29 Settembre 1981 Agrigento. Strage di San Giovanni Gemini. Restano uccisi Michele Ciminnisi e Vincenzo Romano. Erano seduti in un bar vicino al vero obiettivo dell’agguato.

Foto da: soniaalfano.it

29 settembre del 1981 a San Giovanni Gemini (Agrigento), i killer che dovevano uccidere Calogero “Gigino” Pizzuto (l’uomo che secondo i pentiti era il numero 3 di Cosa Nostra dell’epoca, dopo Bontate ed Inzerillo), all’interno del bar Reina, colpiscono a morte anche due innocenti, Michele Ciminnisi e Vincenzo Romano. Quella sera, il gruppo di fuoco composto Gigi Garofano, Calogero Sala, Rosario Corsi, e Lillo Lauria (successivamente morti ammazzati), accompagnati in auto da Ciro Vara (divenuto poi collaboratore di giustizia), dovevano portare a termine la loro missione di morte, uccidendo quel Calogero Pizzuto, capo mandamento di Castronovo di Sicilia, che dopo la morte di Stefano Bontate, non si era presentato alla convocazione da parte di Michele Greco, firmando così la propria condanna nel corso di quella guerra di mafia che aveva visto contrapposti i corleonesi di Totò Riina e Provenzano, al gruppo di Stefano Bontate, Cristina e Badalamenti.

 

 

 

Fonte familiarivittimedimafia.com
La storia di Michele Ciminnisi e di Vincenzo Romano
di Benny Calasanzio per Fuoririga

Per caso. Si può vivere, per caso, o si può morire; per qualcuno questo conta meno di una monetina di rame. I pagani lo chiamano «fato», è «volontà divina» per i credenti. Loro due per puro caso sono stati ammazzati. O meglio, come dirà un pentito, «quando si spara si spara», mica si può distinguere, esitare. Si spara e si ammazza un boss; se muore qualcun altro è solo piombo sprecato, un vero peccato. I due protagonisti della nostra storia povera e semi sconosciuta si chiamano Michele Ciminnisi e Vincenzo Romano. Si conoscono da una vita, loro due, «paesani» di un piccolo centro come San Giovanni Gemini, arroccato su per la provincia di Agrigento. Ciminnisi e Romano quel giorno stanno per morire l’uno di fronte all’altro. E’ il 29 settembre del 1981. A ricordare quei momenti è Giuseppe Ciminnisi, figlio di Michele, che quel giorno era a giocare con i suoi amici per le strade di San Giovanni. Era un ragazzino di 14 anni, all’epoca. Mentre lui correva, tirava calci ad un pallone, suo padre, dopo il lavoro da impiegato comunale, si rilassava giocando a carte seduto al tavolo del bar Reina; Vicenzo Romano era lì a guardarlo. Erano le sette di sera e quel piccolo locale era pieno. Dopo qualche minuto entra e si unisce a giocare con loro Calogero «Gigino» Pizzuto, che secondo molti pentiti in quel momento è il numero «3» della cupola palermitana, dopo Bontate ed Inzerillo. Pizzuto il 29 settembre è lì di passaggio. Lui è originario di Villalba, nel nisseno, ma vive a Palermo; è sua moglie ad essere originaria di San Giovanni Gemini. A ruota però lo seguono due, forse tre persone armate che raggiungono il boss e gli sparano contro diversi colpi. I killer sparano pur essendo completamente circondati da persone; ne hanno davanti, dietro e di fianco. Non importa. Loro sono lì per uccidere Pizzuto. Tutto il resto è solo «contesto». Sparano, e pure tanto. Fino a quando Pizzuto si accascia sul tavolo senza vita. Poi, con calma, raggiungono l’auto in cui li attende un complice e si dileguano.
Nel bar oltre alla puzza di polvere da sparo, rimangono due, tre feriti, chi dai proiettili di rimbalzo, chi dalle schegge. Due corpi però sono immobili. Uno è quello del boss. L’altro è quello di Vincenzo Romano, stroncato da un proiettile che gli si pianta dritto nel cuore. Anche Michele Ciminnisi viene colpito da un proiettile che ha attraversato il corpo del boss. Cerca di alzarsi, si dirige verso l’uscita del bar, forse riesce a vedere anche l’auto dei killer che si allontana. Non importa, perché dopo qualche metro si accascia a terra senza vita. «Stavo giocando per strada, quando alcune persone mi dissero che era successo qualcosa al bar Reina – ricorda Giuseppe Ciminnisi -. Corsi verso il locale ma quando arrivai mi bloccarono impedendomi di vedere cosa era successo. Mi portarono a casa e mi dissero solo che mio padre era in ospedale, per un incidente. Solo all’indomani – conclude Ciminnisi – seppi la verità». Suo padre lascia una vedova, Nazarena, e tre orfani, Massimo, Carmelo e lo stesso Giuseppe. Fu una strage quella del bar Reina, una strage in cui morirono tre «vittime innocenti», come recitavano le prime cronache dell’epoca. Tutti però sapevano che le uniche vittime innocenti erano Ciminnisi e Romano. Pizzuto no, Pizzuto non era come loro. Pizzuto era uno che quella fine l’aveva messa in conto. Lui era un mafioso e questo oggi è assodato: si dibattè molto nei processi se fosse effettivamente capomandamento, se fosse capofamiglia di Castronovo o quant’altro. Ma che fosse mafioso e che fosse stato ucciso perché appartenente all’ala dei futuri «perdenti» nella guerra di mafia, nessuno ne ha mai dubitato. Giuseppe Ciminnisi oggi ha 43 anni, e solo da poco tempo riesce a raccontare questa storia senza crollare emotivamente. Dopo l’omicidio lui e la sua famiglia si ritrovano a fare i conti con qualcosa che prima ignoravano e che piomba loro addosso senza alcun preavviso. «Dopo l’uccisione di mio padre rimasi disorientato, senza riferimenti –dice Giuseppe-. Pensare che a parlarmi dei nostri diritti come familiari di vittima di mafia, dei benefit economici, delle assunzioni da parte delle pubbliche amministrazioni fu un tenente dei carabinieri, Lino Serra, che mi portò in caserma e mi spiegò tutto. Prima di lui non avevo mai incontrato lo Stato. Nessuno si era mai preoccupato di me, di noi». Passano gli anni e nulla si muove. Nessun processo, nessuna audizione dei familiari delle due vittime. Tutto tace fino a quando, tra il 1984 e il 1988, Tommaso Buscetta, durante la sua collaborazione con la giustizia, riconosce il Pizzuto come il numero «3» di cosa nostra palermitana. Sapeva della strage Don Masino, ma non aveva idea di chi fossero stati i killer. Dopo di lui ben nove collaboratori di giustizia raccontarono di quell’agguato e di quel «piccolo» errore dei killer. Giuseppe Ciminnisi in quegli anni legge i giornali, accumula ritagli, prepara dei memoriali e inizia ad inoltrarli alla magistratura, chiedendo, alla luce di quanto emergeva, di istruire un processo sulla morte di suo padre e di Vincenzo Romano. Nel 1990 inizia il primo processo a Palermo sull’omicidio di Pizzuto, ma delle vere vittime di quell’agguato non si parla. Tutti gli imputati saranno assolti per insufficienza di prove: i pentiti non concordavano sugli esecutori materiali degli omicidi ma solamente sull’obiettivo dell’agguato. La situazione si sblocca solo nel 2003, dopo le dichiarazioni del super pentito Nino Giuffrè che racconta altri particolari sulla caratura criminale del Pizzuto e su quell’errore che era costato la vita a due innocenti. Ancora luce sul delitto verrà dalle dichiarazioni di Ciro Vara, mafioso latitante fino al 1994, che nel 2000 si decide a collaborare. «Vara – racconta Ciminnisi – dichiarò che ebbe un ruolo nella strage, ma solo come autista dei killer. Li andò a prendere e poi li riportò al sicuro dopo l’agguato». E Vara è l’unico superstite tra gli assassini: Gigi Garofano, Calogero Sala, Rosario Corsi, e Lillo Lauria, presunti killer, sono tutti morti ammazzati. E sarà sempre lo stesso Vara, qualora ce ne fosse stato bisogno, a ribadire in sede processuale che in quell’occasione «erano stati ammazzati due innocenti, e questo aveva fatto infuriare i vertici di cosa nostra». L’11 giugno del 2008, dopo la chiusura delle indagini, il giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Palermo, Vittorio Anania, rinvia a giudizio come mandanti dell’agguato di San Giovanni Gemini costato la vita a Ciminnisi e Romano: Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Pippò Calò; il gotha di cosa nostra. Oltre ai familiari delle due vittime, anche il Comune di San Giovanni Gemini è parte civile nel processo, con il patrocinio dell’avvocato Debora Di Caro; lo stesso comune che nel 1981 aveva pagato i funerali al boss Pizzuto, scatenando un vespaio di polemiche. Ciminnisi non perde un’udienza. E’ in aula anche quando, a turno, vengono ascoltati in videoconferenza i tre «capi dei capi». Sono ascoltati in realtà i loro avvocati, perché i boss non aprono bocca. Ciminnisi, che nel frattempo è diventato vicepresidente dell’Associazione nazionale delle vittime di mafia, fondata da Sonia Alfano, figlia del giornalista Beppe, ucciso a Barcellona Pozzo di Gotto nel 1993, aspetta il 16 marzo, data dell’interrogatorio di Nino Giuffrè, che potrebbe rivelarsi fondamentale. «Sono fiducioso per quanto riguarda il processo – confida Ciminnisi – perché sento che si arriverà ad una condanna, grazie ai collaboratori di giustizia e alle indagini che sono state condotte egregiamente». La domanda che sorge spontanea, ingenua, è quale soddisfazione possa derivare da un condanna, da un ergastolo inflitto a chi ne ha già un paio sulle spalle e non ha mai chiesto scusa, non si è mai pentito. «A me non interessa quanti ergastoli hanno, se uno, due o tre. Ne a quanti anni li condanneranno –dice Giuseppe-. Il mio desiderio è che finalmente si arrivi alla identità dei mandanti; quel giorno io saprò chi ha causato la morte di mio padre e di Romano». In questa storia, che assurda e atroce lo è già di per sé, si sono aggiunte altre beffe, causate talvolta dalla cieca burocrazia, talvolta da molto peggio. Come il rifiuto dei benefici dei familiari di vittime innocenti della mafia a Salvatore Romano: la Regione ha deciso che prima di fare qualunque passo si dovrà attendere la fine del processo, quando emergerà l’assoluta estraneità ai fatti delle due vittime, nonostante il quadro sia ormai chiarissimo. «Quando abbiamo sentito queste parole ci è sembrato giusto ricordare ai dirigenti regionali che non siamo noi gli imputati nel processo, ma siamo le vittime». Ultimo tentativo di «revisione» della vicenda viene, paradossalmente, da un parroco, don Totò Traina. «Durante un’intervista ra­diofonica –racconta Ciminnisi- citando un suo vecchio articolo con dati e circostanze sbagliate, ha commesso l’errore di non tracciare la linea di demarcazione tra le vittime innocenti della mafia morte nella strage e chi invece è stato assas­sinato in virtù della propria organicità in cosa nostra». Quando Giuseppe va dal prete a chiedere spiegazioni e scuse, don Traina gli risponde: «quello che dico io è sentenza». Di quale processo, però, non si sa.

 

 

 

Articolo dell’8 Dicembre 2010 da  lavalledeitempli.net
Strage di S. Giovanni Gemini, ergastolo per Salvatore Riina e Bernardo Provenzano. Incontro con Giuseppe Ciminnisi

di Gian J. Morici

La Corte d’Assise di Agrigento ha condannato oggi in primo grado all’ergastolo Salvatore Riina e Bernando Provenzano, per la strage del 29 settembre 1981, quando a San Giovanni Gemini vennero uccisi Gigino Pizzuto, capo mandamento di Castronovo di Sicilia e due vittime innocenti che pagarono il fatto di essersi trovate nel posto sbagliato al momento sbagliato, Michele Ciminnisi e Vincenzo Romano .

Abbiamo incontrato stamattina Giuseppe Ciminnisi, figlio di Michele Ciminnisi, vicepresidente dell’Associazione Nazionale Familiari Vittime di Mafia, le cui caparbietà, coraggio e desiderio di giustizia, hanno portato all’odierno risultato.
All’epoca dei fatti, Giuseppe era un ragazzino di soli 14 anni, al quale la ferocia di un gruppo di malavitosi, unitamente a un destino avverso, portarono via per sempre la figura paterna.
Il padre, impiegato comunale, la sera del 29 settembre 1981, si trova al bar Reina a giocare a briscola con altre persone. Vicino al tavolo, Vicenzo Romano che assiste alla partita a carte.
Non passa molto che al bar entra Calogero ‘Gigino’ Pizzuto, il quale si siede allo stesso tavolo.

Secondo quanto si apprenderà in seguito dai pentiti, Pizzuto in quel momento è ai vertici della ‘Cupola’ di Cosa Nostra, dopo Bontade ed Inzerillo. Un incontro casuale quello con Pizzuto, il quale non è originario di San Giovanni Gemini e risiede a Palermo.
Pizzuto è la vittima designata dell’agguato. I killer entrano e sparano incuranti del fatto che all’interno del locale si trovino molte persone che nulla hanno a che spartire con il boss.
I killer si lasciano alle spalle due feriti e tre morti. A perdere la vita quel giorno furono la vittima designata e due avventori, ‘vittime per caso’. Michele Ciminnisi e Vincenzo Romano.

Oggi Giuseppe non è più un ragazzo. È un uomo che ha sofferto tanto, ma che non si è mai rassegnato dinanzi l‘ingiustizia subita.
Stamattina, prima che venisse emessa la sentenza di condanna per Riina e Provenzano – Pippo Calò è stato assolto -, abbiamo ripercorso insieme questi ultimi 29 anni, che hanno visto un ragazzino spensierato trasformarsi in un uomo desideroso di giustizia e determinato ad ottenerla.

Giuseppe inizia fin da subito un calvario fatto di sofferenza, indifferenza da parte di chi avrebbe avuto il dovere di stare accanto a lui e alla sua famiglia, isolamento da parte di molti compaesani, quasi fossero lui e la sua famiglia i criminali.
Persino lo Stato e il mondo politico lo abbandonano. Ha solo 16 anni, quando comincia a scrivere alla Procura, per ottenere giustizia. A 18 anni compiuti, presenta la sua prima denuncia formale, con la quale chiede vengano puniti gli assassini di suo padre.

Viene istruito il primo processo, che si conclude con l’assoluzione di tutti gli imputati. Non si trovano gli esecutori materiali della strage. Il primo a dare una lettura più approfondita a quella strage che era costata la vita a due innocenti, fu il pentito Nino Giuffrè a cui farà seguito Ciro Vara, che dei killer fu autista.
Fu lui infatti ad andare a prendere Gigi Garofano, Calogero Sala, Rosario Corsi, e Lillo Lauria (tutti in seguito morti ammazzati), dopo l‘agguato per portarli in un luogo sicuro. Fu sempre Vara ad occuparsi del loro trasferimento da una masseria di Cammarata a un nuovo rifugio a Valledolmo.

D – Giuseppe, per oggi è attesa la sentenza sulla strage di S. Giovanni Gemini, nel corso della quale perse la vita tuo padre
R – Sì. Finalmente oggi potrebbe aprirsi un primo squarcio in quelle tenebre che dal 1981 circondano la mia esistenza
D- Cosa ti aspetti che accada oggi?
R- L’unica cosa che mi aspetto e che desidero che accada, è che venga ripristinata la verità e sia fatta giustizia. Nulla potrà restituire mio padre a noi familiari. Ma fare giustizia di un delitto e di tutto quello che è accaduto in seguito, questo sì. Questo lo si può fare.
D- Nel corso di questi lunghi anni, hai anche incontrato uomini come Giovanni Falcone
R- Nel 1989, incontrai il Giudice Falcone. Ero ancora molto giovane. A Falcone chiesi che venissero assicurati alla giustizia gli assassini di mio padre. Falcone mi rassicurò. Non sarebbero rimasti impuniti. Passarono appena tre anni e Falcone rimase anch’egli vittima della mafia.
D- Cosa provasti dopo gli attentati a Falcone e Borsellino?
R- Inutile negare i momenti di scoramento. Ti senti impotente. Ti sembra che il mondo ti caschi ancora una volta addosso e ti seppellisca con la sua violenza brutale. Poi, mi sono detto che non poteva finire tutto così. Che ci sarebbero stati altri magistrati pronti a fare quello che a Falcone e Borsellino era stato impedito con il tritolo. Non mi sono arreso…

Giuseppe Ciminnisi è emozionato. Tra qualche ora saprà se effettivamente verrà fatta giustizia o se, come nel primo processo, a vincere saranno ‘loro’. Coloro che hanno distrutto l’esistenza di tante famiglie.
Appena il tempo di passare da casa e poi corro in Tribunale. Voglio essere lì al momento della sentenza. Chiamo Giuseppe. La sentenza è stata già emessa. Ci vediamo dinanzi il tribunale.

D- Com’è andata?
Giuseppe sorride e già dal sorriso comprendo tutto.
R- Ergastolo! Ergastolo per Riina e Provenzano. I Giudici li hanno ritenuti colpevoli.
D- E Calò?
R- Calò è stato assolto. Lui al momento del delitto si trovava a Torino. Da qui la sua assoluzione.
D- Cosa provi adesso?
R- Credo che almeno in parte giustizia sia stata fatta. Dopo quasi trent’anni…
D- A parte la sentenza di oggi e l’incontro con Falcone nell’89, in questi lunghi anni, la presenza dello Stato è stata tangibile? Ti sei sentito protetto?
R- A volte mi sono sentito abbandonato dallo Stato. Una sensazione che provano tutti i familiari di vittime della mafia. Basti pensare che le spese processuali per arrivare alla sentenza di oggi, le ho dovute pagare io. Una legge assurda prevede infatti che per le vittime del ‘terrorismo mafioso’ è lo Stato a farsi carico delle spese giudiziarie, mentre per le vittime di mafia, sono i familiari a dover far fronte alle spese. Come spiegare il fatto che per gli attentati avvenuti a Firenze e Roma, addebitati a Riina, le spese processuali sono state pagate dallo Stato, mentre per le stragi che hanno visto lo stesso Riina vestire i panni dell’imputato, lo Stato non ha affrontato alcuna spesa?
D- A proposito di Riina e Provenzano, hanno seguito in videoconferenza il pronunciamento della sentenza?
R- No. Si sono rifiutati di assistere alla lettura della sentenza…
D- C’è qualcuno in modo particolare che ti è stato vicino nel corso di questi anni?
R- C’è una persona della quale sono orgoglioso. Una pesrona che mi è sempre stata vicina, che mi ha spronato ad andare avanti, che ha saputo sorreggermi moralmente nei momenti più difficili. È questa persona che in modo particolare voglio oggi ringraziare…
D- Vuoi dirci chi è?
R- No. Preferisco tenerlo per me…
D- Ci sono altre persone alle quali vorresti dedicare questa vittoria o che vuoi ringraziare?
R- Il risultato di oggi, intendo dedicarlo a tutte quelle famiglie che hanno vissuto e vivono il mio stesso dramma. Un ringraziamento va a chi mi ha aiutato in questa battaglia, ma anche a quanti mi hanno sbattuto la porta in faccia, aiutandomi a crescere e a capire…
D- C’è anche stato chi ti ha sbattuto la porta in faccia?
R- Cito un caso per tutti. Un sacerdote che all’epoca era direttore di un giornale, il quale tentò di ricondurre l’omicidio di mio padre a presunti traffici illeciti nei quali era coinvolto. Successivamente, si giustificò dicendo di aver raccolto voci che circolavano in paese subito dopo il delitto. Non voglio entrare oltre nel merito, ma è giusto ricordare come la parrocchia di questo sacerdote annoverasse tra i suoi fedeli alcuni mafiosi del paese… Solo i pentiti chiarirono come due delle vittime, mio padre e Romano, fossero innocenti. A persone come quel sacerdote, non devo certamente nulla…
D- E Riina e Provenzano?
R- Di quello che hanno fatto, oltre che alla giustizia degli uomini, risponderanno alla loro coscienza e a Dio… Io amo la vita, non sono come loro che le vite le hanno distrutte…
D- Un’ultima domanda. Non hai mai avuto paura di dover pagare caro il tuo coraggio?
R- La morte è una conseguenza della vita. Sarei pronto a rifare tutto quello che ho fatto…

Ci salutiamo. Sono certo che con Giuseppe ci rivedremo presto. Lo guardo salire in macchina, pronto a tornare in quel paese dove molta gente lo ha abbandonato nei momenti più difficili della sua vita.
Quale prezzo ha dovuto pagare quest’uomo per vedersi riconosciuto un proprio diritto? Non voglio neppure pensarci. Da un lato lo ammiro per il coraggio che ha dimostrato, dall’altro, provo orrore per tutto quello che gli è stato fatto. E non mi riferisco ai killer che gli hanno portato via il padre…

Forse ha ragione Giuseppe quando dice che quella di oggi non è la sua vittoria, ma quella di tante famiglie che vivono la stessa situazione. Sarà, ma a me sembra anche la sconfitta di uno Stato che, incapace di garantire i propri cittadini, li abbandona nel momento di maggiore bisogno. Senza la forza d’animo di Giuseppe o di altri come lui, si arriverebbe a sentenze come quella emessa oggi dal tribunale di Agrigento?

 

 

 

Articolo del 16 Giugno 2012 da lavalledeitempli.net
Strage di San Giovanni Gemini – L’eccidio, il processo, le condanne

Attento ma tranquillo. Come se fosse sì qualcosa d’interessante, ma come se la vicenda non lo riguardasse direttamente. Guarda un paio di volte l’orologio. Lo si vede scambiare qualche parola con la guardia. Così è apparso ieri in video conferenza nel corso del processo celebratosi presso la Corte d’Assise d’appello di Palermo, il “capo dei capi”, Totò Riina, soprannominato “u curtu”, per via della sua altezza o conosciuto anche come “la Bestia”, per la ferocia con la quale portò il clan dei corleonesi al vertice di Cosa Nostra, dopo una sanguinosa guerra di mafia. Infastidito, invecchiato e stanco, è apparso Pippo Calò, il cassiere della Mafia, conosciuto come “la salamandra”, per la sua capacità di uscire indenne dalle situazioni più pericolose.  Accanto a lui, nella stanza del carcere allestita per la videoconferenza, il suo difensore, l’avv. Mauro Gionni. Era vuota invece la stanza che avrebbe dovuto ospitare Bernardo Provenzano. Binnu u tratturi (Bernardo il trattore, colui che spianava i suoi nemici), non ha assistito all’ultima udienza del processo che ha visto alla sbarra i tre capimafia, per la strage compiuta il 29 settembre del 1981 a San Giovanni Gemini (Agrigento),  quando i killer che dovevano uccidere Calogero “Gigino” Pizzuto (l’uomo che secondo i pentiti era il numero 3 di Cosa Nostra dell’epoca, dopo Bontate ed Inzerillo), all’interno del bar Reina colpiscono a morte anche due innocenti, Michele Ciminnisi (nella foto in alto) e Vincenzo Romano. Quella sera, il gruppo di fuoco composto Gigi Garofano, Calogero Sala, Rosario Corsi, e Lillo Lauria (successivamente morti ammazzati), accompagnati in auto da Ciro Vara (divenuto poi collaboratore di giustizia), dovevano portare a termine la loro missione di morte, uccidendo quel Calogero Pizzuto, capo mandamento di Castronovo di Sicilia, che dopo la morte di Stefano Bontate, non si era presentato alla convocazione da parte di Michele Greco, firmando così la propria condanna nel corso di quella guerra di mafia che aveva visto contrapposti i corleonesi di Totò Riina e Provenzano, al gruppo di Stefano Bontate, Cristina e Badalamenti.

