«L’omicidio politico» del generale Carlo Alberto dalla Chiesa di Marika Demaria

«L’omicidio politico» del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa
di Marika Demaria

Il 3 settembre 1982 alle 21.10, la mafia uccideva il prefetto di Palermo Carlo Alberto Dalla Chiesa, il piemontese di Saluzzo tornato in Sicilia per  combattere Cosa nostra ma con i poteri “del prefetto di Forlì”. Quattro mesi di insidie, veleni, isolamento che preannunciarono il tragico epilogo.
A distanza di trent’anni, il ricordo del figlio Nando.

«Tre cose ti avevo promesso dentro di me il pomeriggio di quel 5 settembre a Parma, mentre ti sottraevano per sempre al sole: che avrei gridato al mondo il nome dei tuoi assassini; che avrei difeso la tua memoria dagli assalti degli sciacalli; che avrei cercato di tenere vivi gli ideali per i quali eri caduto. Per quello che potevo, quella promessa l’ho rispettata».

Il destinatario di quelle promesse era il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa, ucciso il 3 settembre 1982 insieme alla moglie Emmanuela Setti Carraro; l’agente di scorta Domenico Russo, che coraggiosamente tentò di salvarli dal fuoco dei kalashnikov con la sua pistola d’ordinanza, entrò in coma e morì dodici giorni dopo. Il figlio Nando si rivolse con quelle parole al padre dalle pagine di Delitto imperfetto, pubblicato nel 1984 dapprima in Francia, poiché in Italia non trovò subito spazio editoriale. La spiegazione di un simile atteggiamento è da ricercarsi nella denuncia che emerge dallo scritto: il delitto Dalla Chiesa fu un omicidio politico.
Un’affermazione che i figli Rita, Nando e Simona hanno urlato per trent’anni e che hanno ribadito proprio il giorno in cui l’Italia si è fermata per ricordare la strage di via Isidoro Carini.

«Tre decenni fa dissi di andare a cercare i mandanti nella Dc. Oggi lo confermo».

Dopo tutti questi anni c’è dunque ancora chi crede (o vuole credere) che ad uccidere il prefetto di Palermo fu solo la mafia?

«All’indomani delle celebrazioni per il trentennale dell’omicidio mi è stato chiesto di fare i nomi delle persone della Dc che ritenevo coinvolte….sì, nonostante tutto c’è ancora chi nega ciò che era sotto gli occhi di tutti. Io stesso credevo che non si sarebbero spinti a tanto, che non avrebbero ucciso mio padre perché ciò che accadde in quei quattro mesi a Palermo era così evidente, squassante, che colpirlo a morte  significava firmare quell’omicidio.

Purtroppo mi sbagliavo. Persone come i Salvo, Andreotti e i vertici della Cupola hanno formato un grumo di potere fortissimo, un sistema di potere che ha eliminato tutte le persone che potevano dare fastidio. Basti pensare a Pio La Torre, ucciso il 30 aprile 1982: aveva dichiarato che i mafiosi bisognava colpirli al cuore sottraendo loro le ricchezze, i patrimoni. Quando il Generale dalla Chiesa giunse a Palermo, proprio il giorno dei funerali del sindacalista, affermò chiaramente che non avrebbe fatto sconti a nessuno e che il potere, quel certo tipo di potere, sarebbe stato smantellato. Fu calunniato, lasciato solo, addirittura c’è chi insinuò che cercava visibilità per diventare ministro dell’Interno.
Il reato ascritto all’articolo 416 bis del codice di procedura penale si ebbe solo il 13 settembre di quello stesso anno: l’Italia dunque dovette pagare un tributo di sangue altissimo prima di ottenere uno strumento efficace per il contrasto alle mafie».

1982-2012: cosa è cambiato in questo ambito?

«Innanzitutto bisogna avere rispetto per la memoria. Non basta ricordare il sacrificio delle vittime delle mafie in occasione degli anniversari, specie quelli tondi. La memoria degli eroi deve essere continua, costante e non deve essere umiliata. Ognuno deve fare la propria parte: dalla cultura in senso generale al rifiuto della mafiosità, che deve essere spiegata all’interno delle scuole, bisogna che lo Stato si organizzi in maniera strutturata ed organica, difendendo i magistrati che della lotta alla mafia hanno fatto la loro ragione di vita e condannando i mafiosi anziché assolverli per insufficienza di prove (come accadde a Luciano Liggio, accusato dell’assassinio di Placido Rizzotto dall’allora capitano dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa, nda). Anche l’antimafia deve essere un movimento stabile, non basta commuoversi agli incontri pubblici per poi dimenticare gli insegnamenti delle persone che si sono appena celebrate».

Nando dalla Chiesa sottolinea che, nella generosa eredità di ideali e valori lasciata da suo padre, ci sono due insegnamenti che dovrebbero costituire il dogma per una società sana: i cittadini devono avere come diritti ciò che la mafia garantisce loro sotto forma di doveri e che finché una tessera di partito conterà più dello Stato non riusciremo mai a sconfiggere la mafia.

C’è una frase del Generale che suona come una sorta di testamento morale: «Ci sono cose che non si fanno per coraggio. Si fanno per potere continuare a guardare serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei propri figli. C’è troppa gente onesta, tanta gente qualunque, che ha fiducia in me. Non posso deluderla».
Professor dalla Chiesa, a distanza di trent’anni, che cosa vorrebbe dire a suo padre?

«Vorrei dirgli che capisco appieno il significato di quella frase che mi ha cambiato la vita. Mio padre, come carabiniere prima e prefetto poi, ha trasmesso dei valori giusti. Noi dobbiamo continuare a portarli avanti».

Il 3 settembre a Milano, nella sala comunale Alessi moltissima gente ha potuto guardare negli occhi i figli e i nipoti del Generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Il Comune ha voluto ricordare il sacrificio del prefetto dei cento giorni proiettando il documentario “Generale” diretto da Lorenzo Rossi Espagnet, nel quale Dora Dalla Chiesa, figlia di Nando e nata quattro mesi dopo la strage di via Carini, ha raccontato la figura del nonno.

Un lavoro artistico realizzato grazie all’impegno dal basso di cittadini onesti e di alcune associazioni, poiché il ministero per i Beni e le Attività Culturali  non lo ha ritenuto di interesse.
«Non ricordo come ho scoperto che fosse morto. L’ho sempre saputo e basta. Solo che fino a una certa età lo immaginavo a combattere in Vietnam; verso gli undici anni, forse, ho capito che tipo di guerra era andato a combattere», racconta la giovane donna, guardando alcune foto di famiglia.

Dagli episodi raccontati dai figli del Generale si comprende che il militare è stato sempre consapevole dei rischi a cui andava incontro.
«Avevo dodici anni quando mio padre si raccomandò che non uscissi sempre alla stessa ora per portare fuori il cane e che non percorressi sempre lo stesso tragitto» ricorda Nando, mentre Rita ammette: «Prima di andare a trovare un’amica bisognava sapere chi questa fosse e in quale stabile abitasse; se per mio padre lì vi erano persone poco raccomandabili o sospettabili, non ci potevo andare». Simona ricorda invece che i funerali della loro madre, Dora Fabbo, stroncata da un infarto nel 1978 («La vittima più silenziosa del terrorismo» la definì il prete durante l’omelia), furono blindati poiché si temeva per la loro stessa  incolumità.
«Poco dopo accettai l’invito di una mia amica che mi disse di lasciare la casa dove abitavo con la mia famiglia a Torino per andarla a trovare, per cambiare aria. Il giorno dopo il nostro arrivo, la mia amica ricevette una telefonata con la quale l’interlocutore l’avvisava che era a conoscenza della nostra presenza e di dove sua figlia andasse all’asilo. Così partimmo subito per Roma, ospitati da Rita».

I tre figli ricordano con immutato dolore quel 3 settembre 1982 e i giorni successivi. La gente furente di Palermo che lanciò le monetine all’indirizzo dei politici, la corona del Presidente della Regione Sicilia che fu rispedita al mittente perché «negli omicidi di mafia la prima corona che arriva è quella del mandante» come ricordava il Generale dalla Chiesa, il procuratore capo Pajno che esortò Nando dalla Chiesa a «darsi un contegno», la signora che si affacciò all’interno del taxi dove i figli del Generale erano saliti subito dopo i funerali per urlare, piangendo, «la Sicilia non c’entra, a Roma l’hanno voluto».

I cittadini onesti urlano la loro rabbia, il loro dispiacere, riassunto lì, in quella scritta “Qui è morta la speranza dei siciliani onesti” apposta su un foglio all’indomani del 3 settembre, sul quel cordolo di marciapiede addosso al quale finì la sua corsa la “A112” bianca dei coniugi dalla Chiesa. Un’altra mano gentile ha chiesto di recente di non depositare i rifiuti nel luogo in cui è stato ucciso il Generale, in risposta all’ennesimo sfregio alla memoria di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Come la targa in frantumi ritrovata da Rita dalla Chiesa proprio il 3 settembre a Palermo, come la scritta “W la mafia” che campeggia su un muro che costeggia la spiaggia di Mondello. Molto, moltissimo è stato fatto, ma molto c’è ancora da fare. Affinché le celebrazioni, gli anniversari delle stragi, non siano solo un inno alla retorica.

 

 

Articolo da NARCOMAFIE – Settembre 2012

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