Onore e Digniturdine di Sabrina Garofalo e Ludovica Joppolo

Onore e Dignitudine
Storie di donne e di uomini
in terra di ‘ndrangheta
di Sabrina Garofalo e Ludovica Joppolo

Falco Editore

 

 

Le storie che raccontiamo in questo libro rappresentano uno spaccato della grande realtà quotidiana delle mafie. Abbiamo scelto di immergerci in una dimensione nuova, quella delle relazioni private e intime in cui “le piccole storie di donne e uomini” forniscono nuovi modi di leggere il fenomeno e di raccontarlo.

Partire dal piccolo, dalle passioni, dai sentimenti, dai desideri.

Una scelta precisa, quella di guardare e ascoltare, in una prospettiva di genere, le storie di uomini comuni che si innamorano di donne che non possono amare. Donne che non possono in nessun modo passare il confine della famiglia e della ’ndrangheta. E che invece rompono il tabù dell’onore e della “dignitudine”, contro ogni logica, oltre il controllo mafioso totale e totalizzante.

Raccontare è anche fare memoria, e non è solo il monito del “non dimenticare” a fare la differenza. È un gesto politico quello di contribuire a decostruire l’immaginario mafioso legato all’onore, alla narrazione macro che descrivendo le grandi operazioni e i grandi traffici, non permette di considerare che di ’ndrangheta – ma anche di amore, di onore e di dignitudine – si muore.

 

 

Fonte: tolinoreader.ibs.it

Prefazione
Marisa Manzini
Procuratore aggiunto della
Procura della Repubblica di Cosenza

Quando giunsi in Calabria proveniendo dal Piemonte, mia terra di origine, era l’anno 1993. La Calabria era un territorio per me sconosciuto; non c’ero mai stata, neppure in vacanza.

In Calabria la mia vita è cambiata.

Scelsi Lamezia Terme come sede di Procura dove avrei svolto il ruolo di magistrato inquirente. Rimasi affascinata da una terra ricca di mille contraddizioni. Una terra che mescola il clima caldo e le onde frizzanti del Mediterraneo con l’asprezza e la fierezza dei monti.

Ma l’ampiezza degli spazi naturali, la superbia di una natura libera e prorompente deve fare i conti con presenze umane violente e sprezzanti, che impongono spazi chiusi, ritagliati, sorvegliati, in cui gli avvenimenti sono registrati e insistentemente controllati. Dove le malignità degli uomini non risparmiano neppure i bambini.

La Calabria deve fare i conti con un potere mafioso esercitato senza interruzione e senza scampo.

Nei primi anni ’90, c’era ancora un po’ di resistenza nel chiamare con il proprio nome quella forma di criminalità così presente e penetrante sul territorio. D’altra parte, solo nel 20 novembre 1991, con il D.L. n. 367, lo Stato aveva preso atto della necessità di affrontare il fenomeno della criminalità organizzata in modo più serio e organico; aveva istituito la figura del procuratore nazionale antimafia e la direzione distrettuale antimafia.

Si iniziò così ad utilizzare in modo più frequente il nome proprio della forma di criminalità organizzata presente in Calabria: ’ndrangheta.

Più o meno nello stesso periodo, iniziarono a compiersi studi diretti a comprendere il significato del termine.

La proposta etimologica che ha riscosso più consensi è stata formulata da Paolo Martino nel saggio Per la storia della ’ndrànghita (Università “La Sapienza”, Roma 1988), dove si sostiene la provenienza dal greco andragathía. Per il tramite del verbo ’ndranghitiari, da intendersi come atteggiarsi a uomo d’onore, per retroderivazione sarebbero discesi sia ’ndranghita , tradotta quale “onorata società” che ’ndranghitu, “uomo d’onore”.

L’onore è un concetto che ricorre nelle pagine del libro. Concetto che nei gruppi di ’ndrangheta assume un significato assolutamente diverso e contrario da quello proprio riconosciuto nella nostra lingua.

Non si tratta della virtù delle persone oneste, di quelle che per conquistare la stima altrui rispettano le norme sociali e legali acquistando grande valore e merito.

Per gli appartenenti alla ’ndrangheta, onore significa – come rappresentano bene le autrici – il controllo totale sugli individui, che si ottiene attraverso l’esercizio della signoria sul territorio.

In Calabria la democrazia non esiste. Le organizzazioni criminali mirano al controllo pieno e totalizzante delle persone, delle istituzioni e della economia del territorio. Uccidendo le persone, facendole scomparire dopo la completa distruzione del loro corpo, affermano il potere – inteso come sostantivo e come verbo – imponendo e rafforzando l’esistenza di un sistema giuridico antitetico a quello dello Stato.

La piena realizzazione dei principi di dignità della persona umana, di libertà, uguaglianza, lavoro e pari opportunità per tutti i cittadini saranno possibili solo se verrà esclusa la ’ndrangheta dal territorio calabrese. Solo se vi sarà una risposta corale delle istituzioni tutte al sogno di riscatto morale e sociale che, nonostante tutto, e anzi oggi più di ieri, continua a salire dalla società civile.

I cambiamenti, sia personali che sociali, passano attraverso le più varie, complesse e drammatiche esperienze.

Scriveva Seneca: “La natura non ha generato niente che fosse immobile, qualcosa cade un giorno, qualcosa un altro giorno e, come nelle grandi città, si puntella ora questa casa ora quella, così in questo globo terrestre va a pezzi ora questa parte ora quella” (Questioni naurali, VI, 1, 12).

Le autrici hanno svolto una puntale analisi di esperienze di uomini e donne che, in terra di Calabria, hanno visto le loro vite andare a pezzi a causa della perdita violenta di figli, fratelli e padri.

Storie di uomini e donne che hanno subito un cambiamento radicale nella loro esistenza e che hanno tratto, dalle terribili esperienze vissute, la forza di continuare per gridare – a chi vuole ascoltare – che la mafia, che in Calabria si chiama ’ndrangheta, impedisce agli uomini e alle donne di vivere una quotidianità normale.

Le autrici ci invitano a compiere un grande e vitale momento di riflessione; ci invitano a soffermarci sul grande miracolo della rinascita. Una rinascita, però, che non può riguardare solo l’individuo, solo chi ha subito sulla propria pelle le tragedie che nel libro sono raccontate dalle stesse vittime.

Le storie di Lollò Cartisano, di Demetrio Quattrone, Vincenzo Grasso, Pino Russo, Massimiliano Carbone, Fabrizio Pioli, Santino Panzarella e i tanti altri morti innocenti, sono storie che solo per caso non sono capitate a ciascuno di noi. La ’ndrangheta e i suoi falsi valori, allora, non può vederci indifferenti come cittadini.

La vicenda che ha portato a morte Alessandro Bozzo, poi, ancora di più ci costringe a fermarci e riflettere sulla capacità della ’ndrangheta di controllare, esercitando quella signoria diffusa, ogni aspetto della nostra vita, anche quello della informazione. Una stampa libera, le informazioni corrette, le denunce rappresentano un grave pericolo per le associazioni criminali. Conoscere significa potersi attrezzare per riconoscere e combattere.

Come magistrato che per tanti anni ha istruito e partecipato come pubblico ministero ai processi di ’ndrangheta voglio testimoniare che il nostro intervento, quello dei giudici, arriva sempre troppo in ritardo; noi giungiamo quando l’omicidio è consumato, l’estorsione è commessa, l’impresa è fallita.

Il nostro compito però è fondamentale. Per i cittadini ottenere verità e giustizia significa ricominciare a credere nelle istituzioni, quelle legali, costituzionalmente garantite; partendo da questa sicurezza: dalla presenza di uno Stato che tutela i suoi cittadini, ogni persona potrà iniziare a ribellarsi all’arroganza mafiosa.

È giunto il momento di favorire seriamente la prevenzione. Le autrici ci esortano a riflettere su questo; l’importanza del movimento antimafia sta nella forza di incoraggiare il ricordo, la memoria, perché solo se non si dimentica si potrà, per usare una terminologia cara alle autrici, superare il confine della indifferenza e approdare alla ricerca e quindi alla conquista della libertà.

Cosenza, 8 novembre 2015

 

 

 

 

 

 

 

 

Fonte:  wereporter.it
Articolo del 7 maggio 2016
“Onore e dignitudine”. Morire d’amore e di ‘Ndrangheta in Calabria
di Francesca Caiazzo

CROTONE – Si può morire per amore? In Calabria, sì. Perché se ti innamori della persona ‘sbagliata’, paghi quel sentimento con la vita. E’ accaduto, più volte. A uccidere, i mafiosi. A morire, vittime innocenti. Storie dal sapore arcaico intrecciate con la modernità dei tempi che viviamo. Le raccontano bene, dando voce ai familiari, Ludovica Ioppolo (sociologa e ricercatrice Istat, collabora con la Cattedra di Sociologia della Criminalità Organizzata del professor Nando dalla Chiesa all’Università Statale di Milano) e Sabrina Garofalo (dottore di ricerca in Politica, Società e Cultura presso il Dipartimento di Sociologia e Scienza Politica presso l’Università della Calabria e docente a contratto di Sociologia generale all’Università Magna Grecia di Catanzaro) nel libro “Onore e Dignitudine. Storie di donne e uomini in terra di ‘Ndrangheta” (Falco Editore), presentato questa mattina presso i locali della Lega Navale di Crotone. Il dibattito, moderato dalla giornalista Antonella Marazziti, si è sviluppato grazie ai contributi e alle riflessioni di Giovanna Calvo e Marco Ciconte, che hanno dialogato con le autrici.

Il testo è frutto di un lavoro di ricerca sul campo ma anche di un impegno sociale di Ioppolo e Garofalo, volontarie dell’Associazione Libera. “Questo libro ha il merito di dare nomi e cognomi alle vittime di mafia, per troppo tempo considerate solo numeri. Nomi dietro ai quali ci sono persone, vite, famiglie” ha detto Antonio Tata, referente di Libera a Crotone.

“Abbiamo provato – esordisce Ioppolo – a sfuggire alle grandi narrazioni stereotipate di una terra che oggettivamente è disgraziata, non possiamo indorare la pillola”. E partendo proprio da questa amara constatazione, il libro “vuole restituirle orgoglio e dignità”. Certo non basta un libro, non bastano le iniziative culturali per cambiare le cose. Ma ognuno di noi è chiamato a fare una scelta, a decidere da che parte stare “e quando un bambino di 11 anni viene ammazzato su un campo di calcetto, non possiamo girarci dall’altra parte perché riguarda tutti noi” aggiunge. Il riferimento è a Domenico Gabriele, la cui vicenda è contenuta nel libro “Al posto sbagliato” di Bruno Palermo, giornalista crotonese che non ha voluto mancare all’incontro di oggi.

“Non è facile parlare di queste storie – ha detto Garofalo – perché si viene immersi completamente, si attraversa il dolore passando da parole che pesano come macigni. Con il nostro libro offriamo una contro-narrazione” di questi fatti di Ndrangheta e chi crede di trovare risposte e certezze tra queste pagine sbaglia: “la nostra ricerca vuole essere un contributo alla riflessione, speriamo di suscitare domande e non creare certezze sulla ‘Ndrangheta”.

Tra le vicende narrate, quella di Pino Russo Luzza, quella di Fabrizio Pioli, quella di Santo Panzarella. Ragazzi normali, ragazzi per bene, che hanno osato “sfidare” l’onore e la “dignitudine” di altri uomini, di uomini mafiosi. Innamorandosi delle “loro” donne hanno osato anche mettere in discussione la virilità dell’uomo mafioso, che risponde esercitando il suo potere: non solo ammazza il rivale in amore, ma ne fa sparire il corpo. Riappropriandosi così della donna e della propria mascolinità.

Ai familiari resta il dolore, il vuoto e la dignità. Ai mafiosi restano condanne da scontare e l’illusione di aver rimediato al “disonore” riportando nella giusta misura la considerazione che gli altri hanno di loro, la dignitudine appunto.

Nel libro c’è spazio anche per Alessandro Bozzo, giornalista di Cosenza suicidatosi nel marzo 2013. Scriveva “troppo” e troppo bene, Alessandro. Tanto da ricevere minacce e proiettili. Vittima di un sistema in cui potere e malaffare si incontrano. La sua è una “storia di giovani, di giornalisti e di precari della nostra terra” spiega Garofalo.

E ha certamente ragione Alfredo Borrelli – figlio del carabiniere Francesco Borrelli ucciso dalla ‘Ndrangheta a Cutro nel 1982 – quando dice che per raccontare la Calabria “abbiamo bisogno di voci potenti di questa nostra terra. Altrimenti il rischio è che la raccontino male. O non la raccontino affatto”.

 

 

 

Fonte: laprimapagina.it
Articolo del 20 maggio 2016
Manzini: “Le donne possono rompere il muro di omertà nelle famiglie di ‘ndrangheta”
di Nicola Rombolà

Lo ha affermato il magistrato Marisa Manzini intervenuto alla presentazione di “Onore e dignitudine” delle sociologhe Sabrina Garofalo e Ludovica Ioppolo. Il libro racconta storie di disubbidienza attraverso il metodo della contro narrazione per dare spazio alle vittime della mafia nel gran clamore mediatico dei “professionisti dell’antimafia”.

La scelta è stata quella di raccontare storie di disubbidienza. Anche fare luce e illuminare le zone d’ombra dove si insinua la cultura del sospetto. Quale possa essere il limite che porta allo sconfinamento, alla zona grigia, spesso sfugge. Per questi motivi è fondamentale trovare un altro linguaggio per raccontare ciò che rimane ai margini, escluso. È questo l’itinerario scelto da due giovani sociologhe ricercatrici, Sabrina Garofalo e Ludovica Ioppolo con “Onore e Dignitudine – storie di donne e di uomini in terra di ’ndrangheta”. Si tratta, come l’hanno definito le autrici nel corso della presentazione, di una “contro narrazione”, un metodo che mette al centro il racconto di vita di chi è stato escluso dalla “narrazione corrente sulla ‘ndrangheta”. Le due ricercatrici hanno così sperimentato l’incontro con le storie delle persone, una condivisione in una terra e in un territorio per conoscere e interpretare i fenomeni sociali, antropologici e culturali.

Il libro nasce a Vibo dall’incontro con il testimone di giustizia Matteo Luzza, che ha raccontato la tragica fine del fratello, ucciso per caso, perché “l’onore e la dignitudine” rappresentano il codice dove ogni sentimento di umanità viene annientato. Pino Russo Luzza è stato ucciso per una “questione di dignitudine”, cioè di onore e potere. Sono piccole storie che però ci raccontano un modo diverso di interpretare la realtà e di raccontare la vita delle famiglie che si sono trovate per caso nella rete di quel mostro che è la ‘ndrangheta. Il libro è fatto di incontri, di vissuti, di desiderio di demistificare la narrazione corrente, di farci capire che la ‘ndrangheta “appartiene ad ognuno di noi”, perché da un momento all’altro tutti potremmo essere vittime predestinate. Come è accaduto a Lollò Cartisano, a Demetrio Quattrone, a Vincenzo Grasso, ad Alessandro Bozzo, a Massimiliano Carbone, a Fabrizio Pioli, ad Angela Donato e a suo figlio Santo Panzarella, e a tante altre storie considerate minori, secondarie, che non hanno posto nel gran clamore mediatico e che sono state risucchiate dal buco nero che sta devastando questa terra e il destino di molte famiglie.

L’importante lavoro è stato presentato nei giorni scorsi (6 maggio, sala conferenze del Polo culturale di Santa Chiara), grazie all’impegno di “Libera Memoria” del coordinamento di Vibo. A caratterizzare l’incontro la presenza di Marisa Manzini, Procuratore aggiunto di Cosenza della Procura della Repubblica di Cosenza (per diversi anni alla DDA di Catanzaro), la quale ha scritto la “Prefazione”. Il magistrato in prima linea nella lotta contro il fenomeno della criminalità in Calabria, ha ribadito l’importanza della prevenzione, in particolare la scuola e la cultura hanno un ruolo fondamentale, in quanto i giudici intervengono quando il reato è stato già commesso. Dopo aver sottolineato che è “ritornata volentieri a Vibo” (è stata per diversi anni Pm alla Procura ed è ancora impegnata nel processo a seguito dell’operazione ’operazione antimafia denominata “Black money” contro il clan Mancuso), la Manzini ha spiegato che “finalmente si dà spazio alle vittime che hanno avuto un ruolo defilato, meno rilevante nel processo”. Il magistrato ha insistito sul ruolo della prevenzione e dell’importanza di parlare ai ragazzi. Per questo la scuola e gli insegnanti , ha ribadito, “possono cambiare il destino di questa terra”. Un compito che si è assunto Matteo Luzza, come testimone di giustizia, andando ad incontrare anche i ragazzi che hanno commesso dei reati. Un ruolo importante – ha proseguito la Manzini – nel rompere il muro di omertà che circonda la ‘ndrangheta, lo possono recitare le donne: “Le diverse madri che si ribellano per dare un futuro diverso ai loro figli, è un segno che le donne possono invertire questa rotta di morte e di violenza, anche per i bambini che crescono nelle famiglie di ‘ndrangheta”. Nel corso del dibattito inoltre, rispondendo ai diversi interventi del pubblico che denunciavano l’assenza dello Stato sul territorio, il Procuratore aggiunto della Procura della Repubblica di Cosenza ha sottolineato il clima di delegittimazione a cui sono sottoposte le vittime di mafia e l’intreccio tra ambienti ‘ndranghetisti con esponenti della politica, che non hanno permesso di avere una legislazione più efficace nei confronti di chi compie dei crimini. Particolare interesse assumono alcuni passaggi che si trovano nella sua “Prefazione” al libro della Garofalo e della Ioppolo. L’allora giovane magistrato inquirente (piemontese di origine) racconta il suo incontro con la Calabria e il fenomeno criminale della ‘ndrangheta sotto il profilo sociale, culturale e antropologico, a partire dal 1993, quando inizia la sua esperienza alla Procura della Repubblica del Tribunale di Lamezia come Sostituto procuratore, si è trovata di fronte le enormi contraddizioni di questa terra. “In Calabria la democrazia non esiste” scrive, perché ha potuto constatare un controllo “pieno e totalizzante delle persone, delle istituzioni e dell’economia del territorio” da parte della ‘ndrangheta. Cioè vi è l’affermazione del “potere – inteso come sostantivo e come verbo – imponendo e rafforzando un sistema antitetico a quello dello Stato”. In una simile situazione sociale, “la realizzazione dei principi di dignità della persona umana, di libertà, uguaglianza, lavoro e pari opportunità per tutti i cittadini, saranno possibili solo se verrà esclusa la ndrangheta dal territorio calabrese”. Un quadro che non lascia nessuna speranza visto la presenza sempre più pervasiva di questo cancro che ha devastato il corpo della società calabrese e nazionale.

La presentazione è stata introdotta e coordinata da Giovanna Fronte. L’avvocato che difende diversi testimoni di giustizia (tra cui Nello Ruello, primo caso nel Vibonese ), ha messo in luce che il libro è rivolto ai giovani e che bisogna avere “la consapevolezza che ogni persona che uccide, uccide anche noi” e quindi è necessario mantenere viva la memoria. Ad aprire gli interventi mons. Giuseppe Fiorillo (Referente Libera di Vibo). Il sacerdote ha sottolineato che “Libera memoria” cerca di dare voce alle vittime, come accade nella giornata della memoria nazionale del 21 marzo; si tratta, ha aggiunto, non di storie “minori” ma di martiri, per i valori grandi di giustizia; in merito ha citato lo scrittore cristiano e padre della Chiesa Tertulliano (150-220) , ricordando che “il sangue dei martiri è seme dei cristiani e produrrà nuovi martiri e nuovi mondi”. Ha concluso infine con l’immagine della semina: “Questo libro semina, ma anche questi momenti di incontro e di presentazione sono importanti per seminare”.

Molto intenso per la testimonianza e per il valore umano, etico e pedagogico l’intervento di Matteo Luzza. Il testimone di giustizia ha ribadito la finalità della sua attività per richiamare la memoria delle vittime di mafia che svolge costantemente con “Libera” al fine di fare opera di consapevolezza anche nei confronti di chi è stato autore di delitti orribili. Si tratta di una missione per rendere viva la memoria dei propri familiari uccisi dalla mafia per caso, come il Fratello Giuseppe: “Per i familiari è vitale sapere che continueranno a vivere con questi racconti”; Luzza ha ribadito che siamo tutti a rischio, come è accaduto per sua famiglia che per una questione di “dignitudine”, il fratello è stato trucidato con spietata efferatezza. E con parole cariche di emotività ha spiegato: “Noi siamo riemersi dopo aver incontrato tutte queste persone che lottano contro la criminalità”. Poi con grande determinazione morale Luzza ha ammonito: “Non riusciranno né i proiettili, né il tritolo a fermare la voglia di raccontare! Quelle storie ci chiedono di fare altro. La libertà è più importante: vince sopra ogni cosa.” Infine con rinnovata passione e impegno civile ha spiegato: “Ci sporchiamo le mani per dare un segno di speranza, di risveglio delle coscienze, come lo studio, la cultura. Che cosa ci chiedono i nostri morti? Ci chiedono questo. Questo è il più bel regalo che possiamo fare per i nostri martiri”.

Significativo inoltre l’analisi antropologica e sociale di Francesca Viscone (scrittrice, giornalista e dirigente scolastica, tra le sue opere si ricorda “La globalizzazione delle cattive idee. Mafia, musica, mass media”) attenta ai fenomeni sociali e culturali del nostro territorio. La scrittrice ha esordito con una provocazione: “Mi stupisco degli uomini nel manifestare il peggio; al contrario la bontà è scontata, banale, non ha fascino; mentre l’eroe negativo è affascinante”. La Viscone ha fortemente criticato la mitizzazione che viene costruita dal mondo mediatico del fenomeno ‘ndrangheta, ma anche nell’esaltare i personaggi negativi. Contro questa narrazione della morte è necessario, ha ribadito, “costruire resistenze attraverso l’amore e la felicità, comunicare modelli positivi sotto il profilo estetico attraverso una pedagogia della bellezza. L’errore che fa la nostra società – ha aggiunto – è costruire un eroismo, un mito, come nei mass media”. Dentro questa visione in modo efficace ha definito il mafioso un “perdente radicale” citando il libro (pubblicato nel 2007 in Italia) del poeta e scrittore tedesco Hans Magnus Enzensberger, in quanto “il mafioso non ha amore” perché a lui interessa solo distruggere, operare il male;” mentre “il bene e la bellezza nascono dalla libertà”; per questo è “molto bello poter restare insieme ai nuovi resistenti”, ha infine chiosato la scrittrice.