8 Ottobre 1998 Caccamo (PA) Ucciso il sindacalista Domenico (Mico) Geraci.

foto PERIODICI SAN PAOLO/M. PALAZZOTTO

Domenico Geraci, detto Mico, sindacalista della Uil, venne ucciso l’8 ottobre del 1998 a Caccamo, una cittadina in provincia di Palermo definita da Giovanni Falcone “la Svizzera della mafia”. Il suo omicidio resta ancora avvolto nel mistero e senza responsabili, anche se il capomafia di Caccamo, Nino Giuffrè, collaboratore di giustizia, ha dichiarato ai magistrati che la condanna a morte sarebbe stata decisa perché Domenico Geraci aveva girato le spalle alla vecchia Dc, avvicinandosi al centrosinistra, in particolare al deputato diessino Beppe Lumia.Il pentito ha rivelato nell’ottobre 2002 particolari sul delitto, e i magistrati riaprirono le indagini iscrivendo nel registro degli indagati i nomi di Bernardo Provenzano e Benedetto Spera. Ad assassinare Domenico Geraci, secondo il pentito Giuffrè, sarebbe stato un sicario a volto scoperto della famiglia mafiosa di Belmonte Mezzagno, zona controllata dal boss Spera. L’agguato, sempre secondo il collaboratore di giustizia, venne effettuato senza il suo consenso, e pure vicino all’abitazione in cui viveva la sua famiglia. Una sorta di “segnale” che Provenzano e Spera avrebbero voluto inviare al capomafia che si era opposto per due volte all’omicidio. Ma le dichiarazioni di Giuffrè non sono state sufficienti per portare a giudizio le persone sospettate dell’omicidio, così il caso è stato archiviato. (Antimafiaduemila.com)

 

 

Fonte: antimafiaduemila.com

Dieci anni fa l’omicidio del sindacalista Domenico Geraci
8 ottobre 2008 Palermo.

Ricorre oggi il decimo anniversario della morte di Domenico Geraci, detto Mico. Il sindacalista della Uil venne ucciso l’8 ottobre del 1998 a Caccamo, una cittadina in provincia di Palermo definita da Giovanni Falcone “la Svizzera della mafia”. Il suo omicidio resta ancora avvolto nel mistero e senza responsabili, anche se il capomafia di Caccamo, Nino Giuffrè, collaboratore di giustizia, ha dichiarato ai magistrati che la condanna a morte sarebbe stata decisa perché Geraci aveva girato le spalle alla vecchia Dc, avvicinandosi al centrosinistra, in particolare al deputato diessino Beppe Lumia.Il pentito ha rivelato nell’ottobre 2002 particolari sul delitto, e i magistrati riaprirono le indagini iscrivendo nel registro degli indagati i nomi di Bernardo Provenzano e Benedetto Spera. Ad assassinare Geraci, secondo il pentito Giuffrè, sarebbe stato un sicario a volto scoperto della famiglia mafiosa di Belmonte Mezzagno, zona controllata dal boss Spera. L’agguato, sempre secondo il collaboratore di giustizia, venne effettuato senza il suo consenso, e pure vicino all’abitazione in cui viveva la sua famiglia. Una sorta di “segnale” che Provenzano e Spera avrebbero voluto inviare al capomafia che si era opposto per due volte all’omicidio. Ma le dichiarazioni di Giuffrè non sono state sufficienti per portare a giudizio le persone sospettate dell’omicidio, così il caso è stato archiviato. A.C.

 

Tratto da: ilove-sicilia.it
LUMIA (PD), SU OMICIDIO GERACI ASPETTIAMO LA VERITÀ
8 ottobre 2008 Palermo

“Una ferita aperta, non solo per i familiari e le persone piu’ care a Mico Geraci, ma per chiunque creda nella giustizia e nella democrazia”. Lo sostiene il senatore del Pd Giuseppe Lumia a Caccamo per commemorare il sindacalista della Uil Mico Geraci, ucciso dalla mafia 10 anni fa. “Ho sempre sostenuto -aggiunge Lumia- che quello di Mico e’ stato un delitto di mafia. Un’uccisione che ha bloccato un percorso di crescita e di affermazione della cultura della legalita’ e dello sviluppo nella cittadina madonita e nel suo territorio. Adesso vogliamo sapere la verita’, sino in fondo, e capire il ruolo di Bernardo Provenzano in questo atto criminale, gli obiettivi che la mafia si proponeva di raggiungere e le collusioni con l’economia e la politica che lo hanno determinato. Una verita’, insomma, a cui le persone oneste e coloro che si espongono sul fronte antimafia hanno diritto. Non posso dimenticare -conclude Lumia- la reazione di allora del sindaco di quella cittadina. Ancora oggi bisogna sapere che la lotta alla mafia a Caccamo non e’ conclusa. Anzi, siamo solo all’inizio di un cammino che dovra’ proseguire con tenacia e determinazione. Un cammino che percorreremo proprio nel nome di Mico Geraci”. (AGI)

 

Articolo del 10 ottobre 1998 da  archiviostorico.corriere.it
Ucciso perché voleva fare i nomi
di Cavallaro Felice

La sua ultima denuncia contro la moglie di un boss latitante: arrestata, era tornata a capo dei servizi sociali del municipio
Caccamo: il sindacalista della Uil aveva deciso di ribellarsi al sistema degli appalti. Deaglio: quel giorno mi disse che li’ la mafia non ammazzava

CACCAMO (Palermo) – E’ morto perche’ aveva capito e aveva deciso che “è giunto il momento di fare i nomi e i cognomi”. E nella rocca di Caccamo, eletta a sereno dominio di Cosa Nostra, nomi non doveva farne Domenico Geraci, il sindacalista della Uil assassinato a 44 anni sotto gli occhi del figlio Giovanni, un ragazzo di 17 anni che dal balcone ha provato a bloccare le lupare a pompa lanciando contro gli assassini una pianta e tutta la sua disperazione. Non doveva far nomi, ma Geraci, parlando di appalti e intrighi, ha perfino fatto quello della moglie del capomafia di Caccamo, il latitante Nino Giuffrè. E lui che, passato con l’Ulivo, s’era proposto come candidato a sindaco per le elezioni del ’99 chiedeva conto e ragione al sindaco in carica, Nicasio Di Cola, di quella signora alla guida dei “servizi sociali” del municipio: la funzionaria arrestata a giugno per mafia e subito dopo reintegrata al suo posto, una impiegata “eccellente”, appunto la moglie di Giuffrè, Rosaria Stanfa, ieri alla sua scrivania, piano terra, quarta stanza, “nulla da dire” ai cronisti sbattuti fuori. Possibile che a controllare gli assegni per i meno abbienti, a tracciare le graduatorie per le case popolari o gli elenchi per la refezione ai bambini di Caccamo ci sia proprio la moglie di “Manuzza”, come viene soprannominato il boss latitante? Una domanda semplice, da non porre. Adesso che Caccamo ha il suo primo grande delitto politico e che la giunta di centro – destra ha proclamato il lutto cittadino, al sindaco si puo’ chiedere tutto, tranne di far nomi. E Di Cola cade dalle nuvole se qualcuno lo interroga su quella impiegata che s’e’ ripreso dopo la scarcerazione: “Non mi metta in imbarazzo…”. Niente nomi. Invece Geraci ne faceva tanti, negli ultimi tempi, ripetendo: ” + giunto il momento”. Come aveva detto alla moglie la sera del 30 luglio, prima della manifestazione antimafia organizzata in parrocchia. E lei l’aveva scongiurato di non andare. Intuiva che quel proclama si sarebbe tradotto in una sorta di investitura alla corsa per sindaco. Una candidatura contro la mafia. Ed era intervenuto pure il padre, a sconsigliare, severo. Era la svolta di Geraci. Un’altra. L’ultima. Maturata alla fine di un percorso travagliato che l’aveva visto crescere nella Dc, poi fra Cisl ed Uil, passando quindi nel centro – destra col Ccd per arrivare infine in area Ulivo. Ora qualcuno potrebbe cercare di rimproverargli le sue contraddizioni, come spesso capita ai morti perche’ restano in balia dei vivi. Ma con l’ultima sfida Geraci puntava forse al definitivo approdo di una storia personale. Come cercavano tutti i protagonisti della vita politica locale che, dopo anni trascorsi in tanti partiti, da destra a sinistra, si erano raccolti nella lista “Uniti per Caccamo” dicendo basta alla regola per cui gli appalti sono “cosa loro”, e a loro bisogna chiedere permesso per aprire una bottega, comprare un terreno, ottenere una licenza o un sussidio. Aveva gridato il suo no Geraci, a quella manifestazione dopo il blitz di giugno, quando Caccamo si rivelo’ l’epicentro di un’inchiesta culminata nella richiesta di arresto del deputato di Forza Italia Gaspare Giudice e nelle manette per la signora Giuffre’. Un contesto in cui irrompe la sfida di Cosa Nostra in un’area dominata da “Manuzza” per conto dell’imprendibile “Binnu” Provenzano. Interessi grandi. Tratteggiati ieri dal procuratore Giancarlo Caselli, allarmato: “Una vicenda in cui si intrecciano e confondono gli interessi di tre poli: criminale, politico, economico”. E mentre per i funerali è in arrivo il ministro Veltroni, dal Viminale Giorgio Napolitano fa sapere che c’e’ una pista, che si puo’ arrivare anche agli esecutori. Lo spera il segretario della Uil Pietro Larizza, uscendo da casa Geraci: “Non riusciranno a uccidere ne’ un’idea ne’ un impegno…”. Come sperano gli amici di “Mico”, a cominciare da Beppe Lumia, il capogruppo Ds in Commissione Antimafia. “Noi potevamo cambiare le cose. Con Geraci, candidato sindaco”, sussurra Gianfranco Muscarella, area Mattarella, il compagno di squadra che lo aveva lasciato in auto sotto casa due minuti prima dell’agguato. “E ora la mafia intercetta in pieno la vita politica del paese”, gli fanno eco ex socialisti, ex dc, due consiglieri di An, davanti alla saracinesca con i segni dei pallettoni, tappa forzata di un percorso in cui rischia di fermarsi la speranza di quel “riscatto”. Ma arrivano gli studenti del Magistrale con i cartelli in cui dicono no alla mafia e con applausi che echeggiano lungo la scalinata, cento metri piu’ giu’, fino a casa Giuffre’, dove l’anziana madre del boss, la signora Giuseppa, s’affaccia malandata: “Non se ne sentivano da anni di porcherie cosi’… Siamo demoni, non cristiani”. Felice Cavallaro

LA TESTIMONIANZA

Deaglio: quel giorno mi disse che lì la mafia non ammazzava

di Marco Imarisio

MILANO – Adesso quella stretta di mano nella piazza del paese è un ricordo che fa male. Quattro telefonate da Milano (“Aveva una voce gentile, non formale”), e la mattina del 16 luglio di quest’anno Enrico Deaglio, giornalista, direttore del Diario, era arrivato puntuale a Caccamo per un’inchiesta, per conoscere quella che Giovanni Falcone chiamava “la Svizzera della mafia”. A fargli da guida “un uomo pacioso, affabile”: Domenico Geraci, sindacalista della Uil, futuro candidato sindaco di Caccamo. Massacrato giovedì notte con un fucile a pompa davanti alla porta di casa, mentre il figlio dalla finestra vedeva, e urlava. Era cominciata proprio dall’ingresso di quel palazzo, la giornata di Deaglio con Geraci: “Aspetti, le faccio un regalo” – mi aveva detto -. Ed era salito in casa: cinque minuti dopo ne era sceso con un libro sulla storia di Caccamo”. Non era un giorno qualunque, quel 16 luglio: la Camera doveva votare sulla richiesta d’arresto di Gaspare Giudice, deputato di Forza Italia eletto a Bagheria, accusato di associazione mafiosa e riciclaggio, la cui storia, anche giudiziaria, e’ strettamente legata a Caccamo. “Eravamo in macchina, fuori dal Comune – dice Deaglio – e Radio Radicale raccontava di come la Camera avesse respinto a stragrande maggioranza la richiesta d’arresto. Geraci era scandalizzato: non tanto dalla decisione, quanto dalla reazione degli assessori che stavano intorno a noi: “Ho saputo, sono cose che fanno piacere”, diceva uno. Un altro invece esultava: “Così la finiranno di tirare in ballo questo paese per questioni di mafia”. “Mico” Geraci guardava. E imprecava: “Non capiscono niente, non vogliono capire”, diceva”. Agli assessori che dopo le sue insistenze accettavano il colloquio con il giornalista venuto da Milano “a patto che non si parli male del nostro paese”, Geraci replicava a muso duro: “La gente si deve occupare di Caccamo – diceva – perché la nostra è una storia di oppressione mafiosa, ed è stupido negarlo”. Lui, il sindacalista della Uil, aveva capito tutto. “Tranne un dettaglio”. A Enrico Deaglio rimbomba nelle orecchie una frase: “Una delle prime che mi disse quella mattina: “Questo è un posto dove la mafia non ha mai ammazzato nessuno, e mai lo farà. Usano altri metodi, per le persone sgradite: le fanno trasferire da qualche altra parte, le “sistemano” altrove. Perché questa è una zona extraterritoriale, nella quale non vogliono che succeda niente. Qui non potranno mai uccidere nessuno”. Un posto dove, raccontava Geraci, “Non c’è mai stato un segno visibile che ci fosse la mafia. + questa la stranezza di Caccamo: non c’è un manifesto sui muri, non c’è mai stata una manifestazione, niente di niente”. Da quella calda giornata di luglio, fatta di lunghe chiacchierate, di un pranzo nel ristorante della piazza centrale, dell’incontro con assessori e notabili (“Era in buoni rapporti con tutti, o almeno pensava di esserlo”), di un giro in macchina fino a Bagheria, Deaglio pesca un altro ricordo: una sosta davanti a una chiesa. “Mi aveva indicato una pianticella: “La vedi? Quello è il nostro albero – Falcone. L’hanno messo lì a maggio di quest’anno, nell’anniversario di Capaci. A Caccamo è stata la prima manifestazione antimafia, un pugno di persone, per ricordare Falcone. A sei anni da quel giorno”. Parlava con rabbia, ma con speranza: “Mi disse che si voleva candidare a sindaco, e quale sarebbe stato il suo programma. Gli bastarono due frasi: “Sono fermamente intenzionato a mettere mano al piano regolatore perché il marcio nasce da lì. E poi coinvolgere la gioventù, il volontariato, i cattolici impegnati. + l’unico modo per spezzare questo circolo di potere che è completamente in mano loro”. Un sospiro, poi Deaglio riprende a parlare: “Era un buon programma, non gli hanno lasciato il tempo di metterlo in pratica. Non potevano permetterlo: questo è il paese dei Giuffrè, uomini di Bernardo Provenzano. Gente di potere, che si sente padrona del territorio, potente al punto da arrivare a questo omicidio. Un segnale tremendo”. Geraci questo però non l’aveva capito: “Credo sottovalutasse il pericolo. Non se ne rendeva conto. Abbiamo passato la giornata insieme, e mai una volta che mi abbia detto “Dobbiamo stare attenti”. Non faceva assolutamente la parte dell’eroe, anzi: “Vieni, ti porto a prendere un caffé in piazza”, mi diceva, e ci teneva a presentarmi in giro. Sentiva come suo quel paese, diceva di esserne “un elemento del paesaggio”. Era felice della sua vita, del suo mestiere di sindacalista sempre in macchina tra Caccamo e Palermo, a occuparsi di questioni di contributi, di pratiche burocratiche dei suoi compaesani”. Deaglio accende l’ennesima sigaretta: “Hanno ammazzato un buon cattolico, uno impegnato, una bella intelligenza siciliana, che sapeva tutto, un entusiasta. Ecco, Domenico “Mico” Geraci era questo tipo di persona”. Uno che del suo paese aveva capito tutto – e per questo faceva paura – tranne un dettaglio.
Marco Imarisio

 

 

 

Foto da: sottoilcastello.it

Articolo di Repubblica del 10 Ottobre 1998
La mafia torna a sparare ucciso consigliere Ppi
Domenico Geraci, candidato a sindaco di Caccamo, ricco comune del palermitano. L’hanno ucciso davanti a casa
di Enrico Bellavia

PALERMO – Il 30 luglio scorso, lo avevano candidato a sindaco in una affollata assemblea del centrosinistra contro la mafia. A poco più di due mesi dalla designazione, in vista delle amministrative di giugno, Domenico Geraci, 44 anni, ex consigliere provinciale del partito popolare, è stato ucciso a fucilate davanti casa, una palazzina a tre piani nella centrale piazza Zafferana. Stava rientrando, aveva da poco parcheggiato la sua vespa e il figlio gli aveva già aperto il portone quando sono arrivati i killer. Erano in quattro su una Fiat Uno. Pochi secondi e sono fuggiti via in mezzo a decine di testimoni.

L’agguato, in puro stile mafioso, è stato firmato da una scarica di pallettoni di un calibro 12 caricato a lupara. “Agguato politico-mafioso”, non ha dubbi Giuseppe Lumia, capogruppo dei Ds in commissione antimafia, eletto nel collegio di Caccamo e grande sponsor di Geraci sindaco. La sua candidatura era l’ultimo risultato di un processo politico avviato in una cittadina considerata una roccaforte della vecchia democrazia cristiana, impermeabile a qualsiasi cambiamento e che Giovanni Falcone, già negli anni ’80 definiva “la Svizzera di Cosa nostra”. Controllo sulle opere pubbliche e riciclaggio di denaro sporco, un piano regolatore che “tutelava interessi non legali”, questa la denuncia di Geraci che non aveva esitato a fare nomi e cognomi di boss e gregari.

Impiegato regionale con un passato di militanza nella Cisl che lo aveva portato anche nell’ufficio di gabinetto dell’allora presidente della Regione Matteo Graziano, Geraci era passato nelle fila della Uil. Nel 1994, dopo essere stato consigliere a Caccamo era stato eletto al consiglio provinciale. Due anni fa non si era ricandidato appoggiando apertamente un altro popolare, Domenico Porretta che l’aveva spuntata su Giorgio Ciaccio, il medico sostenuto dal Polo, finito in carcere il 9 giugno scorso nell’ambito dell’inchiesta su mafia e appalti che ha coinvolto il deputato di Forza Italia Gaspare Giudice, anche lui eletto nel collegio di Caccamo. Nel ’97, Geraci era in prima fila durante la campagna elettorale che avrebbe portato l’Ulivo, alleato con alcuni esponenti di An, a spuntare la maggioranza in consiglio comunale dopo lo scioglimento. “Sono sconvolto, sono stato sul posto ed è stato terribile”, dice Nicasio Di Cola, medico, da tre anni sindaco di Caccamo, oggi militante dell’Udr. “Ci conoscevamo da anni, lui era un protagonista della politica nella nostra città”. Due anni fa a Domenico Geraci avevano mandato il primo segnale bruciandogli l’auto. Più di recente gli avevano fatto recapitare un mazzo di crisantemi. Avvertimenti e minacce che avevano impaurito la famiglia, la moglie e i due figli, che lo avevano scongiurato di ritirarsi dalla corsa a sindaco. Ma lui era ben deciso a dare battaglia in un territorio difficile, regno incontrastato di un superlatitante come Nino Giuffrè. Caccamo è considerata la roccaforte del numero uno di Cosa nostra Bernardo Provenzano.

