26 Luglio 1991 Palermo. Resta ucciso Andrea Savoca, bambino di 4 anni,

Andrea Savoca era figlio di Giuseppe Savoca, rapinatore di tir. Era un bambino, perciò non svolgeva ancora un lavoro; era semplicemente insieme al padre e probabilmente, proprio per questo, si sentiva assolutamente sicuro. Lo ricordiamo perché, pur non avendo nessuna colpa, ha pagato con la vita gli errori del padre. Il piccolo Andrea, infatti, si trovava in braccio a suo padre quando questi venne ucciso nel luglio del ’91. Il padre di Andrea, Giuseppe Savoca, era un semplice rapinatore di tir e fu ucciso per ordine dei capimafia Michelangelo La Barbera e Matteo Motisi per «uno sgarro fatto a qualcuno che non doveva essere toccato»; lo «sgarro» probabilmente consisteva in alcune rapine a tir che trasportavano merci appartenenti a mafiosi o a commercianti che pagavano il pizzo. Noi pensiamo che l’uccisione di un bambino sia il segno di una totale mancanza di regole nel mondo mafioso.
Andrea avrebbe dovuto essere risparmiato innanzitutto in quanto bambino e soprattutto perché estraneo ai fatti nei quali era coinvolto il padre. Forse i killer non lo hanno ucciso deliberatamente: suo fratello Massimiliano, infatti, pur essendo presente all’agguato, è rimasto illeso. Questo fatto documenta ancora una volta quanta poca considerazione sia riservata alla vita umana, anche quando essa è innocente e indifesa, da parte di chi vive nell’illegalità e nell’ingiustizia. (dal Giornale di Sicilia del 27 luglio 2004)

 

 

 

Articolo da L’Unità del 27 Luglio 1991
Mattanza di Mafia a Palermo
Ucciso Andrea, aveva 4 anni
di Francesco Vitale
Ancora una vittima innocente della ferocia mafiosa. Ieri a Palermo ucciso un bambino di 4 anni, Andrea Savoca, assieme al padre Giuseppe, rapinatore intenzionato a “fare carriera”. L’uomo scontava 8 anni di carcere, era in licenza premio. Il piccolo è morto in ospedale dopo un’operazione di 8 ore. Salvo per miracolo il fratellino.

PALERMO. La mafia torna a sparare a Palermo. E lo fa con ferocia inaudita, uccidendo un uomo e un bambino di quattro anni. La città, stretta nella morsa del caldo, ripiomba di nuovo nei giorni cupi della mattanza mafiosa. Ancora una vittima innocente, ancora un bambino massacrato senza un perché. Aveva un’unica colpa il piccolo Andrea: essere figlio di Giuseppe Savoca, 30 anni, un passato da rapinatore e una gran voglia di fare il salto di qualità. Di cominciare l’escalation ai vertici dell’Onorata società.

Andrea è morto all’ospedale “Civico”, poco dopo le diciotto di ieri. I medici non ce l’hanno fatta a strapparlo alla morte. Non è bastato un intervento chirurgico durato quasi otto ore. A nulla sono serviti i tentativi disperati del professor Martino e dell’équipe di chirurgia vascolare. Quei proiettili esplosi dai “macellai” della mafia hanno attraversato il collo e la mandibola del bambino, gli hanno reciso la carotide sinistra, spappolato il volto. Colpito da pallottole vaganti esplose dai sicari dalla mira incerta? Forse. O forse Andrea doveva morire assieme al padre affinché la punizione fosse di quelle esemplari: un monito a chi non intende rispettare le regole dettate dai boss.

Giuseppe Savoca, 30 anni, condannato a otto anni per rapina, aveva lasciato il carcere dell’Ucciardone l’altro ieri. Grazie alla legge Gozzini aveva ottenuto quattro giorni di licenza. Sarebbe dovuto rientrare in carcere alle venti di oggi. Ma i sicari di Cosa nostra sono arrivati prima. Hanno sparato all’impazzata: tre, cinque, dieci colpi, senza preoccuparsi della presenza di Andrea che stava seduto in auto accanto al padre. Rideva e si dimenava. Era felice, pronto a trascorrere una lunga e spensierata giornata al mare. Andrea è stato colpito da almeno tre pallottole esplose dalle “38” degli assassini. Si è miracolosamente salvato, invece, il fratellino più piccolo, Massimiliano, di appena due anni. Lui, quando i killer sono entrati in azione, si trovava seduto sul sedile posteriore dell’auto.

