8 Gennaio 1993 Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Ucciso Giuseppe (Beppe) Alfano, corrispondente del quotidiano “La Sicilia”

Google foto

Giuseppe (Beppe) Alfano frequentò la facoltà di Economia e Commercio all’Università di Messina dove conobbe Mimma Barbaro, sua futura moglie. Dopo la morte del padre, lasciò gli studi e si trasferì a Cavedine, vicino a Trento, trovando lavoro come insegnante di educazione tecnica alle scuole medie. Ritornò in Sicilia nel 1976. Appassionato di giornalismo e militante di destra (in gioventù fu militante di Ordine Nuovo e poi del MSI), Alfano cominciò a collaborare con alcune radio provinciali, con l’emittente locale Radio Tele Mediterranea e fu corrispondente de La Sicilia di Catania con inchieste sulla mafia e il malaffare in Sicilia. La sua attività giornalistica fu rivolta soprattutto verso uomini d’affari, mafiosi latitanti, politici, amministratori locali e massoneria. La sua operosità e il suo lavoro diedero fastidio a più di una persona. La notte dell’8 gennaio 1993 fu colpito da tre proiettili, mentre era alla guida della sua auto in via Marconi a Barcellona Pozzo di Gotto.
(Fonte: vivi.libera.it )

 

 

 

 

Fonte:   Associazione Nazionale Familiari Vittime di Mafia

Giuseppe Aldo Felice Alfano detto Beppe, è stato un giornalista, professore e politico italiano nato ed ucciso a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. È uno degli otto+1 giornalisti uccisi dalla mafia in Sicilia. Più volte definito come un “cane sciolto”, Alfano fu un vero e proprio segugio del giornalismo italiano e le sue inchieste, tanto scomode quanto azzeccate e fastidiose per i poteri deviati, lo portarono a perdere consapevolmente la vita l’ 8 gennaio del 1993.

Di orientamento politico di estrema destra, aderì ad Ordine Nuovo confluito poi nel Movimento Sociale Italiano, collezionando anche un espulsione dal partito nel quale militava per aver denunciato connivenze, silenzi ed atteggiamenti deprecabili di vario tipo di alcune cariche dell’ MSI. La sua attività politica lo portò ad abitare in diverse città d’Italia per fare poi ritorno nella sua terra natale, Barcellona Pozzo di Gotto.

Oltre che alla passione politica, si dedicò anche alla sua attività di insegnante di educazione tecnica presso la scuola media della vicina Terme Vigliatore ed al giornalismo. Fu infatti corrispondente del quotidiano “La Sicilia” come cronista giudiziario per le vicende riguardanti la provincia di Messina, un territorio interessato in quel periodo da una sanguinosissima guerra di mafia e da sempre definito, erroneamente, una “provincia babba”, inetta, stupida, per la presunta mancata capacità della criminalità locale di organizzarsi per sfruttare i grandi flussi di denaro. In realtà il sistema Messina definito dalla commissione antimafia presieduta da Nicki Vendola come un “Verminaio”, è una macchina perfettamente collaudata che coinvolge tutti i livelli della vita cittadina e che destina il territorio a luogo di latitanza dorata per i super boss oltre che a stabile punto di incontro tra i poteri leciti e quelli illeciti. Non a caso Messina è la città con il più alto numero di logge massoniche di tutta Italia.Beppe Alfano, conscio di questo sistema criminoso, denunciò le gravi anomalie del sistema Messina subendo per questo gravi minacce.

La sera dell’ 8 Gennaio del 1993, di ritorno dall’ ospedale nel quale la moglie, Domenica Barbaro, lavorava come infermiera, si fermò davanti casa e dopo aver fatto entrare la moglie in casa intimandole di chiudersi dentro, ripartì alla volta di qualcosa o qualcuno che aveva attirato la sua attenzione. Fu ritrovato poche ore dopo, vicino casa, nella sua auto, con il finestrino abbassato, segno evidente che stesse parlando con qualcuno. Il suo corpo esanime presentava tre colpi di piccolo calibro. Uno sulla mano, evidentemente provò d’istinto a parare il colpo, uno al petto, uno sulla tempia destra e l’ultimo in bocca. Beppe Alfano doveva tacere e quell’ultimo colpo fu la firma che la mafia lasciò sul suo cadavere.

Le inchieste giornalistiche condotte da Alfano furono molte e si crede, ragionevolmente, che non abbia avuto il tempo di ultimarle tutte. Alfano era certamente venuto a conoscenza di qualcosa di inquietante, qualcosa che non doveva essere svelato, qualcosa che andava nascosto a tutti i costi e che portò la mafia barcellonese a decidere la sua eliminazione fisica.
La notte dell’omicidio, i Servizi Segreti Italiani, fecero irruzione in casa del giornalista sequestrando di soppiatto tutti i carteggi ed i documenti raccolti da Alfano. Il suo computer, esaminato soltanto un decennio dopo la sua morte, risultò manomesso svariate volte nel corso degli anni.

Dei documenti così come del contenuto del suo computer non si ha pià traccia.
Le piste che gli inquirenti intrapresero dopo la sua morte furono molteplici e molte delle quali possono essere definite veri e propri depistaggi a mezzo istutuzionale.
Fu financo detto che Beppe Alfano fosse un viveur e che il suo omicidio fosse da ricollegare alla pista passionale. Sugli altri depistaggi, per rispetto alla famiglia ed al giornalista, non scriverò nulla poichè le voci e le supposizioni, sapientemente fatte circolare dalla mafia locale, sono tanto infamanti quanto assurde ed infondate. Ma questa è una consuetudine mafiosa ben conosciuta alle cronache. Quando l’eliminazione fisica non basta per spazzare via il pensiero di un uomo si prova ad infangarne la memoria.

È andata così per ognuno degli otto giornalisti uccisi dalla mafia in Sicilia. Peppino Impastato fu “suicidato”, Cosimo Cristina si sucidò anch’egli perché “era depresso”, Pippo Fava era un “puttaniere”, e cosi discorrendo omicio dopo omicidio.
Oltre alle piste improbabili, come quella passionale, si seguirono anche delle strade che riconducevano alle inchieste pubblicate da Alfano.

Il giornalista di Barcellona Pozzo di Gotto, tra le tante inchieste svolte, aveva ad esempio smascherato un’enorme truffa ai danni dell’ Unione Europea attorno alla quale gravitavano gli interessi di Nitto Santapaola ed un sistema di assunzioni di amici e parenti di boss all’interno dell’ AIAS, l’associazione di assistenza ai disabili. Fu il presidente di quest’ultima associazione ad invitare calorosamente Alfano a smettere di svolgere la sua attività giornalistica e sempre quest’ultimo diede al giornalista l’annuncio della sua morte: “Alfano, tu al 20 di gennaio non ci arrivi”.

L’ iter giudiziario che avrebbe dovuto fare chiarezza sulla sua morte si è fermato alla condanna dell’esecutore materiale, Antonino Merlino e del mandante Giuseppe Gullotti. Durante il corso dell’iter processuale sono stati assolti o archiviati diversi personaggi, sulle cui responsabilità non è mai stata fatta piena luce. Maurizio Avola, ex sicario di Cosa Nostra e collaboratore di giustizia, reo confesso di ben 80 omicidi tra cui quello di un altro giornalista siciliano, Pippo Fava, e coinvolto nelle stragi del 92, ha parlato agli inquirenti anche dell’omicidio Alfano.

Secondo il pentito: “Beppe Alfano sarebbe stato ucciso da Cosa Nostra perché aveva scoperto che, dietro il commercio degli agrumi nella zona tirrenica messinese, si nasconderebbero gli interessi economici della Santapaola e d’insospettabili imprenditori legati alla massoneria. “Il vero mandante dell’omicidio di Beppe Alfano, si chiama Sindoni, è un grosso massone […] Sindoni è un potente massone che conosce tutta la magistratura, quella corrotta logicamente: ha importanti amicizie al Ministero e un po’ ovunque. Poi, sempre parlando di soldi, tantissimi giri di soldi insieme ai Santapaola, ai barcellonesi, ai messinesi, nel traffico delle arance. L’omicidio Alfano scaturisce perché il giornalista aveva capito chi era il vero boss nella sua zona e che amicizie avesse questa persona, un vero intoccabile. Il periodo non era quello giusto per fare quest’omicidio, però chi era il personaggio gli si doveva fare (non si poteva dire di no, ndr)”.

In seguito il pentito dichiarerà di aver reso dichiarazioni soltanto sulla figura di Giuseppe Gullotti, ritrattando di fatto il resto delle cose dette.
È proprio Avola a rivelare agli inquirenti che Beppe Alfano aveva scoperto che il super boss Nitto Santapaola si nascondeva proprio a Barcellona Pozzo di Gotto, in via Trento, a pochi metri dall’abitazione del giornalista. “La verità su Alfano? – ha dichiarato ancora il pentito – Gli inquirenti hanno puntato tutto sulla gestione dell’Aias, sbagliando. Lo dico perché in un primo tempo dovevo preparare proprio io il suo omicidio e quello di Claudio Fava. Marcello D’Agata mi bloccò dicendomi che, per Alfano, ci avrebbero pensato i barcellonesi, Pippo Gullotti e Giovanni Sindoni. Anche i killers sono del luogo. Due. […] Esiste una ‘superloggia’, una sorta di nuova P2 che ha deciso certe cose in Italia. Non ho raccontato questa verità ai giudici di Messina, proprio perché sapevo che Giovanni Sindoni è amico d’alcuni magistrati corrotti.

 

 

 

 

 

Foto da Associazione Nazionale Familiari Vittime di Mafia

Articolo da  ammazzatecitutti.org
Beppe Alfano

di Riccardo Orioles e Dario Russo

Il paese più tranquillo d’Italia è sicuramente Barcellona Pozzo di Gotto, quarantamila abitanti, provincia di Messina: niente tossicodipendenti visibili in giro, niente spacciatori, neanche una rapina denunciata negli ultimi dodici mesi. Trenta morti ammazzati, questo è vero, nel giro di un anno: ma son morti di mafia e a Barcellona la mafia – dice la Linea del Partito – non esiste. Dunque non esistono nemmeno quei morti e in particolare non esiste l’ultimo di questi morti, il giornalista Beppe Alfano.

Che fosse un giornalista, per la verità, se ne sono accorti solo dopo che è morto e gli hanno fatto, meglio tardi che mai, il tesserino professionale alla memoria. Dalla “Sicilia” di Catania, il giornale di cui era corrispondente, prendeva cinquemila lire a pezzo, più eventualmente qualcosa per le foto; ha avuto anche una colonnina di piombo il giorno dopo che l’hanno ammazzato e alcuni articoli elogiativi – cosa che richiede una più matura riflessione – nei giorni dopo. Ha avuto infine l’onore di un diretto interessamento – lui povero cronista rompicoglioni – delle Autorità Cittadine, qualche giorno dopo: non per partecipare al funerale, dioceneliberi, o per proclamare il lutto cittadino; ma per far ritirare, sia pure non subito e dopo le istanze della famiglia, i cassonetti della spazzatura che qualche altra autorità aveva fatto piazzare, poco dopo l’omicidio, sul luogo della sua morte. «Ho chiesto alla “Sicilia” la raccolta degli articoli di Alfano – dice il giudice Olindo Canali, l’unico del paese che si ricordi ancora di lui – Mi servivano per le indagini. Li sto aspettando ancora. Finora, non me li hanno mandati».

L’altro ieri, una scuola – il tecnico industriale “Galileo” – doveva fare un’assemblea-dibattito sulla mafia, la prima del paese. L’unico posto in cui a Barcellona è possibile infilare trecento persone insieme è il cinema “Corallo”: gli studenti ci sono andati e si son sentiti rispondere che l’assemblea sulla mafia si paga trecentomila lire all’ora, per la prima ora, e duecentomila per ogni ora successiva. Sulla via del ritorno, qualcuno di loro è passato davanti all’enorme carcassa del Teatro Mandanici, dove di assemblee così se ne potrebbero fare venti, e gratis visto che è una struttura pubblica: solo che il teatro, regolarmente appaltato, “lavorato” e pagato almeno vent’anni fa, da allora non è mai stato finito ed è tuttora inagibile, e desolatamente vuoto. Lo stesso vale per il Palazzetto dello sport, ancora da completare dopo vent’anni, e per l’ospedale, iniziato vent’anni fa.

Nella storia di Barcellona, corrispondono – grosso modo – alle piramidi egizie, del tutto inutili all’apparenza ma investite in realtà del preciso scopo di testimoniare nei secoli la potenza del faraone: nella fattispecie, Carmelo Santalco, che dopo la morte di Lima e il ritiro del catanese Drago è rimasto l’ultimo grande andreottiano di Sicilia. Questo per l’evo antico. L’era moderna comincia invece con la Pista dell’Oregon, ovvero la nuova ferrovia Messina Palermo, cominciata – chissà perché – nei feudi di Pace del Mela e faticosamente procedente, anno dopo anno e subappalto dopo subappalto (ma l’appalto principale è saldamente in mano ai Fratelli Costanzo, famosi cavalieri catanesi), verso il lontano ovest. Via via che la pista procede si sposta la linea dei miliardi, e arrivano le estorsioni, i morti ammazzati e i subappalti. Ciascuno dei morti ammazzati ha diritto a qualche riga in cronaca sui giornali locali del giorno dopo, e poi al più rispettoso e totale silenzio-stampa.

Morire ammazzati è brutto dappertutto, ma da queste parti è particolarmente incazzante. Come per quel tizio che uccisero, uno che con queste storie non c’entrava niente ma faceva il falegname come un tale della Famiglia rivale, l’aprile scorso qui a Terme. I killer si accorsero, una settimana dopo, di aver fatto fuori il falegname sbagliato: sorry, pensarono fra sé, abbiamo sbagliato. Uccisero anche il falegname giusto e se ne andarono con la coscienza in pace).

A Barcellona, la Pista è arrivata fra l’Ottantasei e l’Ottantotto e la guerra è stata fra la Famiglia Chiofalo e la Famiglia Milone: i primi della vicina Terme Vigliadore e dissidenti; i secondi, articolati in una costellazione di cognomi (Ofria, Beneduci, Marchetta) barcellonesi puri e seguaci della Famiglia Santapaola di Catania. I Santapaola, nella zona, c’erano già da molto tempo: negli anni Ottanta con Antonino Santapaola, “detenuto” al manicomio di Barcellona dove in realtà faceva, protetto dalle autorità dell’istituto, il bello e il cattivo tempo; ma già prima ancora, fra il 1979 e il 1980, sulle montagne dei Nebrodi, a Cesarò, dove in un rifugio di montagna tenevano i loro incontri “don” Nitto Santapaola e i catanesi fratelli Cutaja, trafficanti internazionali di morfina-base e cocaina. La guerra della ferrovia finì comunque dopo un numero imprecisato di morti, con l’ergastolo di “don” Antonino Chiofalo, e l’arresto, per carico di droga, di “don” Carmelo Milone; nel frattempo la Pista passò avanti. Il principale accumulo ufficiale di capitali, nella zona, risulta essere adesso quello delle “finanziarie di fatto” che si sono venute a formare attorno all’Aias: ne abbiamo scritto su “Avvenimenti”, ne aveva scritto anche Giuseppe Alfano; la Procura di Barcellona ha aperto un’inchiesta che rischia di estendersi su tutta la Sicilia.

In casa Alfano, un computer Macintosh, dei libri su Charles Aznavour, delle foto… Le povere cose che restano della vita di un uomo che ha avuto dignità. «Mio marito, mio marito che sorrideva…». «Mio padre e l’indifferenza di questa città…».
«Indagate sulle donne, vedete un po’ se giocava a carte…». Anche agli investigatori di Barcellona son giunti gli autorevoli suggerimenti che arrivano immancabilmente in questi casi. Anche stasera, come ogni sera, le centinaia di tossici di Barcellona si “faranno” con la roba fornita, a prezzi popolari, dagli uomini dei boss. Anche stasera i ragazzi dell’Arci e don Pippo Inzana apriranno la loro sede a chi avrà bisogno di loro, alla comunità dei lavoratori immigrati. E anche stasera alle dieci chiuderà l’ultimo bar di piazza San Sebastiano e la città resterà silenziosa, e apparentemente addormentata. Come sempre.

 

 

Articolo da  ammazzatecitutti.org
Chi ha ucciso il giornalista Beppe Alfano?
da www.imgpress.it

I tre proiettili esplosi con la calibro 22 lo centrarono mentre era al posto di guida della sua Renault 9, nella centralissima via Marconi, a Barcellona Pozzo di Gotto. L’auto era leggermente accostata al margine destro, con le luci accese e il cambio in folle. Erano da poco passate le dieci di sera quando il giornalista Beppe Alfano fu ammazzato. Gli ingredienti sono di una storia di mafia in piena regola: un cronista rompiscatole, corrispondente del quotidiano catanese La Sicilia ed una cittadina di quarantamila abitanti in mano a spregiudicati uomini d’affari, e nessun testimone oculare. Da quell’8 gennaio del ‘93 sono trascorsi nove anni. La giustizia ha fatto il suo corso con alterne vicende.

Ben quattro i processi celebrati ma nessuna verità definitiva. Certo, esiste un mandante, Giuseppe Gullotti, 41 anni, inteso l’avvocaticchio, per un passato da studente in giurisprudenza, capo mafia della zona, la Cassazione il 23 marzo del 1999, l’ha condannato a 30 anni di reclusione, ma non il sicario che ne portò a compimento il mandato. L’ultimo tassello lo incastra il tribunale di Reggio Calabria, dove la Corte d’Assise d’Appello, ha assolto lo scorso 17 aprile, il presunto esecutore materiale dell’omicidio, il barcellonese Antonino Merlino, 33 anni, che era stato condannato dai giudici di Messina a 21 anni e 6 mesi. Pena in seguito annullata con rinvio dalla Cassazione, che ne disponeva il giudizio a Reggio Calabria. Una sentenza quest’ultima, immediatamente appellata dalla pubblica accusa e dallo stesso avvocato di parte civile Fabio Repici: “Penso che sia giunto il momento che la Procura Distrettuale antimafia di Messina si decida a colpire le responsabilità dei mandanti dell’omicidio appartenenti al terzo livello della mafia barcellonese, partendo dalle rivelazioni del pentito catanese Maurizio Avola”.

Richiesta di verità e giustizia che arriva soprattutto dalla famiglia Alfano, demoralizzata e delusa, in modo particolare, dal comportamento tenuto dal giornale per il quale il povero Beppe scriveva, La Sicilia, clamorosamente assente tra le parti civili: “E’ una vergogna – dichiarerà Sonia Alfano, figlia del giornalista – è da nove anni che chiediamo giustizia. I primi a dimenticarsi dell’assassinio di mio padre sono stati proprio i responsabili de La Sicilia. Fino a poche settimane prima della sentenza di Reggio Calabria, abbiamo continuato a sollecitare la loro presenza nel processo. E’ stato inutile. Evidentemente non hanno alcun interesse a rivendicare la memoria di un loro giornalista immolatosi sull’altare della lotta alla mafia”. Dimenticanza o paura? “Non abbiamo dimenticato Beppe – ribatte il capo redattore Micio Tempio – prova ne è che tra un mese consegneremo il premio alla sua memoria ad uno dei nostri corrispondenti. Il processo? Purtroppo la difficoltà di mandare avanti un giornale ha impedito di seguire direttamente la vicenda… Si è trattato solo di uno sfortunato infortunio di percorso”.

E così, dopo un iter giudiziario tormentato, si riparte alla ricerca dei colpevoli, dopo che le indagini svolte al tempo dai pm messinesi Gianclaudio Mango e Olindo Canali, furono indirizzate sullo scandalo Aias, l’associazione d’assistenza ai disabili. Ai giudici della Corte d’Assise di Messina, spiegarono che quella volta il boss Pippo Gullotti armò la mano di Antonino Merlino per fare una cortesia al presidente dell’associazione Antonino Mostaccio, per porre fine all’inchiesta giornalistica che Alfano stava conducendo sul patrimonio dell’Aias. Una pista cancellata, però, dall’assoluzione, divenuta definitiva in Cassazione nel ‘99 per Mostaccio. E proprio per questo il caso Alfano non è chiuso.

Dal tribunale di Catania, arriva la conferma che su quell’eliminazione si è speculato. Beppe Alfano sarebbe stato ucciso da Cosa Nostra perché aveva scoperto che, dietro il commercio degli agrumi nella zona tirrenica messinese, si nasconderebbero gli interessi economici della Santapaola e d’insospettabili imprenditori legati alla massoneria. Le rivelazioni sconvolgenti sono di Maurizio Avola, 41 anni, pentito di rango, ex sicario di Cosa Nostra, che ha confessato ai magistrati ben ottanta omicidi, tra i quali quello di un altro giornalista siciliano, il direttore dei Siciliani, Pippo Fava. Avola aveva il compito dentro la ‘famiglia’ di pianificare le azioni per gli omicidi più importanti. Quello di Alfano era uno di questi. “Il vero mandante dell’omicidio di Beppe Alfano, si chiama Sindoni, è un grosso massone” – dichiarerà il pentito ai sostituti catanesi, Amedeo Bertone e Nicolò Marino -“Sindoni. E’ un potente massone che conosce tutta la magistratura, quella corrotta logicamente: ha importanti amicizie al Ministero e un po’ ovunque. Poi, sempre parlando di soldi, tantissimi giri di soldi insieme ai Santapaola, ai barcellonesi, ai messinesi, nel traffico delle arance. L’omicidio Alfano scaturisce perché il giornalista aveva capito chi era il vero boss nella sua zona e che amicizie avesse questa persona, un vero intoccabile. Il periodo non era quello giusto per fare quest’omicidio, però chi era il personaggio gli si doveva fare (non si poteva dire di no, ndr)”.

Al pm Bertone che chiederà conto delle dichiarazioni rese in precedenza ai magistrati di Messina sulle modalità dell’omicidio di Beppe Alfano, Avola affermerà d’averle fatte solo su uno dei mandanti, ovvero Giuseppe Gullotti. E alla legittima domanda del procuratore sul perché non avesse subito fatto il nome di Giovanni Sindoni, il collaboratore si giustificherà così: “Perché la massoneria è una cosa che meno si tocca e più tranquilli si sta, perché hanno amicizie un po’ in tutti i posti”. Solo parole riportate da collaboratori di giustizia de relato? Niente affatto. Maurizio Avola andrà giù secco sull’estremo insulto consumato sulla pelle di Beppe Alfano. Per saperne di più lo abbiamo incontrato in carcere dove in questo periodo sta scontando un periodo di pena. L’ex uomo d’onore del boss Nitto Santapaola è deluso dal comportamento dello Stato. Si sente abbandonato dalle Istituzioni, nonostante non abbia mai smesso di collaborare con la giustizia in questi anni. Lui che è il primo pentito eccellente a svelare ai magistrati di Caltanissetta, Palermo e Firenze, che indagano sui mandanti a volto coperto, i nomi dei personaggi che stanno dietro le stragi del ’92 e ‘93. “La verità su Alfano? Gli inquirenti hanno puntato tutto sulla gestione dell’Aias, sbagliando. Lo dico perché in un primo tempo dovevo preparare proprio io il suo omicidio e quello di Claudio Fava. Marcello D’Agata mi bloccò dicendomi che, per Alfano, ci avrebbero pensato i barcellonesi, Pippo Gullotti e Giovanni Sindoni. Anche i killers sono del luogo. Due.

Un uomo di copertura, armato con una pistola di grosso calibro per l’eventuale colpo di grazia e quello che ha materialmente sparato con la calibro 22, una pistola che usano solo i professionisti. La ‘famiglia’ Santapaola ha dato l’assenso. Ho svelato solo ora i nomi dei veri mandanti del delitto Alfano perché prima era pericoloso… Prendete i mandanti esterni alle stragi. Si corre il rischio che ti prendano per pazzo. Esiste una ‘superloggia’, una sorta di nuova P2 che ha deciso certe cose in Italia. Non ho raccontato questa verità ai giudici di Messina, proprio perché sapevo che Giovanni Sindoni è amico d’alcuni magistrati corrotti. I miei interlocutori sono i giudici della Dda di Catania, Amedeo Bertone e Nicolò Marino”. Dunque, il clan Santapaola sarebbe stato costretto a piegarsi alle esigenze di un uomo “forte” pur comprendendo che ammazzare un giornalista a Barcellona Pozzo di Gotto, proprio dove si nascondeva il boss Nitto, era “come mettergli l’esercito dietro la casa”. Beppe Alfano, forse per caso, aveva individuato un’alternativa ai soliti affari messi in piedi nel barcellonese.

Il mercato degli agrumi conduce direttamente alla frode delle sovvenzioni agroalimentari dell’Unione europea, “pratica” comune quasi ovunque nel Mezzogiorno. Il fatturato si calcola sia vicino ai mille miliardi annui, con società fantasma che utilizzano anche il giro di fatturazioni fasulle. Inoltre, sui camion che trasportano arance i boss possono far viaggiare anche la droga. E nell’ambito della gestione del mercato agrumicolo si possono guadagnare soldi grazie al mercato delle eccedenze e alla trasformazione industriale del frutto. Sono ormai note le vicende che coinvolgono, suo malgrado, l’Aima, l’Azienda di Stato per gli interventi sul mercato agrumicolo. Il giro vorticoso di subappalti rende quasi impossibile riuscire a districarsi in quello che è un labirinto “aziendale”.

E Beppe Alfano tutto questo l’aveva capito. L’8 gennaio 1993 un uomo lo ha avvicinato mentre stava rincasando. Lui ha accostato sulla destra e messo in folle. Ha abbassato il finestrino del passeggero e da lì gli sono stati esplosi tre proiettili contro. A volte il boia uccide perché qualcuno lo vuole, mandando al diavolo contraddittorio e diritti della difesa. Beppe Alfano non può più difendersi dalle maldicenze e dalla povertà investigativa. Per onorarne meglio la memoria, sarebbe il caso di provare a rivedere certezze che fanno a pugni con la realtà. Tutti hanno il diritto di indignarsi per l’ultimo schiaffo ad un giornalista che aveva come ambizione quella di far conoscere la verità. Non vorremmo pensare che a Barcellona qualcuno avesse molto da proteggere e così poteva saltar fuori un ottimo movente per uccidere…

 

 

 

LA PUNTATA INTEGRALE: VIDEO Blu Notte

Il caso Beppe Alfano

Giuseppe Aldo Felice Alfano detto Beppe, è stato un giornalista, ucciso per mano della mafia. Appassionato di giornalismo e militante di destra, Alfano comincia a collaborare con alcune radio provinciali, con l’emittente locale Radio Tele Mediterranea ed è corrispondente de La Sicilia di Catania. Diviene il “motore giornalistico” di due televisioni locali della zona di Barcellona Pozzo di Gotto, Canale 10 e poi Tele News,di proprietà di Antonino Mazza, anch’egli ucciso dalla mafia.

 

 

 

IL LIBRO DI SONIA ALFANO

 

LA ZONA D’OMBRA

La lezione di mio padre ucciso dalla mafia e abbondonato dallo Stato

Fonte: soniaalfano.it

“Si tratta di un omaggio a mio padre, cronista di provincia assassinato perché sapeva e scriveva troppo. Un racconto dettagliato della nostra vita insieme, ma soprattutto del contesto del suo assassinio, dei suoi retroscena e dei depistaggi praticati da apparati deviati e dai servizi segreti per garantire l’impunità del terzo livello del sistema mafioso barcellonese.”

Sonia Alfano

Fonte: rizzoli.rcslibri.corriere.it

Sopra al sangue di mio padre è possibile costruire qualcosa di positivo.” È questa la convinzione di Sonia, figlia di Beppe Alfano, il giornalista scomodo ucciso dalla mafia a Barcellona Pozzo di Gotto l’8 gennaio 1993. Eliminato perché aveva le prove delle attività criminali di una provincia siciliana, quella messinese, da sempre considerata quella in cui “la mafia non esiste”: tre giorni prima di morire, Alfano aveva invece consegnato alle autorità una lunga e documentata descrizione delle sue scoperte, tra cui il probabile rifugio del boss latitante Nitto Santapaola, a pochi passi da casa sua. Ma quella busta è sparita per sempre, assieme al computer, ai raccoglitori e ai taccuini con il lavoro di anni, sequestrati la notte stessa dell’omicidio e mai più restituiti.

Oggi Sonia, che ha affiancato il padre nelle inchieste e vissuto accanto a lui il crescendo di minacce sempre più esplicite fino al tragico epilogo, ricostruisce quei giorni e gli anni che seguirono: l’ostracismo dei concittadini, le difficoltà finanziarie, l’angoscia di quattro processi celebrati senza giungere a una verità definitiva. Nonostante molti le abbiano consigliato “amichevolmente” di dimenticare, Sonia si è impegnata con determinazione nella lotta alla malavita organizzata, ed eletta nel 2009 al Parlamento europeo continua anche da lì la sua battaglia per denunciare una piaga che non è più soltanto italiana. Dalla stagione delle stragi fino a oggi, questo libro racconta la storia di una donna che ha avuto il coraggio di vivere una tragedia personale innanzitutto come responsabilità civile. La scelta di una figlia che non ha mai smesso di esigere giustizia, in nome di quel patrimonio morale che il padre le ha lasciato in dono e che amavano riassumere con una massima di Gandhi: “Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono, poi vinci”.

 

 

 

 

Articolo da  La Repubblica dell’8 Gennaio 2013  ricerca.repubblica.it 
Beppe Alfano il cronista che osò sfidare la mafia
di Luca Tescaroli

ERA buio e l’aria fredda, da poco erano passate le dieci di sera, quando l’8 gennaio 1993, un killer di mafia gli si avvicinò, mentre stava rincasando. Era seduto al posto di guida della sua Renault 9, accostata sulla destra, in via Marconi, con il finestrino lato passeggero abbassato, la sicura dello sportello inserita, il cambio in folle e il motore acceso. Con una pistola calibro 22 in pugno, una silenziosa mano assassina iniziò a fare fuoco. Gli sparò addosso tre colpi in rapida successione. Moriva così, a poco più di quarantotto anni, a Barcellona Pozzo di Gotto, a 30 metri da casa, Giuseppe Aldo Felice Alfano, inteso Beppe, in un territorio sino ad allora erroneamente considerato immune dal fenomeno mafioso, rientrante nella cosiddetta provincia “babba”: Messina.

La mafia a Barcellona, invece, fin dagli anni Settanta, esisteva ed era operativa, collegata a cosche di altre zone della Sicilia e della Calabria. Dal ‘ 90 al ‘ 92, si era scatenata una guerra fra la cosca di Giuseppe Chiofalo, legata ai Cursoti, e quella contrapposta, sotto il comando di Giuseppe Gullotti, legata a Nitto Santapaola e a Cosa Nostra palermitana.

Insegnante di educazione tecnica alle scuole medie, appassionato di giornalismo e militante di destra (in gioventù aderì a Ordine Nuovo e, poi, al Msi-Dn), Alfano cominciò a collaborare con l’emittente locale Radio Tele Mediterranea. D ivenne corrispondente di provincia de La Sicilia di Catania. Non era nemmeno iscritto all’Ordine dei giornalisti, ma scelse di raccontare la mafia, con puntigliosa ricerca della verità, in una città dove l’indifferenza e l’assuefazione alle intimidazioni, alle estorsioni e agli omicidi regnavano sovrane.

La sua fu una morte annunciata di un cronista invisibile che aveva denunciato i boss di Barcellona e disegnato l’organigramma della lotta fra cosche, soffermandosi su temi di estrema delicatezza, quali gli illeciti compiuti nella gestione dell’Aias (l’associazione d’assistenza ai disabili di Milazzo), le illegalità nel comune di Barcellona, le truffe del settore agrumicolo all’Ue nella zona tirrenica messinese, dietro le quali si celava la longa manus della famiglia catanese, la latitanza di Nitto Santapaola proprio a Barcellona e il cordone di protezione rappresentato da appartenenti a una loggia massonica deviata.

Tre giorni prima di morire aveva consegnato alle autorità una lunga e documentata descrizione delle sue scoperte, tra le quali, il probabile rifugio del boss latitante Nitto Santapaola. Un lungo e tormentato iter giudiziario, passato attraverso tre decisioni della Corte di Cassazione, caratterizzato da condanne, assoluzioni annullate e, poi, confermate nei plurimi gradi di giudizio, ha consegnato una verità giudiziaria, che ha consentito, a distanza di tredici anni, di dare un volto al killer, di conoscere chi armò la sua mano, commissionando e avvallando il delitto, e di dimostrarne la matrice mafiosa.

Dopo essere stato assolto in primo grado e condannato in appello, il 22 marzo 1999 è giunta la condanna definitiva a 30 anni di reclusione per il boss Giuseppe Gullotti, detto “l’avvocaticchio”, membro del circolo culturale Corda Fratres, di cui facevano parte vari esponenti dell’alta società e del mondo politico. Gullotti rappresentava il capo bastone più autorevole di Barcellona, dopo la morte di Francesco Rugolo. Il 27 aprile 2006, è toccato all’esecutore materiale: il carpentiere Antonino Merlino è stato condannato a 21 anni e sei mesi di carcere, a seguito della decisione della I sezione della Corte di Cassazione, dopo due condanne subite in primo gradoe in appello,e una assoluzione, una prima volta, su rinvio della Cassazione alla Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria.

Sulla verità accertata s’irradia, però, un cono d’ombra, che avvolge il possibile legame tra l’omicidio di Alfano e la latitanza di Nitto Santapaola – trascorsa, in modo indisturbato nella stessa città in cui fu eseguito l’omicidio – e si nasconde nelle anomalie, denunciate dalla figlia Sonia: la conservazione del computer della vittima e negli indebiti accessi che furono fatti, la sparizione del suo taccuino pieno di informazioni in codice la notte dell’assassinio, la presenza di un uomo intento a osservare l’abitazione il mattino del delitto, che aveva suscitato l’attenzione del giornalista. Si tratta di circostanze che legittimano la domanda di giustizia dei familiari del coraggioso giornalista, proiettata a capire chi si nasconda dietro Giuseppe Gullotti, nella decisione del delitto.

Un piccolo indizio è rappresentato dalle tardive dichiarazioni del collaboratore di giustizia Maurizio Avola, il quale, nel confessare di essere stato incaricato, in un primo tempo, di preparare proprio l’omicidio di Alfano, ha riferito che dietro “l’avvocaticchiu” vi erano la massoneria e un noto imprenditore, indicato quale referente di Santapaola. È, soprattutto, il contesto in cui si colloca l’omicidio di Alfano che richiede una riflessione e un rinnovato impegno investigativo. Si verificò, infatti, nei mesi terribili della stagione stragista, a cavallo fra il ‘ 92 e il ‘ 93, una settimana prima dell’ arresto di Salvatore Riina, nel pieno dello sviluppo della trattativa mafia-Stato. Recenti notizie diffuse dai media, riferiscono che la procura della Repubblica di Palermo è impegnata a verificare se appartenenti al vertice del Ros abbiano offerto un salvacondotto a un altro superlatitante aperto al dialogo con lo Stato, il catanese Nitto Santapaola, fino al punto di non arrestarlo – pur avendo ascoltato in diretta la sua voce, all’ interno di un ufficio di autotrasporti tenuto sotto controllo- nella prospettiva di poter trattare la cessazione delle stragi.

Un blitz, il 6 aprile ’93, guidato dal capitano Ultimo si rivelò infruttuoso: messo sulle tracce di un fuoristrada, l’ufficiale inseguì di notte un personaggio, sparandogli contro più colpi. Ma quella era una falsa pista. Il latitante abbandonò Barcellona. Santapaola fu, poi, arrestato dallo Sco della polizia di Stato, un mese e mezzo dopo, il 18 maggio 1993, nelle campagne di Mazzarone. Un avvocato boss, Rosario Cattafi, avrebbe sostenuto che il vice direttore delle carceri, Francesco Di Maggio voleva far arrivare un messaggio a Santapaola, per tentare di fermare le stragi.

Sono trascorsi vent anni dall’omicidio del giornalista, che pagò con la vita le sue campagne di stampa, che non voleva farsi soffocare da quella che definì, in uno dei suoi articoli, la “cappa plumbea” che stava ricoprendo la sua città. La decisione della sua soppressione maturò dopo che aveva definitivamente respinto le offerte di denaro perché cessasse di proseguire le inchieste sul comune di Barcellona e sull’Aias. Alfano fu un uomo solo e gli va riconosciuto il merito di aver compreso e descritto il degrado che la presenza mafiosa nella sua terra aveva innescato nella quotidianità, nelle relazioni tra le persone, nel mondo delle professioni, nelle attività economiche e nell’ amministrazione pubblica.

La sua curiosità professionale coincise con l’impegno civile al quale tutti i cittadini sono chiamati. Ricordare il suo sacrificio è un dovere morale. Alfano fu il decimo e ultimo giornalista ucciso dalla criminalità nel nostro Paese, otto dei quali in Sicilia. Morti ammazzati che dimostrano l’importanza dell’informazione basata sulla verità e quanto la conoscenza sia temuta dai sodalizi criminali, soprattutto, perché ostacola la loro azione, consente di tenere viva la tensione, di erodere il consenso sociale sul quale proliferano, di sensibilizzare l’opinione pubblica sulla loro pericolosità, rendendo note le nefandezze che pongono in essere. Da vent’anni, fortunatamente, nessun giornalista è più stato eliminato e ciò deve essere considerato un dato significativo idoneo a dimostrare i progressi nell’azione di contrasto al crimine organizzato e l’indebolimento delle strutture mafiose, che non sembrano più osare commettere delitti eccellenti.

 

 

Articolo dell’8Gennaio 2015 da  loraquotidiano.it 
Quella Colt 22 sparita nel nulla la chiave del delitto Alfano

di Giuseppe Pipitone e Sandra Rizza

A 22 anni dall’uccisione del giornalista di Barcellona Pozzo di Gotto, i verbali del pentito Carmelo D’Amico che scagiona il killer Nino Merlino, rilanciano la pista che ruota attorno al revolver passato di mano in mano e poi sparito nel nulla, senza mai essere sottoposto a perizia balistica. La latitanza del boss Santapaola nelle carte dell’inchiesta ter sul tavolo del pm di Messina Vito Di Giorgio. E su tutta la vicenda, l’ombra di Saro Cattafi

C’è una pistola, una Colt 22, che passa di mano in mano tra varie persone, senza mai essere sottoposta a perizia balistica, ma che potrebbe essere quella che ha sparato al giornalista Beppe Alfano. E ci sono i verbali top-secret del pentito Carmelo D’Amico che riscriverebbero da capo il contesto dell’omicidio: secondo il collaboratore, l’esecuzione mafiosa scattata l’8 gennaio di 22 anni fa sarebbe legata alla latitanza del boss Nitto Santapaola. Sono gli elementi dai quali potrebbe ripartire l’inchiesta sui tre colpi di pistola che tapparono la bocca a un cronista scomodo nel cuore di Barcellona Pozzo di Gotto, luogo-simbolo dello Stato inerme davanti allo strapotere mafioso.

D’Amico avrebbe confermato che Alfano fu ucciso dalla mafia barcellonese, aggiungendo però che il delitto sarebbe stato commesso da un killer diverso da Nino Merlino, condannato per quell’omicidio a 21 anni di carcere insieme al boss Nino Gullotti, indicato come mandante e condannato a 30 anni. Dichiarazioni ora confluite nel fascicolo denominato “Alfano ter”, ancora aperto sulla scrivania del sostituto della Dda Vito Di Giorgio, al quale si sarebbe affiancato il collega Angelo Cavallo. I due sono titolari dell’indagine su Rosario Pio Cattafi, indicato come uomo-cerniera tra mafia, massoneria e servizi segreti, condannato in primo grado a 12 anni per associazione mafiosa e attualmente imputato nel processo d’appello davanti ai giudici di Messina. Cattafi, testimone a Palermo nel processo sulla Trattativa Stato-mafia, è l’uomo che giura di esser stato inviato dal vicedirettore del Dap Francesco Di Maggio a dialogare con il boss Santapaola, nella primavera del ’93, promettendo benefici carcerari in cambio dello stop alle stragi. Un millantatore? Ma che c’entra Cattafi, mai formalmente indagato per il delitto Alfano, con la morte del giornalista?

Tutto ruota attorno a quella pistola scomparsa, le cui tracce vengono scoperte dall’avvocato Fabio Repici, difensore di parte civile della famiglia Alfano, in un verbale del 28 gennaio 1993. A venti giorni dall’uccisione del cronista de ”la Sicilia”, il pm Olindo Canali si accorge che l’imprenditore Mario Imbesi possiede una Calibro 22, e se la fa consegnare, senza sequestrarla formalmente. Otto giorni dopo, il 5 febbraio, la restituisce al proprietario: quel revolver è l’arma del delitto Alfano? Il giornalista è l’autore di alcuni articoli che fanno saltare la vendita a prezzi esorbitanti di un immobile, di proprietà di Imbesi, all’Aias di Milazzo. Bisognerà però aspettare fino al 2001, e cioè diciassette anni dopo la morte di Alfano, perché la Scientifica attesti che quella calibro 22 con l’omicidio del cronista non c’entra nulla.

Nelle disponibilità d’Imbesi però c’è anche un’altra pistola: lo scopre l’avvocato Repici, che nell’elenco delle armi possedute dall’imprenditore trova un’altra colt 22, ceduta nel 1979 al milanese Franco Carlo Mariani, arrestato nell’ ’84 in un’indagine sulle bische clandestine. Chi viene arrestato insieme a Mariani? Proprio Cattafi, accusato in quell’occasione dal pm barcellonese Di Maggio, che aveva al suo fianco come uditore Olindo Canali, futuro pm dell’omicidio Alfano.

È proprio Canali che, quindici giorni dopo aver restituito ad Imbesi la prima Colt 22, vola a Roma per incontrare Di Maggio. In quegli stessi giorni, precisamente il 27 febbraio ‘93, l’agenda del generale Mario Mori riporta un appunto col suo nome, storpiato in “Canari”, accanto a quello di Di Maggio con un’annotazione: “per omicidio giornalista a Barcellona P.G.”. A che titolo Di Maggio, all’epoca funzionario Onu a Vienna, partecipa a riunioni sull’ omicidio di Barcellona? Ufficialmente, il motivo è l’indagine che Di Maggio aveva compiuto su “soggetti barcellonesi trasferiti a Milano e coinvolti in traffici di armi”. Una descrizione – sottolinea l’avvocato Repici – ”che sembra adattarsi perfettamente a Cattafi”.

A Roma, Canali ascolta anche i vertici dello Sco, che sull’omicidio Alfano non compiono alcuna indagine, ma che nel maggio del ’93 arrestano Santapaola in un casolare nel catanese: per quale motivo li incontra? Sonia Alfano non si stanca di ripetere che il padre è stato assassinato proprio per aver rivelato al pm Canali la presenza di Santapaola a Barcellona. E don Nitto il 5 aprile del ’93 viene individuato, da alcune intercettazioni ambientali, in una pescheria di Terme Vigliatore, a pochi chilometri da Barcellona. Il giorno dopo, il 6 aprile, nel paesino si scatena una rumorosa caccia all’uomo che vede il capitano del Ros Sergio De Caprio, nome in codice Ultimo, lanciarsi all’inseguimento di Fortunato Imbesi, figlio dell’imprenditore proprietario della colt 22, scambiato per il boss allora latitante Pietro Aglieri. Quanto basta per far dileguare Santapaola dalla zona. Una vicenda che, dopo la riapertura dell’istruttoria dibattimentale, è ora all’esame della Corte d’appello di Palermo che processa Mori e il colonnello Mauro Obinu per la mancata cattura di Provenzano nel ‘95.

Tutte coincidenze? Oggi che il pentito D’Amico scagiona il killer Merlino, il pm Di Giorgio (che si è visto respingere due volte la richiesta di archiviazione dal gip) ha in mano gli elementi per approfondire la pista che ruota attorno alla colt 22 smarrita da Mariani, l’amico di Cattafi, e poi evaporata nel nulla. Una pista che l’avvocato Repici considera centrale per le indagini sul delitto. E per questo motivo ha chiesto alla procura di Messina di verificare la possibilità che quell’arma, “sia in qualche modo entrata in possesso di Cattafi. E che sia stata utilizzata per l’omicidio Alfano”.

 

 

Articolo del 22 Settembre 2015 da antimafiaduemila.com
Omicidio Alfano, “Ad uccidere il giornalista fu Stefano Genovese”
di Aaron Pettinari

Il pentito Carmelo D’Amico parla anche di un basista a piede libero

“So chi è il mandante e so chi è l’esecutore dell’uccisione del giornalista Beppe Alfano. Non posso dire di più perché ci sono indagini in corso”. Questo aveva dichiarato il collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico, lo scorso maggio, all’udienza del processo trattativa Stato-mafia. Rispondendo ad una domanda dell’avvocato Francesco Romito, legale dell’imputato Giuseppe De Donno, il pentito aveva anche aggiunto che “non sono stati i servizi segreti”.

Oggi sulle pagine della Gazzetta del Sud viene svelato il nome del killer, Stefano “Stefanino” Genovese, attualmente in carcere perché deve scontare una pena definitiva a poco più di 26 anni per l’uccisione del “fraterno” amico Carmelo Martino Rizzo, assassinato il 4 maggio 1999, in un’area di sosta a Lauria sull’autostrada Salerno Reggio Calabria.

L’ex boss di Barcellona Pozzo di Gotto, ha parlato dell’omicidio Alfano per la prima volta il 23 luglio 2014 rispondendo alle domande dei magistrati della Dda di Messina Vito Di Gregorio ed Angelo Cavallo, per poi tornare sull’argomento il 30 settembre, il 15 ottobre ed il 27 novembre 2014. “Quella sera, 8 gennaio 1993, – ha raccontato il pentito – mi trovai a passare sopra il ponte di Barcellona direzione Palermo. Io mi trovavo a bordo della mia Fiat Uno colore verde e vidi Stefano genovese che si trovava a piedi e che indossava un cappellino. Specifico che io ero solo in auto. Una volta incontrato genovese gli domando: ‘che cosa stai facendo, sei rimasto a piedi, hai bisogno?’. Genovese per tutta risposta mi disse: ‘Vattinni subito che staiu travagghiannu’ e non aggiunse altro. Io capii che Genovese doveva compiere un omicidio anche perché conoscevo la sua abitudine di uccidere le persone agendo in solitaria”.

Quindi D’Amico ha riferito agli inquirenti che tra le 22.30 e le 23 è tornato a transitare sul “ponte”, perché stava per rientrare a casa, notando in lontananza, nei pressi del luogo dove in precedenza avrebbe visto Genovese, un’auto circondata da carabinieri e polizia (“ho tirato dritto ed ho realizzato che Stefanino Genovese aveva commesso il delitto”). Ma D’Amico, interrogatorio dopo interrogatorio, avrebbe aggiunto anche ulteriori particolari come il fatto che Genovese, con il quale il pentito asserisce di aver commesso un altro omicidio, avrebbe avuto all’epoca il possesso di una “pistola calibro 22”. Non solo. L’ex killer della famiglia “Barcellonese” ha anche parlato dell’esistenza di un complice che, nascosto nell’auto di Stefano Genovese, parcheggiata vicino alla stazione degli autobus, avrebbe fatto da basista per coprire la fuga. Quest’uomo sarebbe ancora a piede libero.

Nel ruolo di mandante, invece, viene confermato il ruolo di Giuseppe Gullotti: “Di Salvo ebbe a confermarmi che il mandante di quell’omicidio era stato Pippo Gullotti. Infatti, in quella occasione ricordo che Sem Di Salvo mi disse testualmente: ‘Gullotti cumminau un macelli cu st’omicidio che ci fidi fari’”. Tutte le dichiarazioni del collaboratore di giustizia sono confluiti nel fascicolo “Alfano ter” aperto dalla Procura di Messina. Per l’omicidio del giornalista già sono stati condannati in via definitiva Giuseppe Gullotti come mandante e Antonino Merlino come esecutore materiale dell’agguato ma sul caso restano aperti tanti aspetti a cominciare dai motivi che hanno portato Cosa nostra a compiere questo omicidio eccellente. D’Amico ha riferito di aver saputo da Salvatore “Sem” Di Salvo che il giornalista era uno che “parlava assai”. Quel che è certo è che Alfano era un cronista con la “C” maiuscola che conduceva inchieste su mafiosi latitanti, politici, amministratori locali e massoneria.

Il mistero della Colt 22

Tra i buchi neri ancora irrisolti, vi è poi il mistero della Colt 22 mai sottoposta a perizia balistica, le cui tracce sono state scoperte dall’avvocato Fabio Repici, legale della famiglia Alfano. In un verbale del 28 gennaio ’93, acquisito agli atti del processo, veniva riportato che 20 giorni dopo l’assassinio di Alfano Olindo Canali, titolare dell’inchiesta, aveva scoperto che l’imprenditore Mario Imbesi possedeva una Calibro 22 e se l’era fatta consegnare, con un iter quantomeno insolito. Il magistrato, infatti, invece di sequestrare l’arma, aveva atteso un’ora e mezza che l’imprenditore fosse andato a casa a prelevare la pistola per poi prenderla in consegna. Dopo otto giorni, il 5 febbraio, il revolver era stato restituito al proprietario, ma agli atti del processo non risulta alcuna perizia balistica sull’arma. Solo diciassette anni dopo la morte di Alfano, nel 2011, la Scientifica dimostrerà che quell’arma, con l’omicidio del cronista, non c’entra niente.

È sempre l’avvocato Repici a scoprire l’esistenza di un’altra Colt 22 nelle disponibilità di Imbesi. Quest’altra arma sarebbe stata ceduta nel ’79 a Franco Carlo Mariani, fermato nel 1984 in quanto coinvolto in un’indagine sulle bische clandestine. Insieme a Mariani, viene arrestato anche Rosario Pio Cattafi (finora solo sfiorato dalla pista investigativa del delitto Alfano) condannato in primo grado a 12 anni per associazione mafiosa e considerato anello di congiunzione tra mafia, massoneria e servizi segreti), accusato dal pm di Barcellona Francesco Di Maggio (ex vice capo del Dap, ritenuto tra i personaggi chiave della trattativa e uno dei principali artefici, nel ‘93, della revoca del carcere duro a oltre 300 mafiosi) affiancato da Olindo Canali, al tempo uditore e che diventerà in seguito pubblico ministero al processo Alfano. Canali, dopo aver restituito la prima pistola a Imbesi, si recò a Roma per incontrare Di Maggio. La sua partecipazione ad incontri sul delitto Alfano, quando ancora ricopriva l’incarico di funzionario Onu a Vienna, sarebbe stata giustificata dall’aver svolto indagini che coinvolgevano “soggetti barcellonesi trasferiti a Milano e coinvolti in traffici di armi”.

Secondo la ricostruzione di Repici, che insiste proprio sulla centralità della pista della Colt 22, questa descrizione calzerebbe perfettamente al profilo di Cattafi e nei mesi scorsi lo stesso legale ha chiesto alla Procura di Messina di appurare se la pistola sia in qualche modo arrivata a Cattafi, o se sia stata effettivamente usata per l’attentato al giornalista. Di quelle riunioni, inoltre, vi è anche traccia nell’agenda del generale Mario Mori dove il 27 febbraio 1993 è registrato il nome storpiato “Canari” proprio accanto a quello di Di Maggio. Il 5 aprile, poi, la voce di Nitto Santapaola viene intercettata in una pescheria di Terme Vigliatore ed il giorno dopo Terme VIgliatore diventa teatro di un inseguimento con protagonisti i militari del Ros guidati da Sergio De Caprio, alias Ultimo. Questi avevano scambiato Fortunato Imbesi, figlio dell’imprenditore proprietario della colt 22, per il boss allora latitante Pietro Aglieri. In quell’incredibile caccia all’uomo, ricostruita nel dettaglio al processo contro Mori ed il colonnello Mauro Obinu per la mancata cattura di Provenzano nel 1995, Ultimo arrivò pure a sparare al giovane Imbesi.

Latitanza Santapaola

Un filone d’inchiesta sull’omicidio Alfano guarda persino alla latitanza nel barcellonese del boss catanese Nitto Santapaola. Secondo l’ipotesi investigativa Alfano sarebbe venuto a conoscenza della presenza del capomafia in quei luoghi. La stessa figlia del giornalista, Sonia Alfano, è sempre stata convinta che il padre venne ucciso proprio per aver rivelato al pm Canali della presenza di Santapaola a Barcellona.

Canali, sentito lo scorso giugno al processo trattativa Stato-mafia, di fronte alla Corte d’assise di Palermo ha raccontato che “Beppe Alfano mi disse che secondo lui il boss catanese Nitto Santapaola trascorreva la sua latitanza a Barcellona Pozzo di Gotto. Questo avvenne intorno all’otto dicembre 1992. Eravamo rimasti che, al mio rientro, mi avrebbe dato informazioni più precise. Dovevamo incontrarci intorno tra il 9 e il 10 gennaio 1993, a pranzo”. Secondo Canali la notizia sulla latitanza di Santapaola a Barcellona Pozzo di Gotto, Beppe Alfano ebbe modo di condividerla anche con i Carabinieri e la Polizia. E proprio sulla presenza del boss catanese nel barcellonese anche lo stesso D’Amico aveva fornito delle indicazioni.

“Attendiamo che le dichiarazioni del pentito barcellonese siano riscontrate e verificate dall’attività d’indagine della Dda di Messina – commenta l’avvocato della famiglia Alfano, Fabio Repici – Se quanto da lui detto sarà accertato è chiaro che andrebbe riscritta una parte della vicenda dell’omicidio Alfano e, soprattutto, andrebbero approfondite le ragioni del depistaggio che è stato messo in atto al momento delle dichiarazioni del pentito Maurizio Bonaceto (primo accusatore del killer Antonino Merlino, condannato definitivamente per il delitto, ndr). Inoltre c’è un’ulteriore particolarità. D’Amico accusa Stefano Genovese che era un soggetto ancora più vicino a Giuseppe Gullotti (condannato a trent’anni come mandante del delitto, accusato da uno stuolo di pentiti, ndr) che assieme all’avvocato Rosario Pio Cattafi si trovava al vertice dell’organizzazione criminale barcellonese”.

“D’Amico e Bonaceto – prosegue l’avvocato – fanno un racconto simile dove entrambi dicono di aver visto il killer transitando nei pressi dei luoghi dove si è poi consumato il delitto. Tuttavia è chiaro che D’Amico, se attendibile, porta ad una sorta di certificazione della falsità di quanto dichiarato in precedenza dallo stesso Bonaceto. E’ lecito quindi domandarsi il perché si sia reso necessario depistare e far individuare un killer diverso. La risposta potrebbe trovarsi proprio nella copertura della presenza di Santapaola nel barcellonese. Che Alfano sapesse ciò è oggi confermato dallo stesso pm Canali ma c’è anche un altro dato che meriterebbe di essere approfondito. Aurelio Salvo, cognato di Domenico Orifici, tra i favoreggiatori di quella latitanza di Santapaola nelle zone di Barcellona Pozzo di Gotto e Terme Vigliatore, aveva anche un immobile propri a Barcellona in via Tento. Questo si trovava a trenta metri dalla casa di Alfano ed è lo stesso luogo dove poi venne arrestato il latitante Giuseppe Gullotti. E’ possibile che è lì che Santapaola ha trascorso parte della sua latitanza?”.

 

 

 

Fonte:  antimafiaduemila.com 
Articolo dell’8 gennaio 2019
Ricordando Beppe Alfano, tra depistaggi e frammenti di verità
di Aaron Pettinari
Ventisei anni dopo l’omicidio restano ancora troppe ombre

Ventisei anni sono passati dall’uccisione di Beppe Alfano. Un cronista scomodo che, pur senza tesserino (l’Ordine lo conferì alla sua memoria solo nel 1998, ndr), riusciva a “rompere i coglioni” svelando gli intrecci tra mafia, massoneria e politica nel messinese e in quella Barcellona Pozzo di Gotto che da sempre è teatro di trame oscure.

Le prime denunce giornalistiche su abusi, inadempienze, sprechi della pubblica amministrazione erano state compiute attraverso le antenne barcellonesi di Telenews, emittente tv rilevata nel ‘90 dall’amico d’infanzia Antonio Mazza, quindi aveva proseguito collaborando con il quotidiano “La Sicilia”. Nelle sue indagini si era occupato anche di un traffico internazionale di armi che passava nell’area di Messina oltre a numerosi articoli di denuncia sugli intrecci tra criminalità organizzata e politica inquinata.

La notte dell’8 gennaio 1993 venne colpito mortalmente da tre proiettili mentre si trovava fermo alla guida della sua Renault 9 a Barcellona Pozzo di Gotto.
Nonostante le indagini e ben quattro processi su questo delitto non è ancora stata fatta piena luce.

All’inizio si diffuse la voce che fosse stato ucciso per questioni di gioco, o forse passionali. Il processo per la morte del giornalista iniziò nel 1995: imputati erano Antonino Mostaccio, ex presidente dell’Aias, e il boss Giuseppe Gullotti, presunti mandanti. Insieme a loro Antonino Merlino, accusato di aver eseguito il delitto. Quest’ultimo fu condannato a ventun anni e sei mesi di reclusione, mentre i primi due vennero assolti. Al processo d’Appello la condanna a Merlino venne confermata, ma a questa si aggiunse quella a Gullotti (a trent’anni) con la matrice mafiosa dell’omicidio che venne comunque riconosciuta. Negli anni scorsi, però, con le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico, ex killer di Barcellona Pozzo di Gotto, il caso è stato riaperto alla ricerca dei mandanti esterni e per scoprire la verità sul depistaggio che si è consumato nel tempo.

“…Mio fratello Carmelo, dopo che uscì dal carcere nel 1995, a seguito del triplice omicidio Raimondo-Geraci-Martino, mi disse che quell’omicidio non era stato commesso da Antonino Merlino, che dunque era stato arrestato un innocente e che l’esecutore materiale di quel fatto di sangue era stato, in realtà, Stefano Genovese” ha detto D’Amico ai pm. Poi ha aggiunto: “Mio fratello Carmelo non mi disse come fosse venuto a sapere queste circostanze. Per l’omicidio Alfano furono arrestati Merlino e Pippo Gullotti ma mentre Merlino non c’entrava niente, era coinvolto in pieno Gullotti… Mi pare di ricordare che Carmelo mi disse anche che all’omicidio Alfano aveva partecipato tale Basilio Condipodero, soggetto anche lui affiliato ai barcellonesi. Specifico però che non sono sicuro che mio fratello mi abbia riferito di tali circostanze. Mi pare di ricordare che la partecipazione di Condipodero all’omicidio Alfano me l’abbia riferita qualcun altro, ma in questo momento non ricordo chi”. L’inchiesta ter, dunque vede indagate almeno due persone, anche se sull’intera inchiesta vige ancora oggi il massimo riserbo.

Dopo tanti anni è ancora avvolto nel mistero il movente per cui il giornalista fu ucciso. Ai familiari, verso la fine del 1992, disse: “Ormai è soltanto questione di giorni. Non mi hanno ucciso a dicembre, lo faranno prima della festa di San Sebastiano (il 20 gennaio, ndr)”. Perché si era convinto di questo?

Resta in primo piano la vicenda della mancata cattura del boss Nitto Santapaola a Terme Vigliatore, con il boss catanese che avrebbe trascorso l’ultima fase della sua latitanza proprio nel messinese.

Di questo aspetto Alfano sarebbe venuto a conoscenza e, secondo quanto sostenuto dalla figlia Sonia Alfano, il padre venne ucciso proprio per aver rivelato al pm Olindo Canali la presenza di Santapaola a Barcellona. Sempre la Alfano ha raccontato di documenti spariti riguardanti traffici di armi e uranio sui quali il padre stava indagando.

“Quegli appunti – ha ricordato in più occasioni – sono spariti da casa la sera stessa dell’omicidio, dopo la perquisizione delle forze dell’ordine. Alle 22.45 dell’8 gennaio 1993 piombarono a casa nostra oltre 50 agenti di vari corpi che portarono via numerose carte ed effetti personali, ma non tutto ci è stato restituito. Tante cose, anzi, non sono state neanche verbalizzate”.

Tra i buchi neri ancora irrisolti, vi è inoltre il mistero della Colt 22, l’arma usata per l’omicidio, mai sottoposta a perizia balistica, le cui tracce sono state scoperte dall’avvocato Fabio Repici, legale della famiglia Alfano. In un verbale del 28 gennaio ’93, acquisito agli atti del processo, veniva riportato che 20 giorni dopo l’assassinio di Alfano Olindo Canali, titolare dell’inchiesta, aveva scoperto che l’imprenditore Mario Imbesi possedeva una Calibro 22 e se l’era fatta consegnare, con un iter quantomeno insolito. Il magistrato, infatti, invece di sequestrare l’arma, aveva atteso un’ora e mezza che l’imprenditore fosse andato a casa a prelevare la pistola per poi prenderla in consegna.

Dopo otto giorni, il 5 febbraio, il revolver era stato restituito al proprietario, ma agli atti del processo non risulta alcuna perizia balistica sull’arma. Solo diciassette anni dopo la morte di Alfano, nel 2011, la Scientifica dimostrerà che quell’arma, con l’omicidio del cronista, non c’entra niente. E’ sempre l’avvocato Repici a scoprire però l’esistenza di un’altra Colt 22 nella disponibilità di Imbesi. Quest’altra arma sarebbe stata ceduta nel ’79 a Franco Carlo Mariani, fermato nel 1984 in quanto coinvolto in un’indagine sulle bische clandestine.

Insieme a Mariani, viene arrestato anche Rosario Pio Cattafi (finora solo sfiorato dalla pista investigativa del delitto Alfano) condannato in primo grado a 12 anni per associazione mafiosa e considerato anello di congiunzione tra mafia, massoneria e servizi segreti), accusato dal pm di Barcellona Francesco Di Maggio (ex vice capo del Dap, ritenuto tra i personaggi chiave della trattativa e uno dei principali artefici, nel ‘93, della revoca del carcere duro a oltre 300 mafiosi) affiancato da Olindo Canali, al tempo uditore e che diventerà in seguito pubblico ministero al processo Alfano.

Canali, dopo aver restituito la prima pistola a Imbesi, si recò a Roma per incontrare Di Maggio. La sua partecipazione ad incontri sul delitto Alfano, quando ancora ricopriva l’incarico di funzionario Onu a Vienna, sarebbe stata giustificata dall’aver svolto indagini che coinvolgevano “soggetti barcellonesi trasferiti a Milano e coinvolti in traffici di armi”. Secondo la ricostruzione di Repici, che insiste proprio sulla centralità della pista della Colt 22, questa descrizione calzerebbe perfettamente al profilo di Cattafi e nei mesi scorsi lo stesso legale ha chiesto alla Procura di Messina di appurare se la pistola sia in qualche modo arrivata a Cattafi, o se sia stata effettivamente usata per l’attentato al giornalista. La speranza è che presto si possa finalmente far piena luce anche su questo delitto.

 

 

Fonte:  antimafiaduemila.com
Articolo del 30 luglio 2019
Omicidio Alfano: processo di revisione per Gullotti, mandante del delitto
di Antonella Beccaria
Clamorosa decisione della Corte d’Appello di Reggio Calabria

Nessun filtro di ammissibilità, ma si passa direttamente al giudizio. Accade a Reggio Calabria, dove il prossimo 10 ottobre prenderà il via un clamoroso processo di revisione per Giuseppe Gullotti, condannato in via definitiva il 22 marzo 1999 a 30 anni come mandante dell’omicidio di Beppe Alfano, il giornalista (l’ultimo assassinato in Italia) falciato l’8 gennaio 1993 da tre proiettili calibro 22 a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina. A comunicarlo è stato il presidente della prima sezione penale della Corte d’appello calabrese, Filippo Leonardo, con un decreto notificato a difensori e parti civili lo scorso 10 maggio. Decreto dal quale si viene a sapere che il 7 gennaio 2016, a ridosso del ventitreesimo anniversario dell’omicidio, il legale di Gullotti, l’avvocato Tommaso Autru Ryolo, aveva proposto l’istanza.

Sulle tracce di Santapaola
Beppe Alfano, ucciso a 47 anni compiuti un paio di mesi prima, divideva la sua vita tra l’insegnamento e il giornalismo. Un giornalismo scomodo, che non esitava a scavare in storie di mafia e malaffare del messinese. Lo dimostrano articoli come quelli in cui il collaboratore del quotidiano La Sicilia faceva emergere interessi politico-criminali intorno alla sede di Milazzo dell’Aias (Associazione italiana assistenza spastici) e al villaggio turistico di Portorosa per la cui realizzazione sarebbero stati impiegati capitali delle cosche palermitane e che sarebbe servito per il transito di armi e di stupefacenti. Inoltre alcuni degli appunti sequestrati dopo il delitto – e mai restituiti alla famiglia, come ha più volte denunciato la figlia, Sonia Alfano – testimoniano che il giornalista seguisse piste che conducevano verso traffici di uranio dai Paesi dell’ex Patto di Varsavia.
Ma negli ultimi mesi di vita il vero pallino di Beppe Alfano fu la presenza del boss catanese Nitto Santapaola nel barcellonese, sotto la protezione dello stesso Gullotti. Che il cronista fosse sulle tracce del mafioso latitante è fuor di dubbio perché ne parlò anche al sostituto procuratore Olindo Canali, magistrato lombardo arrivato alla procura di Barcellona Pozzo di Gotto nel 1992 e con cui il giornalista aveva stretto una frequentazione quasi quotidiana.
Prima di morire, disse infatti al pm – secondo un memoriale scritto proprio da Canali nel 2006 e oggi alla base dell’istanza di revisione – che nel giro di breve “mi avrebbe detto esattamente dove si trovasse Santapaola”. Tuttavia un’affermazione del genere non fu sufficiente per far partire sul momento un’indagine e pochi giorni dopo Alfano venne assassinato prima di poter indicare con precisione il covo del mafioso.

Le accuse all’ex pm
Canali – tornato anni dopo a Milano e di recente destinatario di un avviso di conclusione indagini per corruzione in atti giudiziari per favorire Cosa nostra tra l’altro proprio con il memoriale del 2006 – fu anche il pubblico ministero che rappresentò l’accusa nel processo per il delitto Alfano. In quella veste, non contestò agli imputati l’aggravante della premeditazione e così per Gullotti giunse una condanna a 30 anni invece che all’ergastolo.
Ma perché quel memoriale adesso rischia di farlo finire a processo dopo un’indagine condotta dal procuratore capo e dal procuratore aggiunto della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, Giovanni Bombardieri e Gaetano Paci? In quelle pagine avrebbe cercato di scagionare – a pagamento, sostengono i pm reggini – Giuseppe Gullotti dalle accuse mossegli in un altro processo, noto come Mare Nostrum, sollevando dubbi anche sulle sue responsabilità nel delitto Alfano, responsabilità che pure aveva sostenuto in fase di indagine e in aula nelle vesti di sostituto procuratore. E destinatario di un ulteriore salvataggio sarebbe stato anche un altro uomo, Carmelo D’Amico, mafioso poi pentitosi, accusato di un triplice omicidio.
Dunque Gullotti, per la Dda calabrese, deve essere giudicato con Canali principalmente sulla base dello scritto di quest’ultimo mentre per quello stesso scritto, che non aggiunge sostanziali novità rispetto a quanto già ricostruito in passato, la Corte d’Appello della stessa città ha fissato il processo di revisione che, negli intenti della difesa, mira ad abbattere la condanna per l’omicidio di Beppe Alfano.
Infine, c’è un’altra particolarità della vicenda che desta scalpore. L’istanza di Gullotti fa riferimento anche al lavoro svolto dalla difesa del suo coimputato nel delitto Alfano, Antonino Merlino, condannato dopo un tortuoso iter giudiziario a 21 anni e sei mesi di reclusione come esecutore materiale. Quel lavoro, in passato, aveva dato l’abbrivio a un’altra istanza di revisione, stavolta per lo stesso Merlino. In essa, si riportavano anche le dichiarazioni di D’Amico, che indicava altri killer. Ma nel caso del carpentiere non c’era stato nulla da fare. L’istanza era stata respinta e Merlino è rimasto, nella sentenza passata in giudicato, il sicario del giornalista.
“Davanti a vicende così scandalose”, afferma Fabio Repici, avvocato della famiglia Alfano, “sono davvero curioso di vedere fino a quando si protrarrà il silenzio complice delle istituzioni politiche e dei grandi organi di informazione”.

 

 

Fonte: antimafiaduemila.com
Articolo del 11 ottobre 2019
Omicidio Beppe Alfano, la famiglia si oppone alla richiesta di archiviazione
di Aaron Pettinari
Il prossimo 28 novembre l’udienza davanti al Gip

Lo scorso luglio la Procura di Messina aveva chiesto l’archiviazione dell’inchiesta “ter” sull’omicidio del giornalista Beppe Alfano, ucciso da Cosa nostra barcellonese l’8 febbraio del 1993.

Per quel delitto sono già stati condannati in via definitiva un mandante e un killer, il boss Giuseppe Gullotti e il camionista Antonino Merlino. Dopo le dichiarazioni di pentiti nel registro degli indagati sono iscritti Stefano Genovese e Basilio Condipodero, indicati dal collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico di essere stati il sicario ed il basista dell’omicidio.

“…Mio fratello Carmelo, dopo che uscì dal carcere nel 1995, a seguito del triplice omicidio Raimondo-Geraci-Martino,mi disse che quell’omicidio non era stato commesso da Antonino Merlino, che dunque era stato arrestato un innocente e che l’esecutore materiale di quel fatto di sangue era stato, in realtà, Stefano Genovese” aveva detto D’Amico ai pm; per poi aggiungere: “Mio fratello Carmelo non mi disse come fosse venuto a sapere queste circostanze. Per l’omicidio Alfano furono arrestati Merlino e Pippo Gullotti ma mentre Merlino non c’entrava niente, era coinvolto in pieno Gullotti… Mi pare di ricordare che Carmelo mi disse anche che all’omicidio Alfano aveva partecipato tale Basilio Condipodero, soggetto anche lui affiliato ai barcellonesi. Specifico però che non sono sicuro che mio fratello mi abbia riferito di tali circostanze. Mi pare di ricordare che la partecipazione di Condipodero all’omicidio Alfano me l’abbia riferita qualcun altro, ma in questo momento non ricordo chi”.

Adesso la famiglia Alfano, opponendosi alla richiesta di archiviazione dei magistrati tramite il legale Fabio Repici, chiede proprio di approfondire ulteriormente proprio le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia partendo proprio da D’Amico. A parlarne è la Gazzetta del Sud. Altri temi da approfondire, secondo il legale, i punti oscuri presenti dietro la latitanza del boss catanese Nitto Santapaola nelle zone di Barcellona Pozzo di Gotto ed il depistaggio che nel corso degli anni si sono consumati sulle indagini dell’omicidio. Secondo Repici “l’omicidio Alfano è stato il crimine sul quale maggiormente gli organi istituzionali hanno mostrato il loro volto peggiore, con la commissione di sconvolgenti omissioni e veri e propri depistaggi”.

Nella premessa all’atto di opposizione all’archiviazione Repici evidenzia proprio come “le indagini furono caratterizzate nell’immediatezza da un clamoroso depistaggio: il dr. Canali, pmprocedente fin da subito, aveva saputo dal giornalista Alfano delle sue certezze sulla presenza del latitante Santapaola nel barcellonese, eppure dal momento dell’omicidio occultò tale sua consapevolezza e si impegnò in ogni modo a tenere fuori dal fascicolo ogni spunto che potesse imporre la necessità di far accertamenti su quella presenza. Al riguardo occorre dire che le risultanze oggi presenti in atti, dimostrano come la presenza di Santapaola nel barcellonese fosse stata appurata non solo da Alfano ma anche da organi investigativi e di intelligence fin da epoca precedente all’omicidio Alfano, eppure non ne era mai stata lasciata traccia nel fascicolo relativo all’omicidio Alfano”.

E poi ancora: “Sul punto occorre ancora sottolineare come la richiesta di archiviazione, lealmente, per l’ennesima volta ha dovuto riconoscere come gli spunti e le sollecitazioni offerti personalmente da Sonia Alfanoe dal sottoscritto difensore sono stati tutti particolarmente appropriati e rilevanti e oggi potremmo dire perfino profetici”.
Adesso il prossimo 28 novembre il Gip di Messina dovrà valutare tutti gli elementi e decidere ancora una volta sul caso dopo che già in due precedenti occasioni si era espresso ordinando nuove indagini.
Nella richiesta di archiviazione, siglata dal procuratore aggiunto Vito Di Giorgio e dal Procuratore capo Maurizio De Lucia, erano emersi elementi nuovi.

Ricostruendo il contesto della latitanza del boss catanese Nitto Santapaola nel barcellonese (la stessa Procura parla di “punti di contatto” tra la latitanza del capomafia e l’omicidio del giornalista) si faceva riferimento alle testimonianze di un ispettore di polizia che confermerebbe la presenza del boss Nitto Santapaola, durante la latitanza, a Terme Vigliatore e Portorosa tra il 1992 ed il 1993, con il forte interesse dello Sco e del Sisde, e quella di una donna che sarebbe stata “amante” del capomafia catanese.

Tra le questioni “irrisolte” vi è quella sparizione di documenti sul traffico d’armi e di uranio di cui ha sempre parlato la figlia di Alfano, Sonia. “Quegli appunti – ha ricordato in più occasioni – sono spariti da casa la sera stessa dell’omicidio, dopo la perquisizione delle forze dell’ordine. Alle 22.45 dell’8 gennaio 1993 piombarono a casa nostra oltre 50 agenti di vari corpi che portarono via numerose carte ed effetti personali, ma non tutto ci è stato restituito. Tante cose, anzi, non sono state neanche verbalizzate”.
E poi ancora la vicenda della pistola Colt 22, mai sottoposta a perizia balistica, le cui tracce sono state scoperte dall’avvocato Fabio Repici.

A rendere ancora più ingarbugliato il caso la richiesta di revisione del processo presentata da Gullotti nel 2016, accolta lo scorso luglio dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria, nonostante nei suoi confronti è aperto un fascicolo a Reggio Calabria dove è indagato assieme all’ex pm Canali (accusato per corruzione in atti giudiziari per favorire Cosa nostra). Due procedimenti distinti che di fatto si basano sul memoriale scritto proprio da Canali nel 2006 in cui, secondo gli inquirenti, avrebbe cercato di scagionare Giuseppe Gullotti dalle accuse mossegli in un altro processo, noto come Mare Nostrum, sollevando dubbi anche sulle sue responsabilità nel delitto Alfano, responsabilità che pure aveva sostenuto in fase di indagine e in aula nelle vesti di sostituto procuratore pur non contestando l’aggravante della premeditazione (così per Gullotti giunse una condanna a 30 anni invece che all’ergastolo, ndr).

Vicende che si intrecciano e che, a ventisei anni di distanza dal delitto, rendono ancora una volta manifesto l’alone di mistero che si sviluppa dietro il delitto Alfano. La speranza è che il Gip non sancisca la parola fine alla possibilità di far piena luce sullo stesso.

 

 

 

Fonte:  milano.corriere.it
Articolo dell’ 8 novembre 2019
«L’omicidio Alfano, così quel giudice ha protetto il boss»
di Luigi Ferrarella
Olindo Canali, oggi in servizio a Milano, è accusato di «corruzione in atti giudiziari». I pm: «Deve andare a processo». Lui: «Niente prescrizione»

Milano – Per i pm che lo accusano è un giudice (oggi in servizio a Milano) che da pm in Sicilia si fece corrompere per proteggere due triplici killer e il boss mafioso mandante del delitto del giornalista Beppe Alfano. Per la difesa è invece un giudice che rinuncia alla prescrizione e chiede un processo-lampo sulle accuse false e tardive (oltre i 180 giorni) di un collaboratore di giustizia che riferisce parole di un morto su fatti di 19 e 11 anni fa. Il risultato attuale è che la Procura di Reggio Calabria chiede il rinvio a giudizio di un giudice civile molto stimato dai colleghi milanesi, Olindo Canali, per due ipotesi di «corruzioni in atti giudiziari» aggravate dall’aver agevolato il clan mafioso di Barcellona Pozzo di Gotto del boss Giuseppe Gullotti quando là a fine anni ‘90 Canali era pm.

Dopo che Canali chiese la condanna a 30 anni di Carmelo D’Amico e Salvatore Micale per un triplice omicidio del 1993 ma gli imputati furono assolti in primo grado il 20 novembre 1999, l’assoluzione divenne definitiva perché il pm depositò l’appello non entro il termine del 3 aprile 2000 ma il 7 aprile (pur con data 3 aprile), e poi il 14 aprile vi rinunciò «per errore di calcolo». Ora la Procura di Reggio Calabria, sulla scorta di dichiarazioni nel 2015 proprio di D’Amico divenuto collaboratore nel 2014, collega l’errore a «100 milioni di lire promessi a Canali», che così si sarebbe «adoperato per condizionare l’esito del processo». Il giudice ribatte che l’appello in ritardo fu davvero un errore; che nemmeno pg e parti civili appellarono; che i capi, pur se non lo ricordano, erano informati; e che è contraddittorio che D’Amico racconti anche d’aver nel 2002 cercato un modo per ricattare il pm se già nel 2000 l’aveva comprato.

Per l’omicidio del giornalista Beppe Alfano l’8 gennaio del 1993, dopo un’iniziale assoluzione, su ricorso di Canali furono poi condannati in via definitiva i ritenuti esecutore Nino Merlino (21 anni) e mandante Giuseppe Gullotti (30 anni). Il 9 marzo 2009, nel processo d’appello «Mare Nostrum» per associazione, l’avvocato di Gullotti, Franco Bertolone, depositò un anonimo che disse trovato nella posta, e che additava la condanna di Gullotti ingiusta e meritevole di revisione. L’aveva redatto nel 2006 proprio Canali, il quale per i pm reggini lo «inviò il 9 gennaio 2006 all’avvocato Fabio Repici» (parte civile per la figlia di Alfano, Sonia) e «l’11 gennaio al giornalista Leonardo Orlando», dicendogli di renderlo pubblico in caso di arresto: timore del pm, all’epoca, per le polemiche sulla sua frequentazione del medico Salvatore Rugolo, consulente giudiziario ma figlio del boss barcellonese e cognato del capomafia Gullotti. Dopo 2 anni Repici nel 2008 depositò lo scritto ai pm di Messina, ai quali in dicembre Canali ne ammise la paternità. Poi in aula lo tirò fuori pure il legale di Gullotti, Canali fu chiamato teste il 15 aprile 2009, lo spiegò come momento di sconforto e isolamento, fu denunciato da Repici per falsa testimonianza, condannato in primo grado a 2 anni ma assolto in via definitiva a Messina nel 2013 «perché il fatto non sussiste».

Adesso l’accusa stilata dal procuratore aggiunto reggino Gaetano Paci è che Canali abbia scritto il memoriale (pervenuto non si sa come anche al legale di Gullotti che l’utilizzò per cercare di ottenere la revisione della condanna definitiva del boss) in cambio del denaro («50.000 euro» su «300.000 promessi») che il collaboratore D’Amico asserisce d’aver consegnato nel 2008 a Rugolo intermediario di Gullotti. Rugolo non può confermare perché è morto il 26 ottobre 2008, ma l’accusa valorizza «le espresse indicazioni fornite da Gullotti mediante la corrispondenza epistolare con la sorella Fortunata dal carcere di Cuneo» (in regime di 41 bis) in 7 lettere tra giugno e dicembre 2008, specie nella frase «si devono portare i soldi» a un legale. I difensori Francesco Arata e Ugo Colonna obiettano che Canali già dal 2005 non aveva più con Rugolo i rapporti iniziati solo nel 2001; che nel 2006 Gullotti denunciò Canali incolpandolo della propria condanna; e che tutti i conti bancari forniti dal giudice provano la liceità dei soldi usati per una casa. Inoltre la difesa, in forza di relazioni del Dap-Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, segnala ai pm che l’avvocato di parte civile Repici, come assistente dell’allora parlamentare Sonia Alfano, nel 2012 sia entrato in carcere con lei e con il senatore Beppe Lumìa a colloquio con il boss Gullotti proprio anche sul processo.

 

 

 

Fonte:  agi.it
Articolo del 8 novembre 2019
“Troppe cose non tornano nell’uccisione di mio padre”. Parla Sonia Alfano
di Luisa Berti
La rabbia, lo sgomento, ma allo stesso tempo la forza, la determinazione e la speranza di raggiungere, seppur dopo 26 anni, la verità sull’omicidio in un’intervista all’AGI

A 26 anni dall’omicidio di Beppe Alfano, sono ancora tanti i nodi da sciogliere su cosa si nasconde dietro l’uccisione del giornalista, avvenuta nella notte dell’8 gennaio 1993. Tra accuse di depistaggi e revisione del processo che ha condannato in via definitiva come mandante il boss Giuseppe Gullotti, la vicenda resta aperta, soprattutto dopo il rinvio a giudizio da parte della procura di Reggio Calabria dell’ex pm Olindo Canali per corruzione in atti giudiziari.

La rabbia, lo sgomento, ma allo stesso tempo la forza, la determinazione e la speranza di raggiungere, seppur dopo tanti anni, la verità sull’omicidio del padre si celano dietro le parole di Sonia Alfano, che in un’intervista rilasciata all’AGI ha raccontato tutto quello che, secondo lei, non è ancora chiaro.

“Canali considerava mio padre un amico”, ha detto, “era una persona cui aveva raccontato tanto, anche in mia presenza, perché si occupava anche di cronaca giudiziaria ed era considerato come la memoria storica di Barcellona Pozzo di Gotto. Nonostante tutto questo Canali – ha sottolineato Sonia Alfano – ha coordinato le indagini, e non avrebbe potuto farlo proprio perché conosceva la vittima. Ha rappresentato l’accusa in primo grado, in maniera assolutamente inverosimile, e negli anni passati era anche stato accusato di false dichiarazioni rilasciate al pm. Poi grazie a scadenze di termini l’ha sempre passata liscia”.

La condotta dell’ex pm non ha mai convinto Sonia Alfano che non ha mancato di raccontare che proprio in questi giorni l’avvocato di famiglia, Fabio Repici, “ha depositato una corposa memoria, con la quale documentalmente vengono descritti gli innumerevoli depistaggi che sono stati adoperati da Olindo Canali, il quale chiaramente non ha agito da solo, ma con la complicità di apparati istituzionali deviati con cui lui era in contatto. Di tutto questo – ha sottolineato – ne ho ampiamente parlato con il pm di Messina e sono fatti confermati anche da diversi pentiti”.

Ma a preoccupare l’ex presidente della commissione speciale Antimafia europea è anche la disposizione, avvenuta ad aprile scorso, da parte del tribunale di Reggio Calabria di revisione del processo a carico del mandante dell’omicidio Giuseppe Gullotti.

“Ciò che è strano – ha detto – è che questa revisione è stata disposta senza passare dal vaglio di ammissibilità. Per revisionare una sentenza definitiva ci devono essere nuovi elementi, nuove prove, che prima hanno bisogno di un vaglio e solo se vengono ritenute valide e tali da dare un contributo utile si dispone la revisione. In tale circostanza tutto questo non c’è stato ed è l’unico caso nella storia della giustizia italiana”.

Un fatto quest’ultimo che porta Sonia Alfano a fare un collegamento con una dichiarazione del pentito Carmelo D’Amico di qualche anno fa. “Casualmente – ha fatto notare con tono ironico – il pentito D’Amico aveva fatto riferimento a Gullotti e Canali parlando di una riduzione di pena a favore del primo in cambio di un corrispettivo di 50 mila euro. Guarda caso arriva la revisione del processo. È chiaro che io e la mia famiglia siamo legittimati a costituirci parte civile e lo faremo, il 15 gennaio saremo presenti”.

Lo sgomento di Sonia Alfano riguarda anche l’Anm e il Csm. “Non possono continuare a tacere, visto che nei confronti di Luca Palamara sono stati adottati dei provvedimenti molto seri per ipotesi di reato minori rispetto a questi. Mi chiedo, inoltre, per quanti decenni ancora la politica e le istituzioni intendono dimenticare e far finta di non sapere che a Barcellona Pozzo di Gotto c’è ancora tutt’oggi un capomafia libero che si chiama Rosario Cattafi e per quanto tempo la politica intende continuare a mettere la testa sotto la sabbia davanti ai depistaggi sulla indagini per l’omicidio di mio padre”.

Infine ha lanciato un appello alla politica e al mondo delle istituzioni. “Dovremmo mettere i partiti con le spalle al muro e costringerli a inserire – ha concluso – la lotta alla mafia, la lotta alla corruzione e al riciclaggio nella loro agenda politica. Nessun partito e nessun movimento fanno questo, viene dimostrato con i fatti quotidianamente”.

 

 

Fonte: antimafiaduemila.com
Articolo del 8 gennaio 2020
Beppe Alfano: la storia di una “penna dissidente”
di Karim El Sadi
A 27 anni di distanza permangono misteri sulla morte del giornalista siciliano

Ventisette anni fa a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, veniva fermata per sempre una “penna dissidente”. Quella di Beppe Alfano. Un giornalista che amava tanto la verità quanto sua figlia Sonia, che negli anni ne ha raccolto il testimone intraprendendo, anche lei, una lotta intensa contro la mafia. Alfano era considerato un giornalista controcorrente a partire dalla sua idea di politica. A differenza di molti dei suoi colleghi non si rispecchiava nei principi socialisti o comunisti, ma si identificava maggiormente nella linea di pensiero di destra, sfatando così quel mito che vorrebbe gli eroi dell’antimafia schierati solo a sinistra. Beppe Alfano non aveva neanche il tesserino da giornalista il giorno che è stato ucciso (non si iscrisse mai all’Ordine), come a voler dimostrare, senza presunzione, che per denunciare il crimine organizzato non servono né titoli né targhette. Basta la forza di volontà e l’amore per la verità. Una verità che ancora oggi fatica ad arrivare.

Alfano venne assassinato la notte dell’8 gennaio del 1993. Stava rientrando a casa in Via Marconi dalla stazione quando alcuni uomini esplosero tre colpi di pistola calibro 22 alla testa e al torace mentre si trovava ancora a bordo della sua Renault 9 rossa. Poco prima dell’agguato all’angolo della strada vide qualcosa, si allontanò per poi tornare indietro dalla moglie e dirle di salire su in casa e chiudersi dentro. Appena entrata Mimma Barbaro informò la figlia, Sonia, dell’anomalo comportamento del padre. La ragazza, dopo aver tentato vanamente di contattarlo, chiamò al giornale La Sicilia dove Beppe Alfano lavorava, che al telefono le comunicarono la drammatica notizia.

Fin da subito, come spesso accade, iniziarono a palesarsi le prime millanterie che parlavano di gioco d’azzardo o motivi passionali come causa del delitto. La realtà che emerse solo a distanza di tempo inseriva invece l’omicidio in un contesto decisamente più serio e inquietante. Giorni prima dell’agguato Alfano ripeteva in maniera quasi ossessiva ai propri familiari un’orrenda convinzione: «Mi uccideranno prima del giorno di S. Sebastiano».

Il giornalista, già prima di iniziare la propria collaborazione nel 1991 con il quotidiano La Sicilia, aveva iniziato a denunciare abusi, inadempienze, sprechi della pubblica amministrazione attraverso le antenne barcellonesi di Telenews, emittente tv rilevata nel ‘90 dall’amico d’infanzia Antonio Mazza. Qui Alfano si occupava di cronaca, dirigeva i servizi giornalistici. Ma aveva anche scoperto gli scandali di un’associazione di assistenza dove gravitavano una serie di interessi politico-mafiosi, e indagava sulle logge di Messina e Barcellona, considerate vero e proprio feudo del clan catanese dei Santapaola già dalla fine degli anni Settanta. Insomma era iniziato a diventare scomodo per le sue inchieste giornalistiche e per quella capacità di saper riconoscere a distanza il puzzo del malaffare. Ma il vero motivo che portò Cosa nostra a mettere a tacere un altro giornalista siciliano, l’ottavo, ancora non è del tutto chiarito.

25 anni di processi ma la verità resta lontana
Il processo per la morte del cronista de La Sicilia iniziò nel 1995. Antonino Mostaccio, ex presidente dell’Aias, e il boss Giuseppe Gullotti erano accusati di essere i mandanti del delitto mentre Antonino Merlino era imputato per aver commesso l’omicidio. Quest’ultimo nel 2006 fu condannato a ventun anni e sei mesi di reclusione, mentre i primi due vennero assolti. Al processo d’Appello la condanna a Merlino venne confermata, ma a questa si aggiunse quella a Gullotti (a trent’anni) con la matrice mafiosa dell’omicidio che venne comunque riconosciuta. Negli anni scorsi, però, con le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Carmelo D’Amico, ex killer di Barcellona Pozzo di Gotto, il caso è stato riaperto per accertare l’intervento di possibili mandanti esterni e per scoprire la verità sul depistaggio che nel frattempo si era consumato. Le dichiarazioni di D’Amico fecero iscrivere nel registro degli indagati Stefano Genovese e Basilio Condipodero, indicati dal collaboratore di giustizia come il sicario ed il basista dell’omicidio.

«Mio fratello Carmelo – disse D’Amico ai pm – dopo che uscì dal carcere nel 1995, a seguito del triplice omicidio Raimondo-Geraci-Martino, mi rivelò che quell’omicidio non era stato commesso da Antonino Merlino, che dunque era stato arrestato un innocente e che l’esecutore materiale di quel fatto di sangue era stato, in realtà, Stefano Genovese». Poi aggiunse: «Mio fratello Carmelo non mi disse come fosse venuto a sapere queste circostanze. Per l’omicidio Alfano furono arrestati Merlino e Pippo Gullotti ma mentre Merlino non c’entrava niente, era coinvolto in pieno Gullotti… Mi pare di ricordare che Carmelo mi disse anche che all’omicidio Alfano aveva partecipato tale Basilio Condipodero, soggetto anche lui affiliato ai barcellonesi. Specifico però che non sono sicuro che mio fratello mi abbia riferito di tali circostanze. Mi pare di ricordare che la partecipazione di Condipodero all’omicidio Alfano me l’abbia riferita qualcun altro, ma in questo momento non ricordo chi».

L’inchiesta ter, dunque, vede indagate almeno due persone ma il Procuratore Vito Di Giorgio e Procuratore capo Maurizio De Lucia l’estate scorsa hanno chiesto al gip l’archiviazione. I giudici il 28 novembre 2019 hanno rinviato l’udienza camerale dopo che la famiglia Alfano assistita dall’avvocato Fabio Repici si era opposta a tale richiesta. Nel documento depositato al gip il legale ha inserito nuovi elementi investigativi che dovrebbero far luce sulla vicenda chiedendo di approfondire ulteriormente proprio le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia partendo da D’Amico. Secondo Repici il delitto rappresenta «il più grave dei crimini commessi a Barcellona Pozzo di Gotto da Cosa nostra». Non solo. «È questo il crimine sul quale maggiormente organi istituzionali hanno mostrato il loro volto peggiore, con la commissione di sconvolgenti omissioni e veri e propri depistaggi». Nella memoria depositata infatti – come ha riferito in un’intervista all’agenzia Agi Sonia Alfano – vengono «descritti documentalmente gli innumerevoli depistaggi che sono stati adoperati da Olindo Canali, il quale chiaramente non ha agito da solo, ma con la complicità di apparati istituzionali deviati con cui lui era in contatto».

Olindo Canali, oggi giudice del Tribunale di Milano nella sezione specializzata per l’immigrazione, è accusato di corruzione in atti giudiziari con l’aggravante, scrivono il procuratore della Repubblica, Giovanni Bombardieri, e l’aggiunto, Gaetano Paci, di aver commesso il fatto al fine di agevolare l’attività di Cosa nostra e in particolare della famiglia di Barcellona Pozzo di Gotto. Canali era l’autore di una lettera anonima presentata durante il processo Mare Nostrum. In quella lettera, oltre a venir screditato l’avvocato Fabio Repici, veniva esternato il dubbio che la persona condannata al processo per omicidio di Beppe Alfano, cioè Pippo Gullotti, non fosse il responsabile dubitando anche la validità delle indagini condotte da Canali stesso. Da quella missiva lo scorso luglio i giudici della corte d’Appello di Reggio Calabria hanno stabilito la revisione del processo proprio per Giuseppe Gullotti. Una decisione che Sonia Alfano ha descritto come un «caso unico della storia dell’ordinamento giudiziario».

Ombre e misteri
L’omicidio Alfano si inserisce nella lunga lista di delitti di mafia avvolti da misteri. Varie sono le trame mai chiarite intorno alla vicenda.
Diversi elementi emersi nelle indagini hanno evidenziato come Beppe Alfano sarebbe riuscito a venire a conoscenza della latitanza del capo mafia Nitto Santapaola nella sua Barcellona Pozzo di Gotto. Nella richiesta di archiviazione dell’inchiesta “ter” redatta dal procuratore aggiunto di Messina Vito Di Giorgio e dal Procuratore capo Maurizio De Lucia si legge che «gli accertamenti finalizzati a dimostrare un collegamento tra l’omicidio del giornalista Giuseppe Alfano e la latitanza di Nitto Santapaola nel barcellonese hanno messo in luce punti di contatto tra i due aspetti». Purtroppo, secondo gli inquirenti, nonostante gli elementi raccolti «non è possibile affermare con certezza che quelle indagini siano state la causa della sua morte; in ogni caso, anche a voler dare per accertato tale assunto, non si dispone di alcun elemento per individuare gli autori del fatto».

Secondo Sonia Alfano, invece, il padre venne ucciso proprio per aver scoperto la latitanza di Santapaola a Barcellona Pozzo di Gotto e quindi aver rivelato la cosa al pm Canali, che Alfano riteneva un amico. Sempre la Alfano ha raccontato di documenti riguardanti traffici di armi e uranio sui quali il padre stava indagando «spariti da casa la sera stessa dell’omicidio, dopo la perquisizione delle forze dell’ordine». In quell’occasione «alle 22.45 dell’8 gennaio 1993 piombarono a casa nostra oltre 50 agenti di vari corpi portarono via numerose carte ed effetti personali, ma non tutto ci è stato restituito. Tante cose, anzi, non sono state neanche verbalizzate». Tra i buchi neri irrisolti, anche il mistero della Colt 22, l’arma usata per l’omicidio mai sottoposta a perizia balistica, le cui tracce sono state scoperte dall’avvocato Fabio Repici, legale della famiglia del cronista. Su quest’arma si potrebbe aprire un vero e proprio “cold case”. L’ennesimo sul quale i famigliari del giornalista siciliano si vedono costretti a indagare per raggiungere quella giustizia e verità che da 27 anni continuano a non presentarsi.

 

 

 

Fonte:  telemessina.it
Articolo del 5 marzo 2020
Intitolata la nuova sala stampa della Regione al giornalista barcellonese Beppe Alfano
di Rossella Oliveri

A Palazzo Orleans, il governatore Nello Musumeci, ha inaugurato la nuova sala stampa intitolata a Beppe Alfano, 27 anni dopo il suo omicidio.
La sala stampa dispone di 36 posti e Musumeci spiega “Siamo contenti per il raggiungimento di una nuova tappa in termini di efficienza e di rispetto nei confronti degli operatori della comunicazione. Ci sembrava giusto allestire una sala per i giornalisti per potere continuare a lavorare con tutti i mezzi che la tecnologia offre”.

La scelta di intitolarla a Beppe Alfano è un chiaro segno di impegno nel voler sanare la Sicilia da questa piaga sociale e orribile marchio che è la mafia.
“Beppe era un mio amico – ha affermato Musumeci – a lui mi lega un ricordo particolarmente inteso: era un uomo, un marito e un padre straordinario”. Per il governatore “ci vorranno 10-15 anni per bonificare la pubblica amministrazione dalle scorie e dalle contaminazioni della mafia, nate nel ’43 come sostenne il presidente Alessi, con l’arrivo delle truppe angloamericane”.
Presenti all’inaugurazione la vedova Mimma Barbaro che ha scoperto la targa, e la figlia Sonia Alfano e i nipoti.

Beppe Alfano nato a Barcellona Pozzo di Gotto nel 1943, si è fatto strada nel mondo del giornalismo, soprattutto quello di inchiesta. Cominciò a collaborare con alcune radio provinciali, con l’emittente locale Radio Tele Mediterranea e fu corrispondente de La Sicilia di Catania. Divenne il “motore giornalistico” di due televisioni locali della zona di Barcellona Pozzo di Gotto, Canale 10 e poi Tele News, questa ultima di proprietà di Antonino Mazza, anch’egli ucciso dalla mafia.
Le sue inchieste sul quotidiano La Sicilia avevano rivelato gli intrecci tra mafia, imprenditoria e collusioni con la politica.

La notte dell’8 gennaio 1993 fu colpito da tre proiettili calibro 22 mentre era fermo alla guida della sua Renault 9 amaranto in via Marconi a Barcellona Pozzo di Gotto. A cento metri di distanza, nella vicina via Trento, una strada parallela, c’era la sua casa. I primi soccorritori lo trovarono con il capo riverso sul volante, ancora seduto al posto di guida dell’auto. Alla morte seguì un lungo processo, tuttora non concluso, che condannò un boss locale, Giuseppe Gullotti, per aver organizzato l’omicidio, lasciando ancora ignoti i veri mandanti e le circostanze che provocarono l’ordine di morte nei suoi confronti.
Uomo incorruttibile, giornalista col fiuto da investigatore e l’amore per la verità e l’onestà.

Pochi giorni prima di morire rifiutò del denaro offertogli per smettere di indagare sul caso di cui si stava occupando e che, se rifiutato, gli sarebbe costato la vita. Fu quindi un giornalista che non si poteva né comprare né intimidire, poteva essere solo eliminato e purtroppo così accadde 27 anni fa.
Intorno all’omicidio Alfano rimangono ancora molte ombre: indagini e perizie balistiche mai fatte, file cancellati – e poi riemersi – dal computer del giornalista che riguardano mafia e massoneria e gli affari di Santapaola nel nord Italia. L’inchiesta rimane ancora aperta e prima o poi troverà giustizia, in una Sicilia più onesta e libera.

 

 

 

Leggere anche:

 

 

antimafiaduemila.com
Articolo del 24 dicembre 2020
Omicidio Alfano, altri sei mesi d’indagine sui mandanti nell’inchiesta ter
di Aaron Pettinari

 

 

corriere.it/
Articolo del 24 dicembre 2020
A 28 anni dall’omicidio del cronista Beppe Alfano disposte nuove indagini a Messina per trovare tutti i mandanti
di Alessio Ribaudo
La Gip di Messina ha dato altri mesi di tempo ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia per scoprire possibili ulteriori mandanti del cronista ucciso dalla mafia nel 1993 a Barcellona Pozzo di Gotto, nel Messinese. Archiviazione per due indagati

 

 

Il mattino di Sicilia
Articolo del 7 gennaio 2021

Mafia, Beppe Alfano ucciso 28 anni fa: alla ricerca dei mandanti

 

 

tempostretto.it
28 anni fa l’omicidio di Beppe Alfano, famiglia spera nella perizia balistica
di Alessandra Serio

 

 

vivi.libera.it
Beppe Alfano
Il giornalismo era il modo in cui Beppe coltivava la sua passione profonda per la verità, che ha inseguito e raccontato pur non avendo avuto mai in tasca, se non dopo la morte, il tesserino di un Ordine al quale si è sempre polemicamente opposto.

 

 

Articolo del 7 gennaio 2022

Beppe Alfano, cronista di mafia, fu ucciso 29 anni fa. Disse alla figlia: non posso tacere

 

 

 

 

 

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *