L’IMPERO DEL MITRA I briganti siciliani del dopoguerra di Salvatore Nicolosi

L’impero del mitra
I briganti siciliani del dopoguerra.

di Salvatore Nicolosi

Editore: Tringale (1984)  – Longanesi (1975 – 1978) – Bonanno (1972)

Queste storie del banditismo siciliano del dopoguerra formano, tutte insieme, la storia di quel torbido tremendo fenomeno, intimamente intrecciato alle vicende politiche e sociali che lo generarono, lo alimentarono, lo avvelenarono e lo spensero. E’ una galleria immensa e varia di personaggi straordinari: Giuliano, Avila, Dottore, Molano, Fra’ Diavolo, La Marca, Fuselli e tanti, tanti altri, biechi e insensibili ma anche, in qualche caso, umani e sventurati.

 

 

Tratto dal Libro L’IMPERO DEL MITRA di Salvatore Nicolosi

Si ringraziano il Sig. Nino Impallari per la ricerca bibliografica e la Sig.a Lucia Rita Daino, nipote di Fiorentino Bonfiglio, una delle vittime della strage, per il suggerimento.

LA STRAGE DI FEUDO NOBILE di Salvatore Nicolosi

Otto carabinieri sequestrati dai banditi

Non c’è archivio e non c’è documento che conservi tutt’intera e definita la storia del più oscuro e odioso episodio della guerriglia. E’ scoraggiante constatare che dalla strage di otto carabinieri esistano oggi, in contrasto aperto l’una con l’altra, tante versioni. Così diverse da dar l’idea che, tolte le linee essenziali del fatto, tutti i frammenti del racconto si riferiscano a storie differenti e scomparse.
Le linee essenziali del fatto sono queste: otto carabinieri vengono catturati dai banditi a feudo Nobile (territorio di Gela, provincia di Caltanissetta) il 10 gennaio 1946, cioè dodici giorni dopo San Mauro; vengono uccisi il 29 gennaio dopo svariate peregrinazioni; i cadaveri sono ritrovati il 25 maggio in fondo a una miniera di zolfo nei pressi di Mazzarino (Caltanissetta), in contrada Bubonia.
Anche le spiegazioni del fatto sono contraddistinte. Ciascuno dei protagonisti sopravvissuti ne ha una, sua personale, e la proclama negando con sdegnosa perentorietà tutte le altre. Il processo che si celebrò dinanzi alla corte d’assise di Caltanissetta nel dicembre 1948, e che mandò all’ergastolo i banditi superstiti, non chiarì molti punti e non ascoltò molti personaggi che avrebbero meritato di essere sentiti. Si limitò ad accertare le singole responsabilità, senza scavare troppo nei fatti che si conclusero con l’eccidio della miniera. Le ricostruzioni che sono state tentate in seguito risultano perciò grossolanamente deformate.
La versione ufficiosa, fornita ai giornalisti dal comando dell’ispettorato regionale p.s., fu guanto mai imprecisa. Apparve sui giornali di sabato 12 gennaio, proveniente da Palermo, ed era tanto vaga e imprecisa che non merita d’esser conosciuta.
Un’altra versione, di fonte ufficiosa, fu quella che diedero, sulla base di indagini dirette, i giornali del tempo. Secondo questa, i banditi, poco dopo San Mauro, prescelsero deliberatamente la casermetta dei carabinieri ubicata in località detta Case Vitale, nel feudo Nobile; secondo le generiche direttive, del comando generale separatista, bisogna «attaccare le caserme dei carabinieri». Questo contrattacco, conseguente all’arresto di Gallo e dei guerriglieri separatisti che venivano scovati nelle loro case, era dettato da «spavalderia, desiderio di rivalsa, fanatismo».
Offensive di questo genere si verificavano, in quei giorni, con grande frequenza in ogni parte dell’isola. Era Giuliano che dava l’esempio. Caserme assalite e scompigliate, imboscate, militari ridotti alla resa, millitari feriti, militari uccisi.

L’atmosfera, come si vede, era rovente.
A Feudo Nobile i banditi, nonostante la preponderanza numerica, non osarono attaccare in campo aperto; ma ricorsero a uno stratagemma.
Alcuni loro «amici» si presentarono il giorno 9 alla caserma dei carabinieri. La caserma di Feudo Nobile era presidiata da nove uomini; comandante era il brigadiere Vincenzo Amenduni, un pugliese di trentanove anni. Quei contadini venivano a denunciare un pascolo abusivo avvenuto in contrada Buonvissuti. L’indomani il sottoffuciale e quattro uomini (Mario Boscone di 22 anni, Vittorio Levino di 29, Emanuele Greco di 25 e Pietro Loria di 22) si recarono sul posto per il sopralluogo. Raccolti gli elementi, stavano per tornarsene in caserma, quando corse un grido:
«I briganti! I briganti!».
I contadini cominciarono a fuggire da ogni parte. I militari, per evitare di trovarsi allo scoperto, si rifugiarono anche essi nella cascina, pronti alla controffensiva. Apparvero infatti un gruppo di cavalieri, una decina, che circondarono il basso edificio. I carabinieri aprirono il fuoco. Anche i banditi sparavano. Ma i primi esaurirono quasi subito le munizioni, la fucileria si sgranò, così, per qualche tempo, dalla sola parte dei banditi.
«Uscite!» urlò uno degli assalitori. Probabilmente era Rizzo.
Il proprietario della cascina, che teneva in spalla un mitra, si avvicinò al brigadiere.
«Se non vi arrendete, quelli bruciano il cascinale. A che serve resistere ancora? Ecco il mio mitra. Potrete sparare, se volete, per un minuto o due. E poi sarete di nuovo come ora: senza possibilità di rispondere».

I carabinieri si arresero.
Non si sa se l’agguato sia stato effettivamente preordinato dai banditi: sembra poco verosimile una macchinazione (il pascolo abusivo) la cui riuscita si fondava su una denuncia ai carabinieri (ma le vittime avrebbero potuto tacere come in altri casi avveniva) e su un sopralluogo (che poteva non essere fatto, o esser fatto da un numero maggiore di militari meglio armati).
Non si sa, neanche, se i contadini del cascinale si siano prestati consapevolmente al gioco dei banditi: ma anche questo sembra poco credibile perché nessuno, per pavido che sia e qualunque amicizia nutra verso i fuorilegge, può gradire di trovarsi al centro di un conflitto armato inevitabile nel caso di un incontro dei banditi coi carabinieri.
Forse fin qui, e sempreché queste cose siano effettivamente avvenute, nulla era stato preordinato. Forse il pascolo abusivo c’era stato realmente; e l’incontro fra militari e fuorilegge era stato causale.
I cinque carabinieri uscirono disarmati dalla piccola costruzione, e gli assalitori li circondarono. tutti assieme, raggiunsero la casermetta.
Ce n’erano altri quattro, nella caserma.
«Dei quattro carabinieri rimasti» raccontò sulla Sicilia Giuseppe Gennaro, «uno si era recato a Gela, a prelevare la posta; gli altri tre, dopo un vivace combattimento, furono costretti alla resa».
I tre carabinieri si chiamavano Mario Spampinato di 31 anni, Fiorentino Bonfiglio di 28 e Giovanni La Brocca di 20.
Così i prigionieri, cinque più tre, diventano otto.

Un separatista, il messinese Giuseppe Barbera (fratello di Giovanni), appena arrestato, il 3 aprile 1947, diede una versione in molti punti discordante da quelle delle fonti governative.
Altra ancora, che merita consideranzione, e anch’essa di fonte separatista, è quella fornitaci da Nino Velis, che a quel tempo, dopo la cattura di Gallo, comandava le forse dell’EVIS. Risulta molto diversa dalle precedenti, soprattutto all’inizio. E’ questa:
«All’alba del 10 gennaio un gruppo di banditi capeggiati da Rizzo, nei pressi della caserma di Feudo Nobile, che ritenevano disabitata, si imbatterono in due carabinieri. Disarmati e in uniforme difatica, si aggiravano nei dintorni per accudire a talune operazioni quotidiane: si rifornivano di acqua e andavano a cercare verdure. Era una buona occasione per umiliarli in un modo qualsiasi. I carabinieri erano i loro nemici permanenti; anche il comando separatista di Palermo esortava i banditi a non dar tregua agli uomini in divisa. Era proprio una mortificazione quella che volevano infliggere; e perciò preferirono imprigionarli, anziché stenderli con una scarica a tradimento. Inoltre volevano render la pariglia agli arresti dei separatisti dopo i fatti di San Mauro».
Abbiamo chiesto se la direttiva della «pariglia» fosse stata in un modo qualsiasi impartita dal comando dell’EVIS o dai gerarchi del MIS. Velis ha negato che ci fosse un ordine esplicito pur ammettendo che poteva essere stato interpretato in modo avventato il generico invito alla guerriglia. Ha comunque escluso, come anche altri hanno escluso, l’intervento attivo dell’EVIS nello sbocco tragico che questo episodio ebbe.
«Più probabilmente» ha proseguito «perdettero la testa, tanto più che a breve distanza c’era il campo separatista e volevano impedire che i carabinieri lo individuassero e andassero a cercarvi gli uomini da arrestare… Be’, non so. Fatto è che puntarono le armi e si avvicinarono. Riuscirono a catturare il più vicino. L’altro, benché inseguito, tentava di dare l’allarme ai compagni rimasti in caserma. I banditi, con un breve conflitto, furono padroni del quartiere e degli uomini che lo presidiavano. Frugarono e saccheggiarono. Si portarono via ogni cosa: divise, abiti borghesi, casermaggio vario, viveri e armi. Incendiarono la caserma e si portarono i prigionieri lontano, al sicuro dalle rappresaglie. Prevedevano infatti massicce ritorsioni da parte delle forse regolari per liberare i prigionieri. Non ci furono».

Questo è cio che si sa sul colpo di mano che rese otto uomini della legge prigionieri di una decina di scellerati. Esistono alcuni altre varianti a queste versioni, probabilmente frutto di ricostruzioni e interpretazioni. I banditi superstiti hanno dal canto loro raccontato la cosa in maniera poco credibile e sempre in chiave difensiva.
Dopo la cattura degli otto carabinieri, secondo le norme di guerra in vigore. A quel tempo non era stata firmata la Convenzione di Ginevra (12 agosto 1949), che detta le norme internazionali in materia di prigionieri di guerra; ma se ne conoscevano il contenuto e i principi. In ogni caso, capisaldi molto simili erano in vigore da tempo, sanciti dalla prassi e, per iscritto, diciannove anni prima, nel 1929, dalla precedemte Convenzione anche essa firmata a Ginevra. Comunque, gli otto militari potevano essere guardati come materia di scambio.
Si parlò più volte, in ogni sede, di contrattare la loro liberazione con la liberazione di Concetto Gallo. Si disse anche che quegli uomini erano stati catturati proprio col fine di utilizzarli per lo scambio. Era un’ipotesi plausibile, ma nulla la conferma; e nulla del resto conferma le trattative fra separatisti e rappresentanti del governo in un secondo tempo, cioè quando i banditi si resero conto che a tirarsi dietro quei prigionieri essi ricavavano molti fastidi e, di sicuro, nessun vantaggio.
E’ possibile – cioè è una voce – che il duce Guglielmo di Carcaci abbia trattato in tal senso con l’ispettore generale di p.s. in Sicilia dott. Ettore Messana; ed è possibile che altri, a qualunque livello, abbiano tentato analoghi approcci. Ma non esiste traccia scritta né conferma verbale di tali trattative.

I morti nella miniera.

Cominciò così la convivenza dei tre gruppi: banditi-separatisti-carabinieri, ventidue uomini in tutto: quattordici più otto. Dalla caserma di Feudo Nobile gli otto militari furono trasportati dapprima verso nord, nel sughereto di San Pietro. Ma erano cominciati i rastrellamenti sistematici e le prime località a essere visitate e che da quel momento furono costantemente tenute d’occhio, erano quelle nelle quali i banditi avevano il loro covo. Bosco San Pietro era appunto una di queste. Perciò la permanenza in quel rifugio fu breve.
I giornali non riportarono subito la notizia della cattura dei carabinieri. Ma essa, giunta immediatamente al governo, provocò la stessa sera del 10 gennaio il seguente comunicato:
«L’odierno Consiglio dei ministri è tornato a occuparsi della situazione politica interna, in rapporto alle notizie di disordini pervenute particolarmente dall’Italia meridionale e dalla Sicilia».
Nuovamente, il giorno dopo, il Consiglio dei ministri volse la sua attenzione alla cosa.  Il ministro dell’Interno, il socialista Romita, fu al centro delle discussioni. Dal comunicato apparso il 12 gennaio sui giornali:

«Per quanto riguarda la Sicilia, il ministro ha comunicato che, essendo stato segnalato che un gruppo di circa cinquanta uomini, composto di elementi  separatisti e di delinquenti comuni, aveva costituito un campo in località S. Mauro, nei pressi di Caltagirone, venne disposta un’opportuna azione di polizia, che portò alla cattura di alcuni elementi e allo sbandamento degli altri.
I successivi fatti verificatisi in Sicilia, e cioè gli assalti condotti contro le caserme dell’Arma, hanno avuto i medesimi elementi misti, di separatisti e di     delinquenti comuni.
Il ministro ha comunicato di aver già disposto l’immediato invio di adeguati rinforzi di polizia, che, in collaborazione con le forze militari dell’isola, condurranno una decisa azione per l’annientamento di questa nuova forma di banditismo, al fine di restituire la necessaria tranquillità a quelle laboriose e pacifiche popolazioni. Contro i responsabili sarà proceduto con tutti i rigori di legge, mentre i favoreggiatori e i conniventi saranno inviati in campi di concentramento».

Quel giorno stesso, 12 gennaio, i giornali diedero, a parte, notizie di Feudo Nobile.
Catturatori e catturati migravano frattanto da una parte all’altra della Sicilia orientale, in preda al nervosismo e alla stanchezza. Forse non trascorsero mai più di una notte nella stessa fattoria; chi li ospitava non trqadiva poiché era in ogni caso persona di collaudata fiducia; e, quand’anche per improvviso ritorno sulla via dell’onestà o per qualsiasi altro evento avesse voluto, non poteva ugualmente farlo poiché chiunque ospitasse un bandito era sempre, da costui, tenuto d’occhio, né poteva allontanarsi finché il ricercato non s’era spostato altrove.
C’era però il pericolo che qualche contadino sconosciuto che a distanza avesse visto muoversi il drappello ne segnalasse la presenza, o semplicemente la direzione presa, ai carabinieri. Di qui la necessità di muoversi senza tregua.
«Degli otto prigionieri» scriveva in Sicilia Giuseppe Gennaro, «da allora ben poco si è saputo. Essi sono stati intravisti una volta, insieme ai quattordici “cavalieri”, dalle parti di Grammichele; ma nuclei subito partiti in rastrellamento da Caltagirone non trovarono alcuno. A noi personalmente risulta che essi sono trattati come prigionieri di guerra; i separatisti dicono anzi, “secondo le convenzioni internazionali di Ginevra”».
Un’altra corrispondenza giornalistica riferiva che, successivamente il gruppo era stato avvistato a ovest di Caltagirone, presso San Cono. Una cavalcata così appariscente non poteva sfuggire, tanto più che l’attenzione delle popolazioni era stata calamitata verso l’inaudito episodio.
Come aveva preannunciato il comunicato del Consiglio dei ministri, il contingente di soldati, carabinieri e polizia era stato rafforzato con colonne massicce di uomini del battaglione misto «Aosta» (carabinieri e fanti) e di reparti del 45° reggimento fanteria della divisione «Sabauda», nonché con carri armati leggeri.
La banda dei Niscemesi era stata localizzata – si disse – in una zona che comprendeva «gli estremi lembi delle provincie di Caltanissetta, Catania e Ragusa: un’ampia zona aspra, impervia, boscosa e di facili nascondigli, difficilissima ai movimenti di grossi reparti regolari». La zona era «circoscritta tra San Mauro, monte Moschitto, Niscemi e i boschi di San Pietro al centro, Feudo Nobile e quinti Acate all’estremo sud».
Mentre quel duro pellegrinaggio proseguiva, i giornali diedero notizia il 17 gennaio, di un episodio di guerriglia. Una colonna di militari pervenuta, da Caltanissetta, nel circondario di Caltagirone, fu assalita, nei boschi di San Pietro, da banditi; un sottotenente rimase ferito.
Anche se i banditi controllavano la campagna; anche se le forze governative non conoscevano né il numero dei fuorilegge né tantomeno quello dei separatisti (e lo consideravano certamente superiore a quello reale); anche se le informazioni erano assai imprecise (per più giorni, inspiegabilmente, si parlò di cinque anziché otto carabinieri); anche se l’iniziativa era tenuta dai ribelli e non dall’esercito; anche se l’offensiva governativa si risolse in un insuccesso; nonostante ciò, il terreno scottava sotto i piedi dei banditi . E la cattura degli otto militari, lungi dal costituire un’intimidazione per le forze regolari e lungi dal giovare alla liberazione di Concetto Gallo, si tramutò quasi subito, per i fuorilegge, in un motivo di impaccio. Che fare di quei prigionieri?
Rizzo e compagni non vedevano l’ora di sbarazzarsene. Comunque era ormai pacifico che non potevano rimandarli liberi: gli otto carabinieri avevano in quei giorni conosciuto, a uno a uno, i complici e i favoreggiatori della banda, coloro cioè che avevano dato loro ricetto e informazioni; e, col loro occhio abituato, una volta liberi sarebbero stati in grado di rintracciarli a uno a uno. E Rizzo voleva evitare fastidi ai favoreggiatori. Ma non certo per scrupolo o per altruismo. Molto più semplicemente, non voleva perdere quei rifugi: ciò che sarebbe sicuramente avvenuto se i titolari fossero stati individuati e arrestati.
Insomma: per la prima volta ebbe paura dell’«arma» di cui s’era impadronito.
I banditi, così, cominciarono a guardare con odio i loro imbarazzanti ostaggi. Secondo qualche voce – che non si elevò mai al rango di testimonianza sicché oggi è impossibile accettarla come verità, – queste torve e impetuose passioni si manifestarono anche con maltrattamenti di vario genere: dai digiuni alle lunche marce, dall’abbigliamento ridotto (non si dimentichi che era inverno) alle batoste.
Si può immaginare lo stato d’animo degli otto uomini e ciò che essi devono aver provato: disperazione, ricordo della famiglia, umiliazione per esser diventati i prigionieri proprio di coloro che essi avevano cercato inutilmente di imprigionare.
E tuttavia, strano a dirsi, non furono i nervi dei catturati a saltare per primi, bensì quelli dei briganti. Rizzo, che era fra tutti l’unica mente raziocinante, si accorgeva d’essersi legato un macigno al collo, troppo rischioso e pesante, del tutto privo – come i fatti avevano dimostrato – di potere contrattuale. Ogni giorno cresceva il passivo di quella convivenza.
Fu per queste ragioni che dovette maturare in lui l’idea di mettere fine a quell’affannosa diaspora ammazzandoli tutti e otto. Se della cattura si sono trovate tante ragioni ma nessuna sufficientemente plausibile, della strage il movente è stato individuato con sicurezza: la paura.

Si è avanzato il sospetto che l’ordine di ucciderli sia stato impartito dal comando separatista, come vendetta per la mancata liberazione di Gallo. Ma, a parte i recisi anzidetti dinieghi sempre venuti da questa fonte, la cosa sembra inverosimile anche per altri motivi:
a) i separatisti – schieramento politico non banda di delinquenti comuni – non avrebbero potuto considerare l’assassinio a freddo come un atto di ritorsione; per civiltà e per più vigile senso morale riòudiavano un gesto simile;
b) i separatisti, ordinando un eccidio come quello, avrebbero avuto tutto da perdere e nulla da guadagnare: indubbiamente i banditi, una volta catturati, avrebebro rivelato da che parte era venuto l’ordine; peraltro nessuno dei banditi superstiti accennò mai al comando dell’EVIS.
c) la generica disposizione del comando EVIS, di «assaltare le caserme dei carabinieri», mirava a risultati di prestigio e di intimidazione, non già a inutili stragi, dal cui peso i separatisti, quando sarebbe venuta l’ora della resa dei conti, non avrebbero potuto liberarsi neanche rifugiandosi sotto la corazza del movente politico (dell’amnistia per reati militari e politici a gennaio, del resto, non si parlava ancora; se ne sarebbe cominciato a parlare, alcuni mesi dopo, a maggio).
La paura che ebbero i banditi – giova ripeterlo – fu dunque alla base di quella condanna a morte collettiva.
Rizzo non comunicò a nessuno in anticipo la gelida e allucinante decisione. Non la comunicò, perlomeno, a nessuno dei separatisti.

Il campo dei banditi e dei guerriglieri era in contrada Rafforosso, sette-otto chilometri a ovest di Caltagirone. I prigionieri erano stati sistemati, tutti insieme, in una stanza. In un’altra avevano preso posto i banditi. I pochi guerriglieri se ne stavano in disparte e non avevano contatti con gli altri: obbedivano al loro compito, che era quello di osservarli direttamente: si limitavano a tener d’occhio la porta di accesso alla loro «prigione» e alla finestra.
La sera del 28 – secondo una testimonianza di Avila junior che nessun altro fu in grado, o ebbe voglia, di confermare – arrivò al campo «un giovane sui vent’anni che indossava un impermeabile chiaro»; non si seppe mai chi fosse: Costui parlò con Rizzo, che in quell’occasione apparve essere quel che effettivamente era, il capo della banda; e lo stesso Avila udì accennare a certe automobili pronte «a portar via i carabinieri». Di queste macchine non si seppe più nulla, e  nulla si seppe del giovane che, dopo il rapido colloquio con Rizzo, si eclissò e mai più fu rivisto. E’ possibile che fosse un emissario del comando separatista; è pssobile che Avila avesse interpretato erroneamente qualche frase udita; in astratto è anche possibile che questa visita sia stata un’invenzione del giovane bandito.
Comunque, fu proprio quella sera che Rizzo decise la morte dei suoi prigionieri.
Due ore prima di mezzanotte quando l’oscurità era scesa da parecchie ore e quando il freddo era intenso, egli diede l’ordine ai suoi uomini di far uscire i carabinieri dalla loro «prigione»; li fece legare assieme a coppie, con le loro stesse manette d’ordinanza.
Così gli otto iniziarono il loro viaggio senza ritorno.
La marcia durò un’ora e mezzo, finché arrivarono nel feudo Rigiurfo_Costanzo, di proprietà della principessa Deliella, precisamente in contrada Bubonia. E’ in territorio di Mazzarino, provincia di Caltanissetta; vi esistono numerose miniere di zolfo.
Il terreno è costellato di «buche d’assaggio». Fu soll’orlo do una di quelle buche che avvenne lo scempio.
«La buca» riferì un inviato speciale «si presentava con un diametro di tre metri e una profondità approssimativa di quindici. Una rudimentale scaletta, scavata nel terreno di roccia argillosa, conduceva al fondo».
L’ì Saporito comunicò che ora sarebbero stati liberati. Non c’era nessun rapporto logico fra il trovarsi dinansi a qulla «buca d’assaggio» e l’imminente liberazione; e ancor meno ce n’era fra queste due circostanze e il successivo ordine che l’ex ergastolano diede agli otto carabinieri di spogliarsi di tutti gl’indumenti che avevano:
«I vostri vestiti ci servono» disse.
Li liberò dalle manette e li fece denudare. Uno, il brigadiere Amenduni, conservò la panciera; altri due la maglietta e le calze bianche della divisa.
Secondo una versione, Rizzo disse:
«La vostra vita non vale la libertà di Concetto Gallo».
Ma è probabile che questa battura sia stata inventata. Il bandito Milazzo riferì più tardi un’altra lapidaria e lugubre frase, anch’essa di Rizzo:
«Inginocchiatevi e raccomandatevi l’anima a Dio».
Anche questo sa di romanzesco, ed è inverosimile che un rozzo brigante abbia pronunciato – nello stato di eccitazione e di malumore in cui si trovava – un’esortazione così melodrammatica.
A questo punto, saino state o no pronunciate tali parole, fu consumata la strage.
Fujrono uccisi a uno a uno, coi mitra e coi moschetti. Ognuno assistette alla fucilazione dei compagni. Il brigadiere si strinse al petto una fotografia dei figli, e con quella fra le dita venne poi ritrovato.
Poi i cadaveri furono rovesciati dentro la miniera abbandonata.
Di quegli otto uomini non si seppe più nulla per quattro mesi.
Ma la loro sorte, anche prima che se ne trovassero i cadaveri, poteva esser facilmente intuita.
La luce – se luce fu – poté esser fatta, quasi per caso, giovedì 23 maggio. All’alba, fu arrestato a Catania «mentre usciva da una casupola del Viale Mario Rapisardi, dove aveva pernottato con la sua amante», uno dei boia della miniera: Milazzo “lavanna di pudditro”. Adranita di nascita, egli s’era spostato, dopo la fine dell’alleanza fra Niscemesi e separatisti (aprile), in provincia di Catania. Era stato segnalato agli uomini dell’ispettorato generale di pubblica sicurezza, e il dott. Ribizzi aveva organizzato l’operazione per la cattura.L’operazione era riuscita.
«Sottoposto al più stringente degli interrogatori» scrisse un cronista «il M ilazzo confessò che gli otto carabinieri erano stati uccisi e dichiarò di aver partecipato lui stesso all’eccidio. Guidò quindi la polizia al rinvenimento della macabra fossa».
I cadaveri vennero alla luce il 25 maggio 1946. Tra i più alti funzionari di polizia che erano presenti quel giorno alla miniera del fondo Rigiurfo-Cotumno si trovavano: il commissario dogg. Giuseppe Ribizzi, comandante dei nuclei mobili dell’ispettorato di p.s. per la Sicilia orientale (poi Questore); il commissario dott. Rosario Il dott. Melfi – che ha rievocato quella storia nel corso di un colloquio accordatoci quando era questore di Roma, nell’ottobre 1968 – si calò nella fossa con un carabiniere. Una prima volta il militare sceso, senza trovare i resti. Era risalito e aveva detto: «Nulla».
Il commissario diede un’occhiata interrogativa al bandito Milazzo, e il bandito annuì con un movimento del capo.
Stavolta scesero in due: il dott. Melfi e il carabiniere. Smossero un po’ di pietre e dellaterra che si erano ammucchiate: alla luce d’una torcia si scoprì qualche traccia di quei corpi.
allora l’esplorazione fu completata da tre carabinieri. Essi si calarono nella buca, ma «non osarono toccare il fondo», poiché rimossa che era stata la terra, ora «un fetore irresistibile ne scaturiva e nient’altro era possibile distinguere che un groviglio informe di terra e cadaveri». Così, si dovette aspettare che arrivassero sul posto i mezzi adeguati a quella esplorazione sotterranea. I commissari Melfi e Saetta sirvegliarono per due giorni il piantonamento della miniera da parte di agenti e carabinieri. L’operazione cominciò alle 10 del mattino del 27 maggio.
In una cronaca del tempo si legge:

Diversi metri cubi di terreno furono estratti assieme ai cadaveri. Questi apparivano come mummificati, ischeletriti: pesavano sui trenta chili ciascuno. Presentavano tutti una larga ferita all’occipite, e numerosi colpi d’arma da fuoco avevano squarciato i loro petti, colpi tirati a distanza ravvicinata. I volti erano sfigurati ma non irriconoscibili. Subito dopo l’estrazione (l’ultimo cadavere fu restituito alla luce alle 14,05), i miseri resti furono composti nelle casse, che erano state subito approntate a Mazzarino. Caricate su un camion, le casse furono trasportate a Mazzarino, dove ricevettero la benedizione. Indi, salutate al passaggio da due fitte ali di popolo commosso e riverente, furono avviate a Caltanissetta, dove furono loro tributate solenni onoranze.

 

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