10 Luglio 1991 Reggio Calabria. Assassinato Antonino Cordopatri. Si era rifiutato di cedere le terre ai capi della ‘ndrangheta.

Foto da familiarivittimedimafia.com

A Reggio Calabria ucciso il propietario terriero Antonino Cordopatri. Si era rifiutato di cedere le terre ai capi della ‘ndrangheta. La sorella dell’ucciso, Teresa, che ha denunciato Francesco Mammoliti, poi condannato all’ergastolo, è stata costretta a svolgere personalmente i lavori agricoli, aiutata da volontari delle associazioni antimafia, perché non riusciva a trovare manodopera per le intimidazioni dei mafiosi. Nel 2004 le è stata inviata una richiesta di risarcimento danni in seguito ad un suo esposto a Csm in cui chiedeva spiegazioni su “disattenzioni”, che a suo avviso c’erano state, da parte degli inquirenti nel periodo precedente alla morte del fratello, quando erano stati denunciati i Mammoliti. L’esposto che doveva rimanere riservato, è diventato di dominio pubblico e quattro magistrati, che si sono ritenuti calunniati e diffamati, hanno intrapreso azione legale.

Fonte Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato”

 

 

 

 

Articolo di La Repubblica del’1 settembre 1992
IN MANETTE IL CLAN DEI MAMMOLITI
di Sergi Pantaleone

REGGIO CALABRIA – Nella Piana di Gioia Tauro avevano creato un feudo mafioso di trecento ettari, strappando le terre ai legittimi proprietari. E chi non cedeva veniva ucciso. Adesso i Mammoliti e i Rugolo, famiglie storiche della ‘ndrangheta nuovi padroni del latifondo miliardario, palazzi a Castellace tra la Piana e l’Aspromonte, sono finiti dietro le sbarre. I carabinieri di Reggio, al termine dell’operazione battezzata “Pace tra gli ulivi”, ieri mattina hanno effettuato la nuova retata, eseguendo undici ordini di carcerazione emessi dal giudice delle indagini preliminari Iside Russo, a conclusione di una inchiesta della Procura Distrettuale Antimafia coordinata dal sostituto Vincenzo Pedone. Tra gli arrestati spicca il nome di Saverio Mammoliti, 50 anni, l’ ex play boy della ‘ndrangheta che si sente orgoglioso di avere le mani callose (“Da onesto lavoratore della terra”, spiegò mesi fa a “Repubblica”, durante un processo davanti alla Corte d’ Assise di Palmi), boss di rango salito agli onori della cronaca quando le cosche calabresi sequestrarono Paul Getty III, il rampollo d’oro a cui venne mozzato un orecchio.

Quelle nozze da latitante. Assieme a lui è stata arrestata la moglie Maria Caterina Nava, che il boss sposò ancora ragazzina, nella chiesa accanto alla vecchia caserma dei carabinieri, sfidando la legge perché era latitante da diversi anni. Moglie incensurata ma non vestale silenziosa. Anche lei, secondo gli inquirenti, partecipava agli affari di famiglia, a conferma di un nuovo ruolo che la donna ha assunto da tempo nell’universo mafioso.

Come vi partecipavano l’immancabile Domenico Rugolo, cognato e socio di “don Saro” Mammoliti (i due cognomi figurano sempre assieme in tutte le inchieste antimafia), il fratello Antonino Mammoliti, i cognati Rosario e Clara Rugolo, il cognato Graziano Nava, Salvatore La Rosa (il giovane killer del barone Carlo Antonio Cordopatri, la cui uccisione ha dato il via all’inchiesta) e Claudio Palamara, giovani pregiudicati di Parghelia in provincia di Vibo Valentia, e Francesco Mammoliti, nipote del boss, abitante a Gioia Tauro.

Le accuse contestate sono gravi: associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsione aggravata e continuata, omicidio. La ‘ndrina Mammoliti-Rugolo, per quello che l’inchiesta ha potuto fin qui accertare, si è appropriata di trecento ettari di buona terra per un valore di quindici miliardi di lire. Come? Sottraendola ai legittimi proprietari. Senza fare tante storie, questi ultimi, piccoli e grandi, cedevano a prezzi stracciati la propria terra. Oppure la davano in affitto per canoni simbolici e difficilmente riscuotibili, quando la cosca, addirittura, non decideva di incamerare le terre, provvedendo a recintarle e lavorandole come fossero di sua proprietà. Guai a chi non voleva cedere: il gruppo mafioso, elencano i carabinieri del comando provinciale di Reggio, avrebbe prodotto uno sforzo “intimidatorio” notevole, con 19 incendi, 15 danneggiamenti e conseguente abbattimento di 1100 alberi di olivo, agrumi e kiwi, 14 furti e 6 attentati dinamitardi. E anche un omicidio.
L’ operazione “Pace tra gli ulivi” è cominciata infatti dopo l’ omicidio, avvenuto il 10 luglio 1991 nel centro di Reggio Calabria, del barone Antonio Carlo Cordopatri. Gran viveur e gran frequentatore di case da gioco, appartenente a una famiglia vibonese di antico blasone ma un po’ decaduta, divisa in diversi nuclei trasferitisi per lo più nella Piana di Gioia, dove avevano palazzi e ville patrizie tra gli agrumeti e i grandi uliveti, tenute di grande estensione su cui le cosche avevano messo gli occhi da molti anni, il barone era stato ucciso perché si rifiutava di vendere i propri possedimenti alle cosche?
Partendo da questo interrogativo il maggiore Paolo Fabiano e il capitano Mario Paschetta hanno lavorato per 14 mesi. Qualcuno dei Cordopatri, in passato, come tanti e tanti agrari del Reggino, aveva dovuto scendere a patti con le cosche fameliche. E addirittura un barone Cordopatri, pecora nera della famiglia, anni fa venne processato, assieme a uomini del potente clan Mammoliti che domina tra Castellace e Oppido Mamertina, per estorsione nei confronti del cugino Carlo Antonio.
Il barone assassinato era proprietario di diverse decine di ettari di terreno nella zona di Castellace che facevano gola ai Mammoliti-Rugolo. Non voleva però cedere ai ricatti. Si era sempre rifiutato di vendere. Anche se i clan della zona gli impedivano di trovare operai per effettuare i lavori necessari, per due volte avevano tentato di farlo fuori (nel 1972 e nel 1990) e, sul piano sostanziale, lo avevano “espropriato” dei terreni che Francesco Ventrice, un prestanome della cosca secondo l’accusa, aveva preso in fitto. Ventrice, 67 anni, pregiudicato di Rizziconi menava vita grama, faceva l’umile colono, ma era ufficialmente amministratore di ben tre società con un giro di affari di sei miliardi di lire all’anno, e per questo titolare di 15 conti correnti bancari.
I controlli al catasto. Il maggiore Fabiano e il capitano Paschetta per mesi e mesi hanno raccolto testimonianze e prove documentali, negli uffici del catasto e negli studi di notai: un centinaio di proprietari – che per paura di ritorsioni non hanno certo collaborato con gli investigatori – sono stati costretti a cedere a prestanomi della cosca. Una inchiesta gemella contro la stessa cosca, a riprova di quella “concorrenza” infruttuosa tra le forze dell’ordine che spesso rischiano di intralciarsi a vicenda, e tra la stessa magistratura, era stata conclusa il primo giugno scorso con una analoga retata effettuata dalla Squadra mobile di Reggio. Ma dopo un paio di giorni il Tribunale della Libertà ha rimandato tutti gli arrestati a casa.
Come finirà l’inchiesta dei carabinieri? «Abbiamo fatto accertamenti zolla per zolla», afferma il comandante provinciale, colonnello Massimo Cetola, al termine del blitz, «abbiamo fatto un lavoro a fondo, incisivo, difficilmente attaccabile; abbiamo dimostrato, con un cumulo di prove documentali, come le famiglie mafiose Mammoliti e Rugolo avevano acquisito illegalmente i trecento ettari di terreno sui quali abbiamo puntato l’attenzione». È il primo risultato di una indagine che ha messo a nudo le “linee strategiche” del gruppo mafioso a partire dal 1974. Nel dossier della indagini condotte dai carabinieri del Reparto Operativo di Reggio e della compagnia di Palmi, c’è una miscela terrificante di episodi criminali che hanno messo la Piana a ferro e fuoco per quasi vent’anni: sequestri di persona, omicidi, tentati omicidi, attentati. L’obiettivo dei mafiosi era quello uno solo: terrorizzare i proprietari dei terreni su cui avevano messo gli occhi e volevano mettere le mani. –
.
.
.
.
.
.

Articolo del 23 dicembre 1994 dal Corriere della Sera
La baronessa coraggio: ” accuso i clan e lo Stato “
La baronessa Cordopatri Teresa sfida la famiglia mafiosa dei Mammoliti che nell’ ottobre del 1990 le ha ucciso il fratello e va in tribunale a deporre. il killer La Rosa Salvatore e’ gia’ stato condannato a 23 anni di carcere

REGGIO CALABRIA . «Era l’ottobre del ’90. Un giovane con il viso impiastricciato e con la parrucca sparò a mio fratello sotto la nostra abitazione. Poi puntò l’arma contro di me e sparò ancora…». Ma quella volta la ‘ndrangheta non voleva uccidere. «Era solo un avvertimento».

La baronessa Teresa Cordopatri sfida i clan che le hanno assassinato il fratello. Nell’aula bunker di Reggio Calabria affronta una famiglia mafiosa egemone nella piana di Gioia Tauro: i Mammoliti di Castellace. Saro, “la primula rossa”, il fratello Antonio e venti picciotti d’onore sono in carcere da due anni, accusati di aver estorto alla famiglia Cordopatri, con le minacce e le intimidazioni, le decine di ettari di terreni, adagiati nella fertile pianura che si affaccia sul mar Tirreno. E per conquistarle hanno assassinato Antonio Cordopatri, fratello della nobildonna, che si era opposto strenuamente alla volontà dei fuorilegge.

Lei stessa, per quattro settimane, aveva fatto lo sciopero della fame per richiamare l’attenzione dello Stato sulla sua vicenda. È la prima volta che la baronessa Cordopatri si trova faccia a faccia contro i presunti mandanti dell’omicidio del fratello. Il killer, Salvatore La Rosa, è stato già condannato, con pena definitiva, a ventitre anni di reclusione. La sua deposizione, voluta proprio dalla difesa di uno degli imputati, è stata precisa. Con l’elenco della lunga serie di minacce dei Mammoliti che attraverso un loro prestanome, Francesco Ventrice, poi uccisosi in carcere, gestivano i terreni dei Cordopatri.

Dopo aver ereditato il terreno in mano alla mafia, la nobildonna non è stata in grado di pagare le tasse di successione: non poteva più disporre dell’incasso del raccolto. Per questo ha fatto lo sciopero della fame davanti al Tribunale di Reggio: per protestare contro lo Stato che prima aveva ignorato le denunce della sua famiglia contro la malavita.

Il barone Antonio Cordopatri fu assassinato nel ’91 sul portone d’ingresso: punito perché si rifiutava di vendere gli uliveti della famiglia ai mafiosi della piana di Palmi. Doveva morire anche la sorella: ma la pistola del sicario si inceppò. La nobildonna ha raccontato in aula particolari riguardanti alcune voci ascoltate dalla finestra della sua camera da letto, il giorno dopo l’omicidio. «Commentavano ironizzando sulla stupidità dell’omicida, che si era fatto prendere da una vecchia zitella. Quelli conoscevano l’assassino, si era già incontrato con loro la sera precedente l’agguato. La notte prima del delitto aveva dormito in una casa al Gebbione (frazione di Reggio Calabria, n.d.r.)».

La donna si è soffermata sulle inefficienze degli apparati investigativi «che non hanno mai indagato a fondo». Sfiducia verso la magistratura e verso il proprio difensore di parte civile, Vincenzo Minasi, del Foro di Palmi, escluso dall’incarico affidato poi a Carlo Rossa, del Foro di Torino. Teresa Cordopatri ha anche detto che il fratello, dopo il tentativo di omicidio dell’ottobre del 1990, aveva preso l’abitudine di tenere un diario. Per questo la donna venne a conoscenza di una discussione che il fratello ebbe, a Gioia Tauro, con Francesco Mammoliti (figlio di Vincenzo Mammoliti) e che avrebbe avuto al centro l’ennesima richiesta del clan di ottenere, a prezzi bassissimi, i terreni che i Cordopatri avevano a Castellace di Oppido Mamertina.

La corte si è riservata di decidere su una richiesta formulata dal pubblico ministero, Gianni Tei, per l’acquisizione della relazione sull’ispezione ordinata dal ministro Maroni, per accertare eventuali carenze nelle indagini sulle vicende denunciate da Teresa Cordopatri.

.

.

.

.

Articolo di La Repubblica del 23 Maggio 1995
“CONDANNATA A MORTE”
di Filippo Veltri

REGGIO CALABRIA – Un anno di udienze, un processo tormentato, tre giorni di camera di consiglio in un albergo sul lungomare e ieri sera, finalmente, la sentenza del processo a Reggio Calabria che ha visto la baronessa Teresa Cordopatri come la grande accusatrice della cosca dei Mammoliti di Castellace di Oppido Mamertina.

Una sentenza pesante, con sedici condanne e dodici assoluzioni a carico delle ventotto persone accusate di essere affiliate alla cosca dei Mammoliti, che ha però lasciato completamente delusa la baronessa antimafia, parte civile nel dibattimento, e che ora rischia di riaprire nuove e più clamorose polemiche.

Dalla sua abitazione di Reggio Calabria, Teresa Cordopatri è stata pesantissima: «Con questa sentenza – dice – sono stata condannata a morte. È una sentenza che è stata firmata dallo Stato e che la mafia, con tempi e modalità che deciderà, certamente eseguirà». Oggetto delle pesanti contestazioni della nobildonna è l’assoluzione (peraltro già chiesta dal pubblico ministero, Gianni Tei, nella sua requisitoria) del presunto capomafia Saverio Mammoliti, detto Saro, dall’accusa di essere tra i mandanti dell’omicidio del fratello della baronessa, Antonio Cordopatri, assassinato il 10 luglio 1991 in un agguato sotto la sua abitazione di Reggio Calabria. Per questo delitto la Corte d’assise (presieduta dal dottor Paolo Bruno), ha condannato all’ergastolo Francesco Mammoliti, 25 anni, assolvendo Saro Mammoliti, che è stato invece condannato a 22 anni di reclusione quale promotore delle attività illecite della cosca.

Secondo il pm, Francesco Mammoliti avrebbe commissionato l’omicidio a Salvatore La Rosa, 26 anni, un giovane catturato pochi minuti dopo l’uccisione di Antonio Cordopatri e che al termine di un altro processo era stato già condannato a 23 anni di carcere. La morte del barone Cordopatri sarebbe stata decisa per punire il suo rifiuto a cedere alla famiglia dei Mammoliti alcuni terreni a Castellace. «Avevo dato la possibilità alla giustizia – dice ancora la coraggiosa baronessa – di vincere ed invece non l’ha fatto. Mi chiedo se sia giusto che trent’anni di minacce e di angherie, ma anche di povertà, possano finire così».

Tra le altre persone condannate per associazione a delinquere di stampo mafioso finalizzata alle estorsioni, ai danneggiamenti e alle minacce, ci sono Antonio Mammoliti (dodici anni di carcere), Domenico Rugolo (otto), Graziano e Antonio Nava (otto e sei anni), Giacomo Luppino (nove), Bruno e Vincenzo Nava (sei e sette anni), Elio Scibilia (sei), Matteo Tropeano (sette), Domenico Sorrenti (otto), Vincenzo Giordano (dodici), Vincenzo Carbone (nove anni e mezzo), Rocco Tallarita (dodici) e Vincenzo Mammoliti (dieci). La Corte d’assise di Reggio invece ha assolto la moglie di Saro Mammoliti, Maria Nava.

 

 

 

Articolo dell’8 maggio 1996 da adnkronos.com
CASO CORDOPATRI: SCOPERTI ATTENTATORI

Reggio Calabria 8 mag. – (Adnkronos) – La baronessa Teresa Cordopatri, nota alla cronaca per il coraggio manifestato durante il lungo sciopero della fame intrapreso allo scopo di farsi restituire le terre appartenute alla propria famiglia, e abusivamente occupate dalla mafia, doveva essere uccisa nello stesso agguato in cui rimase vittima il fratello. A scoprirlo sono stati i carabinieri del Comando Provinciale di Reggio Calabria. L’assassinio di Carlo Antonio Cordopatri, risale al 10 luglio 1991.

Teresa Cordopatri, stata avventendo che l’auto, guidata dal fratello, uscisse per chiudere il portone alle spalle e salire sul mezzo. La Cordopatri fu risparmiata dagli assassini in quanto una pistola usata dagli assassini, dopo l’uccisione di Carlo Antonio Cordopatri si inceppo’. I killer, secondo i carabinieri del comando provinciale di Reggio Calabria, sono stati individuati ed a loro carico sono stati emessi ordini di custodia cautelare in carcere da parte del Gip del Tribunale reggino, eseguiti dai militari e notificati nelle galere dove si trovano detenuti perche’ condannati per l’omicidio di Carlo Cordopatri.

Si tratta di Salvatore La Rosa, 28 anni, esecutore materiale, e di Francesco Mammoliti, 29 anni, mandante. I due devono rispondere di tentato omicidio ed altro nei confronti della baronessa Cordopatri. La Rosa e Mammoliti, per l’omicidio di Carlo Antonio Cordopatri stanno scontando una condanna a 25 anni di reclusione, gia’ confermata in Cassazione. Gli inquirenti hanno raccolto elementi a carico dei due anche sulla base delle dichiarazioni di Teresa Cordopatri, rese in diverse occasioni processuali.

 

 

 

Articolo del’11 maggio 1999 dalla Gazzetta del sud
Palmi / A giudizio tre della famiglia Mammoliti con l’accusa di falsa attestazione riguardante i terreni “espropriati” al barone Cordopatri
E percepivano pure gli aiuti comunitari!

PALMI – Il gup di Palmi, Alfredo Bonagura, ha rinviato a giudizio tre componenti la famiglia Mammoliti, Maria Rosa, 55 anni, Vincenzo, 57 e Francesco, 32, per la vicenda delle terre usurpate alla famiglia della baronessa Teresa Cordopatri e in particolare per i contributi Aima illecitamente percepiti. Il gup ha anche rinviato a giudizio due dirigenti del Conasco di Reggio Calabria: il presidente dell’Ente, Carmelo Vazzana, di 51 anni e il coordinatore del servizio istruttorio Conasco, Fortunato Mangiola, di 50 anni. Ha prosciolto, perché il fatto non sussiste, quattro dirigenti dell’Aima, il direttore generale, Calogero Provenzano, di 70 anni (difeso dall’avvocato Pino Pitaro, del foro catanzarese); Antonio D’Agostino (67), Filippo Galli (65) e Concetta Lo Conte (45). I Mammoliti sono stati rinviati a giudizio con l’accusa di avere falsamente attestato la coltivazione di ulivi nei fondi di proprietà del barone Antonio Cordopatri, mentre i dirigenti Conasco, per aver corrisposto ai Mammoliti gli aiuti Aima. Maria Rosa, Vincenzo e Francesco Mammoliti, invece, insieme ai dirigenti dell’Aima, sono stati prosciolti dall’accusa di avere violato le norme sugli aiuti comunitari. Il gup ha rilevato che la vicenda non rappresenta soltanto un emblematico esempio di disservizio, ma l’ottuso atteggiamento di chiusura mantenuto dagli organi responsabili di strutture sorte proprio per reprimere le irregolarità. La vicenda prese il via nel 1990, quando il barone Cordopatri denunciò di essere stato «espropriato» dei propri terreni dalla famiglia Mammoliti. Nonostante ciò Maria Rosa Mammoliti percepì gli aiuti comunitari sino al 1994. Il 19 luglio 1991, mentre si trovava insieme alla sorella, Antonio Cordopatri fu ucciso in un agguato a Reggio Calabria. La reazione della sorella consentì l’arresto dell’assassino, Salvatore La Rosa, condannato per il delitto con sentenza passata in giudicato. Il 25 ottobre 1994 il presidente del Consiglio dei ministri istituì una Commissione d’inchiesta per accertare quanto era successo. Nella relazione conclusiva, la Commissione stigmatizzava l’atteggiamento del Conasco e dell’Aima che avevano proseguito nell’erogazione dei contributi. Il 22 maggio del 1995, Francesco Mammoliti, figlio di Maria Rosa e Vincenso Mammoliti, fu condannato quale mandante dell’omicidio del barone Cordopatri e, in concorso col padre, per tentata estorsione ai danni di Cordopatri dal quale avrebbe preteso la cessione dei terreni.

 

 

 

Fonte: ilblogdibarbara.ilcannocchiale.it 
Articolo del 25 agosto 2008
UNA DONNA SOLA CONTRO LA MAFIA

Non avrebbe mai immaginato, Teresa Cordopatri dei Capece, che dopo aver difeso coi denti i beni della propria famiglia, dopo aver visto – a causa di quei beni che facevano gola alla n’drangheta – assassinare il fratello Antonio, dopo una battaglia lunga trent’anni e costellata di ben undici attentati, non avrebbe immaginato che quei beni, la casa degli avi col carico di affetti e ricordi, sarebbe stata messa in discussione oggi non dalla mafia, ma da quella stessa legge cui lei si rivolse per avere giustizia. È atroce la storia della baronessa Cordopatri, eroina calabrese degli Anni Novanta e simbolo della resistenza all’illegalità della società civile. Fa una certa impressione sentirgliela raccontare, com’è avvenuto ieri durante un incontro coi giornalisti nella sede della “Stampa Estera”, come si trattasse di una “straniera” in cerca di asilo. Ha letto, donna Teresa, perchè l’emozione e la scarsa attitudine alla comunicazione le impedivano di andare a braccio. Ha letto a voce bassa, come parla chi ha ricevuto una buona educazione. Aveva accanto due professori di diritto, Giuseppe Bernardi e Francesco Petrino e, di fronte, in prima fila, Angelica Rago, la cugina rimasta l’unica a sostenerla. La vicenda affonda le radici in un trentennio, nelle campagne, anzi nel feudo di Oppido Mamertino (Reggio Calabria), tra gli ulivi dei Cordopatri ambiti da un sovrastante particolare come poteva essere il boss Mammoliti. Voleva quegli ulivi, il mafioso. Ma Antonio Cordopatri opponeva un netto rifiuto a “vendere”. Richieste sempre più pressanti, fino a quando lo “invitano” a “passare da un notaio” per formalizzare il passaggio di proprietà. Altro rifiuto, primo avvertimento: gli sparano e lo mancano. Al secondo tentativo, l’ammazzano. Il killer rivolge poi l’arma contro la sorella, Teresa, che assiste impotente all’agguato. Per fortuna la pistola s’inceppa e donna Teresa oggi può raccontare la storia. Era il 1991. La baronessa raccoglie l’eredità del fratello e giura sulla tomba di Antonio che mai e poi mai cederà al ricatto della mafia. Anzi denuncia il boss, riconosce il killer e lo fa arrestare. Denuncia anche tutto il “contesto” che sta attorno allo strapotere dei mafiosi. Finge di non aver paura delle minacce e da allora vive sotto scorta e, in qualche modo, poco amata in patria. Per esempio, per anni non riesce a trovare operai per la raccolta delle olive, operazione che è costretta a portare avanti col solo aiuto di Angelica. La sua testimonianza fa decollare i processi, certo non speditissimi, ma tutto sommato favorevoli. Quando declina la sua stella? Quando Teresa Cordopatri denuncia anche l’ignavia del sistema giudiziario in Calabria e lo fa quasi “preventivamente”per preservare il processo sulla morte del fratello da brutte sorprese. Ma non imbocca la strada del clamore e del protagonismo, la baronessa. No, scrive al Csm (“il massimo organo istituzionale della magistratura”, spiega oggi) esponendo il contesto dentro cui era maturata la morte del fratello e chiedendo anche spiegazioni sui perché di qualche disattenzione precedente, quando Antonio Cordopatri denunciava senza troppo successo. “Quell’esposto – dice donna Teresa – doveva rimanere riservato, mi era stato assicurato, e soltanto a disposizione del Csm. Le mie non erano accuse circostanziate, ma analisi che sottoponevo all’organo di autogoverno della magistratura per una valutazione”. E invece, inspiegabilmente, il documento diventa di dominio pubblico, tanto che quattro magistrati (Giuseppe Viola, Francesco Punturieri, Giovanni Montera e Salvatore Di Landro) si ritengono calunniati e diffamati, fino ad intraprendere azione legale. In primo grado la Cordopatri è stata condannata con sentenza esecutiva: ciò vuol dire che deve risarcire quei magistrati. Non avendo, la baronessa, i soldi, il tribunale civile ha disposto la vendita dei beni mobili e immobili per risarcire i denuncianti. All’inizio di ottobre, la prima asta. Tutto ciò mentre non si è ancora concluso il processo a carico del killer che la baronessa ha fatto arrestare. (Francesco La Licata, “La Stampa”, 14 settembre 2004)

.

.

.

.

Teresa Cordopatri, sorella di Antonino – Foto da strill.it

Fonte: strill.it
Articolo del 18 luglio 2012
Memorie – Delitto Cordopatri: il dolore e la speranza nelle parole della sorella Teresa, ‘baronne courage’
di Anna Foti

‘È morto tra le mie braccia per difendere le terre di famiglia, 12 ettari coltivabili a Castellace, frazione di Oppido Mamertina nella provincia tirrenica di Reggio Calabria; è stato colpito per non aver ceduto alla tracotanza mafiosa, abbandonato dallo Stato’, questo il ricordo di Teresa Cordopatri, la nobildonna denominata baronessa coraggio, ‘baronne courage’ come ha scritto di lei il quotidiano francese “Le Figaro”, sorella del barone Antonio freddato con tre colpi di pistola in pieno giorno, alle 10 del mattino, il 10 luglio del 1991 all’uscita di casa in via D’Annunzio 9 a Reggio Calabria. Una donna di stirpe nobile ma convinta profondamente che la nobiltà sia determinata dalle azioni di ogni uomo non da diritti di nascita, una donna che ha creduto nello Stato, nonostante esso non sia riuscito a proteggere e ‘salvare’ il fratello Antonio Cordopatri dalla violenza delle ndrine.
Usciva di casa con lei per recarsi alla Novena del Carmine e ad aspettarlo c’era un giovane sicario, Salvatore la Rosa, killer inviato da Francesco Mammoliti che, fingendosi investito, bloccò il veicolo guidato dal barone Antonio Cordopatri e sparò contro di lui alla guida dell’auto; tutto ciò mentre la sorella Teresa chiudeva il portone di casa. Avrebbe dovuto salire in macchina invece si scagliò immediatamente contro il killer, appostato da ore sotto casa, riuscendo a deviare solo l’ultimo dei quattro colpi diretti al fratello, però già in fin di vita. Teresa lo inseguì senza però riuscire a raggiungerlo, mentre l’allarme – nell’immediatezza si pensò ad uno scippo – si diffuse rapidamente in città a Reggio e la fuga dello stesso killer terminò con un arresto in flagranza.
La baronessa Teresa ancora non sapeva che il fratello Antonio questa volta non era sopravvissuto come invece era accaduto in occasione dell’attentato in località Ferrandina a Castellace, decenni prima, quando in una situazione analoga il fratello scampò al fuoco piegandosi su sé stesso. Questa volta dopo aver tentato di inseguire il killer, tornata sul luogo del delitto, l’uscio della sua casa, un carabiniere le andò incontro e lei intuì che il destino questa volta era stato impietoso. ‘Aveva il sorriso sulle labbra’, racconta a distanza di 21 anni da quel drammatico giorno, ‘ha cercato di difendere le terre della sua famiglia al prezzo della sua vita, con uno Stato che fino a quel momento aveva ignorato le numerose e puntuali denunce sporte per intimidazioni, visite, lettere, telefonate, persino colpi di pistola sparati a salve nell’ottobre del 1990 davanti casa, come una prova generale del delitto del 10 luglio dell’anno dopo, e quella telefonata minatoria nel Natale dello stesso anno’.
A distanza di 21 anni da quel giorno di sangue, il ricordo della baronessa Teresa non può placarsi ma diventa speranza per quelle stesse terre che, grazie al progetto della cooperativa sociale Aida, costituita con la cugina Angelica Rago, unica della famiglia ad esserle rimasta accanto nella lunga battaglia per l’affermazione di verità e giustizia, potrebbero dare lavoro ai giovani e rappresentare un’opportunità di valorizzazione della vocazione agricola della Piana di Gioia Tauro.
La Baronessa Teresa oggi ha questo ardente desiderio, l’unico che possa onorare degnamente la memoria di suo fratello Antonio, l’unico che possa riscattare questo fazzoletto di terre di Calabria difese con il sangue innocente di suo fratello. Per dare forza e voce a questo progetto che incontra non poche difficoltà – prima tra tutte l’assegnazione di immobili con situazioni controverse e la mancata consegna, nonostante le innumerevoli promesse, di terreni confiscati, tantissimi nella Piana e necessari per l’avvio fattivo dell’attività della cooperativa – la baronessa Teresa Cordopatri, sotto scorta dal dicembre del 1991, impegnata nel prosieguo dell’attività dell’oleificio legato alla coltivazione degli uliveti di famiglia, si racconta e racconta quali sia oggi lo stato d’animo di una donna che ha visto morire il fratello per mano di un killer, che ha vissuto tutti i gradi del processo seguito alle indagini dell’Arma, emblematicamente denominate ‘Pace tra gli ulivi’ e che hanno portato all’esperimento dei tre gradi di giudizio e alla condanna dell’esecutore Salvatore La Rosa e del mandante Francesco Mammoliti; una donna che ha preferito ricorrere ad avvocati non calabresi unicamente per non esporli a pericoli e ritorsioni; una donna che ha ottenuto solo nel maggio scorso giustizia anche per il tentato omicidio nei suoi confronti sempre quel 10 luglio 1991.
Una donna ai cui occhi lo Stato, latitante per anni, si è riscattato solo dopo il delitto con l’operato dell’Arma, in particolar modo ma anche delle altre Forze dell’Ordine, impegnata nel delicato accertamento di fatti, tuttavia già annunciati. ‘Tante le denunce sporte nel corso dei decenni da mio fratello Antonio Cordopatri, da mio padre Domenico prima di lui, poi quella lettera anonima inviata in Prefettura a Reggio nel giugno del 1991 in cui si parlava di un proprietario che non voleva cedere le sue terre’, così racconta la baronessa Teresa recentemente vittoriosa anche del ricorso al Tar per il ripristino della scorta revocatale per i tagli al settore Giustizia, dal marzo al giugno di quest’anno. La baronessa Teresa, in passato vittima di pesanti intimidazioni, sempre lontana dalle ribalte ma concretamente impegnata in progetti di fattiva affermazione di legalità, oggi racconta di uno Stato che, seppur dopo la tragedia, le è stato accanto, e di una giustizia che da quella prima sentenza del Giudice Salvatore Boemi, nel corso degli ultimi 20 anni le ha dato delle risposte.
‘Non avrei voluto ristabilire la verità sulla proprietà dei terreni, la libertà di operarvi senza cedere alle angherie dei mafiosi al prezzo della vita di mio fratello, ma la Fede che profondamente mi anima, mi guida al perdono ed al desiderio di infondere speranza lì dove è stato sparso del sangue innocente’. Quel 10 luglio 1991 costituisce uno doloroso spartiacque nella storia della famiglia Cordopatri, una storia scritta con il coraggio, con la resistenza civile, con la fiducia, ripagata solo in seguito, nello Stato e della Giustizia.
Si tratta di una storia che comincia negli anni Settanta quando l’oleificio della sua famiglia viene distrutto. Il padre di Antonio, Teresa e Francesco (morto nel 1990), Domenico Antonio Cordopatri dei Capece resistette in solitudine, ma denunciando costantemente, alle pressioni delle ‘ndrine. Nel mirino vi erano all’epoca tutti i proprietari terrieri della Piana di Gioia Tauro. Chi cedeva e rimaneva, chi andava via. Nessuno denunciava. Da parte di Domenico Antonio Cordopatri nessuna resa fino a quando fu nelle condizioni di farlo. Nel 1965, infatti, a sorprendere i tre figli neppure trentenni, la morte della mamma, la marchesa Isabella D’Ippolito, ricordata per la sua umiltà e la sua generosità di animo, che precedette solo di alcuni mesi un ictus che colpì papà Domenico Antonio immobilizzandolo e decretando la fine della gestione familiare, per quel frangente, degli uliveti di Castellace. I terreni, a rischio di abbandono furono ‘aggrediti dalla malapianta mafiosa’ ed in buona fede furono affidati a Francesco Ventrice, in realtà solo un prestanome. I terreni sarebbero tornati nelle mani della famiglia Cordopatri, l’unica vivente la baronessa Teresa, solo dopo il delitto del 1991. Oggi l’oleificio è una realtà preziosa per la Piana ma per la baronessa coraggio non è abbastanza. Per questa terra assetata di speranza si può fare e si deve fare di più.
Così nasce la cooperativa Aida, le cui lettere che compongono il nome in realtà sono intrise di memoria e di speranza e scolpiscono le storia del fratello Antonio, di mamma Isabella e di papà Domenico Antonio. Per ora solo costituita, essa è in attesa di poter operare su terreni confiscati, mettendo a disposizione gratuitamente i mezzi meccanici, e dare lavoro a giovani calabresi. Dopo tanti incontri con autorità, i tanti impegni disattesi, la cugina della baronessa Teresa, Angelica Rago, amministratore della cooperativa, ha recentemente scritto a tutti i sindaci dei comuni della Piana per esporre il progetto e manifestare interesse all’assegnazione di terreni confiscati, di cui sarebbero rispettate le vocazioni, siano uliveti, aranceti o altre coltivazioni.
La memoria fa il suo corso e, a volte, semina al contempo. A volta questa semina risulta osteggiata da burocrazia e resistenze ‘altre’. I tempi prima del raccolto possono essere lunghi. Ci vuole fatica, ci vuole fiducia e ci vuole pazienza prima che i frutti siano godibili e condivisibili: questa la preziosa lezione quotidiana della terra. Una lezione di cui la cooperativa Aida intende far tesoro.
L’ostinazione e la determinazione non mancano in Teresa Cordopatri ed Angelica Rago. Adesso bisogna che altri, più volte sollecitati, al più presto, facciano la loro parte.

 

 

 

Fonte:  lacnews24.it
Articolo del 9 settembre 2018
La “baronessa coraggio” che sfidò la mafia. Così difese le sue terre e la nostra dignità
di Francesco Altomonte
Teresa Cordopatri è deceduta dopo un’esistenza passata a combattere la ‘ndrangheta.
Nel 1991 era sopravvissuta a un agguato perché la pistola del killer si inceppò ma il fratello non fu altrettanto fortunato e venne ucciso. I clan volevano i loro uliveti ma lei non ha mai abbassato la testa. Da quel tragico giorno subì 11 attentati e divenne un simbolo di resistenza e riscatto riconosciuto anche all’estero

Aveva un’espressione seria, Teresa Cordopatri, anche quando rideva. Nei suoi occhi vi si poteva leggere un dolore profondo che il tempo non era riuscito a cancellare. Se n’è andata senza clamore la “baronne courage”, come l’aveva definita il quotidiano francese “Le Figaro”, dopo anni di battaglie dentro e fuori le aule di giustizia. Quel dolore profondo era esploso il 10 luglio 1991, quando suo fratello Antonio era morto tra le sue braccia, ferito a morte dalla ‘ndrangheta. Il “padroni” di Castellace, i Mammoliti, volevano le loro terre, ma Antonio si era sempre rifiutato di vendere, nonostante le richieste sempre più pressanti. Un primo agguato fallisce, il secondo no. La donna si salva solo perché la pistola del killer si inceppa.

Da qual momento, Teresa Cordopatri visse chiedendo giustizia per suo fratello e difendendo quei 12 ettari di uliveti che avevano sconvolto per sempre la sua esistenza. Una battaglia lunga 27 anni e costellata di ben undici attentati. Una lotta che la Cordopatri ha condotto con tutta la sua famiglia nei terribili anni ’90 nella piana di Gioia Tauro. Una vita, quindi, spesa nella difesa della legalità e contro la sopraffazione mafiosa. «Una donna che ha lasciato un’impronta profonda nella lotta alla criminalità e allo strapotere mafioso nel territorio reggino», così la definisce Libera Calabria nel comunicato di cordoglio. E una donna forte, Teresa Cordopatri, lo è stata davvero. Forte e tenace nel chiedere giustizia per suo fratello e nell’opporsi ai tentativi di estorsione da parte dei Mammoliti.

Negli ultimi anni Teresa era tornata a Castellace ed insieme alla cugina Angelica Rago Gallizzi, compagna di lotte e di impegno, aveva tentato di rilanciarne la produttività anche grazie alla creazione della cooperativa sociale Aida. Un progetto che non andò come aveva previsto. Delusioni e dolore, però, non riuscirono mai ad avere il sopravvento sul suo desiderio di riscatto e di emancipazione dalla ‘ndrangheta. Restano come paradigma della sua esistenza queste sue parole: «Non avrei voluto ristabilire la verità sulla proprietà dei terreni, la libertà di operarvi senza cedere alle angherie dei mafiosi al prezzo della vita di mio fratello, ma la Fede che profondamente mi anima, mi guida al perdono ed al desiderio di infondere speranza lì dove è stato sparso del sangue innocente».

 

 

 

 

 

 

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *