24 Luglio 1991 Sessa Aurunca (CE). Assassinato Alberto Varone , commerciante di 49 anni con 5 figli. Non si era piegato alle richieste della camorra.

Foto da legalitaegiustizia.it

L’imprenditore Alberto Varone è ucciso a Francolise, in provincia di Caserta, dal clan camorrista Muzzoni di Sessa Aurunca.
Alberto era un gran lavoratore, molto legato alla sua famiglia. Alberto svolgeva due lavori: gestiva una sorta di agenzia immobiliare nel pieno centro di Sessa Aurunca e di notte andava a prendere i quotidiani al deposito di San Nicola La Strada per distribuirli in tutte le edicole del comune di Sessa, e da Roccamonfina al Garigliano.
Il clan dei “Muzzoni”, affiliato alla Nuova Famiglia della camorra campana, aveva più volte minacciato Alberto e la sua famiglia affinché questi cedessero l’attività commerciale e pagassero una serie di tangenti. Alberto non ha mai ceduto alle minacce e alle intimidazioni e questo atteggiamento di resistenza rappresentava quindi per il clan locale una minaccia per la credibilità dell’organizzazione criminale.
Il 24 luglio 1991 Alberto è vittima di un agguato. Sta viaggiando, come suo solito, verso San Nicola la Strada quando, sulla via Appia, in località “Acqua Galena”, tra i comuni di Francolise, Teano e Sessa, un commando armato di fucile a canne mozze esplode più colpi a distanza ravvicinata, uno dei quali lo centra in pieno volto. Il corpo rimane esanime sul luogo del delitto fin quando un passante, con una chiamata anonima, non avvisa la caserma dell’Arma di Sant’Andrea del Pizzone.
I suoi parenti, la moglie Antonietta, il primogenito Giancarlo e gli altri figli, dopo la barbara uccisione di Alberto, cercano di continuare l’attività, ma subiscono ancora minacce dal clan.
La vedova, così, incoraggiata dall’allora vescovo Raffaele Nogaro, decide di denunciare i camorristi che continuavano con le minacce. La sua denuncia porta all’arresto del capoclan storico Mario Esposito nel 1994. La famiglia Varone entra nel programma di protezione, sono portati tutti via.
Nel 1998, la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere condanna i mandanti e gli esecutori materiali dell’omicidio, assicurando alla giustizia gli attori del gesto efferato. La Corte di Cassazione, nel 2003, conferma le condanne, dando, inoltre, risalto alla coraggiosa e ferma opposizione alle richieste della criminalità organizzata. […]  (fondazionepolis.regione.campania.it )

 

 

 

Articolo di La Repubblica del 27 Ottobre 2010
QUELL’UFFICIO DELL’ASL DI CASERTA UCCIDE DI NUOVO ALBERTO VARONE
di Antonio Amato

Alberto Varone è un gran lavoratore. Ha 5 figli, per mantenere la sua famiglia si alza ogni notte alle 3, con la Kadett rossa da Sessa Aurunca arriva a San Nicola la Strada, va a prendere i giornali, poi li distribuisce in una trentina di edicole tra Roccamonfina e le frazioni di Sessa. Concluso il giro, verso le otto del mattino, raggiunge la moglie al negozio di mobili che gestiscono. Alberto Varone è un uomo onesto e fiero, non si è mai piegato ai ricatti dei camorristi, quelli del clan Esposito che dalla fine degli anni Ottanta domina la zona. E il suo no glielo grida in faccia. Un affronto che il capoclan Mario Esposito non gli perdona. Ne decreta la morte. Il 24 luglio del 1991, Alberto Varone come ogni notte è sulla via Appia, guida la sua auto piena di giornali. Lo raggiunge un commando di fuoco, gli sbarrano la strada, gli sparano con un fucile a canne mozze, poi gli sparano in faccia. Alberto è tosto, non muore subito. Finirà qualche ora più tardi su un letto di ospedale, ma prima riuscirà a far capire alla moglie chi è stato a ucciderlo. Il figlio di Alberto, Giancarlo, ha la fierezza del padre. Decide, con l’aiuto degli amici, di riprenderne il lavoro, alzarsi di notte, distribuire i giornali. Non mancano le minacce, ritornano le ritorsioni del clan. Tuttavia la madre, con il conforto del vescovo Nogaro, supera le paure per i figli, decide di denunciare gli assassini del marito. Le minacce si fanno più pressanti. La famiglia Varone entra nel programma di protezione, sono portati tutti via. Da allora, come purtroppo è inevitabile, nessuno sa più nulla di loro.

Poco a poco, tutti sembrano dimenticare questa storia, nessuno ne parla più per anni. Qualcuno, però, tiene duro, continua a ricordare e fa di quel ricordo un punto di forza della sua lotta, strenua, dura, per la legalità. È Simmaco Perillo, con la sua cooperativa “Al di là dei sogni”. Ci lavorano persone che vivono disagio, per lo più provenienti dalla salute mentale. Decine di uomini e donne che erano stati legati per anni ai letti di contenzione, che erano stati definiti socialmente pericolosi, oggi sono soci della cooperativa, lavorano lì, perfettamente integrati nella loro comunità. Lo fanno grazie a uno strumento, i budget di salute, che permette di superare la logica delle Rsa, produce un enorme risparmio per la sanità, restituisce queste persone al diritto di cittadinanza.

Questi ragazzi hanno in gestione un bene confiscato ad Antonio Moccia. Decidono di intitolarlo ad Alberto Varone. Coltivano i terreni del bene confiscato. Producono centinaia di vasetti di melanzane che mettono in vendita e presentano nel luglio di quest’anno in una grande manifestazione pubblica nell’aula consiliare del comune di Sessa.

Centinaia di persone, alla fine, scendono in piazza, e dopo 19 anni viene gridato il nome di Alberto Varone. Una comunità intera restituiscea una vittima innocente della camorra la sua dignità, grida un no secco in faccia ai clan.

Ma oggi, l’Ufficio sociosanitario del distretto 14 dell’Asl di Caserta, che si oppone ai budget di salute, interrompe da un giorno all’altro i progetti riabilitativi terapeutici individuali. Con procedure tutt’altro che trasparenti, senza aver mai visitato negli ultimi due anni queste persone, senza sapere se gli obiettivi sociosanitari sono stati raggiunti, senza sapere che molte di queste persone non hanno più nemmeno una casa o una famiglia dove tornare. Per loro si spalancherebbero a breve, nuovamente, le porte delle Rsa. E si produce l’effetto di far chiudere quel bene confiscato. Così, per interessi oscuri, un pezzo dello Stato decide di uccidere di nuovo Alberto Varone. L’autore è presidente della commissione regionale sui beni confiscati

 

 

Un capitolo a lui dedicato nel libro La Bestia di Raffaele Sardo
Cap. 6. Alberto Varone Uccidete il mobiliere – pag. 137

Tratto dal libro: Le minacce
Ma chi poteva avere interesse a uccidere un distributore di giornali o un commerciante di mobili, visto che Alberto Varone, oltre a distribuire giornali aveva incittà anche un negozio di mobili? A chi poteva dare fastidio una persona che aveva fatto del lavoro la propria ragione di vita? In effetti molti sembrarono subito a conoscenza dei possibili motivi della sua uccisione. I familiari, soprattutto. Alberto Varone era stato minacciato per lungo tempo da Mario Esposito, capo del clan dei “Muzzoni” di Sessa Aurunca, così detto per la piccola statura del capostipite. Il quale voleva rilevare le sue attività di mobiliere e di distributore di giornali, e aveva anche messo gli occhi sui locali dove Varone aveva avviato la sua attività commerciale. Si trovavano subito fuori la porta dei Cappuccini in viale Trieste, di fronte all’allora istituto tecnico per geometri e ragionieri, oggi sede di una scuola media. Un posto centrale e commercialmente interessante, anche se non molto spazioso.

[…]

All’esterno il negozio aveva una semplice serranda: dentro, una scrivania, una sedia e qualche sobrio arredo. Non aveva spazio espositivo: Chi avesse voluto ordinare dei mobili, lo faceva soprattutto dopo aver visionato i cataloghi delle varie case produttrici.

Varone aveva subito nel tempo minacce telefoniche e intimidazioni sempre più pesanti. Gli avevano rotto l’insegna e sparato nel serbatoio dell’auto. A casa sua erano arrivati anche diversi emissari per convincerlo a cedere la sua attività. […] L’imprenditore che si era fatto da solo non aveva nessuna intenzione di cedere alle mionacce del capo clan. E con quale lavoro avrebbe poi mantenuto la famiglia, i suoi figli?

[…]

Il capitolo termina con queste parole:

Ora a Sessa Aurunca sono rimasti quelli che decisero di uccidere suo marito. Lei invece è diventata un’invisibile. Ha portato con sé i figli, e con loro la speranza di scoprire un po’ per volta una vita diversa. Amputata della sua storia, dei suoi affetti, dei suoi ricordi. Ha ricominciato da qualche altra parte, forse con un altro nome. Per sempre lontana dal luogo in cui lasciò l’ultimo fiore per Alberto.

 

 

 

Dal Blog di Emiliano Di Marco Articolo del 5 Luglio 2010
Quasi vent’anni passati e non riuscire ancora a trovare tutte le parole…
Ricordo di Alberto Varone, vittima innocente della camorra.
di Emiliano Di Marco

Quando Alberto Varone fu ucciso era il 24 luglio del 1991 ed avevo solo vent’anni.
Per me era il papà di Giancarlo, generoso e ribelle di testa, come suo padre.

Per mantenere una famiglia di cinque figli, quattro maschi ed una femmina, di cui Giancarlo era il più grande, Alberto Varone faceva due lavori. Di notte si alzava alle tre per andare da solo a prendere i giornali a San Nicola la Strada per poi distribuirli in quasi una trentina di edicole, sparse tra Roccamonfina e le frazioni del comune di Sessa Aurunca, un giro che terminava verso le otto del mattino, poi andava al negozio di mobili che gestiva con la moglie Antonietta.
Quando passavo di lì lo vedevo spesso dormire con il mento appoggiato sul petto, seduto su uno dei divani del negozio.
Da adolescente qual’ero trovavo buffo il suo bel faccione, con quei baffoni alla Pancho Villa ed i capelli  neri un po’ lunghi, un po’ come i personaggi dei film western all’italiana. A volte sorridendo me lo immaginavo con il sombrero e le cartucciere dei pistoleros messicani.

Nella vita di un paese di provincia, sopratutto in un comune che ha due decine di frazioni, le leggende sul carattere degli abitanti dei vari paesini non mancano mai e Giancarlo, figlio di Alberto ‘nanàss, anche se viveva alle “case popolari” di Sessa, aveva il temperamento della gente di Carano, una frazione i cui abitanti sono considerati ostinati ed anche un pò “pazzerelli”.

Non lo sapevo ancora che Alberto Varone era da anni nel mirino dei camorristi, perchè non aveva mai accettato di piegarsi e quello che pensava di loro lo diceva pubblicamente, anzi glielo diceva proprio in faccia.
Un affronto che un clan come gli Esposito, che aveva visto una improvvisa ascesa solo verso la fine degli anni ottanta, quando era diventato improvvisamente potente e padrone del territorio al punto da presentare una lista alle elezioni, non voleva e non poteva più permettersi.

Nel 1990, un anno difficile da dimenticare per chi l’ha vissuto da queste parti, alle elezioni comunali di Sessa Aurunca la DC si era spaccata in due tronconi e, per sconfiggere la “lista civica della camorra”, formata da dissidenti della DC vicini al gruppo andreottiano che faceva capo a Pomicino, ci volle una mobilitazione popolare con a capo il vescovo Raffaele Nogaro in prima fila, mentre si moltiplicavano episodi di violenze e minacce nei confronti di candidati e rappresentanti di movimenti popolari, picchiati barbaramente ed intimiditi, in un clima di vero e proprio terrore.

Le elezioni per il rinnovo del consiglio provinciale di Caserta che si tennero quell’anno furono addirittura annullate e ripetute l’anno successivo, dopo un ricorso presentato all’indomani delle votazioni da due candidati socialisti e da un democristiano contro la “Lista Civica Campana” che era riuscita a conquistare due seggi: Alberto Tatta nel collegio di Sessa Aurunca e Flavio Schiavone in quello di Casal di Principe.

Intanto una vera e propria mattanza: stragi e omicidi di cui oggi (per alcuni casi) si conoscono i mandanti, mentre all’epoca si potevano solo fare delle congetture, perchè in verità nessuno sapeva bene quello che stava succedendo, chi era in guerra contro chi…

Non si era mai arrivati a tanto. Da adolescenti assistevamo alla degenerazione del sistema politico ed alla crescita  del potere criminale davanti ai nostri occhi, giorno dopo giorno, e persino le piazze e le strade dove eravamo soliti incontrarci non erano più le stesse, perchè erano state “occupate” dai giovani aspiranti affiliati e venivamo quotidianamente sfidati e provocati dagli sguardi alla presenza dei parenti stretti del boss, perchè dovevamo imparare ad abbassare i nostri, e guai se reagivi. Tutti dovevano dimostrare di avere paura di loro.
Persino l’unica nostra evasione in una provincia che già perdeva la sua identità,  che era già decrepita e mafiosa, fumarci le canne seduti su un muretto o su una pachina, era diventata impossibile: arrivarono a scatenare degli squadroni che giravano in macchina per il paese, picchiando chi veniva trovato a fumare. Così…senza un vero motivo, perchè comandavano loro.

In un paese di poco più di diecimila abitanti ci si conosce tutti e, pur avendo interessi e progetti diversi, fumare negli anni ’80 era un modo per confrontarsi anche con chi non era come te, con chi la pensava diversamente sulla politica, sulla musica, sul vestire…oltre le appartenenze di qualsiasi colonizzazione culturale…oltre ogni famiglia.
Tutto finiva per essere politico eppure no. Alla fine era la “paesanità” a tenere insieme gruppi di giovani, ragazzi e ragazze umiliati dal modello di vita metropolitano che veniva proposto dallo spettacolo televisivo, quello per cui si organizzavano le macchine per andare a Roma o Napoli a passare la serata, ma venivi rispettato anche se eri comunista, perchè alla fine eri sempre “nu brav’ guaglione”, e magari il volantino che avevi discusso per ore nel circolo qualcuno se lo leggeva pure, e “vabbè ti metto pure la firma per la petizione”.

Con Giancarlo avevamo in comune la voglia di scherzare, quando andavamo in giro con lui succedeva sempre qualcosa. Nelle feste di paese bastava una occhiata di troppo ad una ragazza ed erano derby strapaesani che finivano a “paccheri” e qualche volta però con una fumata o bevuta di vino finale.

Quando i camorristi scesero per le strade nel giro di un paio d’anni cambiò tutto,  solo chi non ci stava si rinchiudeva nella sezione del partito, minoritario da sempre, o in qualche associazione,  a fare finta di fare…di fare…e per chi se lo poteva permettere, finite le scuole superiori, i genitori si facevano in quattro per  mantenere i figli a Napoli o a Roma. Lontano dal paese…a fronteggiare la camorra gli adulti…

Alberto Varone fu ucciso sull’Appia, poco dopo le 4 del mattino, quando la strada è deserta…
Come ogni notte, sette giorni su sette, stava andando con la sua Opel Kadett rossa a San Nicola La Strada a prendere i giornali.
Gli spararono prima con un fucile a canne mozze, dopo aver bloccato con un’auto la corsia, subito dopo una curva. Poi lo finirono sparandogli in faccia. Ma non morì subito, riuscì a vivere ancora qualche ora, il tempo di morire sul letto di un ospedale per dire a sua moglie Antonietta chi era stato ad ucciderlo. Parlò con gli occhi, perchè la bocca non c’era più…

Fu uno shock….
Al funerale, a Carano, c’era tutto il suo paese. Di Sessa c’eravamo solo noi che conoscevamo Giancarlo, e pochi altri. Non si fece vivo nessuno delle istituzioni, dei partiti, perchè già stava lavorando l’infamia della calunnia.
“Se l’hanno ammazzato un motivo ci doveva essere”…”quello di notte chissà che portava dentro quella macchina”…“chissà che aveva fatto, tu che ne sai”…

Sui giornali nazionali nemmeno un trafiletto…non era morto nessuno…e nessuno ne voleva parlare in paese.

Per Giancarlo, che si era appena iscritto alla facoltà di economia e commercio a Napoli, le illusioni dei suoi vent’anni finirono lì. Era diventato un capofamiglia, tre fratelli e una sorella più piccoli da mantenere.
L’agenzia dove lavorava il padre gli offrì di continuare al posto suo. Noi, gli amici che gli erano rimasti, lo incoraggiammo, offrendoci di accompagnarlo ogni notte.

Per mesi e mesi, a turno, uno alla volta, ogni notte andammo con Giancarlo a prendere i giornali per consegnarli nelle edicole, dalle tre  fino al mattino successivo, passando ore ed ore in macchina, tra silenzi e sfoghi, tra risate e lacrime, fumando e fermandoci ai bar aperti di notte, per le stradine deserte delle montagne e sull’Appia, sempre con il timore di incontrare “loro”, con il timore sopratutto della reazione di Giancarlo. Nottate in cui bastava una carezza, ed a volte un sorriso per una di quelle stupide frasi di quella che rimaneva di una adolescenza  vissuta nei vuoti, nei deserti paradisi della provincia di Caserta, come  i dannati della terra, con l’incoscienza di chi a vent’anni non vuole avere paura anche se se la fà sotto…e comunque non si abbassa a lasciare da solo un amico.

Facevamo lo stesso percorso che faceva Alberto Varone, passando ogni notte due volte sullo stesso punto dove l’avevano ucciso. Al ritorno, subito dopo il bivio per Pignataro, passavamo sempre vicino la rimessa delle auto dove, con la luce del mattino, era possibile vedere la sagoma della Opel Kadett rossa del papà, lo squarcio dei pallettoni sulla fiancata ancora ben visibile.

Con i primi soldi Giancarlo fece tornare la Kadett rossa come nuova…ed ora eravamo con lei a viaggiare la notte.

Le intimidazioni e le minacce dei camorristi ripresero.
La mamma di Giancarlo cominciò a ricevere telefonate anonime con voci registrate di bambini che piangevano, suoni di campane a morto, insulti, allusioni ai figli…sua sorella dovette andare via da alcuni zii in un’altra città.

Antonietta sapeva chi erano gli assassini del marito, ma aveva paura delle conseguenze per la sua famiglia.
Con il tempo intanto eravamo rimasti in due o tre ad accompagnare Giancarlo, e quasi tutto  l’anno di università era andato perso per noi.
I nostri genitori volevano tenerci fuori, ci obbligarono a riprendere gli studi.
Gli accompagnamenti notturni diventarono sermpre più sporadici, confidavamo nelle promesse che le forze dell’ordine avevano fatto a Giancarlo e sua madre finchè, una notte che andarono  lui e suo fratello Paolo, furono inseguiti da una macchina su una strada che porta a Roccamonfina, e Giancarlo dovette subire l’umiliazione di vedere il fratello schiaffeggiato da un affiliato del clan.

Riprendemmo i turni per accompagnare Giancarlo,  e cercammo di aiutarlo a sostenere quella che era una scelta ormai inevitabile, l’unica che si potesse fare, anche perchè gli inquirenti avevano trasformato il timore di Antonietta di non fare i nomi degli assassini in un’accusa per “favoreggiamento personale”.

Nell’ordinamento giuridico di quegli anni c’erano  solo i “testimoni di giustizia” e non esisteva ancora una legge per tutelare i “collaboratori di giustizia” vittime di camorra, chi parlava quindi si esponeva senza difese da parte dello Stato contro i clan.
Grazie alla solidarietà di alcune donne straordinarie, la mamma di Giancarlo fu accompagnata da monsignor Nogaro, che era già diventato vescovo di Caserta.
Nogaro la prese per mano e l’accompagnò a sostenere questo passo.
Quando la mamma di Giancarlo si decise a parlare lo fece senza chiedere né ricevere niente in cambio.

Poi successe tutto all’improvviso.
Un giorno un uomo con un tesserino di carabiniere si presentò al negozio per invitarla a seguirlo, lei si insospettì e dopo aver finto di acconsentire, appena uscito, tirò giù la saracinesca e chiamò Giancarlo ed i carabinieri.
Risultò poi che non era stato inviato nessun militare.
Fu allora che la Procura decise di portarli tutti in una località protetta, dove hanno ricevuto un’altra identità.

Da allora Giancarlo, sua mamma, i suoi fratelli e sua sorella…non li ho visti più, non li abbiamo visti più.
Non so più nulla di loro.

E per anni questa storia me l’ero lasciata dietro le spalle.

In questi ultimi anni però qualcosa sta cambiando.
Grazie alle dichiarazioni di Giancarlo e di sua madre, gli assassini adesso sono in carcere con il 41 bis.
Un terreno confiscato alla camorra è gestito da una cooperativa guidata da un ragazzo straordinario, la comunità che hanno creata è stata intitolata ad Alberto Varone.

…forse è arrivato il momento di crescere ed incominciare a fare i conti con il passato…e capire cosa è successo…impadronirsi della memoria e della dignità…

In questi anni, quando ho provato ad immaginare Giancarlo, sua madre, Paolo, tutti loro…li ho sempre immaginati vivere serenamente da un’altra parte, un’altra vita…

E prego tutti voi di continuare a lasciarmi sperare che stiano bene.
Se non fosse così, vi prego…non ditemelo ancora…

 

 

 

Articolo del 25 Luglio 2011 da terranews.it
Quel commerciante e il suo no alla camorra
di Eliana Iuorio

Quanti sono i passi che separano un uomo dalla sua dignità? A questa domanda Alberto Varone rispose, pagando con la vita, il 24 luglio di vent’anni fa. Il tempo, poi, ha fatto maturare la consapevolezza che in terre come la Campania oggi, più di ieri, è difficile distinguere i camorristi dagli altri, tra la massa anonima della cosiddetta “società civile”. Tanti gli affari, le collusioni con il mondo economico-politico. A Sessa Aurunca, Comune in provincia di Caserta – tra la Campania e il basso Lazio – la stessa “fortezza”, che si scorge nell’entrare in paese, nascondeva un messaggio simbolico, di intimidazione, da offrire allo spettatore. Varone è stato ammazzato da quella camorra che si trincerava nel maniero-bunker, quella feroce degli Esposito: potentissima “famiglia” legata ai De Falco prima e al sodalizio casalese di Casal di Principe poi. Un clan dedito al traffico degli stupefacenti e “protagonista di spicco” nell’affaire rifiuti. Sugli Esposito, alacre e deciso, è stato il lavoro del magistrato Raffaele Cantone, negli otto anni trascorsi alla Direzione antimafia di Napoli (Dda), prima di varcare la soglia della Suprema corte di cassazione. Le sue indagini lo condussero fino all’arresto del capoclan Mario Esposito: l’uomo che è stato accertato (con sentenza passata in giudicato) essere stato il mandante dell’omicidio del piccolo imprenditore di Sessa Aurunca.
«Il caso Varone mi ha colpito profondamente, anche sul piano umano. Una donna, sua moglie, che con estrema forza e amore, vincendo ogni reticenza, ha superato il muro di omertà e di paura esistente in quella zona per collaborare con la giustizia. Lo ha fatto da sola, insieme a uno dei suoi figli», è Alessandro D’Alessio a intervenire per primo, magistrato in forza alla Dda partenopea, che ha sostenuto l’accusa al processo in Assise contro Mario Esposito.
Antonietta Sangermano è una delle protagoniste di questa storia amara. Figlia di una terra dolce e aspra allo stesso tempo, che le ha consegnato la felicità di un marito e di una famiglia unita, compatta, piena d’amore ma che le ha anche saputo spalancare le porte dell’abisso, di quell’inferno che ti destina a uno stato di disperazione, come solo può accadere a seguito di una tragedia simile.

La moglie
«Hai visto? Mario ce l’ha fatta», le ultime parole di Alberto Varone, giunto morente (crivellato dai proiettili dei killer mandati da Esposito), all’ospedale di Capua. Con le mani strette a quelle di sua moglie, trova la forza di testimoniarle l’accaduto. Ed è proprio pensando a quelle parole che Antonietta sceglie di collaborare con gli inquirenti.
«La signora Varone mi raccontò di questo omicidio e del fatto che suo marito era un uomo che non aveva alcun nemico, che si divideva tra la faticosa attività di distribuzione dei giornali (giungeva al mattino presto in S. Nicola la Strada per raccoglierli e distribuirli nei paesi limitrofi, ndr) e la vendita di mobili nel negozietto sul corso di Sessa di cui era titolare. La signora ricollegava l’omicidio di suo marito a un episodio in particolare: la visita di una nipote (nel mese di maggio di quello stesso 1991) che aveva sposato uno dei fratelli Esposito, la famiglia dominante a Sessa Aurunca sotto il profilo criminale. Questa ragazza si era recata presso il negozio del Varone per discutere dell’interesse che gli Esposito avevano da tempo a rilevare la sua attività. Varone si era rifiutato, liquidandola con modi bruschi», è sempre il dottor D’Alessio, a raccontare con dovizia di particolari, la vicenda giudiziaria, risalendo a circa quattordici anni fa.
Prosegue D’Alessio: «La camorra, per definizione anche giuridica, si avvale della forza di intimidazione. Chi la  ostacola colpisce i gangli vitali dell’organizzazione che non può correre il “rischio emulativo”, questo le causerebbe uno “sgonfiamento dall’interno”. Alberto, aveva mostrato la sua contrarietà alla nipote e all’ennesima visita fatta da questa ragazza, che si presentava sempre a nome degli Esposito, lui la cacciò via, dicendole che “aveva infangato” il cognome della famiglia proprio perché si era imparentata con gli Esposito. Questo segnò la sua condanna a morte. Quindi, quel 24 luglio, mentre Varone stava recandosi a fare il giro quotidiano (intorno alle 4 del mattino) per la distribuzione dei giornali la sua auto fu destinataria di colpi di fucile e lui fu gravemente ferito. Morì in ospedale poco dopo».
Difficile, comprendere la logica del clan, per chi ne è estraneo. Ancora più complicato venirne fuori, quando si è imboniti dalla nascita da una certa mentalità criminale, violenta e sopraffattrice finalizzata all’utilizzo di cose e persone, per il proprio profitto e la conquista di quello che “loro” continuano a chiamarlo “potere”. Come certamente non facil è stato il compito della professoressa Antonietta Rozera, insegnante oggi in pensione, dell’Istituto magistrale di Sessa Aurunca.
Due alunni, tra gli altri, a seguire le sue lezioni, come solo un beffardo destino avrebbe potuto decidere: Giancarlo Varone (figlio di Alberto) ed Elisa Esposito (figlia di Mario).

La logica del clan
Racconta la professoressa: «Due famiglie completamente diverse. I genitori di Giancarlo desideravano che il figlio studiasse, s’iscrivesse alla Facoltà di Economia. Si trattava di un ragazzo attento e partecipe. Ho sempre cercato di stimolare i miei studenti su percorsi di legalità e tante sono state le iniziative che la scuola ha promosso su mio impulso. Nel mio piccolo ho cercato di organizzare eventi teatrali e culturali per far crescere umanamente gli studenti oltre che scolasticamente allontanandoli così da una mentalità criminale imperante, nella nostra zona, che si pensava tranquilla».
La professoressa cambia tono, quando le chiedo di Elisa. Dice quasi con rammarico: «Con l’aiuto dell’Associazione Libera, la scuola si fece carico di un’iniziativa importante: sottoporre un questionario anonimo a ciascuno studente per capire cosa pensassero del fenomeno mafie. I risultati ci lasciarono sgomenti: i ragazzi dichiararono, nella quasi totalità, di avere più fiducia nella camorra che nello Stato, perché “la vera mafia si trovava nelle Istituzioni e invece la camorra manteneva le sue promesse”. Non mi fu difficile, risalire al questionario di Elisa. Ricordo nitidamente uno scambio di battute, tra noi, sul finire dell’anno scolastico. Le chiesi, un po’ provocatoriamente, il motivo per cui non partecipasse alle iniziative sulla legalità, mi rispose: “Professoressa, io vi stimo ma sapete come la penso, non ne parliamo più”. Avrei voluta strapparla da quel contesto e da quel destino ineluttabile: scuoterla, farle conoscere l’alternativa. Ma non ce l’ho fatta. E poi, se un sindaco rappresentante delle istituzioni partecipa con cordoglio ai funerali di un boss come Felice Esposito (sui manifesti funebri ebbero il coraggio di definirlo “nobiluomo”) e altri personaggi vicini alle istituzioni prendono parte alle comunioni di casa Esposito mentre alle esequie di Varone pur essendosi tenute in un paese vicino nessuno si è presentato, quale segnale si può mai lanciare alla cittadinanza?».
È delusa e amareggiata Antonietta Rozera. Lei che in tanti anni è stata in prima linea nelle battaglie sui diritti civili, soprattutto a difesa dell’ambiente: «Quel sindaco, un medico, che prese parte ai funerali del vecchio boss, non è meno colpevole, di fronte alla società, di un criminale».

Giornata di iniziative
Oggi nell’ambito della IV edizione del Festival dell’Impegno civile, promosso dal Comitato don Peppe Diana e dall’Associazione Libera coordinamento di Caserta,  la cooperativa “Al di  là dei sogni” ha organizzato un’intera giornata dedicata al ricordo di Alberto Varone nel ventesimo anniversario dell’assassinio. Si partirà questa mattina quando Sessa Aurunca sarà invasa dai podisti della “Maratona della Legalità”. In serata, invece, si terrà un reading che vedrà la partecipazione di Antonietta Rozera, del pm Alessandro D’Alessio,  del giornalista Raffaele Sardo (che ha raccontato la storia di Alberto nel libro La Bestia), di Giulia Casella (referente di Legambiente a Sessa Aurunca), degli scrittori Sergio Nazzaro ed Emiliano Di Marco.

 

 

 

 

 

Articolo del 24 luglio 2013 da  dallapartedellevittime.blogspot.it
ALBERTO VARONE UCCISO A SESSA AURUNCA IL 24 LUGLIO 1991.  A LUI È INTITOLATO IL PRESIDIO DI LIBERA DELLA CITTÀ

di Raffaele Sardo

Il brano è tratto dal mio libro “La bestia” editore Melampo

C’era un forte odore di finocchio selvatico quella notte. Ai bordi della strada statale ce n’era tantissimo. Erano in piena fioritura e le infiorescenze gialle non avevano ancora i frutti maturi. Un’auto, un’Opel K adett, era ferma con la parte anteriore sul lato sinistro della mezzeria della Statale Appia, in direzione di Capua, al chilometro 183+000, in località “Acqua Galena”, nel territorio del comune di Francolise, tra Teano e Sessa Aurunca. La sua corsa era finita proprio sopra un bel mucchio di finocchi selvatici. Ne crescono tanti da queste parti da maggio ad agosto. L’auto aveva la terza marcia inserita e il quadro acceso. Il freno a mano non era tirato. All’esterno, all’altezza della maniglia dello sportello di guida, un foro d’arma da fuoco e poi ancora altri fori nel poggiatesta e nel vano motore. All’interno il conducente era  ferito mortalmente. L’Opel Kadett la trovarono così alle 4,30 del mattino del  24 luglio 1991 i carabinieri della stazione di Sant’Andrea del Pizzone. Furono avvertiti da una telefonata anonima che segnalava la macchina crivellata di colpi. Il sangue schizzato dappertutto e un uomo accasciato sullo sterzo. Un corpo quasi privo di vita.  Era Alberto Varone, 49 anni, un piccolo imprenditore di Sessa Aurunca. Aveva un negozio di mobili e distribuiva giornali alle edicole dei comuni intorno a Sessa Aurunca, la sua città. Era molto conosciuto nella zona. A quell’ora era uscito proprio per andare a prendere i quotidiani al deposito di San Nicola La Strada, una cittadina alle porte di Caserta. Cinquanta chilometri  per andare e cinquanta per tornare, ogni santo giorno. Non esistevano festività, se non quelle legate al riposo dei giornalisti. Ossia la vigilia di Natale e Natale, Pasqua, il primo maggio e il 15 agosto. Partiva più o meno dal centro cittadino di Sessa Aurunca attorno alle 4,00, da un pendìo di tufo vulcanico a Sud-Ovest del vulcano spento di Roccamonfina, e faceva sempre la stessa strada: Verso Carinola, prendendo la statale appia, lambendo Francolise, Sparanise, Capua, Casagiove e prima di Caserta, arrivava a San Nicola La Strada. Paesi distanti tra loro, inframmezzati dalla campagna estesa per centinaia e centinaia di ettari  e per decine di chilometri. La vegetazione tipica delle colline, a volte rigogliosa e umida, a volte secca, su cui arriva la brezza del vicino mare della riviera domizia. Le canne, i fichi d’india, i pini. Man mano che si sale più in alto, l’ambiente cambia aspetto: i pioppi, gli ulivi, i castagni. La stessa vegetazione che migliaia di anni fa si trovarono a contrastare gli Aurunci, antico popolo di queste  terre, per trovare luoghi abitabili a ridosso del fiume Garigliano. Qui in epoca preromana costruirono le  mura ciclopiche, che racchiudevano l’originario nucleo abitato di Sessa Aurunca dove si coniava moneta prima della conquista della città da parte dei Romani nel IV secolo avanti Cristo. Un territorio incontaminato se non fosse per la centrale nucleare, ora chiusa, sorta in un’ansa del Garigliano, agli inizi degli anno ’60. La centrale venne fermata  nel 1978 per un guasto tecnico a un generatore di vapore secondario, ma i danni all’ambiente sono stati evidenti negli anni.

La strada, Alberto Varone, la conosceva a menadito. Oramai di quei chilometri, che percorreva ogni mattina, col vento, con la pioggia, con la neve o col sole,  si può dire che ricordasse tutto: il guardrail rotto, la buca quasi mai riparata appena usciva dal centro abitato, la pianta di fico a pochi chilometri da Francolise, le aziende agricole prima di arrivare a Capua. Tutti elementi di riferimento che legava all’orario. Ogni mattina ad un’ora precisa  doveva trovarsi ad un certo punto della strada. Era tutto cronometrato. Il tempo era tiranno, perché alcune edicole aprivano alle 7,00 e per quell’ora doveva essere già di ritorno coi giornali da consegnare. Un lavoro fatto di tempestività, meticolosità, professionalità. Ad ogni edicola il suo pacco. In ogni pacco c’erano i quotidiani, i settimanali, i rotocalchi mensili. Un lavoro che Alberto Varone svolgeva da anni e senza mai avere grandi problemi. Cento  chilometri alle prime luci dell’alba si fanno in fretta, se non fosse che ogni tanto, nel tratto da Sessa Aurunca a Francolise, ci sono una serie di curve e tornanti che impediscono una guida molto veloce. Soprattutto se davanti si mette un camion di quelli che portano la merce che di mattina deve arrivare sul litorale domizio o nelle città del basso Lazio, Minturno, Scauri, Formia, Gaeta, subito dopo il fiume Garigliano. Sessa Aurunca è in una posizione strategica. E’ collocata al confine Nord-Ovest della Campania e della Provincia di Caserta. E’ divisa dalla Provincia di Latina proprio dal fiume Garigliano. Lo sapevano bene i Romani che nel 313 dopo Cristo, una volta sconfitti gli Aurunci, fecero di Sessa Aurunca una loro colonia. E per la sua posizione strategica tra la Via Appia e la Via Latina diventò un centro di produzione.

Gli assassini lo aspettavano già da qualche ora. Per loro quella notte era passata insonne. Sapevano che sarebbe passato di lì, a bordo della sua autovettura furgonata. Sapevano che il suo era un percorso obbligato. Lo avevano seguito e avevano verificato l’ora e il punto giusto dove tendergli l’agguato. Potevano anche decidere di ucciderlo quando sarebbe andato a consegnare i giornali in una delle 26 frazioni  del territorio di Sessa Aurunca. Un territorio grande ed esteso per 163 chilometri quadrati. In pratica il primo Comune della provincia di Caserta per estensione territoriale. Ma avrebbero dovuto organizzare l’agguato non più nel cuore della notte. E questo sarebbe stato più pericoloso. Potevano esserci testimoni ingombranti. Decisero allora di eliminarlo a notte fonda. Lo avrebbero fatto a pochi chilometri fuori da Sessa Aurunca. Lo avrebbero ucciso e lasciato li. Nella macchina che lo stava attendendo c’erano almeno due persone: uno che doveva  materialmente sparare. Sicuramente un esperto di armi per colpire l’obiettivo in movimento, e l’autista. C’erano anche altri complici per l’appoggio logistico. Dovevano far sparire le armi e bruciare l’auto impiegata per l’omicidio.

Quando i carabinieri di Sant’Andrea del Pizzone trovarono l’auto con il corpo di Alberto Varone, si resero subito conto che era in fin di vita. Fu una corsa disperata verso l’Ospedale civile di Capua, il “Palasciano”. Ma quel nosocomio non era attrezzato per salvare la vita di Alberto. Alle 12,40, fu trasferito all’ospedale “Nuovo Pellegrini” di Napoli. Ma, ugualmente, non ci fu niente da fare. Nel primo pomeriggio, alle 16.35, Alberto Varone lasciava questo mondo. La missione di morte dei suoi assassini era compiuta. Dei suoi killer nessuna traccia.

 

 

 

 

FIORI DAL CEMENTO – La storia di Alberto Varone
Pubblicato il 24 nov 2013

 

 

 

Articolo del 21 Marzo 2017 da  v-news.it
Carano. Alberto Varone, un eroe che non si piegò al ricatto. Il nostro ricordo
di Fabrizio Marino

Chi ha vissuto a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni ’90 a Sessa Aurunca almeno una volta si sarà scontrato con il clan camorristico egemone della zona, ossia i “MUZZONI”. Mario Esposito, boss incontrastato della zona, manteneva rapporti costanti con i Bardellino prima, e con i Casalesi poi, insieme all’altro boss egemone della zona di Mondragone Augusto La Torre. I muzzoni ( per via della statura tarchiata) hanno impresso in quegli anni un clima di terrore (addirittura esistevano dei squadroni di assalto, una sorta di “ronde” che giravano per punire chi fumava spinelli, ad esempio). Sessa in quegli anni era stritolata in una morsa criminale, in cui uno sguardo, una parola poteva costare molto cara. Chi pretendeva la libertà, si rintanava nelle sezioni di partito, in una cannetta fumata di nascosto che serviva più che altro a familiarizzare con i nuovi modi di vestire, i libri la musica e le poesie.
Nel 1990 addirittura furono annullate le elezioni per il Consiglio Provinciale, e spostate all’anno successivo dopo il ricorso presentato contro la “Lista Civica Campania” in forte odore di camorra che aveva già due seggi : A Sessa con Alberto Tatta e a Casal di Principe con Flavio Schiavone. Nello stesso anno a Sessa fu presentata una lista civica con i dissidenti della DC di Pomicino che altro non era che un prodotto del clan.
In Questo clima a dir poco tragico operava Alberto Varone, un piccolo imprenditore del settore mobiliare.
Alberto era di origine Caranese (un paesino limitrofo) dedito al lavoro e alla famiglia, gestiva una sorta di agenzia immobiliare a Sessa Aurunca in Viale Trieste fuori la “PORTA CAPPUCCINI” nel pieno centro. Di notte, in sella alla sua Opel Kadett rossa si avviava verso San Nicola la Strada per ritirare i giornali che avrebbe distribuito, sempre di notte, in tutte le edicole del comune Sessano, da Roccamonfina al Garigliano, “arrotondando” così il suo stipendio. Spesso lo si vedeva dormiente sui divani del piccolo negozietto, stanco dalle mille attività che conduceva Alberto pur di non far mancare “ nulla”, come si suol dire, alla sua famiglia. Tutto questo non era ben visto da Mario Esposito che a tutti i costi voleva rilevare le attività del piccolo imprenditore. Alberto era sì, un grande lavoratore, ma era anche testardo, perché oltre a non cedere ai ricatti dei suoi aguzzini, li sbeffeggiava in pubblica piazza: un affronto troppo grande per gli “uomini d’onore” della camorra locale che tenevano sotto scacco una cittadina intera, e non era possibile che qualcuno potesse disubbidire ai loro ordini criminali (INSULSI).
Così ci furono le prime minacce anonime, le telefonate, i piccoli attentati, ma niente, Alberto era una roccia che faticava a scalfirsi.
E’ la notte del 24 luglio 1991, le quattro del mattino, e Alberto come suo solito viaggiava con la Kadett Rossa verso San Nicola la Strada ( 60 km andata/ritorno). Al km 183+000 dell’Appia dir. Capua, in loc. “ACQUA GALENA”, tra i comuni di Francolise, Teano e Sessa c’era appostato un commando armato di fucile a canne mozze e due uomini, pronti a “punire l’infame”.
Furono sparati numerosi colpi quella notte, uno addirittura in pieno volto, e il corpo lasciato li, fino a quando non arrivò una chiamata anonima di un passante, che appena vide quello spettacolo indecoroso avvertì la piccola caserma di Sant’Andrea del Pizzone, e il corpo fu trasferito prima all’Ospedale Civile di Capua il “PALASCIANO”, poi al “NUOVO PELLEGRINI” di Napoli, perché Alberto era un temerario, e non morì sul colpo.
“Hai visto? Mario ce l’ha fatta” queste le ultime parole esalate con lo sguardo più che con la bocca, dette alla moglie Antonietta prima di morire intorno alle 12:40 circa.
Al suo capezzale non si presentò una sola istituzione, non vi fu scritta una sola riga dai giornali nazionali e non , perché un “morto ammazzato” anche da morto deve essere subissato. Addirittura c’è chi tentò di ridicolizzare la cosa con frasi ingiuriose, come successe a Don Peppe Diana a Casal di Principe anni dopo, che addirittura fu denominato camorrista dal corriere di Caserta.
Antonietta la moglie, insieme al suo primogenito Giancarlo e agli altri figli (in tutto cinque, quattro maschi e una femminuccia) cercarono invano di continuare l’attività del padre, subendo ancora minacce, dalle stesse persone che uccisero Alberto ( addirittura uno dei figli fu picchiato in presenza di un fratello).
Così insieme al grande Vescovo Raffaele Nogaro, si decise di denunciare gli aguzzini, situazione che portò all’arresto del capoclan storico Mario Esposito nel 1994.
Ora la famiglia vive in una località segreta e protetta, mentre a Maiano sorge il presidio di “LIBERA” intitolato proprio ad Alberto.
La Coop “AL DI LA DEI SOGNI” gestita da Simmaco Perillo e da tanti volontari, si occupa di “rieducare” persone affette da problemi psichici, in un programma che prevede la coltivazione nei campi e la conseguente vendita degli alimenti prodotti da loro, in un’economia “solidale” incredibilmente bella.

 

 

 

Foto da: interno.gov.it

Nota da interno.gov.it

Alberto Varone era un piccolo imprenditore di origine Caranese, un paesino vicino a Sessa Aurunca in provincia di Caserta. Amava molto la sua famiglia a cui cercava di non far mancare nulla e proprio per questo svolgeva contemporaneamente due lavori: gestiva una sorta di agenzia immobiliare nel pieno centro di Sessa Aurunca, in Viale Trieste e di notte andava a prendere i quotidiani al deposito di San Nicola La Strada, una cittadina alle porte di Caserta per distribuirli in tutte le edicole del comune Sessano, da Roccamonfina al Garigliano. Il suo era un lavoro fatto di tempestività, meticolosità, professionalità.

Il clan dei “Muzzoni”, affiliato alla Nuova Famiglia della camorra campana, aveva più volte preteso la cessione della sua attività commerciale e il pagamento di una serie di tangenti, richieste a cui Varone aveva opposto resistenza. Per tale motivo fu oggetto di una serie di atti intimidatori quali il danneggiamento dei locali nonché minacce alla propria incolumità e a quella dei familiari.

Nonostante il forte clima di condizionamento –  generato tanto dagli affiliati, quanto dagli altri commercianti del luogo – Alberto Varone continuò a resistere alle richieste, sempre più aggressive, della camorra locale, divenendo una minaccia per la credibilità della stessa organizzazione criminale.

Il 24 luglio 1991 fu vittima di un agguato organizzato dal clan Muzzoni. Alberto come suo solito viaggiava con la propria autovettura verso San Nicola la Strada quando sulla via Appia, in località “Acqua Galena”, tra i comuni di Francolise, Teano e Sessa un commando armato di fucile a canne mozze esplose più colpi a distanza ravvicinata, uno dei quali lo colpì in pieno volto. Il corpo fu lasciato lì, fino a quando non arrivò una chiamata anonima di un passante che avvertì la vicina caserma dell’Arma di Sant’Andrea del Pizzone.

Antonietta, la moglie, insieme al suo primogenito Giancarlo e agli altri figli cercò di continuare l’attività di Alberto ma dovette subire ancora minacce dalle stesse persone. Così, incoraggiata dal Vescovo Raffaele Nogaro, decise di denunciare gli aguzzini, situazione che portò all’arresto del capoclan storico Mario Esposito nel 1994.

Nel 1998, la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere ha condannato i mandanti e gli esecutori materiali dell’omicidio, assicurando alla giustizia gli attori del gesto efferato. La Corte di Cassazione, nel 2003, ha confermato le condanne dando, inoltre, risalto alla coraggiosa e ferma opposizione alle richieste della criminalità organizzata.

Il giornalista Raffaele Sardo ha raccontato la storia di Alberto nel libro «La Bestia». A Maiano di Sessa Aurunca sorge il presidio di “LIBERA” intitolato proprio ad Alberto Varone, gestito dalla cooperativa sociale “Al di là dei Sogni” che a partire dal 2008, grazie alle attività della fattoria didattica, della agricoltura sociale e del turismo responsabile e sostenibile, aiuta i soggetti appartenenti a “fasce deboli” a trovare la dignità di nuovi percorsi di vita.

Lo Stato ha onorato il sacrificio con il riconoscimento concesso a favore dei familiari, costituitisi parte civile nel processo, dal Comitato di solidarietà per le vittime dei dei reati di tipo mafioso di cui alla legge n. 512/99.

 

 

 

Fonte: ricerca.repubblica.it
Articolo del 17 agosto 2018
“Tornerò dove uccisero mio padre”
di Raffaele Sardo

« Invece di cacciare i camorristi, hanno costretto noi, che siamo vittime, a lasciare Sessa Aurunca. Ma in che paese siamo?».

È amareggiato Lucio Varone. Lucio è il figlio di Alberto. Suo padre fu ucciso dalla camorra il 24 luglio del 1991. Fu assassinato per volontà di Mario Esposito, il capo del clan dei “Muzzoni” di Sessa Aurunca. Poco dopo quel delitto, tutta la famiglia di Alberto Varone, la moglie Antonietta Sangermano e i cinque figli, furono costretti a lasciare il paese dove avevano vissuto fino a quel momento. Dopo aver denunciato il clan, non erano più al sicuro. Sono partiti per una città del nord, messi sotto protezione dalla giustizia, ma sradicati da quelli che erano i loro affetti, le loro radici, le loro amicizie. Decisero di portare con loro anche la tomba del padre, che anche da morto ha dovuto subire l’umiliazione di lasciare la propria terra. «Mia mamma voleva potergli portare almeno un fiore in piena libertà», dice Lucio.

Alberto Varone, 49 anni, era un piccolo imprenditore. Lavorava duramente. Si alzava dal letto alle 3 del mattino. Con qualsiasi tempo. Si alzava per andare a prendere i giornali dal deposito a San Nicola La Strada, vicino Caserta, per poi distribuirli nelle edicole delle 26 frazioni di Sessa Aurunca. Oltre a distribuire giornali, gestiva un negozio di mobili con la moglie, quasi al centro di Sessa Aurunca.

Quella mattina del 24 luglio 1991, Alberto era preoccupato. Era preoccupato soprattutto delle minacce che gli arrivavano da Mario Esposito, il capo del clan camorristico dei “Muzzoni”. Gli chiedevano di pagare il pizzo sul lavoro che faceva. Alberto si era sempre rifiutato, non aveva mai ceduto. Ma un imprenditore che si ribella alla camorra può diventare pericoloso per la credibilità del clan. Perciò avevano sentenziato di ucciderlo. La sua morte doveva essere un monito per tutti coloro che la pensavano allo stesso modo.

L’uccisione doveva avvenire in un posto isolato. Due persone lo attendevano in un’auto in località “Acqua Galena”, nel territorio del Comune di Francolise. L’autista e il killer. Non lontano c’erano pronti anche altri complici per far sparire le armi e bruciare l’auto impiegata per la spedizione di morte. «Sta arrivando» , dice l’autista quando vede arrivare da lontano l’Opel Kadett. Si preparano. L’Opel Kadett in quel tratto deve rallentare. Eccola che passa. La inseguono, cercano di affiancarla. Alberto si accorge di cosa sta accadendo. Guarda spaventato. Poi vede spuntare un’arma. Capisce. Si rende conto del pericolo e accelera. Ma i suo assassini non gli lasciano scampo. Sparano a ripetizione dalla sua sinistra, a non più di tre metri di distanza. Pochi attimi ed è tutto finito. L’imprenditore viene colpito in varie parti del corpo. La Opel Kadett sbanda e finisce fuori strada. Si ferma sul lato sinistro della mezzeria della Statale Appia, in direzione di Capua, sotto quelle stesse piante che ogni mattina gli facevano da compagne di viaggio. I killer scappano.

Lucio, che oggi ha 44 anni, dopo tanto tempo ha la stessa rabbia di sempre. «È stato un periodo brutto della nostra vita – dice con un filo di voce – non vederlo più in casa e non vederlo più seduto a tavola per mangiare insieme a noi, è stato terribile. Eppure lui se poteva aiutare una persona, dava una mano a tutti. Io ce l’ho con le persone della mia terra, perché sono omertose. Dopo che l’hanno ucciso, in tanti non si sono fatti più vedere. Solo alcune professoresse sono state vicine a mia madre. Qualche amico di mio fratello, qualche amico mio, ma poche persone. Per il resto si respirava omertà. Ci hanno lasciati soli con il nostro dolore, la nostra sofferenza e i nostri problemi. Ho solo brutti ricordi di quel periodo».

Da alcuni anni, però, il ricordo del padre è più che vivo a Sessa Aurunca. Dal maggio 2008, infatti, il presidio di Libera e un bene confiscato a Maiano di Sessa Aurunca, portano proprio il nome di Alberto Varone, grazie a Simmaco Perillo, operatore sociale della Cooperativa “Al di là dei sogni”.

Da allora, ogni anno, il 24 luglio, Alberto Varone viene ricordato dai ragazzi che partecipano ai campi estivi.

«Il mio desiderio? È quello di ritornare a Sessa Aurunca con la mia famiglia – dice Lucio Varone – vorrei tornare e fare una cosa normale, come quella di far visita ai parenti, incontrare gli amici che ho lasciato quando avevo 19 anni. Ho un desiderio enorme dentro di me di tornare e abbracciare quelli che ho voluto bene. Spero di vedere questo giorno».

 

 

 

 

La storia di Alberto Varone è nel libro:

La sedia vuota. Storie di vittime innocenti della criminalità
di Raffaele Sardo

Dicembre 28, 2018

edito da IOD

Questo volume di Raffaele Sardo raccoglie le storie di 15 vittime innocenti della camorra, del terrorismo, del dovere. Poliziotti, carabinieri, imprenditori e semplici cittadini morti ingiustamente prendono di nuovo vita nei racconti che ne fanno i familiari. Straordinarie pagine di resistenza civile, dove i protagonisti sono per lo più persone normali, uccise solo per aver fatto il proprio dovere. A interrogare le nostre coscienze sono le parole di chi è rimasto, ma soprattutto i silenzi che ci arrivano da quelle sedie rimaste per sempre vuote attorno al tavolo della cucina e da quei letti dove nessuno più rimbocca le coperte. La compostezza e la dignità dei familiari delle vittime innocenti sono i valori fondanti per una nuova cultura dell’antimafia sociale culturale, dove i fatti di mafie e del terrorismo sono narrati a partire dalle storie delle vittime innocenti. Prefazione di Franco Roberti. Postfazione di Don Tonino Palmese.

 

 

 

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