Il film dell’agguato assomiglia a tanti altri visti e rivisti per le strade di Palermo. Apprpfittando del penultimo giorno di licenza, Savoca aveva deciso di portare la famiglia al mare. Una breve sosta davanti casa dei suoceri, la moglie che sale a salutare la madre, il piccolo Andrea che insiste per passare dal sedile posteriore a quello anteriore. Seduto dietro resta, invece, Massimiliano. Siamo in via Pecori Giraldi, a poche centinaia di metri dalla zona industriale di Brancaccio, roccaforte delle cosche più sanguinarie. Qui nel 1978 il commissario Boris Giuliano (poi ucciso dalla mafia) aveva scoperto il covo del boss corleonese Leoluca Bagarella. In una agenda c’erano le prove del primo grande traffico di droga tra la Sicilia e gli Stati Uniti.

Ma ritorniamo all’agguato di ieri. L’inferno si scatena in pochi minuti. Il traffico è intensissimo e i negozi della zona sono pieni di gente. Savoca parcheggia la sua Volkswagen “Passat” in doppia fila e raccomanda alla moglie di non perdere tempo. Una motocicletta di grossa cilindrata, con due uomini a bordo, si ferma dietro l’auto della vittima. I killer, con il volto coperto da caschi integrali, si avvicinano all’auto con le pistole in pugno. Uno apere il fuoco da lunotto posteriore, l’altro si accosta alla vittima e spara cinque colpi a bruciapelo. Una autentica cascata di piombo. Giuseppe Savoca muore sul colpo, Andrea, investito da una scarica di proiettili, perde i sensi e si accascia, in una pozza di sangue, sulle ginocchia del padre. I colpi e le urla strazianti di Massimiliano – che ha trovato riparo sotto il sedile – attirano l’attenzione dei familiari. La moglie del pregiudicato ucciso si precipita al balcone giusto in tempo per vedere i killer che fuggono con le armi ancora in mano. La donna, assieme al padre e al fratello, scende in strada. La scena che si presenta ai loro occhi è agghiacciante. Diana Seggio si getta sul corpo del figlioletto ma viene portata via dai poliziotti. quando arriva l’ambulanza Andrea respira ancora. La gente assiste incredula. Ma, più tardi, quando alcuni testimoni del duplice delitto ventono portati negli uffici della squadra mobile si ripeterà la scena di sempre: bocche cucite anche  davanti al cadavere di un bambino.

 

 

 

Articolo di La Repubblica del 28 Luglio 1991
UN BAMBINO DA ELIMINARE
di Umberto Rosso

PALERMO Nessun errore. Non è stato un incidente nel macabro lavoro affidato al commando mafioso. La ricostruzione dettagliata dell’agguato di via Pecori Giraldi conferma: nessuna pietà dei killer per Andrea Savoca, 4 anni appena compiuti, giustiziato da Cosa nostra accanto al padre Giuseppe. Ad ammazzarlo, dopo una straziante agonia, non può essere stata né una pallottola di rimbalzo né un colpo sparato male, perché gli hanno trovato adosso almeno due proiettili. L’ordine ai sicari, allora, era proprio quello di far terra bruciata, di non lasciarsi niente alle spalle. Anche a costo di fare una strage di innocenti. Massimiliano, l’altro figlioletto di 2 anni, è rimasto illeso per miracolo: la moglie Diana ed Emanuela, la primogenita di 8 anni, per una manciata di secondi non si sono trovate sotto il fuoco delle calibro 38. Una spedizione così feroce non può essere, nel codice di Cosa nostra, uno sbaglio. Può avere un solo significato: comincia una nuova campagna di terrore, è l’inizio di un’altra stagione di caccia ai traditori e ai rivali. E arriva a confermarlo un nuovo, inquietante segnale: il fratello minore di Giuseppe Savoca, Salvatore, è scomparso nel nulla da quattro giorni. Ricomincia la guerra? E’ esattamente ciò che temono magistrati ed investigatori.

C’è già una prima lettura dello scontro: l’attacco sferrato dai corleonesi, al gruppo di Brancaccio e di Ciaculli che avrebbe osato ribellarsi alla dittatura di Totò Riina. Ma neanche l’atroce omicidio di un bambino sembra incrinare, a Palermo, il fronte della paura e dell’omertà. Il sostituto procuratore Gioacchino Natoli, ex componente del pool di Falcone, che sta conducendo le indagini, non riesce a nascondere un senso di sconforto: Quella via, all’ora del delitto, era affollatissima. Almeno cinquecento persone avranno assistito all’agguato. Ma non c’è stato un teste, dico uno, fra tutti quelli sentiti, che ci abbia detto almeno il colore del mezzo utilizzato dagli assassini. È terribile, sono letteralmente sconvolto….

Prova a scuotere le coscienze intorpidite il comitato antimafia di Brancaccio, di questo quartiere che è una via Crucis interminabile di sangue, lacrime, dolore per troppi delitti, che chiama a raccolta la gente onesta per mercoledì prossimo: appuntamento proprio in via Pecori Giraldi, alle 16.30, nella parrocchia di San Sergio Papa. Ma la rabbia, l’indignazione per l’omicidio di Andrea sale in tutta Italia. Scrive l’Osservatore Romano: Urge un possente movimento di cuori materni. Un movimento di mamme che nei rioni di Napoli, di Palermo e di altre città si mobilitino per creare una catena di difesa e di protezione…. Dice il vescovo di Acerra, monsignor Andrea Riboldi, ex parroco nei paesi terremotati della Valle del Belice: La mafia ha perso la testa. Sia a Palermo che a Napoli non c’è più rispetto per nessuno: ammazzano dove vogliono, come vogliono e quando vogliono, senza curarsi minimamente delle leggi….

La città ripiomba intanto in un clima cupo, tesissimo, che ricorda la vigilia degli anni di piombo, una stagione di sangue come quella dell’ 85. Proprio ieri è stato commemorato il sesto anniversario dell’uccisione di Beppe Montana, il commissario assassinato dieci giorni prima del vicequestore Ninni Cassarà. Una rievocazione che gli avvenimenti di questi ultimi giorni hanno reso ancora più dolorosa. Da tempo gli investigatori palermitani stanno raccogliendo segnali sempre più inquietanti su una ripresa della guerra fra le famiglie. A partire dall’ uccisione, il mese scorso, di Filippo Quartararo, ammazzato proprio nel quartiere di Brancaccio.

Ora, proprio i Savoca potrebbero essere il primo, importante obiettivo della campagna di sterminio. Ad avvalorare questa ipotesi la scomparsa, da quattro giorni, del fratello minore di Giuseppe Savoca, Salvatore, sparito dalla sua abitazione di Isola delle Femmine. Manca da mercoledì scorso, ma soltanto dopo il delitto il suocero si è deciso a denunciarne l’allontanamento. Una fuga dopo aver fiutato il pericolo? Alcune coincidenze, inquietanti, portano però su un’altra strada: lupara bianca. Salvatore, 28 anni, sorvegliato speciale, precedenti per rapina, esce di scena nello stesso giorno in cui si aprono le porte del carcere dell’ Ucciardone per il fratello, in licenza premio per quattro giorni. Potrebbe trattarsi di una coincidenza dice il capo della Squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera ma considerando le modalità e la determinazione dell’ esecuzione di Giuseppe Savoca, tutto fa supporre che possa trattarsi di un ordine ben preciso, che doveva essere eseguito con immediatezza. Un piano preordinato per far fuori i due fratelli? Un’ ipotesi che ricorda molto da vicino la storia dei fratelli Puccio, assassinati nel maggio dello scorso anno, l’ uno dopo l’ altro: stavano cercando di riorganizzare il clan di Ciaculli contro il potere assoluto di Totò Riina.

 

 

 

Fonte:  ricerca.repubblica.it
Articolo del 14 giugno 2001
Mafia, cinque ergastoli per il piccolo Savoca
di Enrico Bellavia

Riunirono l’intera commissione per deliberare che da quel momento nessuno sgarro sarebbe stato tollerato. Nessuno avrebbe potuto assaltare Tir senza autorizzazione, esponendo i capifamiglia alle lamentele di chi pagava il pizzo. Avrebbero per questo individuato i cani sciolti e gli avrebbero ordinato di cambiare genere. Per i riottosi sarebbe stata condanna a morte. Fu così per Salvatore e Giuseppe Savoca, uccisi nel 1991. Con Giuseppe Savoca morì anche Andrea, il figlio di 4 anni e mezzo.

Dieci anni dopo è ergastolo per tre degli esecutori (Erasmo Troia, Santino Pullarà, Giovanni Battaglia) e per due dei mandanti (Michelangelo La Barbera, capomafia di Boccadifalco e Matteo Motisi «il vecchio», padrino di Pagliarelli). Due collaboratori di giustizia, Giovambattista Ferrante, nel commando che uccise Salvatore Savoca, e Salvatore Cancemi, capomandamento di Porta Nuova, sono invece condannati rispettivamente a 10 e 11 anni di reclusione.

La quarta sezione della corte d’assise, presidente Leonardo Guarnotta, che ha processato i 7 che hanno scelto il rito abbreviato, accoglie così in pieno le richieste del pm Anna Maria Picozzi e ritocca al rialzo solo le pene per i pentiti infliggendo due anni in più rispetto a quanto sollecitato dall’ accusa.

Salvatore Savoca, rapinatore di Brancaccio, genero del costruttore Pietro Lo Sicco, fu attirato in un tranello da un amico, Santino Pullarà, che lo agganciò a Isola delle Femmine e con il pretesto di parlargli di una patente nautica lo condusse nel negozio dei mobili dei Troia a Capaci e lì lo strangolò. Era il 24 luglio del 1991. Il cadavere fu disciolto nell’ acido in un casolare di Giovanni Battaglia.

Due giorni più tardi un commando in moto, in via Pecori Giraldi, affiancò l’auto del fratello di Salvatore Savoca, Giuseppe, titolare di una officina di lavorazione del ferro in via Messina Marine. I sicari approfittarono di un permesso premio di 4 giorni ottenuto dopo una condanna a 6 anni per rapina. Spararono nove colpi. Otto colpirono la vittima designata, il nono si conficcò nel collo di Andrea.

Gli esecutori, tra cui Salvatore Madonia e gli altri mandanti, in tutto altri 14 presunti responsabili, tra cui Totò Riina e Pietro Aglieri, sono processati con il rito ordinario. La madre del piccolo Andrea, Diana, perdonò gli assassini del marito e del figlio durante i funerali. Il periodico della Curia divulgò la notizia, ma la donna non si è costituita parte civile. Ha solo avviato la pratica per il riconoscimento di vittima della mafia.

La ricostruzione del duplice omicidio è stata fatta per primo da Giovambattista Ferrante che ne parlò negli interrogatori dell’estate del 1998. Successivamente hanno parlato dei delitti anche Francesco Onorato, Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi e Giovanni Drago. I due fratelli erano nipoti di Enzo Savoca, uomo d’onore. Nella riunione della commissione in cui fu decisa la loro eliminazione Totò Riina, superò la questione con un perentorio: «Ci penso io per mio compare; se ha qualcosa da dire».

 

 

Foto dal Giornale di Sicilia del 27 luglio 2004

Articolo del Giornale di Sicilia
Cronaca di Palermo del 27 luglio 2004
Ha pagato con la vita uno «sgarro» del padre.

Andrea Savoca era figlio di Giuseppe Savoca, rapinatore di tir. Era un bambino, perciò non svolgeva ancora un lavoro; era semplicemente insieme al padre e probabilmente, proprio per questo, si sentiva assolutamente sicuro. Lo ricordiamo perché, pur non avendo nessuna colpa, ha pagato con la vita gli errori del padre. Il piccolo Andrea, infatti, si trovava in braccio a suo padre quando questi venne ucciso nel luglio del ’91. Il padre di Andrea, Giuseppe Savoca, era un semplice rapinatore di tir e fu ucciso per ordine dei capimafia Michelangelo La Barbera e Matteo Motisi per «uno sgarro fatto a qualcuno che non doveva essere toccato»; lo «sgarro» probabilmente consisteva in alcune rapine a tir che trasportavano merci appartenenti a mafiosi o a commercianti che pagavano il pizzo. Noi pensiamo che l’uccisione di un bambino sia il segno di una totale mancanza di regole nel mondo mafioso.
Andrea avrebbe dovuto essere risparmiato innanzitutto in quanto bambino e soprattutto perché estraneo ai fatti nei quali era coinvolto il padre. Forse i killer non lo hanno ucciso deliberatamente: suo fratello Massimiliano, infatti, pur essendo presente all’agguato, è rimasto illeso. Questo fatto documenta ancora una volta quanta poca considerazione sia riservata alla vita umana, anche quando essa è innocente e indifesa, da parte di chi vive nell’illegalità e nell’ingiustizia.

 

 

 

Fonte:  antimafiaduemila.com
Articolo del 26 marzo 2013
La strage degli innocenti  
L’ingiusta morte del piccolo Andrea Savoca, assassinato dalla mafia nel 1991
di Monica Centofante

Salvatore Savoca scomparve nella mattinata del 24 luglio del 1991.
Era noto alla giustizia per le sue passate condanne per rapina, furto, detenzione illegale di armi ed esplosivi e perché sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di P.S e quindi costretto a presentarsi presso la stazione dei Carabinieri di Capaci ogni martedì e mercoledì.
Quel 24 luglio, dopo aver salutato i familiari, raggiunse il Comando a bordo di un ciclomotore Peugeot 50 di colore grigio scuro e poco dopo ripartì, diretto al cantiere della società Lopedil s.r.l., presso la quale lavorava come impiegato. Da quel momento nessuno lo rivide più, ma la denuncia della sua scomparsa arrivò solo due giorni dopo, in seguito all’assassinio del fratello Giuseppe Savoca.
Alle 17.30 del 26 luglio il proprietario della Lopedil Pietro Lo Sicco si presentò ai Carabinieri e notificò la sparizione del genero Savoca Salvatore. Poche ore prima il fratello Giuseppe aveva parcheggiato in doppia fila la propria auto, una Volkswagen Passat, nei pressi dell’abitazione della suocera e a bordo del veicolo stava attendendo l’arrivo della moglie Diana Seggio e del figlio Emanuele (sette anni). Ad aspettare con lui c’erano gli altri due figli: Andrea, di quattro anni e Massimiliano di due.

Gli spari si udirono intorno alle 11.00.
Quattro o cinque colpi, in seguito ai quali la Seggio si precipitò fuori dall’abitazione e vide il marito, al posto di guida, in un bagno di sangue. Abbracciato al collo dell’uomo c’era il piccolo Andrea, anch’egli raggiunto dai colpi, che venne subito trasportato presso l’Ospedale Civico dove morì, intorno alle ore 17.00, a causa di gravi lesioni vascolari. Soltanto il piccolo Massimiliano, seduto sul sedile posteriore dell’auto, scampò all’agguato.

Per gli inquirenti la soluzione del caso non fu particolarmente difficoltosa. Sia la sparizione di Salvatore che l’esecuzione di Andrea Savoca rispondevano a criteri di chiara matrice mafiosa.
E le conferme dall’interno dell’organizzazione arrivarono nel 1998, grazie alle rivelazioni di alcuni collaboratori di giustizia. Tra questi, Giovan Battista Ferrante riferì di aver sentito parlare dell’imprenditore Pietro Lo Sicco – che già in precedenza conosceva – in occasione della scomparsa del genero di questi <>. <>. Il Ferrante affermò di non ricordare se il nome di questa persona fosse Savoca Salvatore, ma la conferma che si trattava di lui giunse dalle dichiarazioni di altri pentiti. «Sono in grado di parlare di questa soppressione», affermò nel corso del processo per il triplice omicidio, poiché egli stesso vi aveva partecipato insieme a «Santino Pullarà, Salvatore Biondino e Nino Troia», «Salvatore Biondo il corto, Orazio Troia ed Enzo Troia (rispettivamente fratello e figlio di Nino Troia)» e «Battaglia Giovanni».

«Qualche giorno prima dell’omicidio – raccontò – Salvatore Biondino mi disse di tenermi a disposizione perché si doveva fare un lavoro. Capii, ovviamente, che si trattava di eseguire un omicidio ma nulla mi venne detto in ordine alla vittima. Il Biondino mi disse di avvisare Nino Troia, sottocapo della famiglia di Capaci, che c’era bisogno di lui e che, dunque, era necessario che incontrasse lo stesso Biondino». In quell’epoca il Ferrante si occupava infatti di mantenere i rapporti tra Biondino e Troia e in seguito all’incontro tra i due il primo gli disse di farsi trovare «per il giorno stabilito (credo che si trattasse di uno o due giorni dopo) presso il negozio di mobili del Troia a Capaci, luogo all’interno del quale, come ho riferito in altre occasioni, abbiamo commesso diversi omicidi». Giovanni Battaglia e Nino Troia, «come erano soliti fare», si trovavano all’interno del negozio mentre gli altri boss, in precedenza indicati, attendevano nello scantinato sottostante l’arrivo di Santino Pullarà e della vittima designata.

Quando il Pullarà si presentò dicendo di non essere riuscito a rintracciare il Savoca si decise per il rinvio dell’esecuzione che avvenne solo qualche giorno più tardi. «Non so dire con che mezzo il Pullarà e il Savoca giunsero al negozio – continuò il pentito – in quanto io, al momento del loro arrivo mi trovavo giù nello scantinato; ricordo però che si trattava del fatto che il Savoca aveva un ciclomotore e che il Pullarà lo aveva agganciato mentre lo stesso si trovava, ad Isola della (sic!) Femmine, in possesso del motoveicolo. … Non appena il Savoca e il Pullarà, seguiti da Giovanni Battaglia (il Nino Troia era rimasto sopra nel negozio, non foss’altro che per non lasciare l’esercizio commerciale incustodito e, quindi, non dare nell’occhio), entrarono nella stanza, abbiamo immediatamente strangolato il Savoca, senza porre al medesimo alcuna domanda». «Di fatto allo strangolamento partecipammo tutti, ma non ricordo chi, materialmente, mise la corda al collo del Savoca e chi invece teneva il medesimo».  Sempre secondo il racconto del Ferrante, il cadavere venne poi portato nella baracca di Giovanni Battaglia e disciolto nell’acido.

Nel corso del processo che seguì alla morte dei Savoca sei collaboratori di giustizia confermarono tale versione dei fatti spiegando anche il motivo per cui tali delitti furono commessi ed esprimendo il proprio rammarico per la fretta delle operazioni che compromisero la vita di un innocente di soli quattro anni.
«Fino a questo momento ho preferito non parlare di ciò proprio per questa ultima ragione» ha confessato Giovanni Brusca, l’assassino di Falcone, l’uomo che ancora oggi non riesce a perdonarsi il fatto di essere stato il mandante dell’uccisione del piccolo Di Matteo. «Mi viene molto difficile accusare qualcuno dell’omicidio (sia pur certamente involontario) di un bambino – dichiarò ai giudici nel corso del processo – forse perché, essendo anch’io coinvolto in una vicenda simile, so che tipo di malessere si prova a dover rispondere di simili delitti. Io ho commesso numerosissimi e gravissimi crimini (ivi comprese stragi) ma quello che, come ho spesso detto, non riesco a perdonarmi è l’aver deliberato l’omicidio di un ragazzino. Di conseguenza mi metto nei panni di coloro che andrò ad accusare con le mie dichiarazioni e posso comprendere il disagio che gli stessi (che pur sono già stati condannati per svariati delitti) proveranno da un’accusa simile». Alle sue parole si aggiunsero quelle di Giovanni Drago, Salvatore Grigoli o Salvatore Cancemi, tutti pentiti escussi nel corso del medesimo procedimento, tutti, all’epoca dei fatti, rimasti profondamente e negativamente colpiti dalla vicenda. Anche Raffaele Ganci, a detta dello stesso Cancemi, arrivò a definire «animali» i killer responsabili dell’omicidio chiedendosi se non sarebbe stato possibile «aspettare un’altra occasione».

Le contraddizioni della mafia?

Recentemente, nel corso di una lunga intervista che sarà presto pubblicata in un libro, Salvatore Cancemi ha raccontato a Giorgio Bongiovanni le sensazioni provate alla morte di Andrea Savoca.
«Me lo ricordo bene – ha dichiarato -. Stavo cenando con i miei bambini (i nipoti ndr.) ho sentito la notizia alla televisione. Mi sono alzato in silenzio e mi sono nascosto in bagno per non far vedere le lacrime; mia moglie però se ne è accorta. Sapevo che dovevano ammazzare questo ladro, ma con una rabbia che mi sale ancora oggi mi dicevo:  Mah, maledetti mascalzoni, dovevate proprio ucciderlo con il bambino in macchina? Anche se non lo avessero preso, penso allo spavento, alla paura di assistere alla morte del padre…».
Bongiovanni: «Lei è responsabile come mandante?».
Cancemi: «Sì, ma datemi mille anni di galera. Mi si è spezzato il cuore, e non potevo dire niente. So che sono un assassino, ma ho provato un sentimento di dolore forte, io i bambini li adoro e questa responsabilità non me la sento».

Il movente dei delitti

I fatti sin qui presentati e quelli che andremo ad esporre sono tratti dalla motivazione della sentenza emessa lo scorso 13 giugno dalla quarta sezione della Corte di Assise di Palermo presieduta da Leonardo Guarnotta, a latere Antonio Balsamo, nel corso del processo per il triplice omicidio Savoca istruito dal pm Anna Maria Picozzi.
Si legge nel documento che secondo le dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia i fratelli erano parenti di esponenti di Cosa Nostra appartenenti alla “famiglia” di Brancaccio dei quali due, Giuseppe Savoca e Vincenzo Savoca ‘u siddiatu, avevano rivestito la carica rispettivamente di rappresentante e consigliere di detta cosca mafiosa.

Tra i sei collaboratori di giustizia che hanno testimoniato al processo (Giovan Battista Ferrante, Francesco Onorato, Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovanni Drago, Salvatore Grigoli) quelli che sicuramente hanno fornito un maggiore contributo in ordine alle motivazioni che hanno portato alla morte dei Savoca sono sicuramente Giovanni Brusca e Salvatore Cancemi. Che concordano nel riferire come la decisione fu presa nel corso di una riunione alla quale presero parte tutti i capimandamento della provincia di Palermo. Tra il 1989 e il 1990, racconta Brusca, «erano aumentati i furti di camion e le rapine ai TIR e Cosa Nostra si trovava in situazione di disagio rispetto ai commercianti e agli autotrasportatori che pagavano il pizzo all’associazione mafiosa e che poi si trovavano, per così dire, non protetti e, dunque, si lamentavano con noi». «Per tale ragione venne fissata una riunione della Commissione di Cosa Nostra. Tale riunione si svolse dopo che io mi interessai per risolvere un problema inerente il recupero di un automezzo che era stato sottratto ad Antonino Melodia … uomo d’onore della famiglia di Alcamo».

Nel corso del summit, che si tenne a casa di Vito Priolo, «Riina decise di adottare una linea unitaria nel senso che, individuati gli autori dei furti e delle rapine, bisognava, prima, cercare di convincerli con le buone a smettere e, quindi, in caso di fallimento di tale tentativo, eliminarli». Tale ricostruzione dei fatti diverge con quella del Cancemi il quale riferisce che Riina avrebbe deliberato la necessità di «cambiare registro e quindi di uccidere in qualsiasi zona si trovassero – e senza, dunque, tenere conto delle singole competenze territoriali – i rapinatori di TIR. Infatti accadeva spesso che la rapina veniva commessa in territorio diverso da quello in cui si trovava la persona (uomo d’onore o autotrasportatore che pagava il pizzo) interessata, per cui sorgevano numerosi problemi per l’individuazione dei ladri e per l’autorizzazione alla loro soppressione». «Ovviamente – aggiunge il collaboratore – nonostante l’ordine perentorio del Riina, era sottinteso che, se i rapinatori erano vicini o parenti di uomini d’onore si poteva prima cercare di risolvere con le buone il problema facendo intervenire l’uomo d’onore affinché dissuadesse costoro dal continuare nelle loro attività».

A detta dei giudici, però, tale divergenza non risulta rilevante ai fini della dimostrazione della responsabilità della Commissione per l’omicidio dei Savoca: “Salvatore e Giuseppe Savoca avrebbero dovuto essere eliminati se non avessero aderito all’invito di desistere dall’attività criminosa”. E tale invito giunse tramite lo zio Giuseppe, organicamente inserito in Cosa Nostra, l’intervento del quale era stato deciso, secondo Brusca e Cancemi, proprio nel corso della stessa riunione. Nonostante la sua intercessione però, spiega Brusca, i due fratelli «non solo negarono di avere mai commesso tali delitti, ma … continuarono nelle loro illecite attività e di ciò Giuseppe Graviano ebbe prove certe e, dunque, si decise di sopprimerli».

Della responsabilità dei Graviano nella definitiva decisione di eliminare i Savoca la conferma arriva anche da Salvatore Cancemi. «Per quanto a mia conoscenza – dichiara il pentito – dell’omicidio se ne sono occupati i Graviano». Precisa inoltre che il meeting avvenne in un periodo «in cui sovente le riunioni della Commissione si tenevano “spezzettate” (nel senso che i capi mandamento si riunivano con il Riina a gruppetti di quattro o cinque) in quanto Salvatore Riina temeva che ci fosse movimento da parte della (sic!) Forze di Polizia e, dunque, voleva evitare che si facessero vedere in giro troppe persone e che, qualcuna di queste, se pedinata potesse portare all’arresto di tutti noi».

In un simile momento, quindi, la scelta di riunire i membri della Commissione in seduta plenaria per decidere l’esecuzione di delitti che secondo le regole di Cosa Nostra, e Brusca lo conferma, potevano essere deliberati dai singoli capi mandamento denotava un situazione ben più grave. Esprimibile nell’esigenza di stabilire una linea unitaria per frenare il fenomeno delle rapine che non poteva essere risolto mediante le ordinarie regole di competenza territoriale (Brusca riferisce che «sovente accadeva che il commerciante che pagava il pizzo in una certa zona subiva il furto in un’altra parte della provincia») e che richiedeva nuove forme di coordinamento.

“L’esigenza di una linea di azione unitaria, stabilita dal supremo organismo di vertice dell’organizzazione mafiosa per la provincia di Palermo – scrivono i giudici nella motivazione della sentenza – era ulteriormente rafforzata con riferimento all’eventualità che le persone da sopprimere fossero parenti di ‘uomini d’onore’; al riguardo, è appena il caso di sottolineare che azioni omicidiarie non autorizzate dal massimo organo decisionale, dotato di indiscussa autorità, avrebbero potuto provocare una catena di ritorsioni e di vendette suscettibile di danneggiare seriamente la coesione interna del sodalizio”.

Ma né il Brusca né il Cancemi, benché componenti della Commissione, erano al corrente dell’esistenza di un ulteriore movente del triplice omicidio del quale riferisce invece il collaboratore Francesco Onorato. «Per quello che potei capire l’omicidio non interessava direttamente a Salvatore Biondino – ha dichiarato Onorato ai giudici – ma ai Madonia di Resuttana i quali avevano intenzione di entrare, come erano soliti fare, in società con il Lo Sicco. Il Savoca, che veniva definito un tipo “tosto”, era intervenuto nella questione ed aveva dato fastidio ai Madonia». Tale dichiarazione non contrasta con quanto riferito da Brusca e Cancemi per il semplice fatto che non solo non vi è nulla di strano nella presenza di una pluralità di ragioni alla base di un omicidio ma anche perché è plausibile che alcune di queste ragioni, non ricollegandosi alle strategie di fondo dell’organizzazione, fossero conosciute solo dal capo del mandamento di competenza, nel caso specifico Salvatore Biondino di San Lorenzo.

Le condanne
Molti sono i riscontri esterni alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia ascoltati nel corso del processo, dei quali è stata comprovata la piena attendibilità, e tra questi il ritrovamento della capanna all’interno della quale sarebbero stati dissolti nell’acido i corpi di diverse vittime o alcuni documenti della Squadra Mobile e della Guardia di Finanza di Palermo che attesterebbero la veridicità delle dichiarazioni effettuate dal pentito Giovanni Drago.

Nella motivazione della sentenza, depositata nei primi giorni di gennaio e con la quale la quarta sezione penale della Corte di Assise ha condannato all’ergastolo Battaglia Giovanni, La Barbera Michelangelo, Motisi Matteo, Pullarà Santi, Troia Antonino Erasmo, i giudici scrivono inoltre che non vi sarebbe alcuna prova di “fraudolente concertazioni” né di motivi di “risentimento o di astio” che avrebbero potuto indurre i collaboratori a rendere testimonianze false e che “nessuna acrimonia traspare dal tenore delle dichiarazioni”. E l’esempio più rappresentativo, scrivono, è proprio quello di Giovanni Brusca che ”nell’interrogatorio del 7 ottobre 1998, ha esplicitato la propria difficoltà nell’accusare gli altri dell’omicidio di un bambino”.

 

 

 

 

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