Un omicidio ordinato– secondo quanto narrato dai collaboratori di giustizia – da Bennardo Provenzano, il quale già qualche mese prima della strage, aveva incaricato Intile Francesco per compiere il delitto. A contestare la tesi dell’accusa, il difensore di Provenzano, avvocato Rosalba Di Gregorio, che ha spiegato come stando alle dichiarazioni rese dallo stesso Vara, Cosa Nostra si era strutturata con un sistema verticistico, formato dalla Commissione Regionale (Cupola), la Commissione Provinciale (quella di Palermo) e le Provincie (i rappresentanti delle altre provincie siciliane).  Un sistema secondo il quale, gli unici organismi che avrebbero potuto decidere sull’eliminazione del capo mandamento di Castronovo di Sicilia (Pizzuto), potevano essere soltanto la Provincia di Agrigento (nella quale ricadeva il mandamento di Castronovo di Sicilia) o la Commissione Regionale. Organismi dei quali il Provenzano non faceva parte. Secondo l’accusa invece, se anche Provenzano non faceva formalmente parte della Commissione Regionale, non v’è dubbio che in quel preciso momento storico erano già i corleonesi ad aver esautorato (a colpi di lupara –ndr) i vecchi boss mafiosi e che proprio Provenzano e Calò, erano ai vertici del gruppo dei corleonesi comandato da Riina. Del resto, un interesse da parte della Commissione Provinciale di Palermo nell’eliminazione del capo mandamento di Castronovo di Sicilia, c’era, visto che successivamente – come affermato dai pentiti – lo stesso mandamento sarebbe poi finito annesso a quello di Caccamo  (Commissione Provinciale di Palermo). E proprio dalle dichiarazioni dei pentiti, era emerso un fatto inedito. La determinazione a commettere altri omicidi, non portati a termine a seguito dell’intercessione di esponenti mafiosi che avrebbero garantito alla fazione vincente (corleonesi) per due soggetti i quali erano stati vicini al gruppo perdente del quale faceva parte il Pizzuto

L’avvocato Di Gregorio, riferendosi proprio ai pentiti, ha rimarcato come nessuno di loro avesse mai riferito di aver assistito al presunto incontro tra i tre boss ieri alla sbarra, nel corso del quale sarebbe stato deciso l’omicidio del Pizzuto. Ne si è mai saputo dove e quando sarebbe avvenuto l’incontro.  Un argomento, quello dei collaboratori di giustizia, ampiamente approfondito dall’avvocato Mauro Gionni, il quale, in videoconferenza e alla presenza del suo assistito, Pippo Calò, ha fatto notare alla Corte che il pentito Guglielmini, al quale aveva fatto riferimento il Pm a proposito di un incontro avuto con il Calò – alla presenza di un altro esponente di Cosa Nostra (Cangemi), nel corso del quale il Guglielmini avrebbe riferito a Calò della vicinanza del Pizzuto a Bontate -, non venne mai ascoltato nel processo di 1° grado. Pertanto, non si era potuto interrogare il teste, al fine di stabilire come e quando avvenne l’incontro. Peraltro, la vicinanza del Pizzuto al Bontate, era nota a tutti, visto che in precedenza ne aveva già parlato Tommaso Buscetta. Tra gli accusatori di Pippo Calò, indicandolo tra i vertici di mafia, anche il pentito Giovanni Brusca. Secondo quanto riferito in aula dall’avvocato Gionni, proprio Brusca – oltre ad affermare di non conoscere gli aspetti del presunto incontro nel corso del quale si sarebbe decisa l’eliminazione del Pizzuto -, avrebbe riferito di un particolare importante (e a nostra memoria inedito), che porterebbe ad escludere la presenza del Calò ad incontri finalizzati a decidere sulle sorti di Gigino Pizzuto: Calò, doveva essere eliminato!

E proprio lo stesso Brusca, riferendosi alla partecipazione di esponenti mafiosi nelle Commissioni, aveva escluso che di queste potesse far parte chi a breve doveva essere ucciso. A carico di Calò dunque, le dichiarazioni di Gugliemini, contestate dall’avvocato Gionni. Ciro Vara, il quale le notizie le apprende da Madonia, non fa comunque mai riferimento ad un coinvolgimento di Calò nella vicenda. Singolare – secondo l’avvocato Gionni – il fatto che il gruppo di fuoco (Gigi Garofano, Calogero Sala, Rosario Corsi, Lillo Lauria) che prese parte alla strage, venne successivamente eliminato per aver compiuto delitti non autorizzati dalla Commissione.

Contestate dunque dai difensori degli imputati le dichiarazioni rese dai pentiti contro i tre boss di Cosa Nostra.

Ad illustrare le conclusioni della parte civile,  l’avv. Danilo Giracello, difensore di fiducia di Romano Salvatore, e in sostituzione del legale dei Ciminnisi, avv. Repici. Secondo l’avv. Giracello, sulla base degli elementi di fatto emersi nel corso del dibattimento, risulta pienamente provata la penale responsabilità di tutti gli imputati in ordine ai fatti delittuosi ascrittigli in rubrica, pertanto del tutto infondati appaiono gli appelli  proposti dagli imputati Riina e Provenzano avverso la sentenza di condanna emessa dalla Corte di Assise di Agrigento in data 07.12.2010,  mentre merita accoglimento, l’appello del P.M. avverso l’assoluzione dell’imputato Calò Giuseppe. La compiuta (e complessa) istruttoria dibattimentale – secondo l’avv. Giracello – ha consentito di ritenere provata l’ipotesi accusatoria secondo cui, gli imputati in concorso fra loro avrebbero, nella qualità di componenti dell’organizzazione criminale denominata Cosa Nostra, deliberato la morte di Pizzuto Calogero, detto Gigino. I fatti di cui alle imputazioni sono provati. Tutti i testi escussi e le dichiarazioni rese nella fase delle indagini, i cui verbali sono sstati acquisiti in sostituzione dell’impossibilità conclamata della loro audizione dibattimentale convergono verso la piena conferma dell’ipotesi d’accusa.

È stato dimostrato che Gigino Pizzuto, anche con la produzione delle sentenze del maxi, era capo del mandamento di Castronovo di Sicilia, ricadente nel territorio della Provincia di Palermo; che egli era in stretti rapporti con Bontate e Inzerillo, come confermato dalla stessa vedova Pinella Elena e da coloro che vennero sentiti dai Carabinieri nell’immediatezza dei fatti; che più volte venne invitato vanamente a prendere le distanze dal gruppo di potere Bontade-Inzerillo; che “i corleonesi” (ed in primis Riina e Provenzano) unitamente ad altri esponenti della commissione provinciale di Palermo (tra i quali certamente Calò) intendevano esercitare un controllo militare sul territorio in cui ricadeva il mandamento di Gigino Pizzuto. Come dimostrano in particolare i racconti dei collaboratori Vara e Giuffrè. Il primo narra, per averlo conosciuto direttamente, di come un personaggio di spicco della famiglia mafiosa di Cammarata – San Giovanni Gemini, tale Lo Sardo Costantino, il quale era legato al gruppo della mafia “vincente” diede appoggio logistico ed un rifugio ai killers, consentendone la fuga. Mentre Giuffrè ha narrato non già di fatti de relato, ma di come un mese prima della strage, e precisamente nel mese di agosto 1981, si sia recato insieme a Ciccio Intile a San Giovanni Gemini alla ricerca di Gigino Pizzuto, sapendo con largo anticipo della decisione assunta anche dagli imputati di eliminarlo e di rideterminare (ampliandoli) i confini del mandamenti di Caccamo. Dove al vertice era stato collocato (Intile appunto) un uomo di fiducia proprio del gruppo vincente.

Riferendosi poi alla censura contenuta nell’appello Provenzano circa la nullità delle testimonianze raccolte malgrado la rinuncia della difesa che le aveva richieste, l’avv. Giracello fa rilevare  che ai sensi dell’art. 495 comma 4 bis 4-bis. “Nel corso dell’istruzione dibattimentale ciascuna delle parti può rinunziare, con il consenso dell’altra parte, all’assunzione delle prove ammesse a sua richiesta”; d’altronde la giurisprudenza della Cassazione ha affermato che nel caso di rinuncia ad una prova, la controparte debba essere sentita prima che si adotti il provvedimento di revoca, in quanto la prova, una volta ammessa, non è più nella disponibilità della parte che l’aveva richiesta. Dopo aver citato sentenze in merito, il legale di parte civile ricorda che la regola la prova è ammessa non solo nell’interesse della parte che la propone, ma anche della giustizia e della verità, per cui la sua estromissione è soggetta all’adesione della controparte e del giudice, passando dunque alla richiesta che la Corte, affermata la penale responsabilità di tutti gli imputati Riina Salvatore, Provenzano Bernardo e Calò Giuseppe rigetti gli appelli proposti dai primi due ed accolga l’appello del P.M. avverso l’assoluzione di Calò Giuseppe, con conseguente condanna di tutti gli imputati.

L’unico a non avviarsi alle conclusioni, il difensore di Totò Riina, il quale ha dichiarato di non essersi preparato, avendo ritenuto che non si trattasse dell’udienza conclusiva. Poco dopo, Riina chiedeva di poter abbandonare la videoconferenza. La Corte, dopo  un consulto in Camera di Consiglio, pronunciava la sentenza: Condanna all’ergastolo per Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, assoluzione per Giuseppe Calò. Confermata dunque la sentenza di 1° grado della Corte d’Assise di Agrigento.

Soddisfatto l’avvocato di parte civile Danilo Giracello. Non v’è dubbio infatti che si tratti di una sentenza importante al fine di veder riconosciuti tutti i diritti della parte civile. Poiché, se è pur vero che quasi certamente si dovrà aspettare un pronunciamento della Cassazione, la sentenza di ieri rappresenta una pietra miliare nel processo per la strage di San Giovanni Gemini. Un successo per il giovane e brillante avvocato Danilo Giracello, il quale, con molta umanità e modestia, nonostante confermi l’importanza della sentenza e di come la stessa sia frutto di anni di lavoro,  indica nei familiari delle vittime di mafia che con coraggio hanno deciso di andare fino in fondo per veder compiuto un atto di giustizia, i veri protagonisti di questa storia, ai quali va dato il giusto riconoscimento.

Spenti gli schermi della videoconferenza e uscita dall’aula la Corte, restano per un po’ gli avvocati delle parti in causa e i due fratelli Ciminnisi, Giuseppe e Carmelo, figli di quel Michele Ciminnisi ucciso dalla ferocia di killers che, incuranti di quanti si trovavano sulla loro traiettoria di fuoco, portavano a termine la loro missione di morte uccidendo Gigino Pizzuto.

Giuseppe non è più il ragazzino al quale tanti anni fa fu ucciso il padre “per caso”. Quasi fosse un fatto normale che accada… Lo avevamo già incontrato il giorno della sentenza ad Agrigento, ci siamo visti nel corso di questi due anni, abbiamo seguito le udienze a Palermo.

D – Giuseppe, finalmente oggi si è arrivati alla sentenza in Corte d’Assise d’appello…

R – Sì. Oggi si è messo un punto importante in questa storia che ha cambiato la mia esistenza. È stata ribadita per la seconda volta la verità ed è stata fatta giustizia.  Nulla potrà restituire le vittime ai familiari, ma fare giustizia dei delitti sì. Questo lo si può fare…

D – A cosa pensi adesso?

R- Penso a coloro i quali ho incontrato nel corso di questi anni. A Giovanni Falcone al quale chiesi che venissero assicurati alla giustizia gli assassini di mio padre, non sapendo che di lì a poco sarebbe stato ucciso anche lui dalla mafia. Ricordo il senso d’impotenza e di scoramento dopo le stragi nelle quali morirono Falcone, Borsellino e altre vittime innocenti. Oggi, come dopo la sentenza emessa ad Agrigento, posso solo dire che anche altri magistrati hanno avuto il coraggio di fare quello che a Falcone e Borsellino fu impedito con il tritolo. Oggi non voglio ricordare i momenti in cui mi sono sentito abbandonato dallo Stato, anche se so che ci sono ancora molte battaglie da fare affinchè non esistano più vittime di mafia di serie A e vittime di mafia di serie B. quella di oggi, non è una vittoria dei familiari di Romano o di Ciminnisi…è una vittoria che voglio dedicare a tutti i familiari di vittime innocenti di mafia… A titolo personale invece, voglio ringraziare una persona alla quale devo molto… Una persona della quale sono fiero, che in tutti questi anni mia ha sorretto spingendomi ad andare avanti. E non chiedermi chi è… Come ti dissi nel dicembre 2010, quando venne emessa la prima sentenza, preferisco tenerlo per me… Io so a chi devo tutto questo…

Fuori da tribunale, l’immensa panca di marmo con su scritti tanti nomi, ricorda i caduti nella lotta contro la mafia. Nomi importanti che hanno segnato con il loro sangue le pagine di questa nostra storia. Il sole scottante acceca, mentre il sudore scorre lungo la schiena. Ma è un sudore freddo. Quasi un brivido. Chissà perché penso a questi piccoli eroi di ogni giorno. A coloro i quali varcano la soglia di una caserma, di una questura, di un tribunale, con un solo desiderio: Giustizia!

Questi piccoli eroi, le cui storie non verranno quasi mai raccontate, se non per quello che loro stessi o i loro avvocati diranno. Spesso infatti, così come era già avvenuto ad Agrigento quando venne pronunciata la prima condanna; così come avvenuto ieri in un’aula semideserta; i nostri piccoli eroi, sono lasciati da soli. Pochi testimoni ieri. La Corte, gli avvocati, i due figli di una delle vittime innocenti, un carabiniere, un paio di rappresentanti degli organi stampa. E già questo sembra un miracolo… Non c’è  il nome del grosso politico coinvolto in storie di puttane… No. Qui c’era il sangue, la ferocia, il dolore. Non si fa audience…

Con il dorso della mano caccio via il sudore dalla fronte. Quasi a voler cacciare un pensiero molesto. Il sudore va via, il pensiero no… Esattamente come quel 7 dicembre del 2010, quando dopo la condanna in primo grado di Riina e Provenzano, mi chiesi quali prezzi avesse dovuto pagare quest’uomo per vedersi riconosciuto un attimo di giustizia.  Ancora una volta provo orrore per tutto quello che gli è stato fatto. E ancora una volta, non mi riferisco solo ai killers che gli hanno portato via il padre…

 

 

 

 

Articolo del 12 Ottobre 2012 da lavalledeitempli.net
Strage di San Giovanni Gemini – Sentenza definitiva per Provenzano
di Gian J. Morici

Non ha presentato ricorso contro la sentenza che lo ha visto condannato all’ergastolo a termine del processo celebratosi presso la Corte d’Assise d’appello di Palermo, Bennardo Provenzano, indicato come il mandante della strage di San Giovanni Gemini, compiuta il 29 settembre del 1981.

Il processo, che aveva visto alla sbarra tre capimafia (Riina, Provenzano e Calò), si era concluso nel mese di giugno con l’assoluzione del Calò e la condanna all’ergastolo di Totò Riina e Bennardo Provenzano. Proprio quest’ultimo – secondo quanto narrato dai collaboratori di giustizia –, sarebbe stato colui che aveva dato l’ordine di uccidere  Calogero “Gigino” Pizzuto (uomo che secondo i pentiti era il numero 3 di Cosa Nostra dell’epoca, dopo Bontate ed Inzerillo).

Quando i killer che dovevano uccidere Pizzuto entrarono in azione per portare a termine la loro missione di morte  all’interno del bar Reina di San Giovanni Gemini, oltre al Pizzuto si lasciarono dietro due vittime innocenti che si trovavano all’interno del bar: Michele Ciminnisi e Vincenzo Romano.

Nel corso del processo, sono venuti fuori aspetti inediti delle vicende di mafia, come il caso di lupara bianca narrato dal pentito Ciro Vara nel corso del procedimento di primo grado tenutosi ad Agrigento; l’ordine impartito da Provenzano di commettere un ulteriore duplice omicidio mai eseguito per intercessione di esponenti mafiosi che avrebbero garantito alla fazione vincente (corleonesi) (di quella che fu una delle più sanguinose guerre di mafia in Sicilia) per due soggetti i quali erano stati vicini al gruppo perdente del quale faceva parte il Pizzuto; la presunta condanna a morte dello stesso Pippo Calò.

A seguire la vicenda giudiziaria per conto della parte civile, l’avv. Danilo Giracello, difensore di fiducia di Romano Salvatore, e in sostituzione del legale dei Ciminnisi, avv. Repici.

Il mancato ricorso avverso la sentenza da parte di Provenzano, rappresenta una pietra miliare di questo procedimento penale in danno degli esponenti della mafia, che ha visto protagonista il figlio di una delle due vittime innocenti della strage  Giuseppe Ciminnisi – contrapposto ad una delle più agguerrite e potenti organizzazioni criminali al mondo: “Cosa Nostra”.

 

 

 

 

Michele Ciminnisi

17 gennaio 2014

 

 

 

Michele Ciminnisi

Associazione Nazionale Legalità e Giustizia, 19 aprile 2014

Nato a San Giovanni Gemini nel 1967, Giuseppe Ciminnisi è il figlio di Michele Ciminnisi ucciso per errore dalla mafia il 29 settembre 1981.

Giuseppe era un ragazzino di 14 anni, all’epoca. Mentre lui correva, tirava calci ad un pallone, suo padre, dopo il lavoro da impiegato comunale, si rilassava giocando a carte seduto al tavolo del bar Reina; Erano le sette di sera e quel piccolo locale era pieno. Dopo qualche minuto entra e si unisce a giocare con loro Calogero «Gigino» Pizzuto, che secondo molti pentiti in quel momento è il numero «3» della cupola palermitana, dopo Bontate ed Inzerillo. Pizzuto il 29 settembre è lì di passaggio. Lui è originario di Villalba, nel nisseno, ma vive a Palermo; è sua moglie ad essere originaria di San Giovanni Gemini. A ruota però lo seguono due, forse tre persone armate che raggiungono il boss e gli sparano contro diversi colpi. I killer sparano pur essendo completamente circondati da persone; ne hanno davanti, dietro e di fianco. Non importa. Loro sono lì per uccidere Pizzuto. Sparano, e pure tanto. Fino a quando Pizzuto si accascia sul tavolo senza vita. Poi, con calma, raggiungono l’auto in cui li attende un complice e si dileguano.

Nel bar rimangono due, tre feriti, chi dai proiettili di rimbalzo, chi dalle schegge. Due corpi però sono immobili. Uno è quello del boss. L’altro è quello di Vincenzo Romano, stroncato da un proiettile che gli si pianta dritto nel cuore. Anche Michele Ciminnisi viene colpito da un proiettile che ha attraversato il corpo del boss. Cerca di alzarsi, si dirige verso l’uscita del bar, forse riesce a vedere anche l’auto dei killer che si allontana. Non importa, perché dopo qualche metro si accascia a terra senza vita.

 

 

 

Fonte: agrigentonotizie.it
Articolo del 28 settembre 2019
Abbandono e rabbia: la piazzetta vittime della mafia è stata “dimenticata”
Ciminnisi: “Evidentemente, il ricordo di chi ha versato il proprio sangue innocente per vile mano mafiosa, per una classe politica distratta, non meritava neppure un minimo di decoro”

Uno dei luoghi, che andrebbe certamente preservato, è in stato di abbandono. La piazzetta “Vittime della mafia” di San Giovanni Gemini versa in condizioni non ottimali. La zona è facile preda del degrado, ad essere più che mai arrabbiato è Giuseppe Ciminnisi, coordinatore nazionale familiari vittime di mafia, ovvero il figlio di Michele, anche lui ucciso da una mano criminale.

“Dovrebbe essere un luogo importante – dice Giuseppe Ciminnisi coordinatore nazionale familiari vittime di mafia – in particolare per le giovani generazioni, che abbiano sempre vivi i valori della memoria e del vivere civile, invece, la “Piazzetta Vittime della mafia” di San Giovanni Gemini, per le condizioni in cui versa, può solo ricordare a chi si trova a passare per quei luoghi uno stato di penoso e atavico abbandono, frutto dell’incuria delle amministrazioni comunali che si sono succedute negli anni, ignorando il valore della memoria, perché ciò che è successo non debba più accadere. Era il 29 settembre del 1981, quando a San Giovanni Gemini vennero uccisi mio padre, Michele Ciminnisi, e Vincenzo Romano. Due vittime innocenti di una strage che aveva come obiettivo un boss mafioso. Domani ricorre l’anniversario di quella strage. ‘Piazzetta Vittime della mafia’, il luogo dove dovrebbe essere ricordata, è in totale stato di abbandono. La pavimentazione divelta, gradini sconnessi, crepe nei muri. Un luogo – dice Giuseppe Ciminnisi – di commemorazione di vittime, non è mai allegro ma qui la trascuratezza di un luogo abbandonato vergognosamente al degrado più totale, racconta del degrado morale di un paese che forse non vuol cambiare, che dimentica le tante vittime innocenti di quella metastasi della società che conosciamo con il nome di “mafia”. Una metastasi che si è sviluppata in tutto l’organismo, uccidendo sia gli uomini che quella cultura che avrebbe potuto, e dovuto, formare gli anticorpi in grado di sconfiggere il cancro mafioso. Evidentemente, il ricordo di chi ha versato il proprio sangue innocente per vile mano mafiosa, per una classe politica distratta, non meritava neppure un minimo di decoro e di pulizia. La Sicilia, purtroppo, continua a essere anche questa”.

 

 

Leggere anche:

 

agrigentonotizie.it
Articolo del 24 settembre 2021
Strage di San Giovanni Gemini, una targa per ricordare Michele Ciminnisi e Vincenzo Romano
Organizzata una cerimonia per scoprire una lastra commemorativa dedicata a due vittime innocenti della mafia. Il sindaco Mangiapane: “Un messaggio per i giovani che si trovano in un percorso di crescita e di passaggio alla fase adulta, per mantenere saldi i valori civili e i principi d’onestà e giustizia”

 

 

 

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