21 Giugno 1980 Cetraro (CS). Ucciso Giovanni (Giannino) Losardo, Ex Sindaco di Cetraro- Militante comunista- Segr. Capo Procura Rep. Tribunale di Paola.

Giannino Losardo era un comunista, segretario giudiziario della procura di Paola e assessore comunale a Cetraro, paese della costa tirrenica cosentina. È stato ucciso il 21 giugno del 1980 mentre a bordo della sua auto stava rientrando a casa dopo una seduta del consiglio comunale. Come mandante viene arrestato Franco Muto, di Cetraro, il “Re del pesce”. Il presunto boss viene assolto con sentenza passata in giudicato. L’omicidio di Giannino non ha colpevoli.

 

 

 

Fonte:  archivio.unita.news 
Articolo del 23 giugno 1980
Vittima della feroce esecuzione, Giovanni Losardo assessore a Cetraro e segretario capo della Procura di Paola
Un altro compagno assassinato dalla mafia calabra

di Gianfranco  Manfredi
L’agguato nella notte tra sabato e domenica  – Tornava a casa dopo aver partecipato alla seduta del Consiglio comunale – Due killer in motocicletta hanno affiancato la sua automobile e gli hanno sparato a più riprese  – Un’agonia durata venti ore – Emozione e sdegno nel Cosentino. 

PAOLA (Cosenza) – La mafia ha ucciso ancora in Calabria. Giovanni Losardo, 54 anni, padre di due figli, dirigente comunista, assessore al Comune di Cetraro, segretario-capo della procura della Repubblica di Paola, è stato assassinato in uno spietato agguato nella notte tra sabato e domenica.   Ritornava a casa dopo avere partecipato alla seduta del Consiglio comunale. I killer lo hanno bloccato sulla strada che unisce Cetraro a Fuscaldo, un comune a pochi chilometri di distanza, sulla costa tirrenica della provincia di Cosenza e lo hanno crivellato a colpi di lupara. Ricoverato all’ospedale di Paola, il compagno Giovanni Losardo ha lottato contro la morte sino a poco prima delle venti di ieri sera. Era stato operato d’urgenza. S’era sperato in una ripresa. Ma la sua pur forte fibra ha ceduto.

Non c’è alcun dubbio che volessero ucciderlo. Giovanni Losardo è stato colpito da almeno quattro pallottole di grosso calibro esplose a distanza ravvicinata che hanno leso il cuore, i polmoni e lo stomaco. Erano da poco passate le 22,30 di sabato e, terminati i lavori del Consiglio comunale di Cetraro – 11 mila abitanti, grosso centro turistico – Giovanni Losardo si era recato a salutare la madre prima di ritirarsi a casa, a Fuscaldo, che si trova a pochi chilometri più a sud, sempre sulla costa tirrenica cosentina. Appena lasciato l’abitato di Cetraro, una motocicletta con due persone a bordo col volto coperto da passamontagna, si è affiancata alla sua autovettura. Il commando ha agito con consumata ferocia. Sono stati esplosi diversi colpi di pistola prima che l’auto di Losardo, ferito, si fermasse. Allora i killer sono tornati indietro e hanno sparato ancora, prima di allontanarsi velocemente, questa volta convinti di aver esploso il colpo di grazia.

Invece, la forte fibra di Giovanni Losardo aveva ancora delle risorse che gli hanno permesso di scendere dall’auto e di fermare un automobilista di passaggio che lo ha trasportato all’ospedale di Cetraro. I sanitari l’hanno fatto trasferire d’urgenza all’ospedale di Paola dove una équipe chirurgica dotata di mezzi più adeguati lo ha sottoposto ad un lungo intervento operatorio. Un estremo tentativo, purtroppo vano, di strapparlo alla morte.

La notizia del feroce attentato ha scosso tutta la regione. Primi tra tutti sono accorsi i comunisti: dirigenti locali e provinciali, parlamentari, amministratori e semplici militanti si sono recati all’ospedale fin dalle prime ore del mattino. Ma sono arrivati anche tanti amici, colleghi di lavoro e   conoscenti in segno di solidarietà.

Nei corridoi dell’ospedale sono soprattutto i compagni ad interrogarsi sui possibili motivi dell’attentato che, su questo non c’è alcun dubbio, porta la firma delle cosche mafiose locali.   Giovanni Losardo era conosciuto da tutti come una figura cristallina e rigorosa. La sua fermezza di   principi si è sempre manifestata in tutti gli aspetti dell’attività: dal lavoro negli uffici giudiziari, all’impegno politico nel PCI e nell’Amministrazione comunale di Cetraro. In tutti questi campi Giovanni Losardo si è comportato coerentemente, rivelandosi una figura estremamente «scomoda» per gli interessi mafiosi che negli ultimi anni sono penetrati in grande scala su tutta la costa tirrenica della provincia di Cosenza.

Il compagno Losardo è stato uno dei primi a segnalare i pericoli dell’estendersi del fenomeno mafioso. La lunga esperienza di amministratore comunale (ha ricoperto anche l’incarico di sindaco di Cetraro nel ‘75-’76, di assessore ai Lavori pubblici, infine da qualche settimana, quello   di   assessore alla Pubblica istruzione, il suo lavoro negli uffici della Procura sono stati per lui altrettanti «punti di osservazione» che gli hanno permesso di cogliere immediatamente i pericoli e le dimensioni del fenomeno mafioso nella zona.

«È stato anche grazie al suo contributo – dice Gianni Speranza, segretario della Federazione del PCI di Cosenza – che noi comunisti abbiamo potuto condurre in questi anni una lotta coerente contro l’ingresso della mafia in questa parte della regione: un impegno che, proprio alcuni mesi fa, era sfociato nell’organizzazione di un convegno provinciale, a Paola, in cui si è denunciata pubblicamente l’impunità del crimine mafioso e il complesso intreccio di interessi economici che lo alimentano». In quel convegno – ricordano i compagni di Cetraro – Giovanni Losardo svolse un intervento molto preoccupato per le dimensioni raggiunte dagli interessi mafiosi. Parlò, come tanti altri dirigenti e amministratori, delle tangenti e dei soprusi imposti dalle cosche con la «persuasione» del tritolo, delle ingombranti presenze imprenditoriali condotte in prima persona dai boss.

L’impegno di Giovanni Losardo contro le cosche non è quindi recente. I comunisti (e pare anche gli inquirenti che, comunque, mantengono il massimo riserbo sulle indagini) si interrogano su episodi e vicende più ravvicinati nel tempo che possano aver spinto la mafia a compiere la spietata imboscata.   Ci sono, innanzitutto, gli interessi mafiosi nel settore della speculazione edilizia che ha fatto scempio di tutta la costa.

A Cetraro, ricordano molti, Giovanni Losardo si è opposto con vigore, quando era assessore ai Lavori Pubblici, a gravi episodi di abusivismo, facendo sospendere anche alcuni cantieri e inoltrando pratiche di demolizione per i casi più gravi.

Ieri sera nella sala consiliare del Comune di Cetraro c’è stata una prima manifestazione di protesta e di ricordo del compagno assassinato. Ma sono in programma altri momenti di più grande mobilitazione. «Questo ennesimo, feroce crimine che colpisce gravemente ancora una volta i comunisti calabresi – dice Tommaso Rossi, segretario regionale del PCI -, è il segno inequivocabile che in questa regione il fenomeno ha ormai superato livelli di guardia: noi comunisti faremo fino in fondo la nostra parte e non tollereremo alcuna incertezza nella mobilitazione eccezionale che lo Stato deve imporre a tutti i suoi organi per combattere la mafia».

 

 

 

Fonte:  archivio.unita.news
Articolo del 16 luglio 1980
Ricostruito il  tragico assassinio di Losardo
Ha  un  nome e un volto anche il  secondo presunto omicida
Un’automobile e una moto hanno atteso il nostro compagno – Tre nuovi ordini di cattura – Prese anche 2 donne.

CATANZARO – Ha un nome e un volto anche il secondo dei presunti assassini del compagno Giannino Losardo, assessore comunista al Comune di Cetraro e segretario capo della Procura della Repubblica, di Paola, ucciso la sera del 21 giugno scorso da due killer mentre rientrava a casa dopo avere preso parte al Consiglio comunale. La Procura della Repubblica di Paola, che conduce l’inchiesta e che una settimana fa aveva spiccato cinque ordini di cattura identificando anche uno dei due sparatori, ha infatti emesso ieri altri tre nuovi ordini di cattura per concorso in omicidio aggravato e premeditato e due mandati di cattura invece per favoreggiamento personale e per falsa testimonianza.

Il sostituto procuratore Luigi Belvedere ha comunicato ai giornalisti che oltre al pregiudicato venticinquenne F. R. incriminato formalmente dell’uccisione di Losardo ed in carcere da una settimana a Palmi, dell’orrendo crimine dovranno rispondere anche F. R., venti anni, U.P.  e A.P., entrambi diciassettenni e tutti e tre già in carcere perché incriminati in un primo tempo di favoreggiamento personale. Per quest’ultimo reato e per falsa testimonianza sono invece ieri finite in carcere due donne, sempre di Cetraro, incensurate, che avrebbero cercato di avallare l’alibi di R. e dei suoi complici

Come si è arrivati a questa nuova, clamorosa svolta nelle indagini sull’assassinio del dirigente comunista lo ha chiarito il sostituto Procuratore della Repubblica Belvedere.

Innanzitutto c’è la dinamica nuova dell’agguato ai danni di Losardo: non più solo una moto di grossa cilindrata, una Honda 750, con due persone armate e mascherate che hanno aperto il fuoco, ma un’azione combinata, con la presenza determinante (Belvedere l’ha definita «una azione fiancheggiatrice») di una autovettura, una Autobianchi A 112.

Giovanni Losardo dunque, alle 22,10 di sabato 21 giugno esce dal Consiglio comunale di Cetraro e imbocca la superstrada tirrenica per tornare a casa. Qui da tempo sono in attesa l’Autobianchi e la moto. Su quest’ultima è seduto F. R., sulla macchina i due minorenni e F. R. che alla vista di Losardo scende dalla macchina ed inforca il sellino posteriore della Honda. A questo punto l’auto con i due diciassettenni torna indietro e si dirige verso la piazza di Cetraro Marina per attendere – sempre secondo la ricostruzione degli inquirenti – i complici.

Roveto è Ruggiero, sulla moto, portano a termine intanto l’agguato: un colpo di lupara andato a vuoto, quattro di pistola calibro 38 che riducono Losardo in fin di vita.

Le due donne, arrestate ieri, avrebbero fornito un alibi al R., nella fase preparatoria dell’agguato, dichiarando che dalle 21 alle 22 di sabato il pregiudicato era stato in loro compagnia e quindi lontano dal luogo dell’agguato mortale a Losardo. In carcere, accusato anch’egli di favoreggiamento e di falsa testimonianza, c’è infine un’altra persona, il 3lenne di Cetraro F. V., arrestato una settimana fa.

Se la magistratura ritiene di aver delineato il quadro completo dell’azione materiale costata la vita a Losardo, le modalità cioè, i presunti killer, i complici, restano tuttora oscure le cause precise che hanno determinato l’uccisione del nostro compagno (legata alla sua attività di amministratore o di segretario alla Procura della Repubblica di Paola?) e, di conseguenza, i mandanti. Che le quattro persone incriminate di omicidio abbiano infatti agito su «ordinazione» non c’è più alcun dubbio e lo stesso Belvedere ha precisato ieri ai giornalisti che «appartengono tutti ad un clan»: quello mafioso del latitante di Cetraro Francesco Muto, accusato di omicidio, detto il «re del pesce», dominatore del traffico di droga che si svolge al porto di Cetraro.  F.v.

 

 

 

 

 

Fonte e Foto: Stop’ndrangheta.it
Questa scheda è tratta dal libro “I segreti dei boss, storia della ‘ndrangheta cosentina” di Arcangelo Badolati

Giannino Losardo, comunista e testa dura
di Arcangelo Badolati (21/06/1980)

Giannino Losardo era un comunista, segretario giudiziario della procura di Paola e assessore comunale a Cetraro, paese della costa tirrenica cosentina. E’ stato ucciso il 21 giugno del 1980 mentre a bordo della sua auto stava rientrando a casa dopo una seduta del consiglio comunale. Come mandante viene arrestato Franco Muto, di Cetraro, il “Re del pesce”. Il presunto boss viene assolto con sentenza passata in giudicato. L’omicidio di Giannino non ha colpevoli.

“Giovanni Losardo, 54 anni, fu assassinato perchè batteva strenuamente contro le cosche del Tirreno. Ne ostacolava i perversi disegni, ne denunciava pubblicamente i sopprusi. Lo hanno rivelato molti pentiti di ‘ndrangheta. Losardo, capogruppo del partito comunista a Cetraro e segretario capo della procura paolana, venne barbaramente ucciso in una calda sera di giugno. Aveva appena lasciato la seduta dell’assemblea municipale e, a bordo della sua Fiat 126, stava tornando nella sua casa di Fuscaldo. I killer l’affiancarono in sella ad una moto di grossa cilindrata, sparando all’impazzata. Il coraggioso esponente del Pci venne raggiunto dai proiettili di una pistola calibro 9 e dal piombo esploso da un fucile calibro 12, al cuore, al collo, allo zigomo e all’orecchio destro. Soccorso, morì alcune ore dopo in ospedale. “Dava fastidio- racconteranno i pentiti- Non aveva paura di nessuno e non si piegava davanti a niente…”

La moto, una Honda 750, usata dal commando di sicari, venne successivamente ritrovata e sequestrata dagli investigatori. Il legittimo proprietario del mezzo, Luigi Storino, scoparve per lupara bianca il quattro febbraio del 1981. Neppure un anno dopo. L’omicidio Losardo, di chiaro stampo mafioso, sconvolse l’opinione pubblica. La vittima rappresentava una concreta barriera contro lo strapotere criminale. Losardo svolgeva il suo lavoro giudiziario con grande diligenza, discrezione e senso dello Stato. E per i clan era doppiamente pericoloso perchè esercitava allo stesso modo il ruolo politico. Era un uomo scomodo. Un nemico da abbattere. Colpirlo serviva a lanciare un messaggio di terrore a tutto il Paolano. Un messaggio che sarà poi rafforzato da un altro stuolo di delitti, in qualche maniera collegati fra loro. Sotto il piombo dei sicari delle cosche cadranno, infatti, per motivi diversi, Lucio Ferrami, Pompeo Brusco, Romualdo Montagna, Cataldo De lucidibus.

Ma com’era questo comunista dalla testa dura, osannato dalla gente comune e strenuamente avversato dalle cosche? La figura di Giannino Losardo venne lucidamente tracciata dal Pm di Bari, Leonardo Rinella, rappresentante della pubblica accusa nel processo, celebrato nel capoluogo pugliese nel 1986 contro presunti mandanti e esecutori del delitto. Il requirente pronunciò queste significative e illuminanti parole per far capire qual era stato pure il movente dell’omicidio: “Losardo manifestò, nelle sedi più diverse, la sua costante volontà di opporsi alle attività illecite della malavita locale e di operare contro ogni forma di malgoverno e di collusione tra il potere locale e i gruppi delinquenziali.

Combattè a lungo da solo, rischiando di persona, denunciando durante i consigli comunali il malaffare e le connivenze. Il suo coraggio fece paura. E la mafia gli tappò la bocca, organizzando un vile agguato in una calda sera d’estate”. Lo stesso pubblico ministero ricordò ai giudici d’Assise che, prima di spirare, il consigliere comunale pronunciò una frase agghiacciante. “A Cetraro tutti sanno chi è l’assassino”. Forse era vero. L’uccisione però è rimasta impunita. La mafia ha ottenuto l’effetto desiderato. La mancata affermazione della giustizia, ha finito col rafforzare l’antistato, consolidando i poteri occulti che con esso convivono. La non individuazione dei colpevoli ha rilanciato la cultura della morte, elevandola a sistema”.

 

 

 

Articolo del 29 Maggio 2011 della Gazzettadelsud.it 
L’omicidio di Giannino Losardo oggetto di una tesi di laurea
La consegna dei riconoscimenti il 4 giugno nell’auditorium di Fuscaldo
di Tiziana Ruffo

Cetraro. «Neutralizzare quelle cellule impazzite che nel 1980 perpetrarono quell’orrendo delitto». Raffaele, figlio di Giannino Losardo, assassinato dalla mafia il 21 giugno 1980, ricorda la tragica vicenda del padre, sottolineando che si tratta di una ferita che ancora non si è riusciti a sanare. Un delitto impunito che ancora chiede giustizia. «Per sanare la ferita – ha dichiarato l’avvocato Losardo – è necessario un lavoro che riguarda non solo le forze della magistratura o le forze dell’ordine ma che richiede un impegno dell’intera società civile». Il caso Losardo, intanto, diventa una tesi di laurea, che sarà presentata nell’ambito della “IX edizione del Premio internazionale Losardo”, che si terrà a Fuscaldo, il 4 giugno prossimo, alle ore 19, nell’Auditorium “Mino Reitano”. Nell’occasione lo stesso Raffaele Losardo, che è presidente onorario del laboratorio, consegnerà la tessera di socio onorario alla dottoressa Annalisa Ramundo, che ha effettuato la ricerca sulla tragica vicenda di Giovanni Losardo laureandosi così alla Sapienza di Roma. Il tratto distintivo della IX edizione è costituito dalla necessità di ricordare un delitto impunito da trasmettere alle nuove generazioni con l’obiettivo di scongiurare il pericolo che tutto venga avvolto nell’oblio. Raffaele volge lo sguardo verso il futuro e saluta con soddisfazione il prezioso lavoro che sta svolgendo il Laboratorio, che punta alla diffusione della cultura della legalità tra i giovani. «Il fatto che le generazioni riescano a raccontarsi tra loro questi eventi tragici – ha detto ancora l’avvocato – è un aspetto importante della comunità. Mi aspetto che i miei concittadini trovino la forza di isolare quella parte della società che ha compiuto quel delitto orrendo. Bisogna tuttavia ricordare che negli anni ’80 a Cetraro c’era una popolazione sana, ispirata a principi solidi, che fa ben sperare ad un miglioramento per il futuro. Il mio legame con Fuscaldo e Cetraro è molto forte – ha detto infine – a Fuscaldo vive ancora mia madre, per cui spesso ritorno in quei luoghi dove anche le mie figlie hanno coltivato delle amicizie».

Nel corso dell’evento, sarà proiettato il cortometraggio “Delitto impunito” del regista Daniele Maltese, che aprirà l’evento culturale nel corso del quale si procederà alla consegna del “Cristo d’argento” a Danilo Chirico e ad Alessio Magro per il volume “Dimenticati”. Il premio Losardo, per la sezione giornalismo e per la sezione legalità, sarà assegnato ai giornalisti Alessandro Leogrande, Loredana Rotundo e Matteo Cosenza, al magistrato Fabio Regolo e a Rosanna Scopelliti, figlia del noto magistrato Antonino Scopelliti, assassinato dalla ‘ndrangheta il 9 agosto 1991. Interverranno tra gli altri il sindaco di Fuscaldo, Gianfranco Ramundo, l’assessore provinciale alla cultura Maria Francesca Corigliano, il presidente della provincia di Cosenza Mario Oliverio e l’assessore regionale alla cultura Mario Caligiuri.

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Intervento di Raffaele Losardo al Premio Losardo 2011
Articolo dal Laboratorio sperimentale Giovanni Losardo
di Raffaele Losardo
Vorrei cogliere l’occasione della coincidenza tra questa nona edizione del Premio Losardo e le celebrazioni del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, celebrazioni che hanno avuto uno dei momenti più importanti nella festa della Repubblica dell’altro ieri, per dirvi del mio incontro con l’idea (con il concetto) di patria. Vorrei approfittare di questa occasione, perché la parola patria (e quindi anche il concetto di patria) – come è a tutti noto – ha la radice, il suo etimo nella parola pater, padre: patria è la terra dei padri; in un’accezione ancora più ristretta, indica la terra bagnata dal sangue dei padri, quella fondata, difesa e riscattata dal sacrificio dei padri.
Papà scrisse a suo tempo un articolo su questo tema: lui, che era stato in gioventù un cronista dell’Unità della Calabria, amava molto – come non ha mancato di ricordare Annalisa Ramundo nella sua bella tesi di laurea – scrivere articoli di varia cultura. L’articolo credo fu pubblicato sulla rivista “Chiarezza”, e (spero di non sbagliare) il titolo dovrebbe essere I comunisti, la patria, le guerre.
Avrei voluto citarvene qualche brano, ma purtroppo non l’ho ritrovato nelle sue carte.
Vi dirò comunque qualcosa della sua concezione di patria, perché ho per fortuna un ricordo preciso di un aneddoto, che lui ha raccontato più di una volta, con il chiaro proposito di mettere in guardia da una troppo facile e ricorrente retorica dell’amor di patria; e di tenere a bada i falsi sentimenti, traendo ispirazione dai sentimenti più veri, profondi ed autenticamente popolari.

Egli narrava di una cerimonia accaduta durante il fascismo: un contadino era stato convocato (credo proprio a Cetraro) da autorità militari e politiche dell’epoca; presentatosi a queste autorità era stato messo al corrente del fatto che il figlio – che era partito per fare il soldato in  periodo di guerra – era stato ucciso. Le autorità avevano pensato bene di tentare di mitigare a quel padre sconsolato lo strazio della notizia, ma poi avevano incominciato a parlargli con enfasi della gloria imperitura conquistata dal giovane, del supremo sacrificio compiuto per amore e per il bene della patria, del suo eroico esempio che sarebbe stato ricordato dalla patria riconoscente, ecc.. L’anziano contadino, che per rispetto alle autorità era rimasto fino a quel momento con il cappello in mano, a quelle parole aveva stretto tra le due mani il cappello e, dopo averlo appallottolato, lo aveva scagliato per terra e aveva replicato:

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Si tratta di un episodio vero e non vi è nulla di inventato in quello che vi ho raccontato.
Una prima considerazione.
La patria è, come dicevo prima, la terra dei padri, la terra che trae fondamento dal sacrificio, dalle opere, dall’esempio e dal sudore dei padri. Ma bisogna evitare ogni equivoco, e gli italiani hanno vissuto purtroppo anche esperienze equivoche, ossia esperienze in cui le classi dirigenti (da ultimo, come dicevo prima, la dittatura fascista), hanno ingannato il popolo con la retorica dell’amor di patria, mandandolo ad immolare i suoi figli in guerre senza speranze e senza senso.

Per avere un riscontro chiaro e tangibile di questo concetto, consiglio a tutti di andare una volta – se dovesse capitarvene l’opportunità – a visitare uno dei tanti cimiteri militari, nei quali si trovano le spoglie dei nostri soldati: quando osserverete le file interminabili di croci e lapidi, ponete attenzione all’indicazione degli anni di nascita e di morte dei caduti: una lunga serie di alfa ed omega contrassegnano ogni stele, tutte inesorabilmente uguali, con intervalli di tempo brevissimi tra nascita e morte, di 18, 19, massimo 20 anni, a segnare lo spegnersi non dei padri, ma di intere generazioni di figli.

Patria, patriottismo sono quindi espressioni delicate, da usare con cautela, perché l’esperienza ci dice che non mancano certo mascalzoni pronti a strumentalizzare i sentimenti e le vicende della storia di un popolo, ossia di una patria, per deteriori fini di conquista o conservazione personale del potere.
La strumentalizzazione arriva talvolta ad operazioni di vera e propria manipolazione della storia, con la proposizione di riletture inaccettabili di vicende patrie, sulle quali da tempo la storia ha pronunciato verdetti inequivocabili.

Faccio un’apparente e breve digressione: è capitato ad esempio, proprio nel corso della recente campagna elettorale, che si sia tentato di rimettere in discussione finanche il dato storico rappresentato dalla liberazione dal nazifascismo a Milano ad opera del CLNAI, tentandone di ascrivere il merito non si sa bene a chi, salvo paventare poi la necessità di promuovere oggi una nuova liberazione della capitale del nord dal presunto pericolo di una dittatura comunista.

Alla base di questi tentativi c’è sempre qualcosa di losco, oltre ad una notevole dose di rozza ignoranza. Però c’è sempre il rischio che si crei disorientamento e perciò occorre rintuzzare ogni volta con decisione queste manipolazioni: basterebbe, per ritornare alla questione della lotta di liberazione a Milano, far studiare i documenti, spiegando ad esempio che quella fotografia famosissima, in cui si vedono i dirigenti partigiani Riccardo Bauer, Sandro Pertini ed altri che marciano con passo marziale insieme al partigiano comunista Luigi Longo, lungo una strada di Milano finalmente libera dalla marmaglia nazifascista, altro non rappresenta che il ruolo fondamentale che ha avuto l’unità delle diverse componenti dell’antifascismo – quella di matrice comunista e socialista, quella cattolica e quella di ispirazione laica e liberale nella riconquista della libertà e nella costruzione della democrazia.

Per fortuna c’è una memoria che resiste e che si tramanda, una memoria che poi si traduce talvolta anche nella sconfitta politica di questi rozzi mistificatori della storia: consentitemi questa ulteriore breve digressione nell’attualità politica, ma a mio avviso anche per questa ragione a Milano le elezioni sono state perdute da Silvio Berlusconi (badate, dal nostro attuale premier e non da Letizia Moratti)  e vinte invece da Giuliano Pisapia. Per chi non lo sapesse, Giuliano ha tra le sue pagine professionali più belle anche quella del processo (al quale, consentitemi di dirlo con orgoglio, partecipai anche io, accanto al mio maestro Fausto Tarsitano), nel quale fu ottenuta la riabilitazione di due partigiani, Germano Nicolini ed Ello Ferretti, che erano stati ingiustamente condannati per un assassinio (quello del parroco don Umberto Pessina) che non avevano commesso, ma che negli anni torbidi del dopoguerra doveva essere attribuito, anche a costo della calunnia, ai due dirigenti e partigiani comunisti, per infangare l’intera storia dei comunisti italiani.

Un ulteriore digressione: quando sento parlare di giustizia politicizzata, come della tara più pericolosa e perniciosa della giustizia italiana, mi viene da sorridere, pensando che certamente la nostra giustizia è malata e talvolta è stata ed è anche politicizzata; ma questa tara proviene da tutt’altra parte (come ben potrà confermarvi il dott. Fabio Regolo, che ora saluto, di cui ricordo il bell’intervento al recente congresso di MD, che si può reperire navigando su internet); basti pensare a quella arcinota vicenda di corruzione in atti giudiziari, che è pervenuta anche in Cassazione alla condanna definitiva di un noto avvocato, che è stato perfino ministro e parlamentare della repubblica, o ancora ad altre vicende recenti e meno recenti di tentativi di condizionamento di decisioni e nomine in ambito giudiziario (penso alle vicende della P2 e alla cosiddetta P3).


Voglio dirvi ancora di un altra vicenda giudiziaria, nella quale fu impegnato anche questa volta il mio maestro, l’avvocato Fausto Tarsitano, che parla anch’essa del senso vero e profondo dell’amor di patria.
Mi riferisco al processo a don Lorenzo Milani, in relazione alla vicenda della pubblicazione della sua lettera ai cappellani militari. In questo processo Fausto aveva difeso Luca Pavolini, all’epoca vicedirettore di Rinascita, reo di avere pubblicato sul settimanale comunista questo scritto prezioso di don Milani, che tratta dell’obiezione di coscienza, un testo che a rileggerlo mette i brividi ancora oggi. Scriveva dunque don Milani, rivolgendosi ad alcuni cappellani militari, che avevano tacciato di viltà gli obiettori di coscienza: . Così scriveva Don Milani nel lontano febbraio del 1965, in questo scritto straordinario in cui il prete di Barbiana riportava poi quella parte dell’articolo 11 della Costituzione, che sancisce il principio che l’Italia ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.

Ed ecco qui, in una prima approssimazione, cos’è, nella concreta esperienza di ognuno di noi, la patria: essa è il luogo dell’accoglienza e della crescita, il luogo cioè dove una nuova vita o, generalizzando, una nuova generazione viene amorevolmente accolta, ricevuta e presa in carico dalle mani forti ed autorevoli della generazione dei padri, nutrita dei suoi insegnamenti preziosi e quindi guidata a sua volta verso l’assunzione delle responsabilità ed il tempo della maturità.

Patria è quindi ogni luogo in cui avvenga quest’incontro, questo scambio, questo riconoscimento ed assunzione di impegno e di responsabilità tra generazioni diverse; il luogo in cui le tante sofferte conoscenze e conquiste dell’umanità vengono trasmesse, come un testimone, attraverso tramiti talvolta impensati e impensabili, alle esperienze di apprendimento, alle riflessioni ed alle conquiste delle nuove generazioni.

Artefici di questa trasmissione sono quindi i padri ed il terreno in cui avviene questo scambio è la patria, ma i due termini devono essere assunti e compresi in un senso non solo (come dire?) genetico-formale, ma in un senso spirituale ed in un’accezione larga: perché è nei luoghi ed è dai luoghi più diversi e talvolta lontanissimi e remoti che arrivano rivoli di conoscenze e conquiste; ed è in questi luoghi che si radica, per ciascuno di noi secondo la propria personale esperienza, l’incontro con i padri, ossia con le più avanzate conquiste della mente umana, con le personalità più spiccate della storia.

Io avverto e credo che un po’ tutti avvertiamo ogni giorno, in questi tempi di grandi turbolenze e di non facile interpretazione, la necessità di orientarci e di trovare la bussola, rivolgendoci ed ispirandoci alle voci autorevoli del passato, a quelli che chiamiamo i padri della patria.

Per quel che mi riguarda, padri della mia patria sono quindi certamente i grandi eroi del risorgimento (ai quali sarà bene accostare – come ha fatto recentemente Roberto Benigni – alcuni nani politici dei nostri tempi, per misurare l’abisso caricaturale di certe pretese di grandezza); ma padri sono poi certamente quei padri costituenti ai quali dobbiamo riconoscere oggi un bene preziosissimo quale la nostra Carta Costituzionale, questo documento che da 63 anni contiene le regole del nostro vivere insieme, della nostra casa comune e che pone nel lavoro, al suo articolo 1, il fondamento della sua esistenza: una Carta bellissima che ci è invidiata ancora dai paesi che si affacciano oggi alla democrazia, frutto dell’incontro (come dicevo già prima) delle principali correnti culturali del nostro tempo e che improvvidamente qualcuno vorrebbe cambiare, non per accogliere nella casa comune nuovi soggetti che prima se ne erano tenuti fuori, ma per stravolgere il contenuto della carta e tentare di mettere al bando i valori propugnati dai suoi artefici.

Io  spesso mi trovo ad aspettare e ad auspicare che una parola chiarificatrice, sulle questioni che vedono aspre contrapposizioni di tesi ed opzioni politiche, giunga anche dai grandi padri del nostro presente, e mi riferisco al nostro presidente della repubblica, Giorgio Napolitano; o attendo di leggere sulla stampa o di ascoltare in qualche raro passaggio televisivo le sagge riflessioni di forti personalità dell’intellettualità. Faccio alcuni nomi: Gustavo Zagrebelski, Stefano Rodotà, Roberta De Monticelli.

Il bello di avere una patria è anche quello di avere dei compatrioti. Annoveravo prima tra i padri della mia personale patria don Lorenzo Milani. Ebbene proprio l’altro ieri don Lorenzo Milani veniva menzionato tra le personalità, che nell’ambito della esperienza della scuola italiana ha apportato una ventata di novità e di unificazione della patria, nell’ambito di una puntata speciale di Fahrenheit, la meritoria trasmissione di radiotre, dedicata al 150° anniversario dell’unità d’Italia. Ecco, qui ci sono oggi due compatrioti che ricevono il premio Losardo, Loredana Rotundo e Alessandro Leogrande, che a radiotre collaborano da tempo: radiotre è per me, nel panorama spesso desolante dell’esperienza massmediologica italiana, una piccola patria, dove spesso cerco e trovo rifugio. Sono un tenace ascoltatore di radiotre fin dall’adolescenza, quando da un vecchio apparecchio radio in casa di mia nonna seguivo (non potendolo fare direttamente in un piccolo paese come Fuscaldo, che non offriva  luoghi di ascolto di musica colta) trasmissioni musicali di altissima qualità (penso ancora oggi all’ascolto dei Quartetti e della Sinfonia dello Zodiaco di Gianfrancesco Malipiero o alle lezioni di Piero Rattalino, sul pianoforte nella musica contemporanea). Ancora oggi questa  emittente presenta un palinsesto di grandissimo interesse, con trasmissioni, che meriterebbero ognuna di essere menzionate. Il mio plauso a Loredana e ad Alessandro, questi nostri compatrioti, va esteso quindi anche a radiotre.

Vi dicevo poc’anzi della puntata di Fahrenheit dedicata ai 150 anni dell’unità. Nel corso della trasmissione è stato intervistato tra gli altri anche il Giudice Caselli, che ha avuto modo di fare riferimento ad un altro particolare della mostra in corso a Torino: si tratta della presenza all’interno della mostra di alcuni faldoni, che portano  i titoli di alcune grandi inchieste. Caselli ricordava i faldoni intitolati alla strage di via d’Amelio ed alla strage di Capaci e menzionava Andrea Camilleri che, con riferimento a queste due stragi, ne aveva parlato come del nostro 11 settembre, le nostre due torri gemelle: eventi che nella loro drammaticità hanno creato dapprima grande smarrimento, ma hanno rappresentato poi un punto di avvio di una riflessione unitaria e di un movimento di ribellione dei giovani di Palermo.

Ebbene, cito allora a questo proposito altri due compatrioti, Danilo Chirico e Alessio Magro, che con i loro lavori (e vorrei ricordare non solo il libro oggi premiato, “Dimenticati”, ma anche il bellissimo libro sul Caso Valarioti e la loro collaborazione ad un importante sito internet) ci invitano a ripartire dalle tante altre storie dei caduti in Calabria per mano della mafia.
In questa narrazione che lascia senza fiato, perchè Alessio e Danilo ricostruiscono e raccontano con puntualità le vicende se non sbaglio di oltre duecento delitti di mafia in Calabria, c’è la storia che tocca oggi qui un’altra compatriota, Rosanna Scopelliti, figlia di un altro padre di questa nostra patria, che giusto alcuni giorni fa ha rilasciato una bellissima intervista che spero sia stata oggetto della dovuta attenzione.

E poi vorrei ricordare tra i nostri compatrioti il direttore de Il Quotidiano della Calabria, Matteo Cosenza, con il quale sono stato recentemente in una scuola di Cetraro a parlare di mafia, e a ricordare Giovanni Losardo e Massimiliano Carbone insieme alla sig.ra Liliana, la coraggiosa mamma di Massimiliano.
Non ci sono medaglie che abbiano grande valore venale in premio ai patrioti di questa patria, ma un po’ di libertà in più certamente sì.
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vivi.libera.it
Giannino Losardo
Era stato in grado di cogliere le profonde trasformazioni sociali che stavano avvenendo in Calabria e di come la ‘ndrangheta si stesse trasformando. Fu tra i pochi politici a capire tutto questo e lo denunciò sempre pubblicamente.

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