“Questo conferma -commenta un investigatore- che alla linea morbida inaugurata da Cosa nostra si deroga se in ballo ci sono interessi e appalti”. Mandamento mafioso di solide tradizioni è stato sempre in mano a boss che hanno coniugato la leadership con l’edilizia. Dopo la morte di Lorenzo Di Gesù, uomo di Pippo Calò, a Caccamo brillò la stella di Francesco Intile, morto suicida in carcere tre anni fa e sostituito proprio da Giuffrè. Accanto a lui, ha rivelato il collaboratore Salvatore “Uccio” Barbagallo, c’èil nipote di Di Gesù, l’imprenditore Filippo Panzeca, in carcere per associazione mafiosa e in rapporti d’affari con l’onorevole Giudice. Tra i primi ad accorrere in Piazza Zafferana Padre Giovanni Scaletta, direttore della Caritas diocesana, impegnato in un progetto sociale a Caccamo: “E’ sconvolgente -dice- c’è da rimanere pietrificati da questa vigliaccata”.

 

 

Articolo dell‘8 Ottobre 2010 di Antimafia Duemila
Anniversario omicidio Mico Geraci
di Marco Cappella – 8 ottobre 1998 / 8 ottobre 2010

Palermo. L’8 ottobre del 1998 un sicario di Cosa Nostra assassinò Mico Geraci a Caccamo. Nel 2002 grazie al collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè il caso è stato riaperto.

I pm Lia Sava, Gaetano Paci e Michele Prestipino coordinati dal procuratore aggiunto Sergio Lari e le forze dell’ordine hanno cercato i necessari riscontri alle dichiarazioni del’ex boss del mandamento di Caccamo. Secondo Giuffrè la decisione del sindacalista di abbandonare la Dc per avvicinarsi al centro sinistra ha decretato la sua morte. “Manuzza” ha raccontato di aver ricevuto due richieste di autorizzazione per l’esecuzione del delitto e di averle respinte. E’ stato Provenzano a decretare la morte di Geraci. Il boss Benedetto Spera avrebbe messo a disposizione un killer della sua famiglia di Belmonte Mezzagno. Il sicario avrebbe agito a volto scoperto. Giuffrè ha raccontato agli inquirenti che due mafiosi della zona di Belmonte gli chiesero dove potevano far modificare la canna del fucile calibro 12, lo stesso tipo di arma che venne utilizzata per uccidere Mico Geraci. L’agguato eseguito vicino l’abitazione della famiglia di Giuffrè senza consenso di “Manuzza” sarebbe stato un “segnale” che Provenzano avrebbe voluto inviare al capo mandamento di Caccamo.

 

 

 

Articolo del 7 giugno 2014  100passijournal.info
Fare luce su omicidio Mico Geraci: Rosy Bindi accoglie l’appello di Pif
di Matilde Geraci
Sindacalista ucciso per aver detto No alla mafia. Senatore Lumia: «Con lui ho condiviso importante battaglia per la legalità»

Sono da poco passate le 20 dell’8 ottobre 1998, quando cinque colpi di fucile a canne mozze mettono fine alla vita di Mico Geraci davanti al portone della sua casa di Caccamo e sotto gli occhi terrorizzati del figlio Giovanni, allora diciassettenne. Fu chiara sin da subito la matrice mafiosa dell’omicidio: sindacalista della Uil, ex assessore comunale e consigliere provinciale nelle fila del Ppi dal 1994 al ’98, Geraci aveva ricevuto nei mesi precedenti numerose minacce, come i crisantemi fatti trovare davanti all’abitazione o l’automobile incendiata. Dava fastidio, Mico, diventando ormai un politico scomodo da eliminare. Faceva nomi e cognomi, lanciava pubblicamente pesanti invettive contro il sistema degli appalti, aveva persino denunciato la moglie del capo-mandamento di Caccamo, Nino “Manuzza” Giuffrè, all’epoca latitante. Quattro anni dopo il delitto preventivo del sindacalista (Geraci avrebbe dovuto concorrere con l’Ulivo alla carica di sindaco, con ottime possibilità di essere eletto), sarà proprio il boss nel frattempo divenuto collaboratore di giustizia a tentare di fare luce sulla vicenda con le sue dichiarazioni, spingendo i magistrati di Palermo a riesaminare il caso che era stato archiviato.

Secondo Giuffrè la condanna a morte sarebbe stata decisa perché Geraci aveva girato le spalle alla vecchia Dc, avvicinandosi al centrosinistra, in particolare al deputato diessino Beppe Lumia. Ad assassinarlo sarebbe stato un sicario a volto scoperto affiliato alla famiglia di Belmonte Mezzagno, ma l’agguato sarebbe avvenuto senza il consenso del “pentito” e peraltro vicino alla sua abitazione, progettato da Bernardo Provenzano e Benedetto Spera. Una sorta di “segnale” che i due boss avevano voluto mandare a Giuffrè, che per ben due volte si era opposto all’omicidio. Nonostante le varie ipotesi fatte dagli inquirenti e i diversi particolari sul delitto rivelati dal collaboratore, tali da far riaprire le indagini iscrivendo nel registro degli indagati sia Provenzano che Spera, non si è mai arrivati a giudizio e ancora oggi la morte del sindacalista rimane senza colpevoli. Da allora, infatti, le indagini sono ad un punto fermo.

Anche se sono trascorsi 16 lunghi anni, i familiari di Mico Geraci non hanno certo perso la speranza di poter conoscere la verità e ottenere giustizia. La storia di quest’uomo coraggioso, che a testa alta ha saputo dire di No alla mafia, è stata raccontata da Pier Francesco Diliberto, in arte Pif, all’interno del suo programma “Il Testimone”. Il popolare conduttore si è recato a Caccamo due volte nell’arco di un anno e, la puntata andata in onda su Mtv lo scorso 27 maggio, si chiudeva con un appello alla presidente della Commissione Parlamentare Antimafia Rosy Bindi, affinché si riaprisse il caso sull’omicidio Geraci e dare finalmente quelle risposte tanto attese.

L’appello è stato accolto e a darne notizia è il senatore Lumia, componente della Commissione Antimafia. «Ha fatto bene la presidente della Commissione Nazionale Antimafia, Rosy Bindi, a raccogliere l’appello di Pif per fare piena luce sull’omicidio di Mico Geraci. Un uomo a cui sono stato e sono molto legato, perché con lui ho condiviso un’importante battaglia di legalità e sviluppo per il territorio di Caccamo e per la Sicilia. La Commissione Antimafia – aggiunge –, grazie ai suoi speciali poteri di inchiesta e di indagine, potrà dare un prezioso contributo per la ricerca della verità sia sul piano storico che giudiziario. Mico – conclude Lumia – è stato un sindacalista ed un amministratore valoroso che ha avuto il coraggio di sfidare Cosa nostra in uno dei territori a più alta densità mafiosa della Sicilia. Lo ha fatto per liberare la Sicilia dall’ingiustizia e dall’oppressione».

