanni Losardo e dei commerciantii Lucio Ferrari e Catello De ludicibus), e 19 lievi condanne per associazione a delinquere semplice. Il boss della cosca, Francesco Muto, comunque rimane in carcere a scontare oltre 15 anni pe altri reati.
Quasi tutti gli altri sono invece da tempo liberi e molti di loro sono tornati a Cetraro dove è stato denunciato in consiglio
comunale, il clima è tornato pesante e le intimidazioni sono dì nuovo all’ordine del giorno.
Losardo fu ucciso la notte del 21 giugno 1980, mentre stava tornando a casa dopo essere intervenuto in consiglio comunale per denunciare, ancora una volta, lo strapotere dela cosca Muto su tutta la zona. Una battaglia difficile, pericolosa condotta
troppo spesso da solo. In ospedale, poco prima di morire disse una cosa sola .«Tutti sanno chi mi ha sparato». Tutti lo sapevano ma ciò non è bastato a far condannare i presunti killer e il presunto mandante, Francesco Muto. Anche se le prove erano schiaccianti, se dagli accertamenti delle forze dell’ordine risultavano testimonianze e fatti inoppugnabili.
I Processi di primo e secondo grado si sono svolti a Bari dopo un trasferimento «per motivi di ordine pubblico» dal Tribunale di Cosenza. In Corte d’Assise furono condannati all’ergastolo Muto, suo figlio Luigi e quattro gregari per gli omicidi di Ferrami e De Iudicibus (sarebbero stati uccisi per
essersi opposti in vario modo alla cosca), mentre sin d’allora gli imputati per l’uccisione di Losardo se la cavarono per insufficenza dì prove. In secondo grado furono assolti, sempre con formula dubitativa, anche i condannati all’ergastolo.
Costante di entrambi i processi la mancata condanna per associazione a delinquere di stampo mafioso. Come se non ci fosse mafia a Cetraro, un paese in ginocchio pe la paura, dove tra il
’79 e l’83 furono commessi ben 11 omicidi – tutti rimasti senza esecutori o mandanti – e 51 attentati dinamitardi.
In Cassazione, il processo alla cosca Muto è finito davanti alla sezione presieduta da Corrado Carnevale, la stessa che già in passato mandò a casa diversi boss mafiosi e che, più recentemente, ha accolto il ricorso dei difensori dei neofascisti accusati pe la strage dell’ltalicus, rendendo anche quello un processo senza colpevoli.
Gli avvocati di parte civile hanno già lanciato un appello, vanno avviate nuove indagini per far luce sulla lunga stagione di sangue vissuta a Cetraro, arrivando ad un nuovo processo.

 

 

 

Articolo del 26 Aprile 2012 da  corrieredellacalabria.it
Resistere, resistere, resistere
di Gregorio Corigliano

«Non spegniamo il faro della memoria». È stato molto determinato il magistrato Erminio Amelio, quando, a Roma, nella sala della Lupa, ha commemorato, assieme al presidente della Camera, Gianfranco Fini, e al leader del Pd, Walter Veltroni, il dirigente dei servizi segreti Nicola Calipari. Amelio, richiamando Voltaire, ha poi aggiunto che «ai vivi si devono riguardi, ai morti si deve la verità». Quella verità che, formalmente, sull’uccisione di Calipari non si è mai saputa. Fuori. Così come, non è stata fatta mai giustizia per tanti altri calabresi uccisi per terrorismo mafioso.

Tra i tanti, Lucio Ferrami, imprenditore di Cetraro, ucciso il 27 ottobre del 1981 perché si era rifiutato di pagare la tangente alla ‘ndrangheta. Ferrami, prima di essere ucciso, aveva fatto regolari denunce alla magistratura, aveva denunciato alle forze dell’ordine il tentativo di estorsione, fece finanche individuare i responsabili, appartenenti alla cosca del “re del pesce”, Franco Muto, ma nulla. Dopo l’ennesima richiesta, mentre era in macchina, assieme alla moglie, Maria Avolio, venne avvicinato dai sicari e fu ucciso. Fece in tempo a coprire col proprio corpo, la moglie che rimase illesa, perché i killer, consumato il delitto, fuggirono, in moto. Ecco, la moglie ha invocato giustizia per anni, anni trascorsi, ha sempre detto, a «vedere gli assassini di mio marito a passeggio». E lei, Maria Avolio, non ha avuto timore a parlare di «allucinante silenzio degli organi dello Stato, dinanzi alla lotta solitaria di un uomo, mio marito, contro la cosca locale».

Maria Avolio e la sorella di Ferrami, Franca, erano presenti alla giornata di riflessione sul tema: “’Ndrangheta e vittime del racket: storia di donne e uomini dimenticati”, promossa dal circolo della stampa Maria Rosaria Sessa di Cosenza e alla quale hanno partecipato gli studenti del liceo classico “Telesio” di Cosenza. Temevamo che i ragazzi delle seconde e delle terze non fossero interessati a queste problematiche, invece, come ha sottolineato la dirigente scolastica Rosa Barbieri, l’attenzione non è mai scemata durante i vari interventi, nel corso dei quali sono stati ricordati, oltre a Lucio Ferrami, per il quale il Pd, attraverso il parlamentare Franco Laratta ha chiesto la medaglia d’oro, Silvio Sesti, Mario Dodaro, Sergio Cosmai, il bambino Pasqualino Perri, Fazio Cirolla, Antonino Maiorano, Salvatore Altomare, tutte vittime dimenticate, «nei campi arati dell’indifferenza» come ha scritto Dino Granata. «Siamo qui – ha sostenuto Sabrina Garofalo, coordinatrice del movimento Libera a Cosenza – per interrogarci sulla nostra missione, che è quella di fondare la democrazia sui valori della giustizia e della libertà».

Il pm Vincenzo Luberto, in un appassionato intervento che ha emozionato gli studenti, ha voluto invitare giovani e meno giovani a reagire, con sdegno, alla sopraffazione. «Indignatevi, non abbiate paura, poiché la vostra paura alimenta il potere criminale ed economico della ‘ndrangheta».
A parere del giovane e attivo magistrato cosentino non si possono non rispettare le regole del vivere civile: solo così «qualche speranza di riscatto dalla stagione dell’indifferenza può intravedersi».
Per combattere la criminalità «è necessario essere cittadini che vivono e rispettano quotidianamente la legalità». A sostenerlo, anche il procuratore generale della Repubblica di Bologna, Emilio Ledonne, incontrando gli studenti del liceo “Galluppi” di Catanzaro. «La legalità è l’unico mezzo per contrastare logiche illegali», ha voluto ribadire Ledonne.

Intanto, però, nel rapporto annuale al governo dei servizi segreti italiani, Aise ed Aisi, si sostiene che «le cosche calabresi appaiono orientate ad adottare un più basso profilo, serrando le fila ed intensificando gli interessi mafiosi verso ambiti economico-imprenditoriali ritenuti meno esposti all’attenzione mediatica e repressiva». Ecco perché si legge nel rapporto 2011, i gruppi ‘ndranghetisti appaiono determinati a intensificare l’esercizio di pressioni collusive, volte a condizionare le strutture amministrative e di governo del territorio, non solo nella regione di origine, ma soprattutto in quelle di proiezione del Centro-nord, al fine di inserirsi negli appalti relativi alle più importanti opere pubbliche, specie quelle stradali, autostradali, ferroviarie e portuali». Sui rapporti tra le cosche e la politica, si è soffermato, con particolari reggini, Lucio Musolino, sul Corriere della Calabria della scorsa settimana.

E questo periodo di crisi nazionale e internazionale favorisce le cosche mafiose? Ad avviso dell’intelligence di casa nostra «l’attuale congiuntura appare destinata ad accrescere i margini di infiltrazione criminale nel tessuto produttivo e imprenditoriale, specie attraverso la compartecipazione occulta e l’inserimento di capitali illeciti nelle aziende in crisi, finalizzati al rilevamento di pacchetti societari».
E la soluzione? Il celeberrimo «resistere, resistere, resistere» di Francesco Saverio Borrelli, leader dell’allora pool di Mani pulite di Milano, ci appare un rimedio possibile. La morte violenta di Lucio Ferrami e le lacrime di Maria Avolio, di fronte agli studenti, lo confermano.

 

 

 

Storie Antiracket: Ferrami la verità e i silenzi trentatré anni dopo
Linea Diretta – anno 2 – numero 14
30 ottobre 2014

 

 

 

 

In ricordo di Lucio Ferrami
La voce dell’ANC Cosenza
anno 3 – Numero 7 – agosto/dicembre 2016

 

 

 

 

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *