23 Febbraio 1889 Castelbuono (PA). Stanislao Rampolla, Delegato di Pubblica Sicurezza a Marineo aveva scoperto il malaffare ma non fu creduto. “Suicidio per mafia”

Stanislao Rampolla “Delegato di Pubblica Sicurezza a Marineo aveva scoperto il malaffare ma non fu creduto.
Si tolse la vita nel febbraio 1889. La vedova denunciò con sobria fermezza la vicenda che riguardava il marito chiedendo a Crispi di «fare giustizia»”

 

 

Articolo di La Sicilia del 15/02/2009

Il poliziotto «suicida per mafia»

di Dino Paternostro

«Quando un funzionario pubblico, dopo 40 anni d’intemerato servizio, pone termine in modo violento, malgrado i legami santi della famiglia, ai propri giorni – e ciò per motivi dipendenti dal suo ufficio – conviene ammettere che cause ben gravi abbiano potuto spingerlo a siffatto eccesso…», scrisse nel 1889 Giovannina Cirillo al ministro dell’Interno Francesco Crispi. Il funzionario pubblico, a cui faceva riferimento la donna nel suo ricorso, era suo marito, il cavaliere Stanislao Rampolla Del Tindaro, delegato di Pubblica Sicurezza, che qualche settimana prima (intorno al 23 febbraio 1889) si era tolto inaspettatamente la vita. Un ’suicidio per mafia’ di 120 anni fa, che la vedova denunciò con sobria fermezza, chiedendo a Crispi di fare giustizia.

Il funzionario di polizia, infatti, aveva rinunciato alla vita, dopo un durissimo scontro con la mafia di Marineo, che si era concluso con l’umiliazione del suo trasferimento e il trionfo del notaio Filippo Calderone, sindaco del paese e capo della cosca mafiosa locale.

Due anni prima – nel 1887 – era stato il questore di Palermo Taglieri a trasferirlo da Carini a Marineo, perchè «la mafia di quel difficile comune, per lungo tempo sopita, tentava di levare nuovamente il capo». Il cavalier Rampolla, allora, aveva alle spalle 35 anni di servizio nella polizia ed un passato di combattente nelle rivoluzioni del 1848 e del 1860.

A Marineo aveva trovato un memorandum del precedente delegato, Gaetano Pepi, che accusava il notaio Filippo Calderone, da otto anni sindaco del paese, di esercitare la propria autorità per proteggere i malviventi. Dopo appena due mesi il delegato di P.S., in perfetta sintonia col comandante dei carabinieri Giuseppe Attardi, poté confermare al questore Taglieri queste accuse. E cioè che il notaio Calderone usava le 27 guardie campestri per danneggiare i suoi avversari politici. Che le guardie municipali da lui reclutate, erano dei delinquenti comuni, sottoposti in passato a misure di polizia per estorsione, furti e persino omicidi, e colpevoli adesso di vessazioni e prepotenze a danno dei commercianti.

Che il carcere era in mano agli uomini del sindaco, i quali consentivano ai detenuti di passeggiare tranquillamente per il paese. In sostanza, il sindaco Calderone proteggeva criminali in cambio di quel sostegno elettorale, che gli consentiva di mettere le mani sul municipio, lucrare con la sua attività professionale e procacciare clienti ai figli Innocenzo e Camillo, avvocati a Palermo. Alcuni suoi assessori, come Giobatta Cangialosi e Pietro Mordagà, non erano da meno del sindaco nella gestione spregiudicata ed illegale del potere. Per non parlare dei consiglieri comunali, tutti analfabeti o semi-analfabeti, che gli tenevano il sacco, e dei pretori Galluzzo e Ferrante, che, insieme al Regio Procuratore di Palermo Nicolai, gli davano appoggio. In questo contesto, il tesoriere comunale Carmelo Pecoraro era cognato dell’assessore Cangialosi; il commesso telegrafico, che alloggiava gratuitamente nei locali comunali, era cognato del genero del sindaco e cugino del consigliere Pernice; l’addetto al trasporto della corrispondenza, Onofrio Romeo, era zio dei consiglieri Pernice e Calderone; e il fratello sacerdote, Ciro Romeo, era maestro elementare; il registro della popolazione era gestito da Vincenzo Marino, cognato del consigliere Scarpulla e cugino dell’assessore Calderone; un panettiere, tale Ciro Bivona, cugino dei consiglieri Sanfilippo e Pernice e compare del sindaco, era diventato capo della polizia urbana.

Il contesto ambientale e i reati contestati al Calderone avrebbero dovuto comportare la sua immediata destituzione da sindaco. Il Prefetto, però, non solo non intervenne, ma, da lì a poco, così come aveva fatto con i precedenti delegati, trasferì ad altra sede (prima Castronovo, poi Castelbuono) anche il cavalier Rampolla, che qualche giorno dopo, per la vergogna, si suicidò.

Il memoriale della vedova ebbe l’effetto di trascinare in tribunale il sindaco e i suoi complici, ma il processo si concluse con la loro assoluzione.

Secondo i giudici, infatti, a Marineo la mafia non esisteva, il cavalier Rampolla era solo un vecchio pazzo e donna Giovannina una povera vedova accecata dal dolore.

 

 

 

 

Suicidio per mafia (ricorso al Ministro dell’interno – 1887) di Giovanna Cirillo Rampolla –  2 ristampa – Ed. La Luna 1986

 

 

 

 

 

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