Il Maxiprocesso a “cosa nostra”

 

Documentario sul Maxi Processo a Cosa Nostra
Maxiprocesso di Palermo contro “cosa nostra” con 468 imputati.

Iniziato il 10 Febbraio 1986, conclusosi il 16 Dicembre 1987, dopo 22 mesi di dibattimento nell’aula bunker, con 19 boss condannati all’ergastolo e 342 condanne a pene detentive.

 

 

 

Fonte palermowebnews.it

LIBRI: “Il maxiprocesso venticinque anni dopo”
di Alfonso Giordano
Il maxiprocesso venticinque anni dopo è il titolo del libro appena pubblicato da Bonanno Editore e scritto da un autore d’eccezione: Alfonso Giordano, il magistrato che è stato il presidente del primo, storico, maxiprocesso alla mafia, iniziato a Palermo nel febbraio del 1986 e terminato nel dicembre dell’anno successivo.

Un libro che, più che un saggio – come recita il sottotitolo – è un vero e proprio memoriale, scritto non da uno dei tanti, ma dal magistrato chiamato a condurre lo storico dibattimento che cambiò il volto della lotta alla mafia, infliggendo il primo duro colpo a Cosa nostra. In 340 pagine, il giudice mette in atto una minuziosa ricostruzione storica di fatti, circostanze e protagonisti del più importante processo a Cosa nostra, in cui finirono alla sbarra quasi cinquecento fra ‘padrini’ e killer mafiosi e che terminò con una raffica di ergastoli e complessivi 2665 anni di carcere, inflitti dalla Corte d’assiste presieduta da Giordano e con a latere il giudice Piero Grasso, oggi Procuratore Nazionale Antimafia. Numerosi gli episodi narrati nel libro. Fra questi, gli interrogatori dei pentiti numeri uno, i collaboratori di giustizia Totuccio Contorno e Tommaso Buscetta, quest’ultimo convinto a collaborare da Giovanni Falcone, attraverso un lavoro paziente e minuzioso che scoperchiò misteri e misfatti della cupola mafiosa. E non è un caso che il volume esca a vent’anni dalle stragi di mafia, da quegli orribili eccidi con i quali Cosa nostra assassinò i giudici Falcone e Borsellino, nel tentativo – estremo – di riportare indietro le lancette della storia e annullare gli sforzi che lo Stato, nel frattempo,  aveva fatto per combattere l’organizzazione criminale.

“Il lettore si chiederà perché io abbia tanto tardato un quarto di secolo a scrivere di un processo che tanto ha inciso sulla mia vita – sottolinea il giudice Alfonso Giordano -. Le cause sono state molteplici. La prima è certamente una crisi di rigetto nei confronti della materia che mi aveva costretto a uno studio quasi triennale, intervallato da un corredo di ansie, patemi, delusioni, terribili interrogativi, speranze e timori. Una seconda è la sensazione fortissima che il sacrificio non indifferente cui mi ero sottoposto col solo scopo di compiere il mio dovere non era stato convenientemente apprezzato nelle sfere che avrebbero avuto il dovere di tenerne conto. Infine, una terza, che il lavoro molteplice e vario della mia professione di giudice, non mi aveva dato il tempo di voltarmi indietro e di meditare su un passato allora molto più recente”.

“Solo adesso – prosegue il presidente Giordano – con lo scopo di contribuire all’esattezza storica dei fatti e non più oppresso dal riservo professionale, posso interloquire su alcuni episodi importanti di quel processo”.

E i fatti raccontati dal presidente Giordano sono tanti e circostanziati, alcuni dei quali – c’è da immaginare – in grado di suscitare dibattito fra quanti del maxiprocesso conoscono esclusivamente le “linee generali”.

 

 

Articolo da La Repubblica dell’11 Febbraio 1986
ORE 9.45: COMINCIA IL GRANDE PROCESSO
di Franco Coppola

PALERMO – Un primo, piccolo siluro per il Grande Processo. Anzi, più che un siluro, un petardo. Ma significativo, perchè potrebbe preludere a ben altro. L’ udienza di apertura, la più attesa, preceduta e accompagnata, tanto per cambiare, da voci allarmate e allarmanti (“una bomba verrà messa in una scuola elementare”, “c’ è una bomba a Palazzo di Giustizia”), si è dipanata secondo il rituale ampiamente previsto, scandito però dai tempi lunghissimi inevitabili in un maxiprocesso con 474 imputati. Solo che, mentre il presidente Giordano procedeva pazientemente alla costituzione delle parti, cioè all’ appello degli imputati, alla verifica dei loro difensori e, se necessario, alla nomina di avvocati d’ ufficio per chi ne era sprovvisto, ha chiesto e ottenuto la parola l’ unico pentito presente. E’ Salvatore Di Marco, ha 28 anni, venne arrestato dopo una rapina ad un treno a Ficarazzi. Cinque anni fa, ottocento milioni il bottino. In carcere s’ è pentito, ha accusato i Vernengo, una famiglia ben nota alle cronache palermitane, e altri personaggi della zona di Corso dei Mille. E’ uno dei 25 pentiti sui quali poggia l’ accusa. Ma ora ha fatto chiaramente intendere che, quando verrà interrogato, farà marcia indietro. Sta nella gabbia numero trenta, l’ ultima alla destra della Corte, separato dagli altri sessanta detenuti presenti da nove gabbie vuote. Si avvicina al microfono e dice: “Signor presidente, mi scusi l’ intromissione, sono più di due anni che vivo in carcere. Sono sempre stato in compagnia e non ho subito pressioni nè minacce. Chiedo di essere riammesso a vita comune e, se la Signoria vostra me lo concede, il trasferimento al carcere di Palermo”. Il messaggio è chiaro: Di Marco vuole dimostrare agli altri detenuti di non essere un infame, o per lo meno di avere intenzione di ritrattare. Se non è un siluro, ma un pressochè innocuo petardo contro il processo, lo si deve alla statura, tutto sommato mediobassa, del personaggio. Ma se altri pentiti, di ben altro calibro, avessero deciso di seguire la strada indicata da Di Marco? Nel pomeriggio, invece, a ravvivare l’ udienza penserà Luciano Liggio, il più celebre degli imputati presenti. Revoca il mandato ai suoi avvocati (ma lui parla di “sospendere i difensori”) per “andare incontro a tutti quei giureconsulti da corteo” secondo i quali i mafiosi non andrebbero difesi, precisa. Il presidente gli fa notare che la legge “impone una difesa tecnica”. “Mi meraviglio”, replica il boss dalla gabbia numero 23 “che la legge imponga questo perchè la stampa e illustri giuristi dicono il contrario”. Ma non ha finito: “Se permette”, aggiunge “vorrei chiederle di essere ammesso alla vita comune perchè non ho problemi con nessuno”. Per il resto, la giornata è dedicata ad uno stanco rituale, peraltro indispensabile: la costituzione delle parti. Si comincia alle 9,45, ma passerà un’ altra ora prima che l’ operazione possa prendere il via speditamente. Bisogna far giurare i giudici popolari, evitando però che si pubblicizzino i loro nomi. Sono in quaranta dietro il banco della corte, sei titolari, dieci supplenti, gli altri a disposizione. C’ è una lunga pausa durante la quale la Cancelleria identifica gli imputati liberi presenti. Costoro sono trentotto e siedono in un settore alla sinistra del pretorio. Più in là, altri dodici imputati, circondati dai carabinieri; sono una parte di quelli agli arresti domiciliari. Le gabbie affollate sono poche, solo quelle centrali. In una c’ è Luciano Liggio, da solo; in un’ altra, Pippo Calò, in compagnia di un secondo detenuto. Finalmente si comincia. La Corte è “lunghissima”. Da sinistra, due pubblici ministeri, Giuseppe Ayala e Domenico Signorino, che in seguito si alterneranno, ma che ora sono entrambi al loro posto; poi, tre giurati, due uomini e una donna: quindi, il giudice a latere supplente Antonio Prestipino, il giudice a latere titolare Pietro Grasso; al centro, il presidente Alfonso Giordano, alla sua sinistra il presidente supplente Claudio Dell’ Acqua, gli altri tre giurati, due donne e un uomo, due cancellieri. Per i togati supplenti è il battesimo: il decreto legge che ne istituzionalizza la presenza è di soli quattro giorni fa. La cerimonia del giuramento è insolitamente breve. I sedici cittadini si limitano a dire “lo giuro”, tutti insieme, e si prosegue con l’ appello degli imputati e dei difensori. “Abbate Giovanni?”, chiede il presidente. “Detenuto presente”, risponde il cancelliere. “Chi lo difende?”. L’ avvocato interessato aziona il microfono e si presenta. Si finirà a pomeriggio inoltrato. Nei microfoni risuonano i nomi degli imputati celebri, presenti, assenti, latitanti, e degli avvocati di grosso calibro, ognuno impegnato in difese plurime. Tra i detenuti che hanno preferito disertare almeno questa prima udienza Leoluca Bagarella, Giovanni Bontade, Ignazio Salvo, Francesco Bonura, il costruttore di Uditore assolto giorni fa dall’ accusa di aver partecipato a sei omicidi. L’ avvocato di Calò preannuncia che chiederà i “termini a difesa”, cioè una sospensione del processo per poter concertare col suo assistito la linea difensiva. Assenti tutti i grandi pentiti. Chiedono i detenuti; a nome di tutti parlano Giovanni Matranga e Salvatore Ercolano. Vorrebbero poter fumare, vorrebbero più acqua, vorrebbero non essere accecati dai riflettori. Oggi, toccherà alle parti lese costituirsi parte civile. Su molte costituzioni la difesa non è d’ accordo. Si preannuncia la prima udienza calda. In serata, al termine di una lunga camera di consiglio i giudici hanno deciso che Gaetano Badalamenti e altri 13 imputati saranno processati a parte.

 

 

Articolo da La Repubblica dell’11 Febbraio 1986

‘CONTRO I BOSS NON CI SON PROVE’ PARLANO GLI AVVOCATI DIFENSORI

di Attilio Bolzoni

PALERMO – La difesa è schierata. Pronta a continuare le dichiarazioni dei pentiti, smontare le “prove indirette”, rispondere alle accuse contenute nelle ottomila pagine dei giudici antimafia. Con le armi offerte dalla procedura penale ha aperto nell’ aula-bunker la sua battaglia. Una battaglia che si annuncia “storica” e che si gioca su due fronti: i pentiti e il 416 bis, il reato di associazione mafiosa. Quali sono le strategie difensive nel maxiprocesso a Cosa nostra? Come si muovono gli avvocati dei boss e dei trafficanti, dei killer e degli uomini d’ onore? La nostra breve inchiesta tra i “principi del foro” inizia sotto le mura dell’ Ucciardone nel giorno del processo del secolo. Un incontro con i penalisti di Palermo per capire gli orientamenti difensivi e raccogliere gli umori alla vigilia del grande scontro in aula. La parola d’ ordine è una sola: non sabotare il processo. Vogliono che si celebri e subito: non si opporranno alle costituzioni di parte civile, non solleveranno centinaia di eccezioni procedurali, nessun ostruzionismo. Una vera sorpresa, dopo settimane di polemiche, contrasti, manovre. “Malgrado tutti i tentivi di buttare fango sugli avvocati palermitani, malgrado i volgari attacchi subiti”, si sfoga Frino Restivo, vicepresidente della camera penale, “stiamo dimostrando un grande senso di responsabilità. Il dibattimento deve svolgersi sereno e veloce”. E’ un processo che vogliono proprio tutti: gli avvocati, i giudici dell’ antimafia, ma anche quei boss alla ricerca di nuovi equilibri. Da una parte uno Stato deciso a giudicare 474 imputati, dall’ altra un esercito di penalisti convinti che il vero processo debba ancora cominciare. Frino Restivo, difensore dell’ ex sindaco Vito Ciancimino, dei boss Francesco Madonia e Andrea Di Carlo, spiega sicuro: “Il nostro vero contraddittorio non è rappresentato dall’ istruttoria ma dal dibattimento. Ci sono decine, centinaia di rinviati a giudizio solo perchè sono “uomini d’ onore”. Noi chiediamo un processo con i riscontri. E poi ci sono i pentiti… i cosiddetti pentiti o confidenti. Sono testi che vengono valutati sulla base di quello che hanno detto: noi affronteremo questo problema nel momento della discussione sulla loro attendibilità”. I penalisti palermitani non si pronunciano ancora su una linea difensiva sui pentiti ma avvertono: “Questo processo tra dieci anni sarà sotto processo”. Tutti concordano su un punto e non lo nascondono: avrebbero preferito dieci processi con quaranta imputati piuttosto che uno solo con 400. Un grande problema tecnico che spingerà alla richiesta di nuovi “stralci”. E’ un altro preciso obiettivo della difesa: ridurre il numero degli imputati. Perchè? “Per molti”, conferma l’ avvocato Nino Mormino, una ventina di clienti equamente divisi tra le fila dei vincenti e dei perdenti, “chiederemo il rinvio a nuovo ruolo”. Perchè? C’ è una norma che vieta di processare due volte per lo stesso reato un imputato. E’ il caso del trafficante siculo-americano Paolo Alfano detto “Peter”, in carcere negli Usa perchè coinvolto nella “pizza connection”, dei Ferrara di Catania, dei boss Vincenzo Anselmo e Salvatore Adelfio, del capocosca Gaetano Badalamenti. L’ avvocato Mormino sui pentiti è categorico: “La parola pentito è una parola che io non uso mai. In fondo sono chiamate di correo, sono coimputati di reati connessi. E le loro dichiarazioni devono essere ancora controllate”. La difesa aspetta il momento più opportuno per lanciarsi contro il castello di accuse raccolte dai giudici, ma qualche avvocato già si sbilancia: “L’ ordinanza privilegia l’ aspetto investigativo, la sentenza dovrà invece privilegiare, con la prova, le garanzie giurisdizionali che lo Stato democratico assicura a tutti, indistintamente”. Marco Clementi, un giovane penalista che due anni fa difendeva gli imputati della strage Chinnici, ricorda proprio il lavoro istruttorio: “Adesso bisogna fare un’ istruttoria nuova, dove tutti possono presenziare”. E’ l’ avvocato di un paio di “corleonesi” e dei fratelli Enea: “Qualcuno credeva davvero che con le eccezioni procedurali si poteva cancellare l’ aula-bunker e tutto l’ impegno dello Stato in questo processo. Era semplicemente ridicolo. Però, vedrete, che questo processo riserverà grandi sorprese”. Si parla ancora dei pentiti, del nuovo reato associativo, della “cupola”, l’ organismo interprovinciale che secondo i magistrati avrebbe deciso la morte di 95 uomini. La difesa scatterà anche su questo fronte. Come condannare i componenti della “cupola” senza una sola prova diretta? La tesi degli avvocati dei boss: nessun delitto è attribuibile ad un imputato senza una prova della sua partecipazione e di un suo “concorso”. Il riferimento è preciso: l’ ultima sentenza di assoluzione dei giudici di Palermo per il costruttore Francesco Bonura accusato di sei omicidi. Giovanni Natoli, il legale di Giuseppe Spinoni (ricordate il falso supertestimone del caso Dalla Chiesa?), dei fratelli Sinagra, dei Ciulla, dei Pipitone, torna sulle rivelazioni di Tommaso Buscetta e di Salvatore Contorno: “Le loro confessioni non hanno valore senza riscontri. Sarò un garantista ma ci vogliono le prove”.

 

 

Articolo da L’Unità del 12 Febbraio 1986

La parola alle parti civili
«Così l’uccisero, era un buon figlio»

di Vincenzo Vasile

È andata avanti lentamente anche la seconda giornata del maxi-processo di Palermo
Entrano in scena le parti lese
La storia della signora Rugnetta che ebbe un figlio vittima della lupara bianca
Luciano Liggio cambia gabbia

PALERMO – «Come ha detto: ‘Buscetta’? No: Rugnetta» «Va be’, Rugnetta». E chi è Rugnetta Vita, questa anziana signora coi capelli bianchi che da un angolo dell’aula-bunker sfila con passetti brevi, senza guardar negli occhi né presidente, né giurati, né imputati? Né tanto meno noi, popolo dell’informazione, innervosito dal fatto che il Grande Processo ci scorre ancora lentissimo sotto gli occhi, senza che quassù, alla tribuna della stampa, per difetto d’acustica, riesca a giungere una frase completa, un’informazione chiara, dallo stanco rito preliminare.
Il presidente. Alfonso Giordano, ieri ha fatto per esempio leggere in aula tutto l’interminabile appello alfabetico dei 468 imputati residui dei 474 originari: in nottata, per un’ordinanza della corte, dopo le prime 14 ore, avevano lasciato infatti il processo (allo scopo di evitare prossime possibili «nullità ») 6 imputati detenuti tra l’America e l’Egitto. E tra essi il gran capo di Buscetta, «don» Tano Badalamenti. E poi, finalmente, «si è innestato», ma soltanto verso le 13, «il processo civile», ha spiegato il presidente in gergo.
Processo civile, che significa però una cosa notevole. Cioè che finalmente vengono introdotti nel processo e avranno la parola le «parti lese», che vogliono giustizia e verità, né «perdóno», né «vendetta », come hanno spiegato in una conferenza stampa collettiva. Genta colta, razionale, familiari di funzionari dello Stato caduti, coi volti segnati da lutti che sono stati anche lutti per la democrazia: Rosetta Giaccone, vedova del medico legale, i Dalla Chiesa, i Setti Carraro, i Giuliano.
Ma chi è Rugnetta Vita, che il suo avvocato tiene per mano, per farle firmare davanti al cancelliere la «procura»? Buscetta? «No, Rugnetta mi chiamo. Guardatevi le dichiarazioni del ‘pentito’* Sinagra». Sinagra? Quanti nomi. È quel «gregario» che stava sempre «a disposizione» davanti al bar di piazza Sant’Erasmo, pronto per barbare esecuzioni di cosca. E che, non avendo patente di guida — ha confessato — veniva utilizzato solo per omicidi in zona. Ma osservava in giro. Chiacchierava. E poi ha parlato, malgrado pressato in carcere per fingersi pazzo, di camere di tortura, raffinerie di droga, delitti grandi e piccoli. «Piccoli», come quello di Rugnetta Antonio, figlio della signora Vita.
Ma chi era Antonio, signora Rugnetta? «Antonio era un ragazzo educato. Io sono una madre addolorata che vuole giustizia. Era un ragazzo buono».
Era nato l’8 settembre del ’40. E l’8 settembre 1981, era domenica, uscì da casa senza farvi ritorno. Strozzato con un legaccio che gira attorno al collo, e poi alle mani, ai piedi. Sinagra ha precisato, puntiglioso, che non di autostrangolamento si tratta. Ma di un più «comodo» macabro mezzo di trasporto: come fanno i macellai coi capretti. E cosi incaprettarono Antonio.
E allora, perché svanì nel nulla suo figlio? «Dalla polizia non lo avevo mai saputo. Passarono gli anni. Poi, mesi fa, leggo il giornale “l’Ora” che pubblica i verbali di Sinagra». E Sinagra dice che quell’8 settembre vi fu un delitto mafioso di quelli piccoli, ma significativi. L’uccisione di uno «sconosciuto» ma che in qualche modo poteva sapere dove fosse fuggito il boss Totuccio Contorno. Sequestrato, interrogato, ucciso, strangolato. «Se lo fosse meritato… Ma era buono mio figlio. Dicono che l’ammazzarono perché sapeva. Ma si ammazza uno, solo perché sapeva?».
Piccola terribile storia, di un grande coraggio, Vita Rugnetta ci racconta (si è costituita parte civile, nonostante ben probabili minacce), mentre in aula l’avvocato Nino Morminoo spiega a sorpresa al presidente: «Vorrei informarla che la nostra camera penale ha deciso l’astensione dalle udienze. Però, precisiamo, le udienze che si svolgono nel Palazzo di Giustizia, non quelle di questo processo nell’aulabunker. Vogliamo rappresentare la gravità della situazione cui il maxi processo ci costringe: i problemi che si pongono per gli imputati dei procedimenti, diciamo così ordinari, che non si svolgono in quest’aula verde». Presidente: «Nelle aule grigie». Avvocato: «Sì, in quelle. E per senso di responsabilità siamo invece presenti qui, per consentire almeno l’abbrivio di questo procedimento».
Poi ci sono i segnali, ma solo segnali, di guerra. Giuncono attutiti: «L’Ora» informa che tutto attorno al bunker c’è una sventagliata di telefonate anonime che minacciano stragi. E l’altra sera Liggio con chi l’aveva quando ha parlato minaccioso di «giureconsulti da corteo»?
Per ora la Corte sdrammatizza: Liggio vuole anch’egli compagnia nel gabbione 22? Accordato. E don Masino Spadaro reclama che il figlio Nino (a piede libero) lo raggiunga nella cella accanto? La Corte lo accontenta.
Ma perché quel posto vuoto tra i giurati supplenti? Uno di essi ieri mattina ha guadagnato la prima fila, quella della giuria popolare nel processo, per sostituire un giudice che da Mazara del Vallo ha sbandierato per telefono un certificato di malattia. Vera? O falsa? Un medico della polizia con valigetta giura e parte. Intanto entra il nuovo giudice popolare. Alle 6 della sera, quando finisce la quarta udienza, le parti civili non sono state ancora ammesse. Sono una trentina i familiari che hanno sfilato davanti alla Corte. Basta l’elenco: la vedova Giuliano e suo fratello. La signora Giaccone e i suoi tre figli. I Dalla Chiesa e i Setti
Carraro, i parenti dei tre carabinieri uccisi assieme al boss Alfio Ferlito, Di Bara, Franzolin, Triari, sulla circonvallazione di Palermo. I parenti dell’autista della macchina a nolo affittata dallo Stato per quella «traduzione», Salvatore Di Lavore. L’intera famiglia del capitano Basile trucidato per aver indagato. L’avvocato Crisafulli si riserva una boutade. Annuncia di costituirsi per il nipote di Gaspare Pisciotta il braccio destro del bandito Giuliano negli anni SO contro Ignazio Salvo, definito «gabelliere di Stato».
Ma è ben più seria la novità delle istituzioni che non esitano a presentarsi per reclamar giustizia, Comune, Provincia, Regione, e poi con l’Avvocatura dello Stato, presidenza del Consiglio, ministeri della Difesa, Interni, Tesoro, Poste, l’ufficio cambi, l’Università. istituzioni che si trovano accanto alle sigle del Movimento contro la piovra, Coordinamento antimafia, a dell’Ambiente.
Se ne riparlerà da oggi alle 9,30. Gli altri difensori minacciano eccezioni. Con sei imputati in meno si risparmierà qualche minuto per il lungo appello.

 

 

Articolo da La Repubblica del 28 Febbraio 1986

‘ASCOLTIAMO QUI NEL BUNKER ANDREOTTI, FORMICA, SPADOLINI’

di Attilio Bolzoni

PALERMO – Aula-bunker, un paio di minuti dopo le dieci, la parola ad un giovane avvocato delle parti civili: “Il giudice istruttore afferma che è necessaria un’ indagine socio-politica del delitto… Non farla significherebbe non volere trovare i mandanti dell’ omicidio del generale”. Il maxi-processo a Cosa nostra è a una svolta importante. Francesco Caroleo Grimaldi, il legale della famiglia Setti Carraro, chiede alla Corte che sfilino nell’ aula-bunker i grandi personaggi del caso Dalla Chiesa. Gli onorevoli Giulio Andreotti e Virginio Rognoni, il senatore Spadolini, l’ eurodeputato Salvo Lima, il segretario generale della presidenza della Repubblica Antonio Maccanico. E ancora: l’ ex ministro delle Finanze Rino Formica, il direttore dell’ Unità Emanuele Macaluso, il capogruppo del Pci all’ assemblea regionale siciliana Michelangelo Russo. Chiude l’ elenco Giovanna Aietta, una giornalista del “Manifesto”. Per l’ avvocato sono tutti “testimoni fondamentali” per ricostruire quel “contesto politico” in cui fu “moralmente autorizzata” la “eliminazione del generale prefetto e della signora Emanuela Setti Carraro”. Un’ istanza ai giudici popolari e togati e una frecciata all’ ufficio del Pubblico ministero: “La cosa che sorprende è che non siano presenti nella lista dei testimoni… Bisogna citare questa gente non per perdere tempo. Io ritengo che possa essere utile. Devono renderci conto di una determinata condotta”. Dopo una settimana di noiose udienze con una valanga di eccezioni presentate dalla difesa e dopo una lunga camera di consiglio, il maxi-processo alle cosche riprende con una sorpresa. C’ è un avvocato, Francesco Caroleo Grimaldi, 33 anni, magrolino, una voce chiara, che fissa i magistrati della Corte di assise e legge alcune pagine della sentenza di rinvio a giudizio. Sono stralci sui poteri non concessi a Dalla Chiesa, sulle corrispondenze da Palermo nei drammatici giorni dell’ agosto del 1982, sul suo diario privato, sugli imbarazzati silenzi del Palazzo. “In altri termini”, dice l’ avvocato Grimaldi, “i giudici elaborano un preciso e pesantissimo atto di accusa a una classe politica dirigente che, dopo avere provveduto alla nomina del generale… lo abbandona a se stesso… rendendosi pertanto moralmente responsabile della situazione di assoluto isolamento in cui questi venne a trovarsi. Appare superfluo aggiungere come fu proprio quello stato di isolamento a rendere “possibile” l’ ideazione del crimine ai suoi danni”. L’ avvocato della famiglia Setti Carraro ripercorre in un discorso tredici cartelle dattiloscritte dei cento terribili giorni di Carlo Alberto Dalla Chiesa a Palermo. E ricorda, citando sempre l’ ordinanza di rinvio a giudizio, tutti i suoi timori, i colloqui con Giulio Andreotti, con il ministro delle Finanze Rino Formica, con il comunista siciliano Michelangelo Russo. Chiede poi che questi personaggi depongano in aula su tutta una serie di circostanze “relative ai termini della nomina, alle condizioni poste dal generale, alle responsabilità in ordine al mancato rispetto delle condizioni e dei poteri richiesti, all’ atteggiamento dei vertici dello Stato, nonchè della polizia, in merito ai poteri, alla polemica con la Regione sul coordinamento antimafia”. Tutto il “caso”, giorno dopo giorno, ricostruito nell’ aula-bunker. Dice l’ avvocato Francesco Caroleo Grimaldi: “Abbiamo il dovere morale di fare emergere qualcosa di più. Non pretendiamo soltanto la verità scritta sulle pagine della sentenza, ma anche la giustizia”. Nell’ angusta sala stampa dell’ aula-bunker, tra scatoloni, tavoli ricoperti da macchine da scrivere e televisori, il giovane legale è circondato dai cronisti: “Vogliamo esaltare il lavoro dei giudici istruttori. Tutti questi personaggi ascoltati in istruttoria non avevano un contraddittorio… Che invece avranno qui, con i familiari. Fatecelo sapere perchè non avete mantenuto quelle promesse, spiegateci chi era fisicamente che doveva concedere al generale quei poteri”. Quando arrivano le prime domande, l’ avvocato risponde con più calma e calibra le parole: “Io so che il caso Dalla Chiesa si dibatte qui, in questo processo. E voglio questi governanti che vengano a spiegarsi qui… Loro escono male molto male dall’ ordinanza. Mi dovrebbero ringraziare, perchè permetto loro di offrire una spiegazione. L’ ordinanza si apre e si chiude con un atto di accusa che non è certamente aria fritta”. Cosa dovrebbero raccontare gli illustri personaggi al centro dell’ aula-bunker? La richiesta della parte civile sarà accolta? Perchè l’ ufficio della pubblica accusa non li ha citati? L’ avvocato Grimaldi “nel più sincero e doveroso rispetto per l’ ufficio del pubblico ministero” si meraviglia che non siano stati invitati (sono stati infatti chiamati solo l’ ex-presidente della Regione Mario D’ Acquisto e l’ ex-sindaco di Palermo Nello Martellucci, entrambi travolti dalle polemiche del dopo-Dalla Chiesa), e, riferendosi alla istanza di citazione di alcuni testi che sono Grandi Ufficiali dello Stato, conclude: “Non posso che esternare la piena convinzione che nessuno tra gli interessati invocherà siffatto privilegio. Se così non fosse, sin da ora, mi impegno a rinunciare all’ istanza stessa nei confronti di chi ritenesse giovarsi della sopraindicata prerogativa che consente a certi testi di rendere la deposizione nella sede da essi indicata…”. Insomma l’ avvocato Grimaldi vuole che i testi eccellenti siano ascoltati solo nel maxi-bunker e non negli uffici romani. I legali dei familiari del generale prefetto, gli avvocati Alfredo Galasso, Alfredo Biondi, Carla Garofalo, nel pomeriggio hanno annunciato che, in questo momento, non si associano alla richiesta avanzata dai difensori della famiglia Setti Carraro. Prima di scatenare la bagarre sui “testimoni fondamentali”, l’ avvocato Grimaldi aveva anche chiesto alla Corte di Assise di ascoltare un testimone oculare del massacro di Via Isidoro Carini. Si chiama Mohamed Al Aidorosy ed è un professore universitario residente negli Emirati Arabi. Non è mai stato interrogato. Una richiesta per rogatoria avanzata dai giudici di Palermo non ha infatti mai ricevuto risposta ufficiale. Il maxi-processo è continuato sul fronte della battaglia procedurale fino a quando si è diffusa una voce: dalla prossima settimana, al massimo tra una quindicina di giorni, arriveranno in aula i pentiti. Nell’ aula-bunker nessuno conferma ufficialmente l’ indiscrezione, ma il servizio nazionale della Criminalpol sta già realizzando un “ponte aereo” con gli Stati Uniti. Un piano di sicurezza è già scattato per dirottare e poi proteggere in Sicilia i due superpentiti Tommaso Buscetta e Totuccio Contorno. Saranno loro, molto probabilmente, i primi testimoni che sfileranno davanti ai giudici della Corte di Assise.

 

 

Articolo da La Repubblica del 15 Marzo 1986

‘CHIAMO FALCONE A TESTIMONE’

di Attilio Bolzoni

PALERMO – Il brillante penalista del Foro di Palermo è seduto davanti ai giudici. E’ lui il “consigliori” della cosca più sanguinaria della città o è soltanto vittima delle fantasie dei pentiti? Salvatore Chiaracane, Totò per gli amici di Corso dei Mille, avvocato, una grande preparazione giuridica si difende sicuro al centro dell’ aula-bunker. E lancia frecciate velenose. Contro Salvatore Contorno, Vincenzo Sinagra, Stefano Calzetta, i tre pentiti che lo accusano. Contro i giudici antimafia’ Contro i giornalisti. Racconta storie, ricorda nomi e luoghi, spiega incontri e circostanze. Una autodifesa esemplare. E’ un imputato “importante” che non si nasconde dietro ad una sfilza di “non so” o di “non c’ ero”. Un imputato importante che cade in una grande trappola. Scatta improvvisa quando la sua difesa culmina con queste parole: “Signor presidente, tutte volgari infamie… Io non ho mai conosciuto il “papa” Michele Greco”. Nell’ aula-bunker arriva il colpo di scena. Uno dei due pubblici ministeri si alza, prende fiato, legge una testimonianza della segretaria del giudice istruttore Giovanni Falcone: “Ricordo che l’ avvocato Chiaracane, nel settembre del 1980, accompagnò Michele Greco che doveva essere ascoltato…”. L’ autodifesa esemplare si sbriciola in un istante. Nella gigantesca aula-bunker si scatena così la bagarre. E un attimo dopo i difensori del penalista chiedono la presenza nell’ aula di un nuovo teste: il giudice Falcone. Con una mossa “all’ americana” della pubblica accusa la ventesima udienza del maxi-processo a Cosa nostra si elettrizza. Da una parte due Pm decisi ad inchiodare l’ avvocato-consigliere, dall’ altra una difesa stretta intorno al famoso penalista, da alcuni mesi in libertà provvisoria dopo due mandati di cattura per associazione a delinquere di tipo mafioso. Ma ecco la cronaca di una lunghissima mattinata concentrata su un solo protagonista, un avvocato conosciuto o chiacchierato in tutte le borgate di Palermo, nelle stanze del palazzo di giustizia, negli uffici dell’ antimafia. Un personaggio, il simbolo di una categoria, qui a Palermo, che dopo il suo arresto “si è sentita vittima di frettolose e superficiali generalizzazioni”. L’ imputato Salvatore Chiaracane sale sulla pedana ricoperta dal linoleum verde alle 10,15. Davanti ai due giudici togati e ai sei popolari della Corte di assise sembra deciso. Stringe alcuni fogli in una mano, si sfiora la guancia con l’ altra, sorride, saluta il presidente Alfonso Giordano, ascolta una mezza dozzina di suoi interrogatori davanti ai giudici istruttori. E’ elegante, sicuro, pronto a sferrare il suo attacco. I pentiti lo accusano di avere incontrato il terribile Filippo Marchese, il più spietato boss di Palermo. Lo accusano di non essere soltanto l’ avvocato ma un organico alla cosca di Corso dei Mille. Lo accusano ancora di provenire da una famiglia mafiosa. Ma il penalista non si scompone e ripete: “Infamie, infamie… Un attentato alla mia dignità”. E spiega come incontrò il pentito Vincenzo Sinagra, perchè frequentò il latitante Filippo Marchese, quando difese suo cugino Pietro. Nell’ aula-bunker sembra quasi di assistere ad un faccia a faccia, un confronto con i suoi accusatori. E Totò Chiaracane ribatte: risposte complete, articolate, precise. Se uno dei pentiti rivela ai giudici che il penalista forniva armi e droga ad un imputato rinchiuso all’ Ucciardone, l’ avvocato Chiaracane spiega che l’ incontro non era tecnicamente possibile: “Non era un mio assistito…”. Se un altro mafioso sostiene che il penalista gli consigliava di fingersi pazzo lui smonta la “calunnia” con gran dovizia di particolari. Un paio di ore di botta e risposta con l’ imputato che fissa negli occhi il presidente della Corte. Poi sferra un altro attacco. L’ avvocato sostiene che la sua non è una famiglia mafiosa (“Se la mafia avversa il Partito comunista italiano, il signor Calzetta dovrebbe sapere che proprio mio fratello era in lista nelle amministrative del 1980 con quel partito”), che non ha mai visto nè Salvatore Contorno nè Michele Greco, che non ha mai accumulato beni di provenienza illecita. Chiede accertamenti, nuove indagini, verifiche su tutto quello che raccontano i suoi accusatori. Parla a voce alta al centro dell’ aula-bunker e i suoi legali, Nino Fileccia e Orazio Campo, non intervengono. Totò Chiaracane si difende da solo, con grinta e determinazione. Ma la trappola sta per scattare. A sorpresa il presidente della Corte gli chiede: “Lei, che ha visto, come sostiene per ragioni di lavoro, il suo cliente Marchese Filippo durante la latitanza, saprebbe descrivercelo?…”. Perchè il presidente fa questa domanda? Sta chiedendo all’ imputato un identikit? Nell’ aula cala il silenzio. L’ avvocato Chiaracane ha un attimo d’ esitazione ma poi risponde: “Sì, sì,… altezza al di sopra della media, corporatura massiccia, un po’ stempiato. Il colore dei capelli? Non ne sono sicuro, forse castano, castano scuro”. Quando finisce di parlare ecco uno dei pubblici ministeri, Domenico Signorino, che dice: “L’ ufficio della pubblica accusa ha ricevuto questa mattina un documento importante che vorrei leggere”. In aula adesso c’ è gran curiosità. Che sta succedendo? Quale documento è stato inviato al pubblico ministero? Domenico Signorino annuncia: “C’ è una testimonianza della signora Antonella Leo, una cancelliera dell’ Ufficio Istruzione…”. E legge. La cancelliera sostiene che, nel settembre del 1980, Michele Greco, indiziato di reato nel processo Rosario Spatola 121 (la prima associazione a delinquere istruita da Giovanni Falcone), era sull’ uscio della stanza del giudice insieme all’ avvocato Salvatore Chiaracane. Ma il penalista non ha assicurato dieci minuti prima che non aveva mai conosciuto Michele Greco e che non l’ aveva mai visto? L’ avvocato-imputato sembra un altro uomo. E’ immobile sulla sedia, stravolto, le palpebre che sbattono, il viso bianco. Gli esce solo un filo di voce: “Tutto questo è completamente falso”. Sono le 12,30 e, per la prima volta, intervengono gli avvocati del “consigliori”: “Ci opponiamo all’ acquisizione degli atti, alla presentazione di questo documento… la cancelliera venga citata come testimone”. L’ atmosfera nell’ aula-bunker si arroventa. Il Pm non si oppone alla testimonianza della cancelliera, ma subito dopo un altro difensore chiede anche una citazione per il giudice Falcone. Il penalista, intanto, riprende a parlare. Frasi a metà, nomi appena bisbigliati, discorsi poco organici. Totò Chiaracane sta raccontando un vecchio episodio. Sulla cancelliera che lo accusa. Fa un salto all’ indietro: ricorda ai giudici il delitto del capo della Squadra mobile Boris Giuliano. E ricostruisce una fuga di notizie sui quotidiani locali. Una fuga di notizie provocata, secondo l’ avvocato, da una “talpa”. La talpa sarebbe, per Salvatore Chiaracane, la signora Antonella Leo. Un’ intricata storia che sembra non avere nè capo nè coda. Al centro dell’ aula-bunker c’ è ora un imputato che si difende a fatica. Un’ altra domanda della pubblica accusa al penalista sempre più disorientato. Dove si incontrava l’ avvocato Chiaracane con il boss Filippo Marchese? Il penalista non risponde. Ecco che cosa scrivono i magistrati nell’ ordinanza di rinvio a giudizio: “Il Chiaracane con tali incontri mostrava di essere un prezioso “consigliere” del capofamiglia, il quale, guarda caso, lo convocava proprio nei luoghi dove si dilettava a strangolare le sue sfortunate vittime”.

 

 

Articolo da La Repubblica del 14 Novembre 1986

UNA TEMPESTA NELL’ AULA-BUNKER

di Franco Coppola

PALERMO Trasmettere all’ ufficio del pubblico ministero i verbali dell’ interrogatorio reso l’ altro giorno dal ministro Andreotti per procedere per testimonianza falsa e reticente; disporre un confronto tra il ministro degli Esteri e Nando Dalla Chiesa; convocare come testimoni i ministri Scalfaro e Rognoni, l’ ex ministro Martinazzoli, il segretario regionale del Pci siciliano Colajanni e lo stesso Nando Dalla Chiesa. Il grande processo a Cosa Nostra vive i suoi giorni più tormentati. Non bastassero le proteste che negli ultimi giorni hanno travolto i giudici di Palermo quelle degli avvocati che esigono la lettura di centinaia di migliaia di pagine dell’ istruttoria, dei cancellieri e dei giudici popolari che non si sentono nè adeguatamente retribuiti nè sufficientemente protetti una valanga di nuove richieste, tutte delicate e scottanti, si sono riversate sulla Corte d’ assise creandole grande imbarazzo. Su tutte i giudici hanno già deciso, ma non è stato possibile leggere in aula l’ ordinanza redatta dopo due ore di camera di consiglio perchè l’ aula-bunker era deserta. Gli avvocati se n’ erano andati via tutti. E l’ unico che era rimasto a rappresentare anche i colleghi in quel momento si era allontanato. Perciò, niente lettura dell’ ordinanza e trasmissione del verbale d’ udienza al pubblico ministero nell’ eventualità che intenda procedere per abbandono di difesa. Dunque, si saprà soltanto oggi come la Corte ha deciso di superare l’ imbarazzo di una coda politica che i difensori vorrebbero imporre al dibattimento dopo gli interrogatori dei giorni scorsi di Spadolini, Rognoni e Andreotti. La testimonianza di quest’ ultimo, in particolare, ha lasciato strascichi inquietanti: la sollecitazione della parte civile di incriminarlo per testimonianza falsa e reticente; la richiesta di metterlo faccia a faccia con Nando Dalla Chiesa. Istanze che, se accolte, riproporrebbero con prepotenza il tema più ambiguo del processo, la solitudine in cui sarebbe stato lasciato Dalla Chiesa nei suoi cento giorni trascorsi a Villa Withaker come prefetto antimafia prima di cadere vittima dell’ agguato del 3 settembre ‘ 82. Ad aprire il nuovo fronte politico sono gli avvocati Salvatore Traina e Alessandro Bonsignore. Il primo lamenta una compressione dei diritti della difesa: Lei, signor presidente, non ammette mai le mie domande ai testi e lo fa senza alcun valido motivo. Basti ricordare che nessuna delle mie domande al ministro Rognoni, a proposito dei pentiti è stata accolta. Traina urla, ma il presidente Giordano urla più di lui: Se lei con questi atteggiamenti pensa di intimidire la corte…. Traina: Io le intimidazioni le subisco. Presidente: Che cosa dice? Chi l’ ha intimidito?. Traina: Intendevo dire che io, per carattere, per temperamento, le intimidazioni le subisco, non le faccio. Presidente: Qui nessuno le impedisce di espletare il suo compito. Quando le sue domande saranno pertinenti, le porrò. Traina, per tutta risposta, lancia il primo siluro. Chiede venga dichiarata la nullità di tutto il dibattimento per violazione dei diritti della difesa. Poi, il secondo. Esibisce il documento ufficiale dell’ autorità giudiziaria americana che regola, in ogni suo risvolto, la collaborazione di Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno. Redatto dal procuratore distrettuale di New York Rudolph Giuliani, stabilisce che, se Buscetta ottempererà agli accordi, Nessuna informazione da lui stesso fornita sarà usata contro di lui in qualsiasi processo criminale negli Usa o in Italia e questi uffici non aiuteranno altri a perseguire il signor Buscetta sulla base di tali informazioni. Non basta: una volta esaurita la sua testimonianza nel processo alla pizza connection, Buscetta e i suoi familiari avranno una nuova identità, continueranno a ricevere ragionevoli livelli di aiuti finanziari fino a che non saranno capaci di provvedere a se stessi. Ultime clausole: nessun premio in denaro; il governo americano farà in modo che i familiari di Buscetta ottengano la cittadinanza americana. Pressochè identica la situazione di Contorno. Ebbene, tuona Traina come si conciliano questi accordi con il decreto reso pubblico da Rognoni, nel quale si dice che la consegna di Buscetta alla giustizia americana è soltanto temporanea e riguarda il processo per la pizza connection? Il decreto del nostro ministero della Giustizia è del 14 dicembre ‘ 84, gli accordi con gli americani per Buscetta e Contorno sono del 28 ottobre e 2 dicembre ‘ 85. Come si spiega la gravissima discordanza tra i due documenti? E’ intervenuto un patto segreto che noi non conosciamo? E’ necessario chiarire questo mistero. Ecco perchè chiedo la citazione del ministro della Giustizia Rognoni, del suo predecessore Martinazzoli e del ministro dell’ Interno Scalfaro. Il Pm non è d’ accordo: Il patto stipulato tra la giustizia americana da un lato e Buscetta e Contorno dall’ altro sono diversi dai patti Italia-Usa, non ci riguardano. Caso mai, è un problema politico, non processuale. Naturalmente, si oppone anche l’ avvocato dello Stato. Poi tocca a Bonsignore. Esibisce una copia di Rinascita dell’ agosto ‘ 82 e il libro di Nando Dalla Chiesa Delitto imperfetto e vuole che vengano in aula il segretario regionale comunista siciliano Luigi Colajanni a confermare quello che scrisse allora, e cioè che il suo partito era ostile alla concessione di poteri più ampi al prefetto e Nando Dalla Chiesa a spiegare perchè avrebbe omesso di rilevare il fatto che il Pci si era adeguato alle scelte governative. Il primo dovrebbe anche spiegare la frase: Siamo di fronte a un terrorismo politico che è il braccio armato di un potere reazionario che in Sicilia c’ è ed opera dentro e fuori dalle istituzioni. Dovrebbe dirci almeno a quale colore alludeva, dice il penalista, che però dimentica di citare un altro passo dell’ articolo del segretario regionale del Pci siciliano in cui si dice chiaramente che il partito si opponeva alla concessione di poteri speciali, non a tutte le misure possibili e necessarie perchè l’ attività del prefetto potesse portare a risultati positivi. Oggi, dovrebbe essere sentito come testimone il sindaco di Palermo Leoluca Orlando Cascio. Da registrare infine una intervista del ministro degli Interni alla Discussione: Uno Stato che si rendesse succubo di un formalismo destinato ad ostacolare l’ accertamento della verità e l’ applicazione della giustizia, dice Scalfaro a proposito della richiesta degli avvocati di lettura delle 750 mila pagine degli atti processuali, sarebbe uno Stato che rinuncia ad essere tale. Lo Stato non può farsi ricattare da formalistiche interpretazioni legislative perchè la legge è fatta dagli uomini per servire gli uomini e non per imbrogliarli.

 

 

Articolo da La Repubblica del 14 Novembre 1986

‘E’ L’IMMAGINE DI UNO STATO RETICENTE O PERFINO COMPLICE’

di Silvana Mazzocchi

ROMA Il ministro Andreotti mente, ne sono convinto. E l’ immagine che esce dalla sua deposizione è quella di uno Stato reticente, omertoso o addirittura complice. Se è vero quanto confidò Carlo Alberto Dalla Chiesa in una lettera inviata prima di morire all’ allora presidente del Consiglio, Spadolini. Il generale scrisse che in fatto di mafia esisteva una famiglia politica inquinata e Spadolini ha confermato la circostanza. Alfredo Galasso, ex consigliere laico del Consiglio superiore della magistratura, comunista, è l’ avvocato di parte civile per i figli di Dalla Chiesa. Mercoledì scorso, nell’ aula magna della Cassazione dove si erano trasferiti i giudici del maxiprocesso in corso a Paermo, ha chiesto l’ incriminazione del ministro degli Esteri per falsa testimonianza e reticenza. L’ iniziativa, presa in pieno accordo con l’ altro difensore dei Dalla Chiesa, il liberale Alfredo Biondi, è stata trascritta agli atti ed è a disposizione dell’ ufficio del pubblico ministero. Sospetto, convinzione o conseguenza processuale? Come sono andate le cose avvocato Galasso? Dunque, ieri prende a raccontare l’ agguerrito legale, il presidente Giordano ha rivolto ad Andreotti domande puntualissime, senza mostrare alcun timore reverenziale. Il ministro, invece, sembrava teso. Ha usato un tono netto, duro, mai venato dalle sue brillanti battute abituali. In apertura di interrogatorio gli è stata letta quella pagina del diario di Dalla Chiesa datata 6 aprile ‘ 82 nella quale il generale annota che Andreotti gli aveva chiesto di incontrarlo. Diceva: Sono stato molto chiaro e gli ho detto che non avrò alcun riguardo per quella parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori. Andreotti nega duramente, come nega il resto di quanto scritto dal generale in quella pagina del diario. Galasso insiste, rammenta la deposizione resa dal figlio del generale sotto giuramento a proposito degli amici di Andreotti in Sicilia, fa notare la difformità tra quelle parole, il diario di Dalla Chiesa e quanto affermato dal ministro. Ma Andreotti non fa la minima ammissione. Azzarda che il generale si sarà confuso. E ripete: Lima è una persona per bene e ancora: non mi risulta che Dalla Chiesa abbia mai parlato della famiglia più inquinata del luogo. Spiega Galasso: Un processo ha le sue regole, la sua fisiologia. Un ministro testimone non può ricevere un trattamento diverso rispetto al cittadino. Nel caso specifico poi, delle due l’ una: o chissà per quali motivi in un diario intimo, scritto idealmente alla moglie defunta, aveva mentito il generale Dalla Chiesa ed ha mentito suo figlio sotto giuramento, oppure mente Andreotti, come io credo. Così ho chiesto l’ incriminazione per falsa testimonianza. Per accertare la verità. L’ iniziativa è caduta nel vuoto. Allora ho voluto che fosse messa agli atti. Adesso starem a vedere. La ricostruzione del martedì nero, però, non è finita. Andreotti aggiunge: perché tante domande sui miei amici politici? Io non ho mai riferito le confidenze che il generale mi fece sui suoi familiari. Ho chiesto al Presidente Giordano di far parlare Andreotti su questo punto, racconta Galsso ma il ministro ha detto che non aveva intenzione di rispondere. Così son dovuto tornare all’ attacco e sollecitare una seconda incriminazione per reticenza. E un confronto con Nando Dalla Chiesa. Su questa ultima richiesta il presidente della Corte si è riservato di decidere. Riprende Galasso: Tutto il processo di Palermo è difficile, ma il clima che si è creato intorno ai IOO giorni del generale è di grande pesantezza e gravità e queste audizioni romane lo hanno dimostrato molto bene. Insomma, mi chiedo, esiste in questo paese la possibilità di un sussulto demcratico, che individui un circuito di responsabilità non solo penali, ma anche politiche, amministrative e, soprattutto, morali? Possibile che tutto debba gravare sulla giustizia penale? Questo è il quesito che si pone, al di là dell’ esito del processo. Voglio dire che del comportamento tenuto dal ministro Andreotti si dovrebbe far carico intanto il governo di cui fa parte, il suo partito e l’ opinione pubblica. Quella ricerca della verità sulla quale si impegnano i giurati in corte d’ assise, prosegue Galasso, non può spettare solo ai giudici. Invece l’ immagine che esce da questa deposizione è di uno Stato arrogante, omertoso. Spadolini e Rognoni hanno confermato che Dalla Chiesa gli parlò di una famiglia politica inquinata ed hanno riferito di aver risposto al generale: Lei vada avanti, senza guardare in faccia nessuno. Possibile insomma che Dalla Chiesa non avesse mai parlato dei rapporti tra mafia e politica con Andreotti? , riprende Galasso. Insisto, secondo me mente. In aula mercoledì ho letto il testo di una intervista rilasciata da Andreotti ad un quotidiano alla fine del settembre I982, dopo le parole di Nando Dalla Chiesa sui mandanti morali dell’ omicidio del padre. In quell’ occasione affermò di aver visto Dalla Chiesa di recente. Che il generale era venuto a Roma, nel suo ufficio, per una visita di cortesia. Ma che non fece alcun cenno a quei rapporti. Gli chiedo: quando avvenne quell’ incontro? Non ricordo di preciso, risponde Andreotti, forse a fine agosto. Insisto: di cosa parlaste? Del più e del meno, replica il ministro. Io ho detto chiaro ai giudici che dubitavo ci fosse stato quell’ incontro e che mi riservo di fare accertamenti in proposito in base agli atti del processo. Nelle carte sono annotati gli spostamenti del generale nei suoi ultimi giorni di vita. Era andato a Prata, in una residenza di campagna vicino ad Avellino, poi qualche giorno in Calabria con sua moglie, quindi era stato a Catania, ospite di amici. I IOO giorni di Dalla Chiesa costituiscono dunque il momento più drammatico del processo, almeno dal punto di vista politico-istituzionale. Perché? Conclude Galasso: Quando c’ è la possibilità di individuare fatti, personaggi e responsabilità specifiche, allora la mafia reagisce con tutte le sue ramificazioni. E così è accaduto in quei tre mesi: a livello politico con le famiglie messe in moto, sul piano amministrativo, lo hanno ammesso Spadolini e Rognoni nel parlare delle resistenze amministrative incontrate quando si trattò di dare a Dalla Ciesa i poteri di coordinamento generale per la lotta contro la mafia. A livello militare, infine, quando entrarono in scena i killer e Dalla Chiesa pagò con la vita.

 

 

Articolo da La Repubblica del 22 Novembre 1986

MICHELE GRECO: ‘ROCCO CHINNICI? UN GIUDICE SEMPRE GENTILE CON ME’

di Franco Coppola

CATANIA Nessuno la vuole ingoiare questa cosa! E’ un boccone che nessuno vuole digerire! Io non sono di Ciaculli, sono di Croceverde Giardini!. A una domanda di un cronista, Michele Greco il papa perde la flemma che sembrava un suo connotato specifico e sbotta: La verità è che sono un perseguitato. La mia forza è la pace interiore. Se uno non ce l’ ha, nessuno te la può dare, non si compera in un negozio. L’ imputato numero uno del maxiprocesso a Cosa Nostra e, ora, della strage in cui trovarono la morte il giudice Rocco Chinnici e altre tre persone parla davanti a microfoni e taccuini. Dopo lunghe trattative, il presidente Grassi concede che, in una pausa della seconda udienza, i giornalisti possano avvicinarsi alla gabbia con vetri antiproiettile dove il papa avvolto in un cappottone di cammello fuma tranquillamente il suo mezzo toscano. Il processo è ancora impantanato nelle secche delle battaglia procedurale che divide da un lato l’ accusa, pubblica e privata, dall’ altra la difesa a proposito della riapertura o meno del dibattimento. L’ accusa vuole in aula i grandi pentiti della mafia, Tommaso Buscetta, Salvatore Contorno e Vincenzo Sinagra, nella certezza che le loro parole possano essere determinanti per provare la responsabilità nell’ eccidio di via Pipitone Federico dei fratelli Greco e dei due imputati minori Vincenzo Rabito e Pietro Scarpisi; la difesa, invece, insiste perché si presenti davanti alla Corte d’ assise d’ appello investita del caso dalla Cassazione, che ha annullato gli ergastoli inflitti a Caltanissetta ai fratelli Michele e Salvatore Greco e i 22 anni di carcere comminati agli altri due imputati il libanese Bou Chebel Ghassan, il confidente della polizia che preannunciò la strage al capo della Criminalpol di Palermo Antonino De Luca. Il dibattimento riprenderà martedì e la Corte prenderà le sue decisioni in settimana. Gira voce che Ghassan avrebbe scritto agli avvocati del papa una lettera in cui chiede scusa di tutto e rivela di essersi inventato le accuse contro Michele Greco. Non si spiegherebbe però perché, solo un mese fa, il libanese ha scritto un’ altra lettera al magistrato che condusse l’ inchiesta sulla strage, Sebastiano Patanè, dicendo di confermare tutte le accuse e chiedendo di essere convocato perché ha ancora qualcosa da dire. Gli avvocati Giuseppe Mirabile e Luigi Lo Presti insistono molto sulla citazione di Ghassan: Abbiamo forse dimenticato, tuona Mirabile che in primo grado c’ era Ghassan e solo Ghassan come elemento d’ accusa? Abbiamo dimenticato che allora veniva proclamata la sua assoluta credibilità come fonte indiscutibile di verità processuale? Oggi, l’ accusa non ha più bisogno di lui? Come mai? Perché tanta preoccupazione? Ha detto di avere ancora qualcosa da dire: e allora sentiamolo, quest’ uomo dalle mille maschere! E’ stato già ascoltato 58 volte? Sentiamolo una cinquantanovesima. Invece, Buscetta e Contorno non servono, perché non hanno mai detto una parola sulla strage Chinnici; essi parlano solo di un’ associazione mafiosa ai cui vertici sarebbero i fratelli Greco: una sorta di diabolica ingegneria giudiziaria chiamata teorema Buscetta, secondo cui la Commissione di cui, ma non c’ è la minima prova, farebbero parte i Greco sarebbe responsabile di tutti i delitti di mafia. Tra l’ altro, Buscetta e Contorno si trovano in America e non verrebbero mai in Italia. Per gli Usa sono cosa loro, non vogliono che l’ Italia interferisca. Signori, Michele Greco è un uomo d’ ordine, un uomo di legge e non il capo della mafia che i suoi calunniatori interessati vorrebbero fare apparire. Poco dopo, Michele Greco da di sé un ritratto ancora più adamantino. Quello di un uomo religiosissimo, tutto casa e Bibbia, dedito all’ agricoltura, amato e benvoluto da tutti, vittima di una diabolica macchinazione. Che opinione aveva di Rocco Chinnici? La sua morte potete definirla la tragedia del secolo. E’ sempre stato molto gentile con me. Una volta si interessò a mio figlio che faceva il cineasta. Lei si ritiene un perseguitato? Certo, ma io ho pazienza e sopporto. Ho dignità io. La violenza non fa parte della mia vita. Non so perché mi perseguitino. Bisognerebbe chiederlo a qualcun altro. Ma è meglio fermarci qui e non parlarne più. Chissà se lo potremo mai gridare un giorno…. Conosce Scarpisi e Rabito? Sconoscevo la loro esistenza. Non sapevo che erano al mondo, lo possono testimoniare anche loro. Sono diventati famosi come i gemelli del gol del Torino, Pulici e Graziani. Pensa che verrà assolto? Ci spero, anche se… Fortunatamente, ho una grande pace interiore. Come viveva da latitante? Ero solo, in montagna, avevo solo due cose: la Bibbia e il breviario. Perché è chiamato il papa? Mi chiamano papa, re, generale… Pazienza. Chi scriveva lettere anonime contro di me mi chiamava papà, poi è caduto l’ accento. Come faceva ad avere tante conoscenze di rango se si definisce un contadino? A sedici anni cominciai a frequentare il tiro a volo. Ora ne ho 62. Fatevi un po’ il conto. Lì, al tiro a volo, ho conosciuto il miglior ceto della società palermitana. Lì ho fatto amicizie che sono durate tutta la vita. L’ ultimo tema è ancora la serenità interiore. La devo a quel grande ospite illustre che ho qui dentro da quando sono stato battezzato. Ce l’ ho anche se mi portano nei sotterranei con le catene ai piedi.

 

 

Articolo da La Repubblica del 7 Marzo 1987

PALERMO, DA LUNEDI’ LE ARRINGHE MA I LEGALI MINACCIANO LO SCIOPERO

di Attilio Bolzoni

PALERMO Un anno e un mese dopo l’ apertura delle porte blindate del bunker il maxi-processo a Cosa nostra ha superato il primo traguardo: chiusa l’ istruttoria dibattimentale la parola passa agli avvocati di parte civile. Tredici mesi di bunker, tredici mesi di ferocissime polemiche che ancora continuano. Da una parte ci sono i giudici, dall’ altra i penalisti palermitani. Il braccio di ferro sul calendario delle udienze adesso rischia però di trasformarsi in una vera e propria guerra: uno sciopero degli avvocati. La protesta dei difensori monta giorno dopo giorno mentre, lunedì 9 marzo, è previsto l’ inizio delle discussioni finali: otto udienze riservate alle parti civili, dal 18 al 24 marzo la requisitoria del pubblico ministero Domenico Signorino e, dal 25 al 31 marzo, quella del pubblico ministero Giuseppe Ayala. La difesa, se la guerra del calendario sarà conclusa, scenderà in campo il primo aprile. Queste le date già fissate dai giudici ma, sullo sfondo del processo ai boss di Cosa nostra si preannuncia una paralisi delle attività giudiziarie. Le trattative tra magistrati e penalisti vanno avanti da settimane senza arrivare ancora a una soluzione. L’ ultimo tentativo per trovare un accordo, condotto dal neopresidente della Corte di appello Carmelo Conti, è fallito ieri sera: i rappresentanti della camera penale questa mattina gli hanno infatti consegnato le decisioni dell’ assemblea a porte chiuse svoltasi a Palazzo di Giustizia: un altro no al calendario dei magistrati. Ma qual è la proposta dei giudici? E la controproposta degli avvocati? Il calendario del neopresidente di Corte di appello: sei udienze settimanali del maxi-processo, almeno fino al 31 marzo, così suddivise: di mattina nei giorni pari, di pomeriggio in quelli dispari. Dall’ inizio delle arringhe difensive, e cioè dal primo aprile, il magistrato propone invece cinque udienze pomeridiane la settimana e una sola mattutina. Ma dal 21 aprile, quando inizierà anche il maxiprocesso bis, i difensori dovranno entrare nell’ aula-bunker altre due mattine la settimana. Un autentico tour de force Un vero e proprio tour de force che i penalisti sono pronti però ad affrontare ad una condizione. Dice il presidente della camera penale Frino Restivo: Noi abbiamo già detto di essere ben disposti a fare udienze del maxi-processo a ritmo serratissimo, ma non c’ è dubbio che tutta l’ attività ordinaria si deve paralizzare. E precisa subito dopo il presidente della camera penale: I magistrati devono dire chiaramente che per un mese tutta l’ attività giudiziaria del distretto si deve fermare per celebrare il maxi-processo. Si abbia il coraggio di sancire questo principio. I penalisti aspettano le conclusioni di un’ assemblea dei magistrati. Un incontro fra tutti i giudici del distretto che ha congelato le proposte dell’ ala dura degli avvocati, quelli schierati per la proclamazione di uno sciopero. Sì, ripete Frino Restivo, per adesso ha prevalso una linea mediana. Di fronte ai tentativi di mediazione del presidente Conti abbiamo detto: Continuiamo a discutere. Le probabilità di uno sciopero comunque aumentano: il consiglio dell’ ordine forense ha convocato per lunedì mattina una nuova assemblea e i rappresentanti dell’ ala dura sono decisi a tornare alla carica. I difensori palermitani prospettano ai magistrati questa soluzione: due udienze settimanali nell’ aula bunker o far slittare tutti gli altri processi per legittimo impedimento di uno o più avvocati. I giudizi di molti penalisti sul calendario proposto dal presidente della Corte di appello sono durissimi. Si tratta di un diktat ammette il difensore di uno dei boss rinchiusi nel bunker è assurdo e iniquo mettere da parte tutta l’ attività giudiziaria ordinaria per privileggiare il maxi-processo. Dichiarazioni di guerra con un margine di trattativa tra magistrati e penalisti sempre più stretto. Una polemica infuocata E’ una manovra degli avvocati per favorire i loro clienti rinchiusi nelle gabbie? I nostri clienti rispondono in coro i penalisti di Palermo sono i primi ad augurarsi una rapida conclusione del maxi-processo. Lo scontro, che va avanti ormai da quasi venti giorni, si risolverà in un modo o nell’ altro lunedì mattina alla fine dell’ assemblea del consiglio dell’ ordine forense. Una polemica infuocata che è arrivata dopo una serie di casi esplosi in questi primi due mesi del 1987: una frattura nelle parti civili, l’ inchiesta giudiziaria sui fondi raccolti attraverso una sottoscrizione, la revoca del mandato al proprio legale da parte di Rita Dalla Chiesa, la figlia del generale prefetto assassinato dalla mafia. Rita Dalla Chiesa aveva licenziato dopo un anno l’ avvocato Carla Garofalo che tra qualche giorno rientrerà nei banchi delle parti civili: rappresenta adesso Alessandro Giuliano, il figlio di Boris, il capo della squadra mobile palermitana ucciso nel luglio del 1979. Qualche giorno fa si è spenta anche la polemica sulla gestione dei fondi raccolti dalle parti civili. Il pubblico ministero Salvatore Di Vitale, che aveva aperto un fascicolo atti relativi dopo la presentazione di due interpellanze parlamentari (un liberale e un missino denunciavano una gestione clientelare e politica dei fondi), ha chiesto al giudice istruttore l’ archiviazione dell’ indagine. La motivazione: Assoluta mancanza di indizi. Una polemica dopo l’ altra e in questo clima di fuoco è arrivato a Palermo il ministro di Grazia e Giustizia Virginio Rognoni per una tavola rotonda sul ruolo di avvocati e magistrati nel nuovo codice di procedura penale.

 

 

 

Articolo da La Repubblica del 1 Aprile 1987

PER IL SUPERPENTITO BUSCETTA L’ ACCUSA CHIEDE QUATTRO ANNI

di Franco Coppola

PALERMO L’ ordine è rigidamente alfabetico. Fioccano le richieste di condanna e di assoluzione. Dalle gabbie che circondano l’ aula-bunker a ferro di cavallo gli imputati ascoltano attenti, in silenzio, aggrappati alle sbarre. Al Grande Processo ai 466 di Cosa Nostra siamo alla seconda giornata dedicata alla requisitoria del pm Domenico Signorino e si comincia con i grandi numeri: 25 le posizioni esaminate, 4 i proscioglimenti sollecitati, 181 e mezzo gli anni di carcere richiesti, 420 i milioni di multa proposti in aggiunta. Nel mucchio c’ è anche Tommaso Buscetta. E’ il superpentito della mafia, è l’ uomo che con le sue rivelazioni ha permesso il blitz del novembre di tre anni fa che consentì l’ arresto di centinaia di persone tra boss e gregari dell’ onorata società. Ma è anche un imputato, di associazione a delinquere di stampo mafioso naturalmente. Per il pm non c’ è discussione sulla sua colpevolezza, visto che ha confessato le sue colpe. Ma ha anche dato un notevole contributo alla giustizia, quindi merita un occhio di riguardo: 4 anni, 2 e mezzo dei quali già scontati. L’ elenco parte da Abbate Giovani, quello che ha dato il nome al maxiprocesso. E’ imputato di associazione mafiosa e traffico di droga. I pentiti Salvatore Contorno e Vincenzo Sinagra lo accusano di appartenere alla famiglia di corso dei Mille: 7 anni per l’ associazione, insufficienza di prove per la droga sono le richieste. Si va avanti al ritmo di 5-10 minuti per ogni imputato: Giuseppe Abbate 9 anni per associazione mafiosa, insufficienza di prove per la droga; Mario Abbate 9 anni per associazione; Rosolino Alaimo 3 anni per favoreggiamento; Vittorio Alario amnistia per falsa testimonianza; Francesco Paolo Alduino insufficienza di prove per l’ associazione mafiosa. Ad accusarlo è solo Buscetta. Non esistono altri riscontri e allora, per il pm, c’ erano elementi per rinviarlo a giudizio, ma non ci sono per condannarlo. Un discorso che vale anche per altri, compresi quei presunti appartenenti alla Commissione di Cosa Nostra (Bonura, Bono, Salvatore e Leonardo Greco, Savoca, Buscemi, Corallo, Motisi, Di Carlo, Scaduto, Pietro Vernengo) per i quali ha chiesto l’ assoluzione lunedì scorso. Si procede: Gioacchino Alioto 15 anni e 10 milioni di multa per associazione mafiosa, tre rapine, due sequestri di persona; Federico Amato 4 anni e mezzo e 10 milioni di multa per favoreggiamento e ricettazione; Vincenzo Anselmo 16 anni e 100 milioni per traffico di droga; Vincenzo Arcoleo 8 anni per associazione; Emanuele Vito Badalamenti, nipote del più celebre Gaetano, insufficienza di prove per associazione; Calogero Bagarella, fratello di Leoluca, 6 anni per associazione anche se Buscetta sostiene che è morto; Antonio Battaglia 8 e 10 milioni per associazione e droga; il fratello Giuseppe 20 anni e 100 milioni per gli stessi reati più sequestro di persona, rapina e violazione di domicilio, Giuseppe Baldi 6 anni per associazione, insufficienza di prove per droga; Giuseppe Bertolino 6 anni per associazione; Ludovico, Pietro e Antonino Bisconti 7 anni per associazione, Pietro e Ludovico insufficienza di prove per droga; Giovanni Bontate 8 anni per associazione e insufficienza di prove per droga; Giuseppe Brazzò insufficienza di prove per ricettazione; Alessandro Bronzini 18 anni e 100 milioni per associazione e droga; Vito Carmelo Brullo 3 anni per favoreggiamento; Tommaso Buscetta 4 anni per associazione; Giuseppe Calamia 6 anni per associazione, insufficienza di prove per droga. Fin qui l’ elenco chiusosi per il momento all’ inizio della lettera C. Prima, però, Signorino aveva concluso il suo discorso a proposito dei delitti commessi con le stesse armi (omicidi Inzerillo e Bontate, tentato omicidio Contorno, strage alla circonvallazione con cinque morti, strage Dalla Chiesa con tre vittime) affermando che vanno inquadrati nella guerra di mafia cominciata nell’ aprile ‘ 81 e conclusasi nel settembre ‘ 82 con l’ assassinio del prefetto di Palermo, compiuto da elementi palermitani e catanesi al termine della lotta per l’ egemonia, un momento importante della quale era stato l’ omicidio di Alfio Ferlito, boss catanese ucciso dai palermitani per fare un favore a Nitto Santapaola. L’ assoluzione per insufficienza di prove a proposito di questi reati si impone, secondo il Pm, per Leonardo Greco, Ignazio Motisi, Andrea Di Carlo, Salvatore Greco e Giovanni Scaduto, la formula piena (non aver commesso il fatto) per Pietro Vernengo che in quel periodo si trovava in carcere. Per quanto riguarda in particolare alcuni di questi reati, vanno assolti, per il Pm, anche Pietro Loiacono, Ignazio e Giovambattista Pullarà, Giuseppe Montalto, Salvatore e Giuseppe D’ Angelo. Tutti imputati però che devono rispondere anche di altri reati. Ecco perché di loro si parlerà ancora, magari in termini di condanne, quando l’ elenco alfabetico lo consentirà. Ultimo argomento trattato ieri l’ omicidi del medico legale Paolo Giaccone, dovuto alla ritorsione delle cosche contro la puntuale, onesta, scrupolosa attività professionale della vittima, un uomo grandemente stimato e tenuto in estrema considerazione, dalla vita privata cristallina. Venne assassinato con un’ arma che aveva lo stesso caricatore usato per eliminare due figli di Buscetta, Vincenzo e Benedetto. Era la stagione di sangue della mafia, caratterizzata da una escalation di violenza, un morto dietro l’ altro ad ogni angolo di strada. Degli imputati del delitto Giaccone, Signorino parlerà oggi e domani, quando l’ elenco alfabetico proseguirà. Da lunedì, la parola passerà all’ altro Pm, Giuseppe Ayala.

 

 

 

Articolo da La Repubblica del 7 Aprile 1987

CINQUEMILA ANNI DI RECLUSIONE PER 262 IMPUTATI

di Giuseppe Cerasa

PALERMO Il grande business della droga, i colossali traffici tra Medio Oriente, Sicilia, Stati Uniti ed Europa, le immense fortune di Cosa nostra custodite nelle banche svizzere, il riciclaggio del denaro sporco. Di questo si è occupato il pubblico ministero Giuseppe Ayala nel secondo round della requisitoria al maxiprocesso contro Cosa nostra. Ayala parlerà per otto udienze, esaminerà le posizioni processuali di 262 imputati (alla fine si dovrebbe arrivare ad una richiesta complessiva di cinquemila anni di reclusione) partendo proprio da quello che ieri ha definito il più grande affare in assoluto della mafia. Quel traffico di eroina strumento formidabile per la moltiplicazione del capitale. Ayala ha iniziato a parlare all’ indomani della clamorosa sentenza di Messina che adesso proietta la sua ombra anche all’ interno dell’ aula verde dell’ Ucciardone. E proprio per ribadire la diversità di un processo che non si caratterizza solo per la presenza di 466 imputati, il Pm ha detto che la requisitoria non è un atto d’ accusa scontato, ma un progetto di sentenza meditato e responsabile. Luciano Liggio e Pippo Calò non hanno perso una parola della requisitoria del pubblico ministero. E neanche Pietro Vernengo che ha reagito con un leggero movimento del capo alla richiesta di ergastolo avanzata dal pubblico ministero. Dietro le sbarre per la prima volta dall’ inizio del processo c’ era anche Vincenzo Buffa, il pentito dei clan vincenti che avrebbe raccontato ai giudici i retroscena su fatti e misfatti di mafia visti con l’ ottica di chi la guerra tra le cosche l’ ha combattuta sull’ insanguinato terreno palermitano e l’ ha vinta. Pietro Vernengo, arrestato nel porticciolo di Nisida a pochi chilometri da Napoli al termine di un rocambolesco inseguimento, riteneva probabilmente di dover saldare un conto con la giustizia solo per traffico di droga e associazione mafiosa. Nei giorni scorsi infatti l’ altro pubblico ministero Domenico Signorino aveva chiesto la sua assoluzione dai grandi delitti attribuiti alla commissione di Cosa nostra. Ieri il giudice Ayala ha addebitato a Vernengo e ad altri esponenti di Cosa nostra la responsabilità dell’ omicidio di Antonino Rugnetta, avvenuto nel 1981 nella camera della morte di piazza Sant’ Erasmo. E’ stato il pentito Vincenzo Sinagra a svelare tutti i particolari di una sentenza di mafia eseguita nel tentativo di conoscere il rifugio segreto di Totuccio Contorno. Alla fine attorno al collo di Rugnetta fu messo un cappio e il suo cadavere fu fatto ritrovare davanti ad una caserma della Guardia di Finanza.

 

 

 

Articoli da L’Unità del 17 Dicembre 1987

La sentenza del maxiprocesso

Al termine di 349 udienze sono 19 gli ergastoli. Gli assolti sono 114 tra cui Luciano Liggio
Tre anni e sei mesi al grande pentito Buscetta. Pesante verdetto (7 anni) per Ignazio salvo.

Condanne per 2665 anni di carcere

di Saverio Lodato

Il maxi processo a Cosa nostra si è concluso. La corte ha inflitto 2665 anni di carcere, quasi la metà dei 5mila chiesti dai pm e 11 miliardi e 542 milioni di multa. Dei 23 imputati per omicidio, a parte i 19 ergastoli, 4 imputati vengono condannati a pene leggermente inferiori. 114 imputati assolti. Rimangono ancora oggi latitanti 76 imputati del processone.

PALERMO. Sono colpevoli. Sono colpevoli di aver fatto parte dell’organizzazione criminale denominata Cosa Nostra. Sono colpevoli di essersi lasciati alle spalle l’impressionante scia dì stragi e delitti.
Sono colpevoli di aver decapitato, mettendo per anni la Sicilia a ferro e fuoco, i vertici dello Stato e delle istituzioni. Sono colpevoli di aver diretto il grande business dell’eroina.
C’erano grandi nomi in questo processo di Palermo. Ci sono state grandi condanne. I mafiosi più in vista sono stati processati e giudicati, quindi ritenuti colpevoli. Gli ergastoli sono stati 19., Quasi un centinaio, invece, le assoluzioni, tra cui quella di Luciano Liggio. E’ andata bene anche per i pentiti: tre anni e 6 mesi a Buscetta; 6 anni a Contorno.
Alle 18 in punto di ieri sera, l’ingressoo nell’aula bunker della Corte d’assise presieduta da Alfonso Giordano, giudice a latere Pietro Grasso, è stata accolta da un silenzio spettrale. E tutti in piedi, dopo 349 udiente, dopo la snervante attesa delle ultime quattro ore, dopo i giorni dell’odio e delle polemiche, in aula, nelle tribune, o nelle gabbie, hanno finalmente conosciuto il verdetto che conclude questo primo «maxi» processo: le accuse dei pentiti sono state accolte, ma non a scatola chiusa, bensì perché supportate da un’infinità di riscontri. L’impianto teorico e tecnico dell’ordinanza dei giudici di Palermo, firmata da Antonino Caponnetto che prese il posto di Rocco Chinnici, assassinato, ha superato cosi agevolmente tutte le insidie del dibattimento. Si chiude, anche se solo formalmente, un capitolo nero della storia italiana. Restano sullo sfondo, probabilmente materia di processi futuri, gli intrecci perversi tra questa organizzazione oggi alla sbarra e gli esponenti del mondo economico, politico, finanziario appena sfiorati dalle indagini.
Quel «terso livello» al quale mai forse si é voluto attingere seriamente.
Ma questa sentenza ha posto finalmente un punto. Il «papa», nel caso Michele Greco, il «senatore» nel caso di
Salvatore Greco, le «belve», nel caso di Bernardo Provenzano e Salvatore Riina, il «super killer», nel caso di Pino Greco, il «cassiere, dellia mafia nel caso di Pippo Calò, «il terrorista», nel caso di Rosario Riccobono, il «sanguinario», nel caso di Filippo Marchese, per ricordare solo nomi più sinistri, non rappresentano più gli ingiuriosi soprannomi scelti da pentiti o giornalisti persecutori, ma, in buona sostanza, il tratto distintivo vero dei protagonisti di una vicenda orrendamente «granguignolesca» costata troppi lutti.
Viene, cioè, sciolto il grande interrogativo della vigilia: funzionerà l’intelaiatura del «teorema Buscetta»? Sarà cioè riconosciuto valido il criterio che chiamava in causa l’intera super commissione per singoli delitti? La risposta è sì. È stata proprio questa commissione a dar l’ordine di assassinare Carlo Alberto Dalla Chiesa, sua moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente Domenico Russo. E’ stato questo vertice super-segreto ad assoldare il killer solitario che sparò a bruciapelo contro il commissario di polizia Boris Giuliano. Che diede l’ordine di assassinare capitano dei carabinieri della compagnia di Monreale, Emanuele Basile, nonostante fosse a fianco della moglie, con la figlioletta in braccio. È stato il conclave dei boss a lasciare in un lago di sangue il professor Paolo Giaccone del Policlinico di Palermo perché non si era piegato. O l’agente Calogero Zucchetto, che insieme al commissario Ninni Cassare, se ne andava a bordo di un vespino per i vicoli di Ciaculli, alla ricerca dei latitanti più temuti. Sono stati ancora una volta loro a scatenare, con l’eliminazione dei boss rivali Stefano Bontade e Totuccio Inzerillo, un regolamento di conti di portata gigantesca a base di centinaia di delitti, scomparse, torture, tradimenti, orrende camere delta morte, e che si è giocato in scenari distinti: dalla Sicilia al nord-Italia da New York alla California.
Questi nomi delle persone colpite dalla massima pena per delitti gravissimi. Giuseppe Lucchese. Salvatore Montalto. Francesco Spadaro. Antonino Sinagra. Giuseppe Greco. Michele Greco. Francesco Madonia. Antonino Marchese. Filippo Marchese e Giuseppe Marchese. Bernardo Provenzano. Giovambattista Pullarà. Rosario Riccobono. Salvatore Riina. Salvatore Rotolo. Benedetto Santapaola. Pietro Senapa. Vincenzo Sinagra e Pietro Vernengo. C’era Mario Prestifilippo, per il quale era stato chiesto l’ergastolo, ma che nel frattempo è stato assassinato poco tempo prima che la Corte entrasse in camera di consiglio. In totale i due pubblici ministeri, Giuseppe Ayala e Domenico Signorino, avevano chiesto ventotto condanne a vita. Ne vengono meno otto: ma la Corte, in questi casi, non si è discosta molto da quel progetto di sentenza che la pubblica accusa aveva attribuito come definizione della requisitoria.
Come era prevedibile, aver collaborato tanto intensamente e proficuamente ha consentito, a molti pentiti di pagare un prezzo moderato per i reati compiuti. Il grande pentito: Tommaso Buscelta. 3 anni e 6 mesi che difficilmente dovrà scontare. E’ infatti ormai un cittadino americano a tutti gli effetti come lo è ormai
Totuccio Contorno che con le sue confessioni provocò un’altra valanga di arresti.
Contorno ha avuto 6 anni, ma lo avevano sorpreso in una villa alle porte di Roma con un quintale d’eroina. Entrambi in questi anni avevano subito lo sterminio dei propri nuclei familiari prima di arrendersi all’evidenza e decidere di rivolgersi allo Stato. A seguire il loro esempio, un’altra ventina di mafiosi, tutti trattati con mano leggera dalla Corte.
Pesante invece il verdetto (7 anni) per Ignazio Salvo, ex esattore di Salemi, che pur non dovendo rispondere di fatti di sangue, era stato considerato personaggio contiguo a Cosa Nostra. C’è un’altra condanna esemplare. I 4 anni e 6 mesi inflitti all’avvocato Salvatore Chiaracane, tipico «consigliori», a giudizio della Corte, delle cosche dell’eroina nelle borgate palermitane.
Infine le assoluzioni.
Quasi un centinaio, il doppio di quante ne avevano chieste pubblici ministeri, un numero che però si può  definire «fisiologico» in qualsiasi processo. Come altrettanto fisiologiche le lievi riduzioni di pena. 23 anni a Pippo Calò, per il quale il pubblico ministero aveva chiesto l’ergastolo. E’ un gran giorno invece per Luciano Liggio, il boss di Corleone. Assolto da ogni addebito. Lo avevano accusato di impartire ordini dal carcere dell’Ucciardone, nel quale è rinchiuso dal ’74, ma questa tesi -evidentemente – è stata respinta. Lui, ieri, quasi lo prevedesse, ha snobbato l’udìenza.

 

La cupola mafiosa all’ergastolo
Colpo al sistema. Ora non fermarsi

Di Emanuele Macaluso

A Palermo è stato portato a compimento un processo che radunava un potente e folto gruppo di capi-mafia e gregari, che negli anni 70-80 hanno avuto certamente un ruolo rilevante nel sistema mafioso e anche in quello più ampio in cui si esercita un potere reale, di dominio.
Occorre dire subito che i magistrati che hanno istruito questo «maxiprocesso», quelli che hanno sostenuto, in aula, l’accusa e quelli che sono stati chiamati a giudicare, hanno dimostrato notevole professionalità, coraggio e fermezza. Senza iattanza. C’erano difficoltà oggettive dovute al numero grande di imputati e alla complessità dell’istruttoria. Ma c’erano anche difficoltà dibattimentali dovute alla vecchiezza di alcune norme del codice, e all’esigenza di garantire diritti legittimi della difesa. Queste difficoltà sono state superate non solo per la fermezza dei giudici, ma per il consenso e il sostegno che è stato dimostrato, in più occasioni e in momenti difficili, dalle forze più vive e vigili della pubblica opinione siciliana e del Parlamento.
Sarebbe però illusorio ritenere che con questo processo e le sue conclusioni sia stato debellato il sistema mafioso. Non è così. E stato attaccato ed è stato dato un colpo duro in un punto alto di questo sistema. Un punto che ha fatto da cerniera tra i punti più alti e quelli più bassi.

Un nome fra tutti fa spicco in questo sistema ed e quello di Greco (il papa). Per arrivare a questo risultato sono state utilizzate le testimonianze dei pentiti come Buscetta.
L’uso del pentiti è stato un punto nodale del processo, e non perché l’accusa si fondasse solo sulle loro testimonianze, ma perchè dava un supporto di eccezionale rilievo alle prove raccolte. Sappiamo che i «pentiti» effettivamente non erano tali, dato che non avevano maturato nella loro coscienza un rifiuto del modo d’essere e di agire della mafia. Si tratta di gente che, anche per ritorsione, ha usato quel che sapeva per colpire chi li aveva, nel clan mafioso, emarginati e distrutti, uccidendo anche i loro parenti. I giudici, in definitiva, hanno usato questa contraddizione che esprimeva il sistema.
I risultati confermano la giustezza della strada percorsa. Ma attenzione: la situazione, in Sicilia e nel paese, è tale per cui è pensabile che il sistema mafioso si possa ricomporre. E questo per tre motivi:
1) Nei punti più alti del sistema politico si governa e si esercita il potere con metodi che richiedono, inevitabilmente, una mediazione di tipo mafioso; un ricambio di personale che sostituisca quello che abbiamo visto nel gabbione non è difficile, anzi è nelle cose.
2) La manovalanza è in crescita, sempre in attesa di lavoro sporco, anche perché non c’è quello pulito.
3) Nella pubblica opinione ci sono segni di sfiducia preoccupanti. E sappiamo che la sfiducia si può esprimere anche in una omertà di massa.

 

 

1:28:33

Film-documentario di Marco Turco dal libro di Alexander Stille, il racconto della lotta alla mafia, il sacrificio di Falcone e Borsellino, il maxiprocesso. “In un altro Paese”, omaggio agli eroi che guardarono in faccia Cosa nostra

 

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