“Sola con te in un futuro aprile” di Margherita Asta e Michela Gargiulo

Fandango Libri, 2015

Il 2 aprile del 1985 Margherita ha soltanto dieci anni. La sua casa di Pizzolungo, a Trapani, al mattino è invasa dalla confusione allegra di Salvatore e Giuseppe, i suoi fratelli, gemelli di sei anni. Non vogliono saperne di vestirsi e Margherita non vuole fare tardi a scuola. Chiede un passaggio a una vicina. I gemelli usciranno con l’utilitaria della mamma Barbara. Nello stesso istante due macchine della scorta vanno a prendere un magistrato. Si chiama Carlo Palermo e viene da Trento, dove ha indagato su un traffico di morfina proveniente dalla Turchia. Un fiume di droga che serve a finanziare altri traffici, armi soprattutto, e che produce altri soldi, che si intrecciano col giro delle tangenti della politica. Quando Palermo arriva a sfiorare Craxi la sua indagine arriva al capolinea. Da Trento, il giudice si fa trasferire a Trapani, dove la morfina turca viene raffinata in eroina. Per continuare a indagare su mafia, massoneria e politica. Sul lungomare di Pizzolungo le auto della scorta sfrecciano, non possono rallentare e quella utilitaria con una donna e due bambini seduti dietro va troppo piano. La sorpassano. Parcheggiata sul ciglio della strada c’è una golf con venti chili di tritolo nel bagagliaio. Qualcuno preme il tasto di un telecomando. È l’inferno. Carlo Palermo viene sbalzato fuori, è sotto choc ma si salva. Di Barbara Asta e dei piccoli Giuseppe e Salvatore restano solo frammenti.

 

 

Articolo del 26 Marzo 2015 da ilfattoquotidiano.it

Salvatore e Giuseppe, bambini uccisi dalla mafia: la vittima doveva essere Carlo Palermo. La storia in un libro

di Valeria Gandus

Era il 2 aprile 1985 e i due gemelli stavano andando a scuola con la mamma, la giovane Barbara Rizzo: una bomba e di loro non è rimasto più nulla. L’attentato avrebbe dovuto colpire il Sostituto procuratore della Repubblica appena trasferito a Trapani. In ‘Sola con te in un futuro aprile’ Margherita Asta, sorella miracolosamente scampata alla strage, racconta il suo progressivo e doloroso avvicinamento alla verità di questo dramma

Salvatore era biondo, riccioluto e pestifero; Giuseppe moro, testardo e puntiglioso. Erano gemelli e avevano sei anni. La loro mamma, Barbara Rizzo, era bella come tutte le mamme. E giovane, 31 anni appena. Quella mattina del 2 aprile 1985 uscirono dalla loro casa di Pizzolungo, non lontano da Trapani, per andare a scuola, accompagnati in auto dalla mamma. Tre chilometri e pochi minuti dopo, di loro tre non restava quasi più nulla: una bomba, fatta esplodere da un’automobile parcheggiata lungo la strada, aveva disintegrato i loro corpi e la loro famiglia. Quella bomba non era destinata ai tre ignari passeggeri ma all’uomo che in quell’istante viaggiava sull’auto che, al momento dello scoppio, li stava superando: Carlo Palermo, Sostituto Procuratore della Repubblica appena trasferito a Trapani da Trento, dove aveva condotto un’indagine difficile e scomoda su traffico d’armi e droga arrivata a toccare poteri forti (servizi segreti, loggia P2) e a lambire Bettino Craxi. Che aveva chiesto (e ottenuto) la sua estromissione dall’inchiesta.

Ora Palermo è sulle tracce di una grande raffineria di droga nel trapanese, e per quello deve morire. Invece, Carlo Palermo miracolosamente si salva. E alla morte sfugge, per caso, anche Margherita, l’altra figlia di Barbara, 11 anni, che quella fatale mattina ha preso un passaggio per la scuola dalla mamma di una compagna. Due vite salvate, ma irrimediabilmente segnate dall’evento. Due vite che si sono rincorse e scansate per decenni: la ragazzina, poi giovane donna, che inizialmente odia l’uomo nel quale vede la causa della distruzione della sua famiglia. Il magistrato che sopravviva a stento, ferito nel corpo e nell’anima, con un insopportabile senso di colpa per la tragedia che ha involontariamente causato. Lei che cerca invano di incontrarlo. Lui che non ce la fa ad affrontarla.

La storia di quella ragazzina e di quell’uomo sono raccontate oggi in un libro, Sola con te in un futuro aprile (Fandango) scritto da Margherita Asta con Michela Gargiulo. Un mémoir in prima persona dove uno dei due protagonisti, Margherita, ricostruisce il suo progressivo e doloroso avvicinamento alla verità di questo doppio dramma. E insieme racconta e omaggia il co-protgonista Palermo: non più odiato ma, al contrario, celebrato come l’acuto investigatore che fin dalle sue prime indagini trentine aveva intuito i legami fra criminalità e politica. Una verità suggerita dalla sentenza finale per la strage di Pizzolungo dove si legge: “L’attentato diretto contro il dottor Carlo Palermo costituisce l’ennesima azione terroristica di Cosa nostra contro un magistrato che osava sfidarla così come aveva sfidato in precedenza i poteri forti, subendone pesanti ritorsioni. Non è escluso che con la soppressione di Carlo Palermo il vertice siciliano di Cosa nostra pensasse di rendere un favore non solo a se stesso”.

Il libro è il racconto di una ragazza determinata e di un uomo (lasciato) solo. Ma anche la cronaca ragionata di vent’anni di mafia: attentati e processi, morti eccellenti (Giangiacomo Ciaccio Montalto, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Mauro Rostagno), maxi processi, sentenze non sempre esemplari. Nomi di mafiosi che ricorrono da una strage all’altra, da un processo all’altro. Alcuni catturati (Totò Riina), altri pentiti (Giovanni Brusca). Tutti, in qualche modo, collegati a quella lontana strage e a quel giudice scomodo. Anzi, ex giudice, perché dopo un breve e difficile periodo al Ministero della Giustizia, Carlo Palermo lasciò la magistratura. Margherita, che da anni collabora con l’associazione Libera, grazie a Don Luigi Ciotti è riuscita finalmente a incontrarlo solo pochi anni fa, a Trento. E l’ha ritrovato inaspettatamente al suo fianco a Trapani a una manifestazione contro la realizzazione di uno stabilimento balneare nel luogo della strage. “Quando arriva il momento del silenzio per onorare il vostro ricordo” scrive Margherita rivolgendosi idealmente ai suoi cari “sento una mano che cerca la mia. Nell’istante esatto in cui torno bambina a cercare mia madre, dentro quelle stanze piene di gente, questa volta ho trovato la mano del giudice Carlo Palermo”. Lui stretto nel suo impermeabile e lo sguardo triste, lei con gli occhiali da sole per nascondere le lacrime. “Un pezzo che ritorna al suo posto dopo tanto tempo”.

 

 

Articolo del 26 Marzo 2015 da repubblica.it
Margherita e il giudice sopravvissuti alla mafia
di ROBERTO SAVIANO
Trent’anni fa le cosche mirarono al magistrato Carlo Palermo. L’autobomba uccise una donna e i suoi bambini. Ora la figlia più grande racconta quella tragedia

CI SONO alcune storie che porto dentro, che percepisco come zavorra, come se mi intasassero il respiro, eppure sono memoria necessaria, perché dimenticare significherebbe perdersi. Quella zavorra e quel peso sono pilastro e la radice della mia vita. Sono storie che tendono a essere dimenticate per istinto di conservazione; è come dimenticare la guerra, lasciar perdere il dolore, far finta che tutto sia superato. E Sola con te in un futuro aprile di Margherita Asta e Michela Gargiulo (Fandango) racconta una storia da dimenticare, una storia preziosa.

È il 2 aprile di trent’anni fa, Carlo Palermo è arrivato in Sicilia da quaranta giorni. A Trapani aveva preso il posto di un magistrato coraggioso ucciso dalla mafia, Giangiacomo Ciaccio Montalto. Due macchine della scorta parcheggiano davanti al cancello di una villetta vicino a Bonagia, a 3 chilometri di distanza dalla casa della famiglia Asta.

Il giudice vive lì da appena una settimana, prima alloggiava all’interno di un aeroporto militare, a Birgi, che aveva dovuto lasciare da un giorno all’altro proprio quando le minacce contro di lui si erano fatte più concrete. La sua stanza, gli dissero, sarebbe servita al ministro della Difesa Spadolini, in visita alla base. Si mise a cercare una nuova sistemazione, ma nessuno voleva affittare la propria casa a una persona scortata e sotto minaccia. L’unico posto che riuscì a trovare era in un complesso residenziale abitato solo d’estate.

C’era un giardino e finalmente avrebbe potuto tenere con sé i suoi cani, ma per arrivare in tribunale doveva percorrere sempre la stessa strada, senza possibilità di variare il percorso. Inoltre, per avere rapporti di buon vicinato era stata data disposizione alle auto di scorta di non mettere in funzione le sirene. In quel contesto arriva l’ultima telefonata di minacce che era stata ancora più esplicita e definitiva: “Dite al giudice che il regalo sta per essergli recapitato”.

Carlo Palermo, la mattina del 2 aprile 1985 scende di casa alle 8 e qualche minuto per andare al Tribunale di Trapani. Normalmente sale dal lato destro dell’auto, ma quella mattina per fare in fretta il suo autista, Rosario Maggio, parcheggia troppo vicino al muro. Quel giorno il giudice si accomoda dietro il sedile di guida. Prova a bloccare lo sportello, ma la sicura non funziona. Sul rettilineo di contrada Pizzolungo la macchina trova davanti a sé un’altra auto, una Volkswagen Scirocco, dentro ci sono Barbara Rizzo, giovane madre di 31 anni, e due dei suoi tre figli, i gemellini Salvatore e Giuseppe di 6 anni. Sta accompagnando i piccoli a scuola. L’autista del giudice aspetta il momento giusto per iniziare il sorpasso; c’è un’altra auto ferma, parcheggiata vicino a un muro di contenimento, che non ostacola la manovra. Le tre auto, per un unico istante, si trovano perfettamente allineate. È in quel preciso momento che viene azionato il detonatore.

L’esplosione è devastante. Una bomba fatta di tritolo, T4, pentrite e Semtex, un esplosivo militare utilizzato per potenziare l’innesco. (Vengono utilizzati candelotti di brixia b5, lo stesso tipo di esplosivo del fallito attentato all’Addaura contro Giovanni Falcone e della strage avvenuta neanche quattro mesi prima, il 23 dicembre 1984, quella del rapido 904). L’utilitaria fa scudo all’auto del sostituto procuratore che si ritrova scaraventato fuori dalla macchina, in piedi, ferito ma miracolosamente vivo. Muoiono dilaniati la donna e i due bambini. Di loro restano pochi brandelli ritrovati poi a oltre cento metri dal luogo dell’esplosione. In alto, su di un muro, una macchia rossa di sangue, l’impronta terribile lasciata dal corpo di uno dei due bambini. Il botto è fortissimo, si sente fino in città. Nunzio Asta, il marito di Barbara e padre dei due bambini, è ancora a casa in quel momento. In quei giorni va a lavoro un po’ più tardi, ha avuto un intervento al cuore e si sta ancora rimettendo. Sente il boato, pensa abbiano fatto esplodere una palazzina lì vicino, va in giardino e vede la colonna di fumo.

Esce per andare a prestare soccorso, ma non lo lasciano avvicinare. La Volkswagen di sua moglie è stata polverizzata, non sospetta che la sua famiglia sia rimasta coinvolta. Margherita, l’altra figlia di dieci anni, in quel momento è già a scuola. Avrebbe dovuto essere a bordo anche lei, ma quella mattina i due fratellini ci mettevano troppo tempo a vestirsi, volevano indossare entrambi gli stessi pantaloni, e per non fare tardi chiede un passaggio in macchina alla mamma di una sua amica. I carabinieri arrivano in classe per contare i bambini presenti, è in questo modo che si rendono conto che almeno lei è viva.

Margherita e la sua famiglia con la mafia non c’entravano niente. Per questo le parole pronunciate dal vescovo nell’omelia risuonano incomprensibili alle sue orecchie di bambina. Parlano di una “mente perversa” e di una “mano omicida”, della “rabbia mafiosa” tornata a insanguinare le strade. Vorrebbe chiederne il senso a suo padre, che le stringe la mano e non sa smettere di piangere, ma ha solo dieci anni, e quella è una domanda troppo difficile da formulare. Sua madre, Barbara Rizzo, e i suoi fratellini, Salvatore e Giuseppe, sono morti in un incidente. È questo che le hanno detto, ma è successo tutto così in fretta, non ha avuto neanche il tempo di fermarsi a pensare. Di chiedersi, ad esempio, che fine avessero fatto i loro corpi, non le hanno permesso di vederli, di poterli salutare un’ultima volta.

Le bare chiuse, sono ora davanti a lei, al centro quella scura, di mogano, con i gladioli rosa sopra, accanto le due più piccole, bianche, con i gigli. Margherita non può saperlo, ma lì dentro oltre ai loro vestiti non c’è quasi niente. C’è una corona di fiori con la scritta Pertini, vista così da vicino sembra immensa, e ce n’è un’altra del presidente del Consiglio Craxi. Ci sono i gonfaloni del comune, fasce tricolori, e uomini delle forze dell’ordine ovunque. Se ne rende conto solo adesso, Margherita, della folla che c’è nella cattedrale di Trapani. Tanta gente per un funerale l’ha vista solo in televisione, ma quelle erano morti importanti: celebrità, capi di Stato.

Oggi, invece, sono tutti lì per sua madre e i suoi fratelli, persone normali. Forse, pensa, è per i miei fratelli, erano così piccoli che tutti avranno voluto partecipare al nostro dolore. Dopo i funerali, ritornando a casa, la macchina è costretta a rallentare. È il luogo dove è successo l’incidente, la strada è stata riaperta da poche ore. Margherita ha il tempo per guardare fuori dal finestrino: “C’è una buca enorme sull’asfalto, sembra sia esploso un vulcano”. In alto, troppo in alto, sul muro di una casa c’è una macchia rossa. Margherita la vede appena, ma questa volta ha una domanda impossibile da trattenere: “Papà, è sangue nostro questo?”.

Margherita pensa per anni che la colpa sia del giudice, di Carlo Palermo. Ma crescendo capisce che lui non c’entrava niente, che era stata la mafia a uccidere sua madre e i suoi fratelli e a distruggere le loro vite. Lei e il giudice erano entrambi dei sopravvissuti, per loro aveva deciso il destino. Non è stato facile per Margherita cercare “quel signore”. Ancor meno facile per lui è stato lasciarsi trovare, provando a superare un terribile senso di colpa. C’è un elemento su cui convergeranno le dichiarazioni dei pentiti: per uccidere Carlo Palermo non c’era bisogno di un’autobomba. Palermo viveva in una villetta isolata, gli era stata negata la vigilanza armata per mancanza di uomini e mezzi e la sera usciva da solo per portare fuori i cani. Ma l’attentato doveva essere un ammonimento, spettacolarizzare la morte moltiplica la paura. È questo che hanno fatto (e fanno) le mafie ben prima dei gruppi islamisti.

Sola con te in un futuro aprile è un libro devastante e assume in alcuni momenti il profilo di un manuale di sopravvivenza a un dolore impossibile da contenere. La strada che ha trovato Margherita per sopravvivere al suo dolore è quella di raccontare la propria storia, la storia di sua madre e dei suoi fratelli, vittime innocenti. Trova un’immagine Margherita, per raccontare il modo in cui ha rimesso insieme i pezzi della sua vita. È una tecnica giapponese, il kintsugi, che si usa per riparare i vasi di ceramica che si sono rotti. Non si cerca di rincollare i pezzi nascondendo i segni della lacerazione, ma anzi si esaltano, utilizzando una pasta d’oro. Il vaso, in questo modo, diventa più prezioso. Quell’intreccio di linee dorate restituisce il mondo andato in frantumi e nasce una nuova forma, più solida di quella che c’era prima.

 

 

Fonte giuliocavalli.net
“Signor Asta, questi sono gli oggetti di sua moglie. Qui ci sono quelli dei suoi bambini.”

10 giugno 2015

Margherita Asta ha scritto con Michela Gargiulo un libro bellissimo sulla morte della madre e dei suoi fratelli Giuseppe e Salvatore, morti a Pizzolungo per del tritolo che avrebbe dovuto uccidere il magistrato Carlo Palermo, sopravvissuto alla strage.

La cattedrale di San Lorenzo è piena di gente, io e mio padre non riusciamo a passare. Entriamo da un ingresso laterale. Il nostro posto è davanti all’altare.

Davanti a noi ci sono le bare di mia madre e dei miei fratelli. Al centro quella scura di mogano, con i gladioli rosa sopra, accanto a lei quelle più piccole e bianche, con i gigli, di Salvatore e Giuseppe. Quando sono uscita di casa, questa mattina, ho trovato il pallone di Giuseppe, era dietro la magnolia.

Non riesco a piangere, in mezzo a tutta questa gente. Mio padre invece non riesce a smettere. Ha la giacca e la cravatta nere. È molto debole. Io sono stretta in quel cappottino blu che la mamma sosteneva non andasse bene per giocare. Ora serve per i funerali.

Ai lati delle bare ci sono i compagni di scuola dei miei fratelli. Non conosco i nomi ma i loro visi sì. Ci sono i bambini della prima elementare dentro questa chiesa. Si guardano intorno smarriti, impauriti. Non dovevano essere qui oggi, non dovevo esserci neppure io.

Il vescovo, monsignor Romano, si commuove ricordando i miei fratelli. Li conosceva. Lo scorso anno, alla recita di Natale, Salvatore era Gesù Bambino e Giuseppe un angelo.

Mi guardano tristi i due carabinieri davanti a me. Reggono una corona di fiori, c’è scritto Pertini. Accanto ce n’è un’altra del presidente del consiglio Craxi. Vista così da vicino sembra una cosa immensa, grande e ordinata, con tutti i fiori stretti a rubarsi lo spazio.

Ci sono fiori dappertutto, e polizia e carabinieri anche in chiesa. Ci sono tutti questi uomini in divisa e i gonfaloni del comune, e non so spiegarmelo. Forse è per la morte dei miei fratelli, che erano dei bambini, forse è per questo che tutti hanno voluto partecipare.

Mio padre mi stringe la mano e guarda per terra. Un bambino sta salendo le scale del pulpito. Lo riconosco è Michele, Michele Marchingiglio, un compagno di scuola di Giuseppe e Salvatore. Ha in mano un foglio di quaderno. Sembra ancora più piccolo su quell’altare.

“Gesù rendi buoni i cuori dei malviventi del barbaro attentato di ieri e dai la pace eterna alle vittime innocenti, alla mamma e ai bambini Salvatore e Giuseppe Asta.”

Penso a quanto sia piccolo quel bambino sull’altare, e a quanto sono piccoli i miei fratelli dentro le bare e finalmente piango.

Il vescovo chiude la sua omelia.

“Purtroppo la morte è venuta a bussare alle nostre case. Una morte cieca, voluta da una mente perversa e da mano omicida. E ancora una volta la rabbia mafiosa ha macchiato le nostre strade…”

Mi volto verso mio padre. Cosa c’entra la rabbia, voglio chiedergli, cosa c’entra la mafia con quello che è successo a mia madre e ai miei fratelli. Noi con certe cose non c’entriamo niente. Ma papà continua a piangere e queste sono domande che non ho il coraggio di fare.

La messa è finita. Solo ora mi rendo conto di quante persone hanno partecipato. Non avevo mai visto una cerimonia funebre così a Trapani. Solo alla televisione mi era capitato di vedere tanta gente e tante corone. Ma nei funerali di persone importanti: attori, ministri, capi di stato. Oggi, invece, sono tutti qui per mia madre e i miei fratelli. Per noi, gente normale. Lo imparo in questo preciso momento il significato della parola folla. La folla io, per la prima volta, l’ho vista oggi. Una folla è quando in una chiesa non c’è più spazio.

La gente inizia a uscire. Io e papà invece restiamo fermi. Molte persone si avvicinano a noi, tutti vogliono farci le condoglianze.

Un signore distinto che non ho mai visto prima stringe forte la mia mano, poi abbraccia mio padre.

“Signor Asta, sono Antonio Palermo. Le porto anche le condoglianze di mio figlio che è ancora in ospedale.”

Lo sguardo di mio padre si fa più attento, come per dire qualcosa di importante che non gli viene, non ce n’è il tempo. È già il turno di qualcun altro, condoglianze, altri baci sulle guance, altre strette di mano.

Accanto a me c’è una signora anziana vestita di nero. Ha in mano un rosario, i suoi occhi hanno pianto per tutta la cerimonia. L’accompagno mentalmente mentre recita l’ultima preghiera:

“L’eterno riposo dona loro, o Signore,
e splenda ad essi la luce perpetua.
Riposino in pace.
Amen.”

Fuori dalla cattedrale seguiamo le tre bare. La folla si apre intorno a noi per farci passare. Tutti gettano fiori sul sagrato. Una pioggia leggera di petali. La strada è un tappeto colorato e noi ci passiamo sopra mentre accompagniamo mia madre e i miei fratelli nel loro ultimo viaggio. Metto un piede davanti all’altro ma piano, sono morbidi, ho paura di fargli male. Da quel giorno non sono più riuscita a camminare a piedi nudi su un prato.

Percorriamo a piedi la strada fino al cimitero. Piazza Vittorio Emanuele è piena di gente, un corteo che sfila, ci sono anche i ragazzi delle scuole con i loro zainetti colorati. No, queste persone non sono qui per i funerali, deve essere una manifestazione in difesa di qualcuno, uno sciopero.

“La mafia a Trapani esiste.”

Lo hanno scritto su un cartello enorme e ora se lo portano dietro facendolo correre sulle loro teste, le braccia in alto. “Coraggio giudice” urla qualcuno. Altre persone, contemporaneamente intonano in coro: “Dieci, cento Palermo”.

La folla è compatta ma scorre quando ci vedono passare. Arriviamo al cancello, sfioro delicatamente le bare della mia mamma e dei miei fratelli come a volerle accarezzare.

Zio Vincenzo viene a prenderci con la macchina. Abbiamo tutti delle facce stanchissime. Tra pochi minuti saremo di nuovo a casa, in qualche modo che non capisco saremo al sicuro.

Imbocchiamo la provinciale, mio padre è seduto accanto a me con gli occhi chiusi, sembra stia dormendo. Guardo il mare oltre il finestrino, sono due giorni che dalla litoranea non si poteva passare, la strada era chiusa per via dell’incidente.

Arriviamo al distributore, siamo vicini a casa, davanti a noi c’è l’hotel Tirreno. La macchina rallenta improvvisamente, c’è una buca enorme sull’asfalto, sembra sia esploso un vulcano.

Sul muro bianco della villa davanti a noi c’è una macchia rossa. Non faccio neanche in tempo a vederla bene.

“Papà, è sangue nostro questo?”

Le zie hanno rassettato casa, non so quando l’hanno fatto. Tutto è pulito e ordinato. Non abbiamo il tempo di rimanere soli, io e papà, e questo è un bene. Zia Vita e gli altri sono già arrivati, le loro voci riempiono di nuovo la casa, anche se con discrezione.

Dalla finestra vedo una macchina della polizia che si ferma nel vialetto. Due uomini si avvicinano alla porta, suonano, sono io quella che va ad aprire.

“Asta?”

“Sì, sono Margherita.”

“La figlia di Barbara Rizzo?”

Non ho mai sentito ripetere tante volte il cognome di mia madre da nubile come in questi due giorni, “sì, sono io.”

Sento dietro di me i passi di papà e della zia Vita, mi faccio da parte. La presenza di mio padre sembra imbarazzare ancora di più il poliziotto.

“Signor Asta, questi sono gli oggetti di sua moglie. Qui ci sono quelli dei suoi bambini.”

Sono due sacchetti di plastica bianca, sembrano quelli della spesa. Il poliziotto allunga le braccia e li porge a mio padre.

In quello di Giuseppe e Salvatore ci sono delle pagine dei libri di scuola, alcuni fogli strappati con i loro disegni. Ci sono due scarpe da tennis, mi sembrano quelle di Salvatore. Rosse con la linguetta autoadesiva perché ancora non aveva imparato ad allacciarle da solo.

Dove sono i vestiti, la cartella, i quaderni?

Apro quello di mia madre.

C’è il suo portafoglio, la fede, la custodia degli occhiali, l’anello con lo zaffiro e i brillanti e quello d’ambra, il suo preferito.

C’è solo questo, di mia madre non è rimasto altro.

 

 

 

 

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