 

 

 

Articolo del 14 luglio 2014 da  antimafiaduemila.com
Riaperto il caso Geraci, sindacalista ucciso dalla mafia
L’audizione del figlio in Commissione antimafia prevista per mercoledì

Riaperto dalla Commissione antimafia il caso di Domenico Geraci, sindacalista ucciso dalla mafia a Caccamo, paese del Palermitano, la sera dell’8 ottobre 1998, per il quale a distanza di tanti anni ancora non si conoscono autori e mandanti. La Presidente della Commissione Rosy Bindi, raccogliendo l’appello di Pif e di tantissimi cittadini che le avevano scritto segnalando il caso, ha infatti deciso di riprendere a distanza di ben 16 anni la ricerca della verità. Il 16 luglio alle 20.30 la Commissione ascolterà a Roma il figlio di Mico, Giuseppe Geraci, 17enne quando assistette all’omicidio del padre. Un gruppo di lavoro della Commissione avrà il compito di indagare sulla vicenda, di cui ha parlato anche il collaboratore di giustizia Nino Giuffrè, ex capo mandamento di Caccamo.

Domenico Geraci, 44 anni, fu ucciso con cinque colpi di fucile a pompa calibro 12. Sindacalista della Uil allevatori, sposato con due figli, ex consigliere provinciale del Ppi, era quasi sicuramente prossimo candidato dell’Ulivo a sindaco. Il figlio Giuseppe quando assistette ad alcune fasi dell’omicidio dal balcone di casa tentò di reagire gettando un vaso per colpire i sicari o la loro auto. Erano da poco trascorse le 20.30 quando Domenico attraversò piazza Zafferana, alla periferia del paese, per fare ritorno casa. I killer, a bordo di una Fiat ‘Uno’, si avvicinarono. Un sicario scese e imbracciò il fucile, facendo esplodere in rapida successione i colpi. Richiamato dai colpi di fucile, il figlio del politico si affaccia e vede le fasi terminali dell’agguato. E’ stato lui uno dei primi testimoni ad essere accompagnato in caserma per essere sentito dai carabinieri e dal sostituto procuratore di Termini Imerese Giuseppina Cipolla. Oltre al figlio della vittima, gli inquirenti hanno ascoltato anche un amico di Geraci che si trovava con lui pochi minuti prima del delitto. Nei mesi precedenti, a Caccamo, Geraci si era scagliato contro Cosa nostra e contro il nuovo piano regolatore che secondo lui tutelava alcuni interessi illeciti. Tutto il paese sapeva che l’ ex consigliere provinciale, eletto nel ’94, lavorava da tempo, con Lumia, per preparare il terreno politico per la sua candidatura a sindaco e per la creazione di una lista di centrosinistra.
“Siamo molto soddisfatti di questa decisione. Finalmente viene superata una condizione incredibile: speriamo che si dia così pieno riconoscimento alla condizione di vittima della mafia, come già emerge dalle dichiarazioni di molti pentiti” a dichiararlo è stato Claudio Barone, segretario regionale della Uil, che ha commentato la decisione della Commissione parlamentare Antimafia.

Fonte ANSA

 

 

 

Articolo del 7 Ottobre 2014 da  cittanuove-corleone.net
Mafia: Lumia (Pd), l’omicidio di Mico Geraci è una ferita aperta

“L’assassinio di Mico Geraci è una ferita ancora aperta e continuerà a sanguinare fino a quando non verranno individuati i responsabili ed i mandanti di un omicidio politico-mafioso che non va sottovalutato. Il mandamento di Caccamo è stato e continua ad essere un mandamento centrale di Cosa nostra, tanto che Falcone lo definì come la ‘Svizzera di Cosa nostra’”. Lo dice il senatore del Pd Giuseppe Lumia, ricordando l’amministratore locale ucciso a Caccamo (Palermo) l’8 ottobre del 1998. “Qui – aggiunge – Mico Geraci ha sfidato Cosa nostra a viso aperto. L’antimafia che allora organizzammo insieme era fatta di denuncia chiara e netta e di un’alternativa politica ad un sistema di potere fondato sulla paura, sull’omertà, sulle collusioni, ma anche sul degrado sociale ed economico”. “Ritengo importante – conclude – il lavoro di inchiesta avviato dalla Commissione parlamentare antimafia proprio sul caso Geraci, che ho fortemente sostenuto. Saranno fondamentali le audizioni e la documentazione che si riuscirà a raccogliere, sfruttando l’esperienza che la stessa Commissione ha maturato negli anni passati sul caso di Peppino Impastato”.

NOTA per la Commissione Parlamentare Antimafia sul caso Mico Geraci
Mico Geraci è stato ucciso da Cosa nostra l’8 ottobre del 1998 a Caccamo. Mico Geraci era un padre di famiglia, sposato con Enza Scimeca ha lasciato tre figli, Giuseppe, Giovanni, Francesca. Mico Geraci sindacalista UIL,  era anche un esponente politico locale in ascesa, pronto a correre per la carica di sindaco. Da li a pochi mesi dalla sua uccisione si sarebbero svolte le elezioni comunali a Caccamo e la candidatura più accreditata per un eventuale successo era proprio la sua. Da mesi a Caccamo si organizzavano iniziative sociali e progettuali per preparare questa candidatura con un coinvolgimento inedito di larghi strati della società. Un’iniziativa in particolare destò clamore nel luglio del 98 perchè forse per la prima volta a Caccamo si organizzò una manifestazione antimafia dove furono chiamati in causa boss mafiosi e gli interessi  che ruotavano intorno alla mafia nel  territorio alla luce di un’importante operazione giudiziaria svoltasi poche settimane prima. A Caccamo era decaduto (per uno strano meccanismo elettorale siciliano di allora) solo il consiglio comunale, il Sindaco era rimasto in carica ma nel maggio 1998, si erano svolte delle elezioni per il solo consiglio comunale, facendo registrare un grande successo per le liste alleate che appoggiavano la sua candidatura. Il rinnovo di tutta l’amministrazione ci sarebbe stato nel giugno del 1999 se il comune non fosse stato sciolto per mafia nel marzo del 1999.
Caccamo è stato sempre un comune dove è forte la presenza di componenti di spicco di cosa nostra, fu sciolto per mafia già nel 1993 ed il Commissariamento fu anche prolungato di 6 mesi. E’ stata una città alla guida di un vasto mandamento che di fatto raccoglieva intorno a se diversi comuni tra cui Termini Imerese e  Trabia sulla costa sino a Bagheria e i comuni di Cerda e Montemaggiore nella parte della zona montana delle Madonie. Il rilievo dentro cosa nostra era tale che fu definita da Giovanni Falcone “la Svizzera di cosa nostra” per via dell’attività di riciclaggio che prendeva il via da questo territorio e per la capacità di cosa nostra di mantenere tanti latitanti che nel mandamento avevano trovato rifugio. Caccamo inoltre si proponeva come funzione guida di cosa nostra negli anni 80 e 90 addirittura negli ultimi tempi al pari di Corleone. Era tale la crescita del ruolo di Caccamo negli anni ’90 che lo stesso boss Nino Giuffrè, divenuto in seguito collaboratore di giustizia, voleva proiettarsi alla guida della stessa cosa nostra e nonostante fosse il più fidato sostenitore di Provenzano non escludeva un’azione mirata alla sua stessa eliminazione. Non è da escludere che lo stesso Provenzano pensava di agire allo stesso modo contro Giuffrè. Il ruolo di leadership di Caccamo dentro cosa nostra comunque veniva insidiato da una presenza antimafia, anomala per una cittadina che mai aveva avuto tanta vitalità contro le cosche,  con Mico Geraci che si collegava in sede locale a Francesco Dolci, noto esponente dell’opposizione politica antimafia e con l’allora giovane onorevole Giuseppe Lumia che era diventato il punto di riferimento della riscossa antimafia di Caccamo.
Su questa vicenda sarebbe opportuno valutare la possibilità che la Commissione apra un’inchiesta sul modello che ha già utilizzato sul caso Impastato. Naturalmente va valutata la possibilità di istituire un Comitato apposito o utilizzarne uno esistente. I vantaggi nel primo caso sarebbero evidenti e permetterebbero alla Commissione di portare avanti un lavoro mirato e concentrato solo su questo tipo di inchiesta. L’autorità giudiziaria ha indagato sul caso Geraci e per ben due volte ha avanzato richiesta di archiviazione, non riuscendo pertanto a trovare ancora i dovuti riscontri a quella che lei stessa riconosce come omicidio politico-mafioso.

Possibile programma dei lavori:
I) Acquisizione di tutta la documentazione in possesso dell’autorità giudiziaria. In particolare andrebbero acquisiti tutti i fascicoli collegati a due provvedimenti di archiviazione.
II) Andrebbero inoltre acquisiti i verbali completi dei collaboratori di giustizia come Giuffrè, Brusca, Barbagallo e Flamia o di altri collaboratori – dove emergono notizie sul caso Geraci.
III) Rapporti e informative delle forze di Polizia sul contesto mafioso del territorio di Caccamo e sull’omicidio di Mico Geraci.
IV) I decreti e le relazioni allegate sullo scioglimento del Comune per infiltrazioni mafiose.
V) Eventuali note dei servizi di sicurezza in ordine al contesto e all’omicidio Geraci.
VI) Ordinanze sul mandamento di Caccamo  del ’98 (Procedimento penale n. 1232/96).
VII) Audizioni della Procura di Palermo, della DNA, della DIA e dei ROS, in particolare il Maresciallo Di Stefano, allora Comandante della Stazione dei Carabinieri di Caccamo.
VIII) Bisogna valutare inoltre l’opportunità di audire i collaboratori di giustizia prima richiamati, in particolare Giuffrè, per approfondire le dichiarazioni già riportate in sede di archiviazione.
IX) Andrebbero auditi i familiari, i magistrati che più hanno seguito il caso Geraci. E’ inoltre importante in base alle dichiarazione dei testimoni rese all’autorità giudiziaria valutare una loro convocazione in Commissione.

 

 

 

Articolo dell’8 Ottobre 2015 da narcomafie.it
Geraci, il sindacalista che sfidò i poteri mafiosi con l’onestà
di Alice Airola

L’auto bruciata e un mazzo di crisantemi recapitato a casa: sono i messaggi eloquenti che la mafia invia a Domenico Geraci. Eppure, non bastano. Geraci è un sindacalista, appartiene alla Uil. Le lotte per il lavoro ne hanno temprato le forze e la sua campagna di denuncia contro un sistema mafioso che ha reso la “sua” Caccamo una “Svizzera della mafia” (come Giovanni Falcone l’ha definita) lo dimostra. E così, l’8 ottobre del 1998 Domenico Geraci, per tutti Mico, paga il suo coraggio con la vita.

E’ un giovedì sera di ottobre come Domenico ne ha visti tanti nella sua vita. Geraci però non sa che quattro killer lo stanno aspettando sotto casa, a bordo di un’auto, per scaricargli addosso cinque colpi di fucile a canne mozze, uccidendolo sotto gli occhi attoniti e terrorizzati del figlio, allora appena diciassettenne.

Questa è la ragione per la quale suonano così singolari e tristemente ingenue le parole che lo stesso Geraci aveva pronuncia in un’intervista rilasciata a Enrico Deaglio, parlando della sua città: “Questo è un posto dove la mafia non ha mai ammazzato nessuno, e mai lo farà. Usano altri metodi per le persone sgradite: le fanno trasferire da qualche altra parte, le sistemano altrove”. Mico sottovaluta un particolare importante; che Caccamo è sempre stato un comune in cui la presenza di elementi apicali di Cosa nostra è molto forte. E lui, di conseguenza, rientra a pieno titolo fra “le persone sgradite”.

Mico d’altronde, aveva provato a fare della sua onestà una questione politica. Prima nelle fila della Democrazia Cristiana, poi nel sindacato, con la Cisl e la Uil, per tornare all’impegno partitico, quando si candida a sindaco di Caccamo con l’Ulivo. I punti salienti della sua battaglia a favore della legalità sono chiari: contesta apertamente il controllo mafioso delle opere pubbliche, il riciclaggio di denaro sporco e il piano regolatore che “tutela interessi non legali”, dichiarandosi disposto a fare nomi e cognomi di boss e gregari. La sua ultima denuncia chiama in causa la moglie di un boss latitante, Nino Giuffré detto il Manuzza, capomafia di Caccamo. La donna, alla guida dei servizi sociali del municipio, era stata arrestata per mafia ma successivamente reintegrata al suo posto, in un clima amministrativo quantomeno torbido. Ma gli elementi in mano agli inquirenti scarseggiano e il caso viene archiviato.

Saranno proprio le dichiarazioni di Giuffré, quattro anni dopo la morte del sindacalista, a far luce sulla faccenda e a spingere i magistrati di Palermo a riesaminare le prove. Il Manuzza infatti, una volta diventato collaboratore di giustizia, racconta che la ragione della condanna a morte di Geraci sta proprio nel suo allontanamento dalla vecchia dc. Sono Bernardo Provenzano e Benedetto Spera a progettare l’omicidio, contro il volere dello stesso Giuffré, che si sarebbe invece opposto per ben due volte. Nonostante le dichiarazioni del boss pentito e l’iscrizione di Provenzano e Spera nel registro degli indagati, non si è mai arrivati a un giudizio, la morte di Mico rimane avvolta nel mistero.

Raccontare la sua storia risulta perciò è ancora più importante perché, come ha affermato Daeglio: “Hanno ammazzato un buon cattolico, uno impegnato, una bella intelligenza siciliana, che sapeva tutto, un entusiasta. Ecco Domenico Mico Geraci era questo tipo di persona”.

 

 

Fonte:  avvisopubblico.it

Commissione Antimafia: relazione sull’uccisione del sindacalista Mico Geraci
(a cura di Luca Fiordelmondo, Master APC dell’Università di Pisa)

Premessa. La Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie ha approvato, nella seduta del 21 febbraio 2018, una relazione concernente l’uccisione del sindacalista Domenico Geraci, detto Mico, avvenuta la sera dell’8 ottobre 1998 nel comune di Caccamo (PA) (doc. XXIII, n. 43).

L’archiviazione del procedimento. Le indagini vennero inizialmente svolte dalla procura della Repubblica presso il tribunale di Termini Imerese, territorialmente competente, che procedette contro ignoti, dubitando della matrice mafiosa del delitto. In seguito si fece strada l’ipotesi di un delitto riconducibile a Cosa nostra, e gli atti vennero dunque trasmessi alla direzione distrettuale antimafia della procura della Repubblica di Palermo che, in una prima fase, procedette anch’essa contro soggetti ignoti. Le sopraggiunte dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonino Giuffrè, che era stato il capo del mandamento mafioso di Caccamo, consentirono di compiere un passo in avanti e di iscrivere il procedimento a carico di taluni indagati identificati. Nonostante siano state oggetto di intense indagini, le ipotesi avanzate da Giuffrè rimasero tuttavia prive di riscontri dirimenti. Il procedimento penale n. 11089/02 RGNR venne, perciò, definito con un provvedimento di archiviazione il 3 giugno 2005 e l’omicidio di Mico Geraci rimase privo di colpevoli.

L’azione di impulso della Commissione. Come ribadito nella stessa relazione, non spetta alla Commissione accertare direttamente le responsabilità penali. Scopo dell’inchiesta parlamentare, però, può esser quello di contribuire alla raccolta di informazioni utili per concorrere alla ricerca della verità e della giustizia, per riportare l’attenzione su vicende di elevato valore simbolico, per rendere onore alle vittime di mafia e dar voce ai loro familiari. A partire dalla seduta del 16 luglio 2014, perciò, la Commissione di inchiesta sulle mafie ha convenuto sull’opportunità di procedere ad un proprio esame del delitto come fatto storico, come mero accadimento, potendo esso rivelare, nelle sue sfaccettature, particolari significativi. All’esito di un complesso studio, si è rilevato che il suddetto fatto storico, seppur a distanza di anni, è ancora in grado di fornire, su più versanti, alcune importanti indicazioni, ulteriori rispetto a quelle già vagliate. Tutte le riflessioni e i nuovi spunti investigativi individuati dalla Commissione sono stati trasfusi in un documento che contiene la rielaborazione dei fatti, la segnalazione di eventuali incongruenze e un elenco di specifiche attività che è ancora possibile compiere con il necessario ausilio di importanti strumenti investigativi a cui l’organo parlamentare non può fare ricorso in virtù della propria legge istitutiva. Tale documento verrà trasmesso alla direzione distrettuale antimafia di Palermo, con l’auspicio che possa costituire il quid novi che dia luogo alla riapertura delle indagini giudiziarie che possano finalmente far luce sulla morte del sindacalista e perseguire i responsabili.

 

 

Fonte:  palermo.repubblica.it
Articolo del 9 ottobre 2019
Palermo, 21 anni fa l’omicidio di Mico Geraci: il figlio chiede di riaprire le indagini
di Romina Marceca
L’esponente della Uil fu assassinato dalla mafia a Caccamo. Giuseppe Geraci si appella ai pentiti, vecchi e nuovi: “Qualsiasi cosa sappiate sulla fine di mio padre, vi chiedo di riferirla ai magistrati”

Dopo anni di silenzi arriva la richiesta di riaprire le indagini. Il figlio di Mico Geraci, sindacalista della Uil Allevatori e probabile candidato sindaco a Caccamo alla fine degli anni Novanta, ieri ha presentato alla Dda della procura di Palermo una richiesta di riapertura delle indagini sull’omicidio del padre. Fu la mafia a ucciderlo, con cinque colpi di fucile a pompa calibro 12, la sera dell’8 ottobre del 1998, davanti a Giuseppe, il figlio allora diciassettenne che assistette alle ultime fasi dell’omicidio. Ma nessuna sentenza è stata mai emessa.

Giuseppe Geraci ha depositato proprio ieri, nel ventunesimo anniversario dell’uccisione del genitore, la richiesta formale di riapertura delle indagini preliminari su un delitto che sembra destinato a rientrare tra i cold case siciliani. Ma Giuseppe Geraci, dopo 21 anni e due archiviazioni, non si arrende. E’ assistito dall’avvocato Armando Sorrentino, che fu legale di parte civile per il Pci-Pds nel processo per l’omicidio di Pio La Torre. Adesso il figlio del sindacalista ucciso lancia un appello: “Mi rivolgo ai nuovi e ai vecchi collaboratori di giustizia, come Nino Giuffrè. Qualsiasi cosa sappiate sulla fine di mio padre, vi chiedo di riferirla ai magistrati e dare così una risposta alla nostra richiesta di giustizia”.

I nuovi collaboratori di giustizia citati nella richiesta consegnata alla Dda di Palermo sono I capimafia Francesco Colletti e Filippo Bisconti, un tempo componenti della ricostituita Cupola di Cosa nostra, smembrata sul nascere dai carabinieri. Uno parla da fine dicembre 2018. L’altro dall’inizio del gennaio scorso. Colletti era il responsabile del mandamento di Villabate; Bisconti guidava Belmonte Mezzagno.

Pochi mesi prima dell’omicidio, Geraci si era scagliato contro la mafia e contro il nuovo piano regolatore che secondo lui tutelava alcuni interessi sporchi. Era anche sostenuto da alcuni assessori e consiglieri comunali per la sua candidatura a sindaco. “Questo quadro di impegno antimafia si è arricchito in occasione di una manifestazione pubblica a Caccamo nel luglio 1998, nella quale mio padre denunciò a viso aperto la pervasiva presenza della mafia in quella realtà e il condizionamento da questa esercitato sulle attività del Comune”, ha scritto nella richiesta di riapertura delle indagini Giuseppe Geraci.

L’omicidio fu “una ritorsione per le pubbliche denunce delle infiltrazioni mafiose coraggiosamente fatte da Geraci – scrisse nel suo decreto di archiviazione il gip Alfredo Montalto nel 2001 – la cui attività politica, caratterizzata in quel momento anche dall’intendimento di concorrere alla carica di sindaco, peraltro, poteva fare insorgere ulteriori timori nell’organizzazione mafiosa operante in quel territorio e in coloro che all’interno di pubbliche istituzioni e uffici consentivano a questa di infiltrarsi e di controllare e indirizzare attività a proprio vantaggio”.

“Devo ammettere che, unitamente a mia madre, a mio fratello Giovanni e a mia sorella Francesca, non essendo stata raggiunta alcuna verità processuale su moventi, mandanti ed esecutori dell’assassinio di mio padre, la mia ansia di verità e di giustizia è rimasta e rimane delusa e frustrata”, ha scritto nel documento Giuseppe Geraci.

La commissione nazionale Antimafia, nel febbraio del 2018, ha trasmesso atti secretati alla Direzione distrettuale antimafia di Palermo, auspicando la riapertura delle indagini e ha chiesto anche di effettuare nuovi esami scientifici e di utilizzare le nuove tecniche investigative.

“Non abbiamo avuto notizia di una riapertura delle indagini – sottolinea l’avvocato Armando Sorrentino – e quindi, dopo tanti anni di silenzi, la famiglia chiede che si faccia luce sulla morte del proprio congiunto. La commissione nazionale Antimafia ha chiesto di rivisitare tutta la vicenda anche sul piano storico ma anche di ripercorrere le dichiarazioni di allora alla luce di una nuova prospettiva che le mette in relazione funzionalmente le une con le altre. Quelle di Giuffrè non furono banali dichiarazioni, anche se reticenti. Giuffrè dichiarò che non voleva che si uccidesse Geraci, disse di “ammorbidirlo”. Forse si contattò un politico per quell’attività?”.

 

 

Fonte: fanpage.it
Articolo del 8 ottobre 2019
Ucciso dalla mafia davanti al figlio di 17 anni: Mico Geraci, 21 anni di omertà
di Angela Marino
L’8 ottobre 1998 Domenico ‘Mico’ Geraci viene trucidato a fucilate sotto gli occhi sgomenti di suo figlio Giovanni, 17 anni, che dalla finestra assiste disperato all’omicidio di suo padre. Dopo 21 anni, l’omicidio dell’ex consigliere provinciale di Caccamo e futuro candidato sindaco nella ‘Svizzera della mafia’, resta ancora senza colpevoli. Secondo il boss Antonino Giuffré, Geraci fu ucciso perché voleva ripulire il consiglio comunale dalle infiltrazioni mafiose.

L’8 ottobre 1998 Domenico ‘Mico’ Geraci viene trucidato a fucilate sotto gli occhi sgomenti di suo figlio Giovanni, 17 anni, che dalla finestra assiste disperato all’omicidio di suo padre, cercando di colpire i killer lasciando cadere il vaso di una pianta. Accade davanti alla sua abitazione di Geraci a Caccamo (Palermo), pochi istanti dopo che il suo collega lo ha fatto scendere dall’auto. Mico Geraci è una vittima innocente della mafia. Aveva 44 anni.

Alla fine degli anni Novanta, sei anni dopo le stragi, Caccamo era, come la definitiva il giudice Giovanni Falclone, ‘la Svizzera della mafia’. Geraci voleva candidarsi a sindaco, da poco si era lasciato alle spalle la vecchia DC per entrare nell’Ulivo di Beppe Lumia. Aveva preso di mira alcune anomalie del piano regolatore del comune, che secondo lui, nascondevano interessi occulti della mafia. La mafia che aveva insinuato i suoi gangli nella macchina comunale, tanto che a controllare l’affidamento degli alloggi pubblici, alla guida dei servizi sociali, c’era niente meno che Rosaria Stanfa, moglie di Antonino Giuffré, detto Nino, il ‘Manuzza’, boss latitante e capo del mandamento di Caccamo. Geraci aveva puntato il dito anche contro di lei, invocando la legalità in comune sciolto per mafia 4 anni prima; la trasparenza, nella roccaforte del silenzio; il cambiamento, in un territorio dove signoreggiava un assetto di potere criminale di impianto medievale.

Prima di morire Geraci era sereno, ottimista. “A Caccamo la mafia non uccide più”, diceva. Poi una sera di ottobre mentre stava rientrando a casa poco dopo le 20 e 30 sentì la presenza di un’auto che lo marcava stretto, una Fiat 1 dalla quale scese l’uomo che gli scaricò addosso cinque colpi di fucile a canne mozze. Geraci cadde a terra in un lago di sangue, si rialzò a fatica, poi ricadde di nuovo, mentre, richiamato dai colpi di fucile, il figlio Giovanni si affacciava alla finestra. Disperato, Giovanni tentò, invano, di neutralizzare i killer lanciandogli contro il vaso di una pianta.

Nonostante l’evidenza della matrice mafiosa, bisognerà attendere le dichiarazioni di ‘Manuzza’, Nino Giuffrè per avere una traccia su cui indagare. Giuffé che da pentito ha raccontato di aver più volte respinto la richiesta di assassinare Geraci, presentata dalle altre famiglie e che l’omicidio dell’ex sindacalista sarebbe stato anche un messaggio inviato a lui da Bernardo Provenzano attraverso la famiglia Spera, che avrebbe messo a disposizione un suo uomo per l’agguato. Sia Provenzano che Benedetto Spera finiscono nel registro degli indagati nel 2002, ma le indagini si concludono con l’archiviazione. Non si conoscono i nomi dei killer, ma dopo 21 anni, si sa per certo chi è stato.

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Articolo del 9 ottobre 2020

L’omicidio impunito del sindacalista della Uil Mico Geraci

 

 

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