24 Novembre 2009 Milano. Scompare Lea Garofalo, 35 anni, testimone di giustizia. Torturata, strangolata, bruciata in un bidone, i suoi resti ritrovati in un tombino nel novembre 2012.
Lea Garofalo, giovanissima, negli anni Novanta, si era innamorata di Carlo Cosco, un suo paesano, tutti e due della provincia di Crotone. Emigrano insieme a Milano, lui comincia a frequentare gli spacciatori di Quarto Oggiaro, uno dei tanti gironi della ‘ndrangheta esportata in Lombardia. Intanto nasce Denise, e intanto Carlo Cosco diventa sempre di più un piccolo capo del crimine. Dopo qualche anno, Lea non ce la fa più. E lo lascia. Decide anche di collaborare con i giudici, raccontando le trame e i delitti dei suoi parenti (padre e un fratello uccisi) e quelli dei Cosco. Una testimone di giustizia e, come tale, scompare per molto tempo. Poi, un giorno, Carlo Cosco viene a sapere dove abita – a Campobasso – e le manda un sicario, travestito da idraulico. Lea Garofalo è con Denise, si salvano. È il maggio del 2009. Ma pochi mesi dopo cade in un’altra trappola. Carlo Cosco chiede di rivederla “per amore di nostra figlia”, lei accetta. È la sera del 24 novembre del 2009. È l’ultima sera di Lea Garofalo a Milano. Alle 18,37 Lea viene ripresa per l’ultima volta dalle telecamere in fondo a Corso Sempione. Un attimo dopo la caricano su un furgone. Da quel momento Lea Garofalo non esiste più. “È in vacanza in Australia”, dicono gli avvocati dei Cosco, quando arriva una denuncia “per sequestro di persona”. Lea è già morta. Portata in un magazzino, seviziata e “interrogata” dal padre di sua figlia per scoprire cosa aveva raccontato ai magistrati, poi la uccidono. In un primo momento Carlo Cosco prova a difendersi dicendo che non è stato un omicidio di ‘ndrangheta ma d’impeto, che i pentiti “stanno costruendo castelli di sabbia”. In un primo momento gira anche la voce che Lea Garofalo sia stata sciolta nell’acido, ma la verità su di lei affiora all’improvviso. Con un racconto dell’orrore di Carmine Venturino, un ragazzo che il padre di Denise ha spinto a corteggiare la figlia. Per controllarla, spiarla. Poi i due si fidanzano. Poi ancora Carmine confessa come è stata uccisa veramente Lea: legata, strangolata, bruciata in un bidone. I suoi resti ritrovati in un tombino nel 2012. Carlo Cosco voleva anche la morte della figlia, Denise stava parlando anche lei. (Tratto da La Repubblica del 17 ottobre 2013)
Articolo da Il Post del 18 Ottobre 2010
Chi era Lea Garofalo
di Elena Favilli
Uccisa in un capannone della periferia milanese e poi sciolta nell’acido in un terreno vicino a Monza. L’omicidio sarebbe stato organizzato dal suo ex compagno Carlo Cosco, boss dei Garofalo.
Le cronache dei giornali di oggi tornano a parlare drammaticamente di Lea Garofalo, ex collaboratrice di giustizia di 35 anni sparita nel nulla dallo scorso novembre. Secondo le ordinanze di custodia cautelare emesse stanotte dal giudice per le indagini preliminari Giuseppe Gennari, la donna sarebbe stata uccisa in un capannone della periferia milanese e poi sciolta nell’acido in un terreno vicino a Monza. Il mandante dell’omicidio sarebbe Carlo Cosco, padre di sua figlia e boss di una delle cosche della ‘ndrangheta crotonese.
Il nome di Lea Garofalo arriva per la prima volta sulle cronache nazionali nel febbraio del 2010, quando i giornali danno notizia della sua sparizione in seguito all’apertura di un fascicolo contro ignoti per «sequestro di persona» da parte della Procura di Campobasso. La sua storia però ha radici molto più tortuose e profonde, e per raccontarla bisogna partire almeno dall’inizio degli anni novanta e seguire le vicende della faida fra le famiglie Garofalo e Mirabelli di Petilia Policastro, provincia di Crotone.
La cosca Garofalo
Il 7 maggio 1996 i carabinieri di Milano circondano il palazzo di via Montello 7 e organizzano un blitz contro la ‘ndrangheta di Petilia Policastro, che già da alcuni anni aveva iniziato a trapiantarsi nella città. Tra gli uomini arrestati c’è anche un giovane boss di Petilia: Floriano Garofalo, che dalla Calabria aveva il compito di gestire gli affari milanesi. Floriano Garofalo è il fratello di Lea Garofalo e l’8 giugno del 2005 – nove anni dopo quel primo arresto e dopo l’assoluzione al processo – viene ammazzato in un agguato nella frazione Pagliarelle di Petilia Policastro.
La collaborazione con la giustizia
Nel frattempo Lea Garofalo aveva iniziato a collaborare con la giustizia e aveva iniziato a parlare anche degli omicidi di mafia avvenuti alla fine degli anni novanta a Milano. Nel caso dell’omicidio di Antonio Comberiati, nel 1995, sarà proprio Lea Garofalo a fornire informazioni importanti e denunciare il ruolo avuto da suo fratello Floriano Garofalo e dal fratello di Carlo Cosco, Giuseppe Cosco detto «Smith». Ammessa già nel 2002 nel programma di protezione insieme alla figlia e trasferita a Campobasso, se lo vede revocare nel 2006 perché l’apporto dato non era stato significativo. La donna si rivolge allora prima al TAR, che le dà torto, e poi al Consiglio di Stato, che le dà ragione. Nel dicembre del 2007 viene riammessa al programma, ma nell’aprile del 2009 – pochi mesi prima della sua scomparsa – decide all’improvviso di rinunciare volontariamente a ogni tutela e di tornare a Petilia Policastro, per poi trasferirsi di nuovo a Campobasso in una casa che le trova proprio l’ex compagno Carlo Cosco.
Il primo tentativo di sequestro
Lea Garofalo conosce molti segreti della lotta fra le famiglie Garofalo e Mirabelli di Petilia Policastro e quando scompare, nel novembre del 2009, il giudice per le indagini preliminari di Campobasso Teresina Pepe parla subito di sospetti a carico dell’ex compagno della donna e ne dispone l’ordine di custodia cautelare: «È possibile affermare che Cosco avesse un interesse concreto sia a vendicarsi di quanto la Garofalo aveva già detto, sia ad evitare che potesse riferire altro». Insieme a Carlo Cosco viene arrestato anche Massimo Sabatino: entrambi sono sospettati di avere tentato un primo rapimento della donna pochi mesi prima della sua definitiva scomparsa.
Nel maggio del 2009 Lea Garofalo era andata infatti dai carabinieri di Campobasso e aveva raccontato di avere subito un’aggressione nel suo appartamento. La storia che Lea racconta ai carabinieri è questa. È il 5 maggio e la sua lavatrice si rompe. Decide di chiamare Carlo Cosco – che vive a Milano, ma su questo torneremo dopo – e lui le trova subito un idraulico. Solo che quello che bussa alla sua porta non è un idraulico ma Masimo Sabatino, 37 anni, che Cosco ha mandato per uccidere la «sua donna». Secondo la ricostruzione dei carabinieri e della Procura di Campobasso, l’uomo riesce a entrare in casa senza difficoltà e poi aggredisce Lea Garofalo. La donna racconta ai carabinieri di essere riuscita a sottrarsi all’agguato anche grazie all’aiuto della figlia Denise e dice che dietro il tentativo di sequestro c’è sicuramente Cosco, preoccupato per quello che lei avrebbe potuto rivelare a novembre durante l’udienza di un processo a cui era stata chiamata a testimoniare a Firenze.
Via Montello 7
La faida fra le cosche Garofalo e Mirabelli di Petilia Policastro va avanti da oltre trent’anni, e Carlo Cosco ha paura che Lea Garofalo possa raccontarne altre cose. Tutto ruota ancora attorno a quel palazzo di Via Montello 7 a Milano, quello in cui nel 1996 fu arrestato il fratello di Lea Garofalo. Quello di via Montello è un vecchio palazzo di proprietà dell’Ospedale Maggiore. Lì, verso la fine degli anni ottanta, iniziarono ad arrivare alcune famiglie affiliate alla cosca Garofalo, tra cui diverse che portavano il cognome Cosco. Tra il 1991 e il 1995 ci furono quattro omicidi, alcuni dei quali legati alla faida in corso. Le cronache di quel periodo dicono che gli inquilini assistevano inermi allo spaccio, ai furti e al riciclaggio e che spesso subivano minacce. Fu proprio in quel palazzo, «la casa dei calabresi», che il 23 agosto 2003 Vito Cosco, cugino di Carlo Cosco, andò a rifugiarsi dopo avere ammazzato due rivali di spaccio, più un pensionato e una bambina di tre anni finiti per caso nella traiettoria, in quella che è passata alle cronache come «la strage di Rozzano».
L’omicidio
Da quella casa di via Montello Carlo Cosco gestisce i traffici della cosca Garofalo a Milano. Da quella casa chiama anche «l’idraulico» Massimo Sabatino che cercò una prima volta di rapire Lea Garofalo e in quella casa si incontra con Lea Garofalo e con la loro figlia di 17 anni lo scorso 24 novembre. Secondo la ricostruzione della Procura di Milano, Carlo Cosco attirò la ex compagna in via Montello con la scusa che dovevano incontrarsi per parlare del futuro della figlia e decidere tra le altre cose dove sarebbe andata a fare l’università. I due parlano alla presenza della figlia, poi l’uomo dice che vuole fare salutare la ragazza agli zii. La madre però non vuole andare a incontrarli e si decide che aspetterà alla stazione centrale, dove le due donne prenderanno il treno per rientrare a casa.
È da questo momento che si perdono le tracce di Lea Garofalo, quando alcune telecamere la inquadrano nella zona del palazzo e lungo i viali che costeggiano il cimitero Monumentale mentre si allontana per recarsi presumibilmente verso la stazione. Solo che Lea alla stazione non arriva mai e la figlia l’aspetta invano insieme al padre, che nel frattempo è sempre rimasto con lei e che sarà il primo a chiamare la polizia denunciando la scomparsa della donna. Poi come abbiamo visto la vicenda arriva sulle cronache nazionali solo a febbraio, quando la Procura di Campobasso ordina la custodia cautelare di Carlo Cosco e Massimo Sabatino per il primo tentato sequestro nel maggio 2009. Successivamente, il 24 febbraio, altre due persone vengono indagate per aver messo a disposizione alcuni capannoni nel milanese dove la donna sarebbe stata portata dopo la scomparsa e probabilmente uccisa.
Gli ordini d’arresto
La svolta definitiva nelle indagini è arrivata questa notte. Il gip milanese Giuseppe Gennari ha emesso sei ordinanze di custodia cautelare, di cui due – quella a Carlo Cosco e quella a Massimo Sabatino – sono state notificate in carcere. Secondo il gip si è trattato di una vera e propria esecuzione ordinata da Carlo Cosco, che almeno quattro giorni prima del rapimento avrebbe predisposto un piano contattando i complici e organizzando tutto: il furgone dove è stata caricata a forza, il magazzino dove interrogarla per capire quello che aveva raccontato ai giudici, la pistola per ucciderla «con un solo colpo» e infine l’appezzamento dove si ritiene sia stata sciolta in cinquanta litri di acido. La distruzione del cadavere ha avuto lo scopo di «simulare la scomparsa volontaria» della collaboratrice e assicurare l’impunità degli autori materiali dell’esecuzione. Oltre a Carlo Cosco e Massimo Sabatino, gli altri quattro destinatari del provvedimento sono i fratelli di Carlo Cosco – Giuseppe detto «Smith» e Vito detto «Sergio» – e altre due persone, di cui una accusata di distruzione di cadavere.
Il movente
«Le ragioni poste alla base dell’eliminazione della donna risiedono nel contenuto delle dichiarazioni fatte ai magistrati, mai confluite in alcun processo, con particolare riferimento all’omicidio di Antonio Comberiati, elemento di spicco della criminalità calabrese a Milano durante gli anni ’90, ucciso per mano ignota il 17 maggio 1995», ha scritto il gip Giuseppe Gennari nell’ordinanza «le dichiarazioni fatte all’epoca dalla Garofalo individuavano, infatti, nei responsabili dell’omicidio l’ex convivente della donna, Cosco Carlo, e il fratello di questi, Giuseppe, detto Smith».
«I fratelli Cosco» continua il giudice «benché consapevoli del fatto che la donna fosse a conoscenza delle loro responsabilità, non erano mai venuti a conoscenza del contenuto delle dichiarazioni della Garofalo, che nel frattempo aveva interrotto la relazione sentimentale con Cosco Carlo. Dal giorno della decisione di uscire volontariamente dal programma di protezione, nell’aprile del 2009, in seno alla famiglia Cosco è quindi maturata la consapevolezza di avere finalmente l’opportunità di poter estorcere alla Garofalo il contenuto delle dichiarazioni rese all’epoca e, successivamente, di potere eliminare fisicamente la donna».
Articolo del 6 Novembre 2010 da tg24.sky.it
Donna sciolta nell’acido, la sorella: “Usata e abbandonata”
“E’ stata buttata nella spazzatura” dice Marisa Garofalo, sorella di Lea, la collaboratrice di giustizia uccisa dall’ex convivente per aver parlato delle cosche di Pettilia Policastro coi magistrati.
“E’ stata usata e poi abbandonata e buttata nella spazzatura. Lasciata in mezzo alle bestie”. Usa parole durissime contro le istituzioni Marisa Garofalo, sorella di Lea, uccisa e sciolta nell’acido dal suo ex compagno, Carlo Cosco, per aver collaborato con la giustizia rivelando traffici, mappe e omicidi delle cosche della ‘Ndrangheta di Pettilia Policastro, suo paese d’origine. “Lea diceva sempre che quando moriva voleva essere cremata – dice ancora Marisa Garofalo, intervistata nello speciale di SkyTG24 ‘Donne d’onore’, dedicato alle donne della ‘Ndrangheta – ma nemmeno questo desiderio abbiamo potuto esaudire”.
Il programma di protezione per i collaboratori di giustizia nei confronti di Lea Garofalo era stato revocato nel 2006 perché non era stato trovato riscontro alle sue dichiarazioni, ma era poi proseguito in seguito al ricorso della donna, fino all’aprile del 2009, quando era stata lei stessa a rinunciarvi, secondo il gip Giuseppe Gennari “forse per un senso di scoramento”. Scomparsa nel novembre 2009, i suoi assassini sono stati arrestati lo scorso 18 ottobre.
Fonte: “Quotidiano della Calabria” Giovedi 2 Dicembre 2010
Tratta dal sito 19luglio1992.com pubblicata il 3 Dicembre 2010
Lettera scritta da Lea Garofalo al Presidente della Repubblica, inviata ad alcuni giornali e mai pubblicata.
28 aprile 2009
Signor Presidente della Repubblica, chi le scrive è una giovane madre, disperata allo stremo delle sue forze, psichiche e mentali in quanto quotidianamente torturata da anni dall’assoluta mancanza di adeguata tutela da parte di taluni liberi professionisti, quali il mio attuale legame legale che si dice disponibile a tutelarmi e di fatto non risponde neanche alle mie telefonate Siamo da circa 7 anni in un programma di protezione provvisorio. In casi normali la provvisorietà dura all’incirca 1 anno, in questo caso si è oltrepassato ogni tempo e, permettetemi, ogni limite, in quanto quotidianamente vengono violati i nostri diritti fondamentali sanciti dalle leggi europee.
IL MIO AVVOCATO NON MI TUTELA
Il legale assegnatomi dopo avermi fatto figurare come collaboratrice, termine senza che mai e dico mai ho commesso alcun reato in vita mia. Sono una donna che si è sempre presa la responsabilità e che da tempo ha deciso di rompere ogni tipo di legame con la propria famiglia e con il convivente. Cercando di riniziare una vita all’insegna della legalità e della giustizia con mia figlia. Dopo numerose minacce psichiche, verbali e mentali di denunciare tutti. Vengo ascoltata da un magistrato dopo un mese delle mie dichiarazioni in presenza di un maresciallo e di un legale assegnatomi, mi dissero che bisognava aspettare di trovare un magistrato che non fosse corrotto dopo oltre un mese passato scappando di città in città per ovvie paure e con una figlia piccola, i carabinieri ci condussero alla procura della Repubblica di C. e lì fui sentita in presenza di un avvocato assegnatomi dalla stessa procura.
Questi mi comunicarono di figurare come collaboratore, premetto di non aver nessuna conoscenza giuridica, pertanto il termine di collaboratore per una persona ignorante, era corretto in quanto stavo collaborando al fine di arrestare dei criminali mafiosi. Dopo circa tre anni il mio caso passa ad un altro magistrato e da lui appresi di essere stata mal tutelata dal mio legale.
HO PERSO TUTTO E SIAMO ISOLATE
Oggi mi ritrovo, assieme a mia figlia isolata da tutto e da tutti, ho perso tutto, la mia famiglia, ho perso il mio lavoro (anche se precario) ho perso la casa, ho perso i miei innumerevoli amici, ho perso ogni aspettativa di futuro, ma questo lo avevo messo in conto, sapevo a cosa andavo incontro facendo una scelta simile. Quello che non avevo messo in conto e che assolutamente immaginavo, e non solo perché sono una povera ignorante con a mala pena un attestato di licenza media inferiore, ma perché pensavo sinceramente che denunciare fosse l’unico modo per porre fine agli innumerevoli soprusi e probabilmente a far tornare sui propri passi qualche povero disgraziato sinceramente, non so neanche da dove mi viene questo spirito, o forse sì, visti i tristi precedenti di cause perse ingiustamente da parte dei miei familiari onestissimi! Gente che si è venduta pure la casa dove abitava, per pagare gli avvocati e soprattutto, per perseguire un’idea di giustizia che non c’è mai stata, anzi tutt’altro! Oggi e dopo tutti i precedenti, mi chiedo ancora come ho potuto, anche solo pensare che in Italia possa realmente esistere qualcosa di simile alla giustizia, soprattutto dopo precedenti disastrosi come quelli vissuti in prima persona dai miei familiari.
CONOSCO Già IL MIO DESTINO CHE MI ASPETTA
Eppure sarà che la storia si ripete che la genetica non cambia, ho ripetuto e sto ripentendo passo dopo passo quello che nella mia famiglia è già successo, e sa qual è la cosa peggiore? La cosa peggiore è che conosco già il destino che mi spetta, dopo essere stata colpita negli interessi materiali e affettivi arriverà la morte! Inaspettata indegna e inesorabile e soprattutto senza la soddisfazione per qualche mio familiare è stato anche abbastanza naturale se così si può dire, di una persona che muore perché annega i propri dolori nell’alcol per dimenticare un figlio che è stato ucciso per essersi rifiutato di sottostare ai ricatti di qualche mai mafioso di turno. Per qualcun altro è stato certamente più atroce di quanto si possa immaginare lentamente, perché questo visti i risultati precedenti negativi si è fatto giustizia da solo e , si sa, quando si entra in certi vincoli viziosi difficilmente se ne esce indenni tutto questo perché le istituzioni hanno fatto orecchie da mercante!
CREDO ANCORA NELLA GIUSTIZIA
Ora con questa mia lettera vorrei presuntuosamente cambiare il corso della mia triste storia perché non voglio assolutamente che un giorno qualcuno possa sentirsi autorizzato a fare ciò che deve fare la legge e quindi sacrificare se pur per una giustissima causa la propria vita e quella dei propri cari per perseguire un’idea di giustizia che tale non è più nel momento in cui ce la si fa da soli e , con metodi spicci. Vorrei Signor Presidente, che con questa mia richiesta di aiuto lei mi rispondesse alle decine, se non centinaia di persone che oggi si trovano nella mia stessa situazione. Ora non so, sinceramente, quanti di noi non abbiamo mai commesso alcun reato e, dopo aver denunciato diversi atti criminali, si sono ritrovati catalogati come collaboratori di giustizia e quindi di appartenenti a quella nota fascia di infami, così comunemente chiamati in Italia, piuttosto che testimoni di atti criminali, perché le posso assicurare, in quanto vissuto personalmente che esistono persone che nonostante essere in mezzo a situazioni del genere riescono a non farsi compromettere in nessun modo a ad avere saputo dare dignità e speranza oltre che giustizia alla loro esistenza. Lei oggi, signor presidente, può cambiare il corso della storia, se vuole può aiutare chi, non si sa bene perché, o come, riesce ancora a credere che anche in questo paese vivere giustamente si può nonostante tutto! La prego signor presidente ci dia un segnale di speranza, non attendiamo che quello, e a chi si intende di diritto civile e penale, anche voi aiutate chi è in difficoltà ingiustamente!
Personalmente non credo che esiste chissà chi o chissà cosa, però credo nella volontà delle persone, perché l’ho sperimentata personalmente e non solo per cui, se qualche avvocato legge questo articolo e volesse perseguire un’idea di giustizia accontentandosi della retribuzione del patrocinio gratuito e avendo in cambio tante soddisfazioni e una immensa gratitudine da parte di una giovane madre che crede ancora in qualcosa vagamente reale, oggi giorno in questo paese si faccia avanti, ho bisogno di aiuto, qualcuno ci aiuti. Please!
Una giovane madre disperata
Articolo del 4 Luglio 2011 del Giorno – Milano
“Sciolse la mamma nell’acido Nessuna pietà per mio padre”
di Dario Crippa
’Ndrangheta, a Milano il processo per l’omicidio di Lea Garofalo. In aula la figlia della donna che svelò i particolari di alcuni delitti delle cosche.
Milano, 4 luglio 2011 – «Io non ho pietà per nessuno. Non mi interessa che sia mio padre, che sia il mio fidanzato. Verso queste persone non so neanche più se provo dell’odio, se provo del rancore o della rabbia: gli possono dare l’ergastolo, li possono uccidere per strada… mia madre non me la ridà più indietro nessuno». Denise, 19 anni, ha deciso di sedere sul banco dei testimoni al processo che il 9 luglio si aprirà in Corte d’assise a Milano: alla sbarra ci saranno suo padre, Carlo Cosco, piccolo boss della ’ndrangheta milanese, i suoi parenti, il suo ex fidanzato. Ma al centro del processo che vedrà fra gli accusatori anche Denise, che ora vive sotto scorta, ci sarà soprattutto lo spirito di sua madre, Lea Garofalo, che la notte fra il 24 e il 25 novembre 2009, a 35 anni, fu rapita, torturata, uccisa con un colpo di pistola alla nuca, quindi sciolta nell’acido.
Denise ha deciso di ripercorrerere il suo dramma su RaiTre davanti a Mario Calabresi alla trasmissione «Hotel Patria». Denise non può perdonare. Se sua madre è morta, è perché nel 2002 aveva deciso di pentirsi rompendo uno dei capisaldi della ’ndrangheta: mai aprir bocca contro i tuoi familiari. Ma Denise nel suo cuore sa di più: se sua madre quella maledetta sera del 24 novembre è finita nella trappola tesale a Milano dall’ex convivente, è perché aveva deciso coraggiosamente di uscire dall’isolamento per salire al Nord a discutere del futuro di Denise, che a 18 anni doveva decidere cosa avrebbe fatto da grande, quale università scegliere. Carlo Cosco, che tentava di riguadagnare le posizioni perdute nella ’ndrangheta anche per via di quella ex che si era messa a collaborare con la magistratura, aveva deciso di rapirla. Ma non bastava. Bisognava anche farla «cantare», capire cosa avesse raccontato ai magistrati di un vecchio omicidio cui aveva partecipato anche lui.
Ecco allora, dopo un primo rapimento fallito a Campobasso, il tranello di Milano, il viaggio in un furgone fino a un capannone alla periferia di Monza, le botte, le torture, l’esecuzione. Infine, il suo scioglimento in 50 litri di acido. Lo scorso ottobre, i carabinieri scoprono tutto, in sei finiscono dentro, compresi Carlo Cosco, due suoi fratelli, perfino l’ex fidanzato di Denise. Al processo, Denise sarà lì a guardarli negli occhi, come avrebbe fatto sua madre. «Fino a quando — ha detto — non sentirò con le mie orecchie che queste persone pagheranno per ciò che hanno fatto, io non riuscirò a costruirmi una vita». E la memoria torna a una vecchia deposizione rilasciata a suo tempo da Denise ai magistrati. Sua madre era appena stata fatta sparire, suo padre aveva finto di cercarla. E mentre l’auto che doveva riportarla in Calabria correva, «io, seduta dietro continuavo a piangere, ricordo che loro (suo padre e lo zio, ndr), parlando e chiacchierando, ridevano a voce alta…».
Articolo da malitalia.it del 9 Luglio 2011
Finalità mafiosa
di Paolo De Chiara
“E’ la prima volta che l’Autorità giudiziaria di Campobasso afferma con una sentenza definitiva l’aggravante di un reato con la finalità mafiosa commesso in Campobasso. Abbiamo fatto la nostra parte fino in fondo”. E’ soddisfatto il Procuratore della Dda di Campobasso Armando D’Alterio. Il magistrato tenace del caso Siani. Nella sentenza del 5 maggio scorso si parla chiaramente di “carattere mafioso del movente che spinse il Sabatino”, su mandato di Carlo Cosco (ex convivente di Lea Garofalo) ad introdursi nell’abitazione della donna a Campobasso. Lea Garofalo andava punita per la sua collaborazione. Era il 5 maggio 2009. L’ex convivente di Carlo Cosco, residente in una casa in affitto in via S. Antonio Abate a Campobasso, (dove viveva con la figlia Denise) riceve la visita di un pluripregiudicato di Pagani (Massimo Sabatino) mandato dal suo ex compagno, il padre di Denise. Il piano era stato studiato nei minimi particolari. Nella casa c’era bisogno di un idraulico. Il Cosco era a conoscenza del guasto alla lavatrice delle due donne. Quale momento migliore per attuare il suo piano criminale? Il Cosco era impegnato nella scalata ai vertici del clan. “Doveva essere considerato estremamente pericoloso – si legge nella sentenza – poichè determinato ad eliminare ogni ostacolo materiale si frapponesse a tale ascesa, e, primo fra tutti, la presenza, ai vertici del clan, proprio di quei Garofalo, che dovevano cadere sotto i suoi colpi”. Erano un serio ostacolo le rivelazioni di Lea nei due processi contro la ‘ndrangheta di Petilia Policastro (Kr). Uno relativo all’uccisione di suo fratello Floriano. L’altro per l’uccisione di Antonio Comberiati. Fatto di cronaca consumato a Milano nel 1995. (“Omicidi nei quali il Cosco aveva svolto un ruolo di primo piano, nell’ottica di conquista dei vertici del clan, e della egemonia del territorio”). Proprio a Milano fanno affari e risiedono molti esponenti della famiglia Cosco. A Milano Lea Garofalo è stata rapita, interrogata e sciolta nell’acido. A Milano è iniziato il processo che vede alla sbarra sei imputati. Il padre di Denise (Carlo Cosco), gli zii Vito (il protagonista della strage di Rozzano) e Giuseppe (detto Smith, ha gestito il traffico di droga a Milano e “sembra essere il responsabile dell’omicidio Comberiati”), Carmine Venturino, Rosario Curcio e Massimo Sabatino. Sempre a Milano la piccola Denise ha deciso di testimoniare, costituendosi parte civile. “Chi ha ucciso mia madre deve pagare, solo allora mi sentirò libera per ricominciare”. Il primo tentativo di sequestro, organizzato per costringere la vittima a riferire i contenuti, segreti, della collaborazione e per punirla, non va a buon fine. Il Sabatino, condannato definitivamente a sei anni di carcere (con rito abbreviato), non porta a termine la missione. Viene incalzato dalla coraggiosa Lea. Che non ci vede chiaro. Inizia a fare domande, scoprendo l’inganno. Il falso elettrotecnico Sabatino aggredisce la donna tentando di immobilizzarla e di soffocarla. Ma non ci riesce. “Non solo per la pronta reazione della vittima, ma anche per l’intervento della figlia Denise”. Il piano salta. Viene rinviato. Carlo Cosco e Massimo Sabatino (uno dei luoghi tenenti della famiglia) verranno arrestati il 4 febbraio del 2010 dai militari del Nor della compagnia carabinieri di Campobasso. Il primo a Petilia Policastro e il secondo a Milano. “Avevano messo in atto – queste le parole utilizzate durante la conferenza stampa del febbraio 2010 – un reato tipicamente mafioso, cercando di restare nell’anonimato. Ma non ci sono riusciti”
Dopo due anni esatti dal fatto è arrivata la condanna definitiva per Massimo Sabatino. Sei anni di reclusione con interdizione in perpetuo dai pubblici uffici e legale per la durata della pena. Per tentato sequestro di persona e lesioni volontarie. Reati commessi su mandato di Carlo Cosco. Una sentenza arrivata grazie all’importante lavoro dei magistrati della Procura di Campobasso, coordinati e diretti dal capo della Dda Armando D’Alterio. Che, dal primo momento, ha cercato di capire quale fosse il senso di quella aggressione misteriosa verificatasi nel maggio 2009 nel capoluogo di Regione. Il lavoro è stato svolto, ha tenuto a sottolinearlo D’Alterio, “in coordinamento con la Procura nazionale nella persona del Procuratore Pietro Grasso e della dottoressa Vittoria De Simone. Abbiamo chiesto e ottenuto riunioni di coordinamento con i colleghi milanesi, con i colleghi della Dda calabrese per uno scambio di informazioni e di supporto investigativo, ma anche ideativo, che secondo noi è alla base di questo primo risultato definitivo che abbiamo ottenuto”. La prima sentenza non definitiva era già stata trasmessa alla Procura di Milano. “Ci apprestiamo a trasmettere – ha continuato il Procuratore Armando D’Alterio – anche quella definitiva che sicuramente potrà essere acquisita a quel dibattimento. Riteniamo che questa sia una pietra miliare anche per quel processo”. In Molise, con l’arrivo di Armando D’Alterio, si respira una nuova aria. Si comincia a fare sul serio.
Articolo del 21 Settembre 2011 da www.ilquotidianoweb.it
Omicidio Lea Garofalo, la figlia Denise: «Ho fatto finta un anno»
La giovane sentita in aula a Milano: «Sapevo che mio padre e gli zii c’entravano con l’omicidio». La deposizione della figlia della testimone di giustizia di Petilia sciolta nell’acido.
21/09/2011 «Facevo finta, ma avevo capito che c’entravano loro» ha raccontato Denise, che era al corrente dal primo momento della scomparsa della madre, l’ex testimone di giustizia Lea Garofalo, svanita nel nulla nel novembre 2009 e probabilmente uccisa e sciolta nell’acido.
La figlia, Denise Cosco, sospettava della colpevolezza del padre e degli zii, contro i quali si è costituita parte civile nel processo per l’omicidio della donna. Davanti alla Corte d’Assise di Milano ieri, la deposizione della 19enne, che vive in una località segreta, sottoposta a un programma di protezione.
Dietro un paravento che la riparava da occhi indiscreti, incalzata dal pm Marcello Tatangelo, Denise ha ripercorso con determinazione la sua storia e quella della madre, entrambe testimoni di giustizia, insofferenti al codice della ‘ndrangheta che impone omertà, e “tradite” dai rispettivi compagni che le attirarono in una trappola (uno degli imputati è l’ex della ragazza).
«Ho passato un anno con mio padre e i suoi fratelli, pur sapendo che avevano fatto sparire mia madre. Ho fatto finta di niente, lavorato nella loro pizzeria, mangiato con loro, giocato coi loro bambini». Ma perché fingeva, ha chiesto il pm? «Dovevo fare la sua stessa fine?», ha detto la ragazza. Del padre Denise ha detto di sospettare per il suo comportamento. Perché dopo la scomparsa non appariva preoccupato. Il padre, del resto, tentò di acquisire una copia delle dichiarazioni rese dalla ragazza agli inquirenti.
La madre, secondo Denise, a un certo punto «Si sente lasciata sola dalle istituzioni, pensa che non serva più a niente» e, dopo trasferimenti, riavvicinamenti e violenti litigi, nel novembre 2009 decide di tornare in Calabria, ma prima vuole rivedere il padre di sua figlia, a Milano: «A mia madre pesava non poter lavorare, diceva sempre che è il lavoro a dare la dignità, e, a differenza mia, non si è mai inserita socialmente nelle città in cui andavamo». Denise ha ricostruito poi il momento più nero, quando il padre, che la lasciò dai fratelli per trascorrere qualche ora con la ex compagna, andò a riprenderla in auto senza la mamma. «Disse che avevano litigato, che lei aveva chiesto dei soldi, cambiò versioni. Con lui la cercai fino a notte, andai dai carabinieri per denunciare la scomparsa ma mi spiegarono che dovevo aspettare 48 ore, poi andai a dormire, non c’era più niente da fare». Il pm le ha chiesto pure perchè mandò tanti sms sul cellulare della mamma che era spento: «Mi volevo autoconvincere che non l’avevano fatta sparire, anche se sapevo che non c’era più niente da fare».
Articolo del 14 Ottobre 2011 da liberainformazione.org
Processo per il delitto di Lea Garofalo
di Marika Demaria
In tribunale a Milano continua la deposizione della figlia Denise.
«Lei non si deve permettere, io non vedo mia madre da due anni perché…». La reazione di Denise Cosco è tanto rabbiosa quanto comprensibile. Sono quasi le 13 di giovedì 13 ottobre: nel Tribunale di Milano si prosegue la celebrazione del processo per l’omicidio di sua madre, Lea Garofalo, scomparsa la notte tra il 24 e il 25 novembre 2009. Sono oltre tre ore che la ragazza risponde alle domande della difesa, ma quando uno degli avvocati mette in dubbio che la donna sia morta, la reazione è immediata. Il compito della difesa è di scagionare i propri assistiti, e dunque già nel corso della prima udienza era stato commentato che «mentre noi siamo qui in quest’aula di tribunale, la signora Garofalo magari è in vacanza in qualche posto lontano, al caldo». Alla ripresa dell’udienza, Denise si scuserà con i presenti in aula per lo sfogo dettato da uno stato d’animo di una giovane ragazza che, nell’arco di pochi mesi, ha dovuto sopportare la tragica fine della madre (i capi d’imputazione a carico dei reclusi sono omicidio e distruzione del cadavere mediante scioglimento dell’acido), ha visto nuovamente il proprio padre dietro le sbarre (Carlo Cosco è infatti stato arrestato nel febbraio 2010) dopo che aveva assistito, a cinque anni, al suo primo arresto, e si è vista portare via anche il suo ragazzo, Carmine Venturino. Le manette ai polsi del giovane sono infatti scattate il 18 ottobre, con l’accusa di sequestro di persona e distruzione di cadavere. «Di mia mamma – racconta Denise – parlavamo poco, quando toccavo l’argomento lui mi diceva che non sapeva niente e che niente ne voleva sapere». Gli stessi capi d’imputazione pendono su Massimo Sabatino: ieri i due uomini, vicini nelle gabbie predisposte all’interno dell’aula, commentavano la deposizione di Denise, si scambiavano articoli di giornale e caramelle. Nella prima gabbia, paradossalmente la più vicina alla Corte e dunque a Denise, c’erano Rosario Curcio e i tre fratelli Cosco: scuotevano il capo quando la ragazza parlava, si giravano a salutare, sorridenti, i parenti e gli amici che, in fondo all’aula, assistevano all’udienza.
La vita di Denise Cosco era già stata posta sotto la lente d’ingrandimento il 29 settembre scorso, quando la giovane figlia di Lea Garofalo aveva deposto dinanzi al pm Marcello Tatangelo. Ieri però tutto è stato ancora più pressante. La ragazza è tornata a sedersi dietro al banco degli imputati – nascosta dagli sguardi degli imputati (il padre Carlo Cosco, gli zii Vito e Giuseppe Cosco, l’ex fidanzato Carmine Venturino, oltre a Rosario Curcio e Massimo Sabatino) e del pubblico presente in aula – per sottoporsi alle domande della difesa. Gli avvocati hanno scandagliato il passato, soffermandosi anche su aspetti che lo stesso Presidente della Corte, il giudice Filippo Grisolia, ha apostrofato come «non rilevanti ai fini del dibattimento e dunque non ammissibili». A Denise Cosco l’avvocato Maira Cacucci, difensore di Giuseppe Cosco, aveva chiesto di fare diversi sforzi mnemonici, chiedendole di ricordare che cosa avesse acquistato al supermercato la sera in cui con la madre sarebbe dovuta ripartire da Milano alla volta di Petilia Policastro, se fumasse anche davanti al padre, se la sera del 24 novembre 2009 – data della scomparsa di Lea Garofalo – lei si fosse addormentata subito una volta coricatasi oppure se avesse fatto fatica a prendere sonno. Denise deve ripercorrere gli anni della sua infanzia e della sua adolescenza, le viene chiesto di raccontare perché sua madre avesse deciso di uscire volontariamente dal programma di protezione: «Perché era sfiduciata, si era resa conto che le sue denunce fatte nei confronti di mio padre erano state vane», ha ribadito, riferendosi a un episodio delittuoso di cui lo stesso Carlo Cosco aveva messo a conoscenza la compagna.
Nel pomeriggio l’interrogatorio procede, con l’intento di far luce su alcuni punti della deposizione che la ragazza aveva rilasciato al pubblico ministero. L’avvocato Daniele Sussman, difensore di Carlo Cosco, chiede lumi in merito a due documentazioni cartacee in suo possesso. La prima è datata 25 febbraio 2010: Denise Cosco sottoscrive una rinuncia volontaria al programma di protezione che prevedeva un’auto non protetta e la vigilanza dinamica con agenti di scorta in orari convenuti. «Sapevo che non avrei potuto nemmeno fare una passeggiata senza essere accompagnata e così ho rinunciato. E poi non aveva senso che scortassero solo me senza che anche mia zia Marisa e mia nonna Santina fossero inserite all’interno del programma di protezione». Il legale esibisce inoltre una lettera scritta da Denise al padre, nel 2010. Una lettera in cui la figlia esprime vicinanza al genitore. Tornano alla mente le parole che la ragazza aveva dichiarato nel corso della precedente udienza: “Con queste persone, o te le fai amiche, altrimenti rischi di essere uccisa”.
La difficile seduta si è conclusa con la testimonianza del carabiniere Marco Sorrentino dei Ris di Roma, il quale ha reso noti i risultati dei rilievi di impronte fatti sul luogo dell’aggressione del 5 maggio 2009 a Campobasso: «Le cinque tracce digitali – indice, medio e anulare della mano destra, indice e medio della mano sinistra – corrispondono a Massimo Sabatino». L’uomo è già stato indicato dall’accusa come il finto tecnico della lavatrice che entrò in casa di Lea Garofalo e Denise Cosco con l’intento di uccidere la donna, evento che fu sventato dalla figlia.
La prossima udienza del processo si svolgerà il 27 ottobre, alle 9.30, nel Tribunale di Milano.
Articolo del 23 Novembre 2011 da liberainformazione.org
Delitto Lea Garofalo,il processo è da rifare
di Marika Demaria
Il dibattimento dovrà ricominciare e c’è il rischio che gli imputati tornino in libertà.
Destino beffardo. La notizia arriva alla vigilia del secondo anno della sparizione di Lea Garofalo, la testimone di giustizia scomparsa la notte tra il 24 e il 25 novembre 2009. Il processo è tutto da rifare. Dell’omicidio e dello scioglimento del corpo nell’acido sono accusati il compagno, Carlo Cosco, e i fratelli Vito e Giuseppe, Rosario Curcio, Carmine Venturino e Massimo Sabatino ma il Presidente della Corte, Filippo Grisolia è stato da poco nominato Capo di Gabinetto del neoministro della Giustizia, Paola Severino; la nomina è dunque incompatibile con il precedente incarico e per sapere la verità sul delitto di Lea Garofalo dovrà ricominciare dal principio.
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Donna sciolta nell’acido, il Ministero della Giustizia: «Il processo non sarà azzerato»
La nomina a capo di gabinetto di Filippo Grisolia non causerà l’annullamento: basterà una rinnovazione formale.
MILANO – La nomina a capo di gabinetto del Ministero della Giustizia di Filippo Grisolia, attualmente presidente della Corte d’assise d’appello di Milano, non farà saltare il processo per la morte di Lea Garofalo, la testimone di giustizia sciolta nell’acido e di cui è imputato il marito, accusato dalla figlia. È quanto si è appreso da fonti del Ministero della Giustizia. Il processo, in corso alla corte d’Assise d’appello di Milano, è già stato affidato a un nuovo giudice. Restano quindi valide le sei udienze e quattro istruttorie, nel corso delle quali sono stati ascoltati alcuni testi. Fonti del Ministero hanno garantito che non ci sarà né un significativo ritardo, né un azzeramento della conclusione del processo nel rispetto del diritto della difesa e del principio del giudice naturale. Secondo la giurisprudenza della Cassazione ci sarà una rinnovazione di carattere formale e quindi sono sufficienti un paio di udienze dove verranno acquisiti tutti gli atti e le testimonianze del processo. Nessun problema anche per altri due processi seguiti da Grisolia: uno per omicidio, per il quale gli avvocati hanno già dato il loro consenso per l’acquisizione degli atti; ed un altro per un assalto ad un furgone blindato, per il quale anche in questo caso i legali hanno accettato l’acquisizione degli atti e sarà quindi possibile proseguire il processo senza interruzioni.
«EVITARE ULTERIORI SOFFERENZE» – Il presidente del Tribunale Livia Pomodoro in una nota scrive: «Si farà di tutto per evitare ulteriori sofferenze e disagi alle persone offese. Spetterà al nuovo collegio ogni decisione in ordine all’andamento del processo, tenuto conto della gravità dei reati contestati e anche al fine di evitare eventuali scarcerazioni». Alla ripresa del processo coi nuovi giudici, dovrà tornare in aula la figlia della vittima, Denise Cosco, per testimoniare. In gabbia tra gli imputati ci sarà suo padre Carlo Cosco, ritenuto il mandante dell’omicidio di sua madre. Da quanto si è saputo il 1° dicembre, quando si terrà l’udienza del processo per l’omicidio di Lea Garofalo con il nuovo presidente della Corte d’Assise, la Procura ha intenzione di chiedere un calendario fitto di udienze per portare a termine il dibattimento il prima possibile. Il motivo è che se entro luglio non arriva la sentenza di primo grado i sei imputati, ora in carcere, tra i quali Cosco, potrebbero ritornare in libertà per la scadenza dei termini di custodia cautelare. I sei vennero arrestati a ottobre dell’anno scorso dai carabinieri di Milano coordinati dal pm della Dda Marcello Tatangelo e dalla collega Maria Letizia Mannella.
PALAMARA – «I giudici della Corte d’Assise di Milano hanno a disposizione le norme che gli consentiranno di non vanificare il processo per l’uccisione di Lea Garofalo, in seguito alla nomina del presidente Filippo Grisolia a capo di Gabinetto del Guardasigilli». Lo ha detto il presidente dell’Anm, Luca Palamara, parlando a margine della cerimonia di insediamento del Comitato direttivo della Scuola di formazione della magistratura al Csm. Palamara ha poi aggiunto che ovviamente, per questioni del genere, non si devono «creare disagi alla macchina giudiziaria e a tutte le questioni che attengono ai processi ma sono sicuro che a Milano sapranno trovare una soluzione».
Processo Lea Garofalo, riprendono le udienze
di Marika Demaria
«Signor Giudice, è opportuno che questa Corte salvaguardi i principi cardine che garantiscono un processo equilibrato. Per questo chiediamo che Lei partecipi a tutta l’attività istruttoria, risentendo tutti i teste che hanno già deposto e non limitandosi alla lettura delle carte». Così Daniele Sussmann Steinberg, di fronte alla neo insediata Presidente Anna Introini, motiva la decisione compatta che la difesa ha assunto. Corte d’Assise: ieri, giovedì primo dicembre, è ripreso il processo Lea Garofalo, dopo la nomina del Presidente Filippo Grisolia a capo del Gabinetto del ministro della Giustizia che di fatto ha stoppato il dibattimento. Richiesta accolta: nel corso dell’udienza di ieri si sono dunque ascoltati i teste già in calendario per il 23 novembre (quando fu data la notizia relativa al cambio del Presidente) e fissate le date che da qui a marzo permetteranno di sviluppare questo delicato processo, per un totale di ventuno udienze.
Il primo teste – di nazionalità orientale – ha raccontato alle parti di gestire un negozio di alimentari in via Montello 6 a Milano, e che abitualmente presta il proprio furgone ad amici e vicini. Lo fece anche con Vito “Sergio” Cosco e Massimo Sabatino (riconosciuti attaverso delle foto identificative fornite dall’accusa) il 4 maggio 2009: il primo chiese all’esercente di prestargli il mezzo, il secondo glielo restituì. La motivazione fu che “il furgone serviva per trasportare mobili”. Quella trasferta costò al teste due multe, una delle quali registrata alle 19.03 a Foggia. Tempi e luoghi corrispondono dunque con l’episodio del tentato omicidio ai danni di Lea Garofalo, quando, secondo alcuni teste già ascoltati (compresa la figlia della giovane donna, Denise), Massimo Sabatino si introdusse nella loro casa di Campobasso fingendosi il tecnico della lavatrice giunto per ripararla. Il teste, avvalendosi di un’interprete, ha spiegato che i prestiti del furgone erano annotati su un post-it prima e su un foglio dopo, redatto all’insaputa della persona che chiedeva in prestito il mezzo ma che di fatto consentiva al commerciante – che attraverso le foto ha riconosciuto anche Carmine Venturino, Carlo Cosco, Rosario Curcio e Giuseppe Cosco come abitanti o frequentatori dello stabile di via Montello 6, di proprietà dell’Ospedale Maggiore di Milano – di ricordarsi quando e a chi prestava il furgone.
Con l’ingresso in aula di Roberto Schiavone, detenuto per ricettazione di assegni e truffa, la tensione sale. Massimo Sabatino è sempre più nervoso, fino a quando sbotta e urlando inveisce contro il teste prima e contro il pm Marcello Tatangelo dopo. Un atteggiamento che il Presidente Introini in maniera eufemistica chiamerà “intemperanza”, spiegando all’imputato che, se fosse accaduto di nuovo, lei avrebbe provveduto ad allontanarlo dall’aula. Schiavone ha raccontato di aver conosciuto Salvatore Sorrentino nel 2007, quando entrambi erano detenuti nello stesso braccio del carcere di San Vittore, per poi dividere la stessa cella per alcuni mesi a cavallo tra la fine del 2009 e l’inizio del 2010. Il teste ha raccontato di aver visto moltissime volte Sabatino e Sorrentino parlare tra loro in maniera amichevole e confidenziale, ma che si ricorda di un episodio specifico: un giorno, che si colloca agli inizi del 2010, trovò i due che parlavano attorno al tavolo della sua cella. «Mi fu chiesto di preparare il caffé e ascoltai che Massimo Sabatino raccontava di essere risentito, amareggiato nei confronti dei Cosco, che sapeva essere coinvolti nell’omicidio del fratello di Lea Garofalo. Sabatino disse che nel maggio 2009 si finse idraulico e andò a Campobasso per volere di Carlo Cosco, con l’intenzione di uccidere la sua compagna. Sabatino era stato raggiunto da un mandato di cattura per tentato omicidio, lui era arrabbiato con i Cosco perché gli avevano promesso che in caso di problemi gli avrebbero pagato l’avvocato ma Sabatino si sentiva abbandonato, dimenticato». Va ricordato che Carlo Cosco gode del patrocinio legale gratuito in quanto risulta possedere un reddito molto basso. Il teste Schiavone ha infine precisato che Sorrentino aveva pressato Sabatino per avere più informazioni possibili sulla vicenda in previsione di chiedere di diventare collaboratore di giustizia, ma di fatto Sorrentino tornò poi sui propri passi.
A deporre è poi stato chiamato Massimiliano Floreale, ex cognato di Sabatino in quanto per quasi una decina d’anni era stato compagno di sua sorella Paola. Il teste, senza mai guardare le parti che gli rivolgevano le domande, appariva agitato, impaurito. Uno stato d’animo che non è sfuggito a chi lo stava interrogando. «Carlo Cosco mi fa paura, non lo so perché. Però lui conosce molte mie informazioni personali». Alle incalzanti domande dell’avvoccato Sussmann – difensore di Carlo Cosco – che gli chiedeva se il suo assistito lo avesse mai minacciato, gli avesse mai estorto denaro, avesse comunque commesso qualche gesto tale per cui Floreale si sarebbe dovuto spaventare o preoccupare, quest’ultimo in maniera fulminea ha sempre risposto di no, chiosando con un «però ho paura». Per questo stesso motivo il teste non ha mai chiesto contezza riguardo al fatto che l’imputato gli chiese le chiavi della casa di sua nonna: «Quando avevo a che fare con Carlo Cosco preferivo non fare domande, per paura, ma comunque pensavo che in quello che mi aveva chiesto non ci fosse nulla di strano». Era il 24 novembre 2009: quel giorno Carlo Cosco, insieme a Lea Garofalo e alla loro figlia Denise, si recarono presso il centro estetico gestito da Floreale e «mentre Denise si sottoponeva a dei trattamenti, loro sono andati al bar per un caffé». Floreale spesso prestava a Carlo Cosco anche le proprie automobili, un Chrysler grigio e un’Audi A3, così come quel giorno prestò a Carmine Venturino e Rosario Curcio le chiavi di un box che sarebbe dovuto servire, a detta dei due, a nascondere “un pacchettino” per breve tempo. «Le due richieste, le chiavi dell’appartamento di mia nonna prima e quelle del box dopo, mi stupirono: la sera del 25 novembre Venturino e Curcio mi restituirono entrambi i mazzi di chiavi. Chiesi dove fosse Carlo Cosco (era a lui che Floreale aveva consegnato le chiavi dell’appartamento) ma non ottenni risposta».
Massimiliano Floreale ha raccontato di essere andato nel luglio 2009 su un terreno a San Fruttuoso a Monza (dove si trova il magazzino in cui, secondo l’accusa, si sarebbe consumata l’efferattezza del delitto di Lea Garofalo) insieme a Massimo Sabatino. «Quando ho letto della notizia della sparizione della Garofalo, mi sono spaventato perché ho collegato la vicenda con questi episodi. Anche la mia ex compagna, Paola Sabatino, aveva paura che suo fratello avesse commesso qualche cazzata e che fosse coinvolto nel sequestro e omicidio della donna, visto che già aveva un’accusa per tentato omicidio nei suoi confronti».
La Corte si riunirà nuovamente il prossimo 19 dicembre.
Articolo del 11 Gennaio 2012 da narcomafie.it
Processo Garofalo, riascoltati i teste
di Marika Demaria
Nell’aula della prima Corte d’Assise d’Appello ieri, 10 gennaio, si sono ripercorse le deposizioni di alcuni dei teste convocati per il processo Lea Garofalo. Un iter necessario, a seguito della nomina di Anna Introini quale Presidente della Corte, subentrata a Filippo Grisolia, nominato capo di gabinetto del ministro della Giustizia.
Il primo teste ad essere riascoltato è stato Enza Rando, responsabile dell’ufficio legale di Libera, la quale ha confermato la deposizione resa lo scorso 20 settembre. «La prima volta che ho incontrato Lea Garofalo – ha raccontato l’avvocato – ci siamo viste a Roma, presso la sede dell’associazione. Lei aveva chiamato i nostri uffici presentandosi con il suo nome di battesimo e spiegando che aveva bisogno di un supporto, in quanto collaboratrice di giustizia». Un’etichetta che la donna tentò di staccarsi di dosso, sottolineando con forza che lei era in realtà una testimone di giustizia. «Questo aspetto l’amareggiava moltissimo – ricorda l’avvocato Rando – così come ricordo lo sconforto di Lea Garofalo quando mi raccontava che le sue denunce nei confronti del compagno Carlo Cosco non erano sfociate in alcun processo». Enza Rando e Lea Garofalo si incontrarono per l’ultima volta a Firenze il 20 novembre 2009, prima che la giovane donna, insieme alla figlia Denise (che il legale conobbe proprio in quella circostanza), partisse alla volta di Milano, dove ad attenderle c’era l’imputato Carlo Cosco. «Ho cercato più volte di dissuaderla, ma invano. Lea mi diceva che fino a quando sarebbe stata con sua figlia non le sarebbe potuto succedere niente, e che avrebbe dovuto incontrare il compagno per discutere non solo del futuro della ragazza, ma anche per chiedergli dei soldi, un’indennità di maternità che lei aveva percepito ma che di fatto era stata prelevata dal suo convivente. Le ho spiegato – ricorda Enza Rando – che se si trattava di una questione di denaro, la nostra associazione sarebbe potuta intervenire, magari anticipando una somma che lei avrebbe poi restituito, o aiutandola a cercare un posto di lavoro. Perché lei, privata della sua reale identità (ma senza i documenti di copertura, n.d.a.), in continuo spostamento verso località protette, sentiva lesa la propria dignità, che avrebbe voluto riacquistare lavorando, cercando di avere una vita normale».
Gli avvocati difensori hanno, con le loro domande, cercato di meglio capire in che rapporti fosse Lea Garofalo con il fratello Floreano (ucciso in un agguato l’8 giugno 2005): «Mi disse solo – ha risposto Enza Rando – che non era uno stinco di santo». In merito alle domande riguardanti lo stato di Denise Cosco e dei suoi spostamenti dopo la sparizione della madre, l’avvocato, richiamando l’articolo 200 del codice penale in merito al segreto professionale, si è avvalsa della facoltà di non rispondere.
Una facoltà che ha esercitato, per motivi diversi, anche Paola Sabatino, sorella dell’imputato Massimo Sabatino. La ragazza aveva deposto nel corso dell’incidente probatorio, ma ieri ha esercitato questo diritto in quanto le sue dichiarazioni avrebbero – seppur involontariamente – potuto danneggiare il fratello. Il pm Marcello Tatangelo, alla luce di questa decisione, ha chiesto che la Corte ammettesse le dichiarazioni di Paola Sabatino rese in precedenza, spiegando che «il teste Salvatore Sorrentino aveva riferito che i Cosco avevano minacciato l’intera famiglia Sabatino. Si ritiene dunque plausibile che sia per questo motivo che Paola Sabatino non voglia più testimoniare». Una questione che ha registrata la ferma e compatta opposizione della difesa, che ha visto accogliere le proprie motivazioni dalla Corte: respinte dunque le acquisizioni fornite dal pubblico ministero. Prima che il collegio giudicante si ritirasse per decidere in merito, l’imputato Massimo Sabatino ha chiesto di essere ascoltato: «Signor giudice, io contesto tutto. Non è vero che io sono stato minacciato dai Cosco, e nemmeno la mia famiglia. Secondo voi, io starei tranquillo in questa cella vicino a loro (Carlo, Giuseppe e Vito Cosco, n.d.a.)?».
In videoconferenza, ha di nuovo testimoniato il collaboratore di giustizia Angelo Cortese, che ha ribadito quanto affermato lo scorso 27 ottobre: «Carlo Cosco mi chiese di uccidere la sua compagna e di scioglierla nell’acido in modo che si potesse inscenare un allontanamento volontario. Sapeva che lei lo aveva denunciato e che aveva una relazione con un altro uomo, e queste sono cose che non si possono perdonare per il nostro onore»
Articolo da Il Quotidiano dell’11 Gennaio 2012 Fonte: stopndrangheta.it
Articolo del 24 Gennaio 2012 da narcomafie.it
Lea Garofalo: ecco come si sono svolte le prime indagini dopo la scomparsa
di Marika Demaria
La notte del 24 novembre 2009, a poche ore dalla scomparsa di Lea Garofalo, la figlia Denise e suo padre Carlo Cosco si recarono presso la caserma dei Carabinieri di via Moscova per denunciarne la scomparsa. La prassi però prevede che debbano trascorrere 24 ore prima di poter procedere, e quindi padre e figlia si ripresentarono la sera del 25, accompagnati dagli stessi carabinieri, poiché quella mattina anche Marisa Garofalo aveva provato, a Petilia Policastro, a sporgere denuncia. A raccogliere il verbale di Denise Cosco (fino quasi alle due del mattino) fu il maresciallo Christian Fabio Persuich, che ieri ha iniziato a deporre.
«La prima cosa che mi colpì fu che la ragazza non aveva mai fatto trapelare alcun sentimento di speranza di rivedere la madre, come se fosse rassegnata, consapevole che potesse essere successo qualcosa di brutto». Carlo Cosco in quelle ore si trovava in un’altra stanza per rilasciare la sua denuncia, ma verso l’una di notte «l’ho intravisto in corridoio perché stava discutendo con i miei colleghi: voleva sapere cosa la figlia mi stesse riferendo. Quando ho finito di stilare il verbale, sono uscito dal mio ufficio per recuperare le stampate e lui mi ha detto che voleva averne una copia, perché gli spettava per legge. Gli ho risposto che non era possibile; Carlo Cosco non ha invece minimamente fatto riferimento alle attività che avremmo intrapreso per ritrovare Lea Garofalo».
Il pubblico ministero Marcello Tatangelo ha chiesto delucidazioni in merito a queste ultime, chiedendo al militare di spiegare tutte le procedure messe in atto fin dai primi istanti successivi alla denuncia di scomparsa. Le indagini sono partite a 360 gradi, senza escludere alcuna pista: dall’allontanamento volontario all’incidente, dal sequestro all’omicidio. Il nome di Lea Garofalo è stato inserito in una banca dati, per cui qualsiasi segnalazione rilevata su territorio nazionale o nei Paesi aderenti alla convenzione Schengen viene inoltrata alla caserma milanese: ma ad oggi non ve ne sono state. Impossibile invece verificare un ipotetico viaggio aereo di Lea Garofalo, in quanto per chiedere le liste d’imbarco sono necessarie l’ora di imbarco e la destinazione del volo.
«Facendo i primi accertamenti – ha spiegato il maresciallo Persuich – abbiamo riscontrato che dal 20 al 24 novembre 2009 Lea Garofalo e la figlia Denise hanno pernottato presso l’hotel “Losanna”, registrate con i loro reali nomi. Ai pagamenti ha provveduto Carlo Cosco: gli addetti della reception ci hanno infatti spiegato che la ragazza si rivolgeva a lui chiamandolo Pa’».
I carabinieri hanno poi richiesto i tabulati dei numeri in uso a Lea Garofalo, Denise Cosco, Marisa Garofalo e Carlo Cosco, predisponendo anche le intercettazioni. Dal numero di telefono della testimone di giustizia, l’ultima attività risulta essere l’invio di un sms verso il cellulare di sua sorella Marisa, inviato alle 19.03 del 24 novembre 2009. Dopo di allora ci sono diversi tentativi di chiamata e invii di sms fatti soprattutto da Denise Cosco. Il maresciallo ha precisato che «non sempre con i tabulati si possono evincere i tentativi di chiamata, ma con le intercettazioni riusciamo a captare anche il messaggio gratuito del gestore che avvisa che l’utente non è raggiungibile». Dalle indagini è altresì emerso che dei numeri telefonici utilizzati dai sei imputati, solo quelli di Massimo Sabatino erano realmente a lui intestati; tutti gli altri erano intestazioni fittizie, riconducibili ad identità inventate. È stato inoltre riscontrato che la sera del 24 novembre sono state effettuate una serie di telefonate incrociate tra i vari imputati; dai tabulati emerge anche l’utenza di Gaetano Crivaro, intercettato fino al 22 febbraio 2010, giorno del suo arresto (e di quello della moglie) per favoreggiamento nei confronti dei Cosco che in una delle scorse udienze si è avvalso della facoltà di non rispondere.
Così i carabinieri risalgono al magazzino di Crivaro, situato su un terreno nei pressi di Monza. «Si tratta di 500 metri quadri a cielo aperto, delimitato da un cancello – chiuso con un lucchetto – che permette l’accesso anche dei mezzi pesanti, mentre sugli altri lati c’è una fitta boscaglia naturale. Sul terreno si trovano un piccolo prefabbricato adibito ad ufficio e a fianco un container di ferro. La zona, prettamente industriale, si trova alle spalle di un cimitero, e non è sottoposta ad un circuito di video sorveglianza. Di fronte al magazzino di Crivaro si trova quello di Giuseppe Marino (che ha già deposto, n.d.a.), mentre all’interno dello stesso abbiamo rinvenuto la Fiat Coupé di proprietà di Carmine Venturino, con la quale egli ha avuto un incidente in corso Sempione a Milano, il 3 maggio 2009, mentre si trovava in compagnia del polacco Damian Janczara (che ha reso la propria testimonianza in aula il 19 dicembre 2011, n.d.a.). «Quando abbiamo sciolto i cani addestrati – ha ricordato il maresciallo – si sono diretti verso il punto più lontano del terreno, nell’angolo all’estrema sinistra dove si trova una fossa al cui interno passa l’impianto fognario. Ma non abbiamo trovato alcun corpo, alcuna traccia, anche perché all’epoca del nostro sopralluogo non si parlava ancora del fatto che Lea Garofalo potesse essere stata sciolta nell’acido dopo essere stata uccisa».
Le indagini hanno inoltre riscontrato che Carlo e Giuseppe Cosco, così come Carmine Venturino, per tutto il 2009 risultavano essere disoccupati, così come Rosario Curcio anche se sulla carta risultava condurre un’attività in proprio con Massimiliano Floreale. Cosco Vito aveva invece lavorato nell’edilizia (in un cantiere di viale Zara) dal 19 marzo al 13 aprile, poi è risultato essere in malattia fino al 3 maggio, per poi chiedere nuovamente la mutua dall’11 maggio al 15 novembre; riprenderà il lavoro il 16 novembre fino al 13 dicembre, giorno in cui sarà licenziato. Sabatino è risultato essere invece alle dipendenze di un’agenzia ingaggiata per le pulizie presso il supermercato “Coop”, con turni che iniziavano o alle 6 o alle 7 del mattino e che duravano due ore e mezza. Di fatto la sua attività lavorativa durerà solo dal 9 al 17 dicembre 2009, giorno in cui sarà arrestato.
La deposizione del maresciallo Christian Fabio Persuich proseguirà nel corso dell’udienza di venerdì 27, quando tornerà in aula a deporre anche Denise Cosco.
Articolo del 30 Marzo 2012 da corrieredellacalabria.it
Sei ergastoli per l’omicidio di Lea Garofalo
La Corte d’assise di Milano ha condannato al carcere a vita l’ex compagno della testimone di giustizia crotonese, uccisa e sciolta nell’acido. Carlo Cosco ha perso la potestà genitoriale. L’avvocato di Denise: rotta l’omertà
MILANO Sei ergastoli per l’omicidio di Lea Garofalo, la testimone di giustizia crotonese sequestrata, uccisa e sciolta nell’acido. Lo ha deciso la Corte d’assise di Milano che stasera ha condannato al carcere a vita l’ex compagno della donna e gli altri 5 imputati. La Corte d’assise, presieduta da Anna Introini, ha condannato anche a due anni d’isolamento diurno Carlo Cosco, l’ex compagno di Lea, e il fratello Vito Sergio Cosco. L’altro fratello Giuseppe Cosco e gli altri complici, accusati a vario titolo del sequestro, dell’omicidio e della distruzione del cadavere, cioè Carmine Venturino, Rosario Curcio e Massimo Sabatino sono stati condannati all’ergastolo con un anno di isolamento diurno. I giudici dunque hanno accolto in pieno la richiesta del pm della Dda di Milano, Marcello Tatangelo che ha coordinato le indagini, assieme all’aggiunto Alberto Nobili. La Corte ha anche ordinato la trasmissione alla Procura per eventuali valutazioni su profili di reato delle testimonianze di otto persone. Le motivazioni arriveranno tra 90 giorni.
Secondo l’accusa, Lea Garofalo sarebbe stata sequestrata il 24 novembre del 2009 a Milano e uccisa il giorno successivo e poi il corpo sarebbe stato sciolto in 50 litri di acido in un magazzino nell’hinterland tra Milano e Monza. Le ultime immagini in vita della crotonese, filmate dalle telecamere, la vedono salire sulla macchina di Carlo Cosco in zona Arco della Pace. La donna, che negli anni aveva raccontato agli inquirenti fatti di una faida di ‘ndrangheta, è stata uccisa, secondo quanto ricostruito dal pm, in particolare per quanto sapeva su un omicidio avvenuto nel ’95. Si tratta di un rarissimo caso di lupara bianca a Milano, con modalità, lo scioglimento nell’acido, mai viste in Lombardia. La figlia di Lea, Denise, 20 anni, parte civile contro il padre, è stata una dei testi fondamentali dell’accusa.
L’AVVOCATO DI DENISE: ROTTA L’OMERTÀ
“Il fatto più importante oggi è che una giovane ragazza a cui hanno ucciso la mamma ha avuto il coraggio di essere testimone di giustizia. Ha rotto la paura e l’omertà e ha portato il suo contributo a scrivere una pagina di giustizia e verità”. E’ questo il pensiero che Denise esprime attraverso il suo legale Vincenza Rando. La ragazza ventenne ha atteso “nascosta” per motivi di
sicurezza, la sentenza di condanna per l’omicidio della madre. Il legale, emozionato, ha sottolineato l’intelligenza e il coraggio di Denise, che si è costituita parte civile “contro” il padre imputato nel processo e sottolineato che il Paese deve essere orgoglioso di una ragazza come lei.
CARLO COSCO HA PERSO LA PATRIA POTESTÀ
È stato dichiarato «decaduto dalla potestà genitoriale» Carlo Cosco, il padre di Denise. La figlia di Lea per prima denunciò la scomparsa della donna ed è stata un testimone chiave dell’accusa, assieme ad alcuni pentiti. La potestà genitoriale è stata tolta anche a tutti gli altri imputati condannati al carcere a vita.
RISARCIMENTO ALLA FIGLIA, MADRE E SORELLA DI LEA
I giudici hanno condannato gli imputati anche a risarcire la figlia, la madre e la sorella di Lea Garofalo. A Denise andrà una provvisionale di 200mila euro e alle altre due donne 50mila euro ciascuna. Risarcimento da ridefinire in sede civile. La Corte ha anche disposto un un risarcimento a favore del Comune di Milano, parte civile nel dibattimento, di 25mila euro. Inoltre ha deciso che il dispositivo della sentenza dovrà essere pubblicato sull’albo del Comune e sul sito del ministero della Giustizia.
DON CIOTTI: INCHINARSI AL CORAGGIO DI DENISE
Era con Denise don Luigi Ciotti che verso sera si è recato in tribunale a Milano dove la prima Corte d’assise ha letto la sentenza del processo per l’omicidio della madre Lea Garofalo. «Abbiamo restituito dignità, verità e giustizia a sua mamma», ha affermato il sacerdote presidente della storica associazione Libera dopo la lettura del dispositivo. Don Ciotti oltre a ringraziare i magistrati ha rivolto il proprio pensiero alla figlia della donna scomparsa nel novembre del 2009: «Dobbiamo inchinarci davanti ad una ragazza giovane che ha trovato il coraggio di rompere l’omertà».
Articolo del 21 Novembre 2012 da milano.repubblica.it
Brianza, trovato nelle campagne il corpo bruciato di Lea Garofalo
La donna, ex moglie del boss della ‘ndrangheta Carlo Cosco, era stata uccisa per aver testimoniato contro i clan e si riteneva che fosse stata sciolta nell’acido. Si attende a questo punto l’esame del dna
Lea Garofalo, la donna uccisa dal suo ex compagno perché avrebbe rivelato particolari su un omicidio di ‘ndrangheta avvenuto nel ’95, non è stata sciolta nell’acido, come era scaturito dalle indagini che si erano avvalse della collaborazione di un pentito. E’ stata uccisa con un colpo di pistola alla testa, invece, e il suo corpo bruciato. In un campo della Brianza sono stati trovati un mese fa resti umani con alcuni monili: una collana e degli anelli appartenuti alla donna. Sarà l’esame del dna a stabilire con certezza se si tratta dei resti carbonizzati di Lea Garofalo, anche se secondo gli inquirenti le probabilità sono molte elevate.
Il 30 marzo scorso per l’omicidio di Lea Garofalo erano stati condannati all’ergastolo l’ex compagno della donna Giuseppe Cosco, i suoi fratelli Vito Sergio Cosco e Giuseppe Cosco e gli altri complici, accusati a vario titolo del sequestro, dell’omicidio e della distruzione del cadavere: Carmine Venturino, Rosario Curcio e Massimo Sabatino. Lea Garofalo era stata sequestrata
il 24 novembre del 2009 e il pm in aula, definendo “selvaggi e “vigliacchi” gli imputati, aveva raccontato le agghiaccianti fasi dell’omicidio. “Venne legata e torturata” aveva raccontato il pm in aula, poi “le hanno sparato in testa”, quindi probabilmente “dentro una fossa biologica” di un magazzino tra Milano e Monza “l’hanno sciolta in 50 litri di acido”, sorvegliando “per tre giorni” che il suo corpo arrivasse alla “totale dissoluzione”.
Carlo Cosco, il “mandante” che secondo l’accusa aveva in mente di “farla sparire” fin dal 2001 e che ci aveva già provato a Campobasso, attirò Lea e la figlia a Milano, promettendo alla ragazzina che le avrebbe comprato dei vestiti. Garofalo – che nella primavera 2009 aveva deciso di uscire dal programma di protezione per riaprire un contatto con l’ex compagno e vedere se “avrebbe potuto salvarsi” – cadde nella trappola. Nelle ultime immagini di lei in vita, filmate dalle telecamere, è sull’auto di Carlo Cosco in zona Arco della Pace a Milano. Poi le sue tracce si sono perse per sempre.
Il processo era stato al centro anche di numerose polemiche in quanto dopo la nomina a capo di gabinetto al ministero della Giustizia del presidente della corte, Filippo Grisolia, sembrava che il dibattimento dovesse riprendere da capo con il rischio di far decadere i termini di custodia cautelare per gli imputati. Le difese non avevano dato il consenso per mantenere valide le prove fino ad allora raccolte in dibattimento. Fra l’altro la figlia di Lea Garofalo, che vive tutt’ora sotto protezione, era stata costretta a tornare in aula per ribadire le accuse nei confronti del padre Vincenzo Cosco. Roberto D’Ippolito – legale delle parti civili: la sorella di Lea, Marisa, e la madre Santina Miletta – ha commentato che “il ritrovamento dei resti di Lea Garofalo rappresenta l’ulteriore drammatica conferma della fondatezza della sentenza di condanna all’ergastolo di Cosco Carlo e degli altri complici”.
Articolo del 20 Marzo 2013 da milano.repubblica.it
Il verbale dell’orrore sulla pentita Garofalo: “Bruciai il suo corpo finché rimase cenere”
di Sandro De Riccardis
Il fidanzato della figlia svela che la donna prima fu strangolata dal marito killer. Per anni si è pensato che Lea fosse stata sciolta nell’acido dalla ’ndrangheta. Il pentito rivela che il corpo fu bruciato.
MILANO – Ha visto Lea Garofalo morta, ai piedi del divano, il sangue sul viso, la corda della tenda che l’ha strangolata ancora intorno al collo. È stato per anni accanto a Carlo Cosco, l’ex marito che l’ha uccisa, ed è stato lui – insieme agli altri del clan – a bruciare il corpo in un fusto di metallo finché “non era rimasto più nulla, solo le braci”. Ora, dopo i sei ergastoli ottenuti in primo grado dal pm della dda Marcello Tatangelo, Carmine Venturino, 26 anni, ex fidanzato della figlia di Lea, Denise, ha deciso di collaborare. Di raccontare la vendetta di Carlo, il sequestro – il 24 novembre 2009 all’Arco della Pace a Milano – e la lupara bianca di quella donna che stava, tenacemente, provando a cambiare vita. Anche per Denise, che in aula ha testimoniato contro il padre. Un racconto agghiacciante – ora agli atti del processo di appello – di un assassinio brutale.
Il pentimento di Venturino
Nelle sue lettere al pm, Carmine Venturino, difeso dai legali Ilaria Ramoni e Vincenza Rando, scrive che Lea “fu uccisa materialmente da Carlo e Vito Cosco, fu strangolata dopo che Carlo si incontrò con lei all’Arco della Pace e con una scusa la portò in un appartamento”. “La mattina dopo hanno portato il cadavere nel terreno di San Fruttuoso, a Monza. Qui, già dal 25, è iniziata la distruzione del cadavere, che non è stato sciolto nell’acido, ma carbonizzato fino a dissolverlo completamente”.
Una corda attorno al collo
Venturino
arriva nell’appartamento quando Lea è già cadavere. “Abbiamo acceso la luce. Il corpo era disteso per terra nel salotto. Era a faccia in giù, in una pozza di sangue. Il viso aveva grossi lividi. Era stata strangolata, intorno al collo aveva ancora una corda verde, che io riconobbi – dice – come quella che era a casa mia e che serviva a chiudere le tende”. I carabinieri del reparto operativo di Milano, guidati dal colonnello Alessio Carparelli, hanno effettivamente trovato nella casa “il cordino verde tagliato e riannodato su se stesso”. “Io e Curcio (Rosario, altro condannato, ndr.) abbiamo messo il corpo in uno scatolone e sigillato tutto con il nastro adesivo”. Lea finisce in un box, poi a San Fruttuoso. “Carlo mi chiese se avevo la mia pomata – ricorda Venturino – . Aveva il mignolo un po’ tagliato. Disse in dialetto: “Se n’è accorta””.
Il cadavere carbonizzato
Venturino è al magazzino di San Fruttuoso. “Abbiamo preso un grosso fusto di metallo, di quelli alti dove si tiene il petrolio. Abbiamo messo il cadavere dentro spingendo il corpo in modo che non uscisse fuori, a testa in giù, dal bordo si intravedevano le scarpe. Abbiamo versato benzina e dato fuoco. A un certo punto Curcio mi ha detto che forse non bruciava perché non c’era abbastanza aria dentro, e allora con un piccone ho fatto dei buchi al fusto. Anche dopo però il cadavere si consumava lentamente”. Venturino va via, torna e vede il corpo fuori dal bidone. “Curcio lo aveva messo su dei bancali di legno che bruciavano col corpo. La testa praticamente non c’era più”. “C’erano frammenti di ossa, con una pala li abbiamo messi insieme ai pezzi di legno, nel fusto, con altra benzina che avevo portato. Alla fine il corpo era tutto carbonizzato, si vedevano solo le braci”. È Denise a riconosce in alcune foto la collana e il bracciale di Lea, “regali del padre”, una parure di oro giallo e bianco.
La fiducia di Lea in Carlo Cosco
Secondo Venturino, Carlo era riuscito a “conquistare di nuovo la fiducia di Lea”. Lui aveva mostrato “telefonate e messaggi, aveva detto che era lei a mandarglieli, erano messaggi d’amore. Io ero rimasto stupito, ne mostrò uno in cui Lea scriveva “Ninì voleva un fratellino”. Ninì era Denise”.
Denise e le altre vendette
Il pentito ascolta anche i discorsi dei Cosco su altre vendette da compiere. Parla di Carlo che avrebbe saputo dal fratello Vito che “Denise stava parlando coi carabinieri di Petilia Policastro. Carlo – dice Venturino – avrebbe detto al fratello: se fosse stato vero “noi sapevamo quel che dovevamo fare”. Venturino cercò di difendere la fidanzata. “Dissi che non era vero”. Il pentito rivela anche che “durante il processo Carlo dice di voler uccidere il figlio di Marisa Garofalo”, sorella di Lea, parte civile. “Dobbiamo tutelare chi ha contribuito alla verità – dice l’avvocato Roberto D’Ippolito, che col collega Ettore Traini assiste Marisa. “Ai clan fa paura il coraggio che le donne stanno dimostrando oggi in Calabria. La loro è una rivoluzione su decenni di omertà”.
Articolo del 9 Aprile 2013 milano.repubblica.it
Lea Garofalo, l’ex compagno in tribunale: “Mi assumo la responsabilità del delitto”
Carlo Cosco, condannato all’ergastolo in primo grado per l’omicidio della testimone di giustizia che lo aveva accusato, ammette per la prima volta la propria responsabilità. “Merito l’odio di mia figlia, spero mi perdoni”
Non disse nulla di utile alle indagini quando tutti la cercavano e dopo che lui l’aveva uccisa. Negò ogni responsabilità quando, quasi un anno dopo, venne arrestato per sequestro di persona e omicidio: era ormai chiaro che Lea Garofalo, la sua ex compagna ma soprattutto una scomoda testimone di giustizia calabrese per lui, era la vittima di un caso di lupara bianca. Tuttavia anche nel processo di primo grado l’uomo, Carlo Cosco, respinse più volte le accuse con decisione. Adesso, invece, a distanza di oltre tre anni dalla morte della donna, da lui è arrivata una clamorosa confessione. L’ennesima svolta in una vicenda terribile che sembra non avere mai fine.
Il verbale dell’orrore L’ultima passeggiata di Lea
Quasi in chiusura della prima udienza del processo d’appello, Cosco ha preso la parola per dichiarazioni spontanee e ha letto, senza accenni
di emozione, poche righe scritte in un foglio. “Mi assumo la responsabilità dell’omicidio di Lea Garofalo”, ha esordito l’uomo davanti ai giudici della prima sezione della Corte d’assise d’appello di Milano. Ad ascoltarlo, in un corridoio vicino all’aula, c’era sua figlia, Denise Garofalo, 21 anni, che vive da quasi tre anni sotto protezione, dopo aver accusato apertamente proprio il padre per l’uccisione della madre Lea, fornendo un contributo fondamentale alle indagini, tanto che si è anche costituita parte civile contro di lui.
“Io adoro mia figlia – ha affermato Cosco – merito il suo odio perché ho ucciso sua madre”. Poi un strano riferimento all’inutilità e alla “incomprensibilità” del programma di protezione a cui è sottoposta Denise: parole che possono sembrare anche inquietanti, perché vengono da un uomo che è ritenuto dagli inquirenti legato a una cosca della ‘ndrangheta calabrese. ‘”Io darei la vita per mia figlia – ha aggiunto – Guai a chi la sfiora, prego di ottenere un giorno il suo perdono”. Denise è rimasta “sorpresa” dalla confessione del padre. Tuttavia, come ha spiegato il suo legale, l’avvocato Vincenza Rando, quelle “poche parole non bastano”. La ragazza si attende che l’uomo “dica tutta la verità” per chiarire anche quale ruolo hanno avuto gli altri imputati nell’uccisione.
Lea Garofalo venne sequestrata in pieno centro a Milano il 24 novembre del 2009 e poi uccisa – secondo la ricostruzione dell’accusa in primo grado – con un colpo di pistola e con il corpo poi sciolto nell’acido (il cadavere non venne mai trovato). Ammazzata perché, stando alle indagini, aveva raccontato agli inquirenti calabresi fatti di sangue di una faida di ‘ndrangheta. Il 30 marzo 2012 per l’ex compagno Carlo Cosco, per i fratelli di lui, Giuseppe e Vito, e per Rosario Curico, Massimo Sabatino e Carmine Venturino arrivarono sei ergastoli. A luglio, però, dopo oltre tre mesi dalla sentenza, Venturino, anche ex fidanzato di Denise, decise di parlare con il pm della Dda milanese Marcello Tatangelo. Lea Garofalo – mise a verbale il pentito – venne “uccisa materialmente da Carlo e Vito Cosco”, strangolata con la corda di una tenda. “Dal 25 (novembre 2009) – ha chiarito il pentito – è iniziata la distruzione del cadavere, che non è stato sciolto nell’acido, ma carbonizzato fino a dissolverlo completamente”. Venturino stesso partecipò, stando proprio al suo verbale, alla distruzione del corpo assieme a Rosario Curcio.
La versione del pentito, dunque, scagionerebbe Giuseppe Cosco e Massimo Sabatino. In quei nuovi interrogatori, però, Venturino spiegò che Carlo Cosco aveva in mente di uccidere anche sua figlia Denise. Un dettaglio che secondo l’avvocato Rando è in netto contrasto con le affermazioni di oggi sul fatto che la “figlia non è in pericolo”. Per Marisa Garofalo, sorella di Lea, Carlo Cosco deve sapere “che nessuno lo perdonerà mai per quello che ha fatto: né Denise né io né tutti i miei parenti”.
Giovedì prossimo i giudici decideranno se riaprire o meno il processo con l’ascolto in aula della deposizione di Venturino. Scelta che pare scontata, vista l’evidenza delle “nuove prove” da lui fornite sul modo in cui è stata uccisa Lea. Il pm Tatangelo ha chiesto anche, fra le altre cose, di sentire due medici legali che hanno redatto una “consulenza archelogico-antropologico forense” su resti di ossa ritrovati in un magazzino tra Milano e Monza, dopo le dichiarazioni del pentito. “Vi è la certezza che quelle ossa rinvenute siano di Lea Garofalo”, ha detto il magistrato.
Articolo dell’11 Aprile 2013 da ilfattoquotidiano.it
Omicidio Garofalo, il pentito: “Le spaccavamo le ossa mentre bruciava”
Carmine Venturino, ex fidanzato di Denise la figlia della vittima, ai giudici d’appello – che hanno disposto una perizia genetica sui racconti – ha detto che Carlo Cosco, che ieri si è assunto la responsabilità del delitto, voleva uccidere anche la ragazzina
Un pentimento per amore. Carmine Venturino spiega così la sua scelta di collaborare e raccontare la verità sulla morte di Lea Garofalo, la testimone di giustizia, massacrata nel novembre del 2009 e bruciata “finché non rimase che cenere”. Venturino, ex fidanzato di Denise figlia di Lea, era stato condannato come tutti gli altri imputati il 30 marzo del 2012 scorso all’ergastolo.
“Ho fatto questa scelta per amore di Denise, perché sapesse come sono andate le cose nell’omicidio di sua madre, perché Denise occupa il primo posto nel mio cuore” ha detto in aula l’uomo al processo d’appello davanti ai giudici della corte d’Assise d’Appello di Milano. Nei mesi scorsi, Venturino aveva raccontato che la donna non venne sciolta nell’acido ma carbonizzata. Lo scorso luglio, a tre mesi di distanza dal verdetto di primo grado, aveva svelato nuovi particolari sul sequestro e sull’omicidio della vittima.
Oggi i giudici d’appello, accogliendo la richiesta del pm Marcello Tatangelo (che aveva sostenuto l’accusa anche in primo grado, ndr) e di alcuni difensori, hanno deciso di riaprire il dibattimento di secondo grado con l’esame in aula del pentito. “Per me oggi è un giorno difficile perché dovrò di nuovo accusare e accusarmi di aver ucciso la mamma di Denise che occupa il primo posto nel mio cuore e dovrò accusare persone con cui ho condiviso tre anni della mia vita”. Nella scorsa udienza Carlo Cosco, ex compagno di Lea, a oltre tre anni di distanza dall’omicidio, aveva confessato in aula di aver ucciso Lea. “Carlo Cosco è uno ‘ndranghetista – ha spiegato Venturino – ed ha sempre avuto il progetto di far sparire Lea”. Per questa vicenda“io ho perso Denise e sono molto provato”. Denise è parte civile nel processo contro il padre ed è sotto protezione da anni ed assiste all’udienza – nascosta – in un corridoio vicino all’aula. Nel processo di primo grado ha testimoniato e accusato gli assassini di sua madre.
I giudici, decidendo la riapertura del processo, hanno anche disposto una perizia sui profili genetici trovati sui resti trovati in un magazzino nel Monzese. La scorsa estate gli inquirenti e agli investigatori, dopo l’inizio della collaborazione di Venturino, hanno rintracciato alcuni resti della donna. I giudici hanno dato l’incarico ad un perito che dovrà discutere la sua relazione nell’udienza del prossimo 15 maggio. Il perito dovrà valutare “la compatibilità” tra i profili genetici trovati e quelli della figlia di Lea Garofalo, Denise. I giudici hanno anche deciso che vengano ascoltati nelle prossime udienze anche due consulenti medici che hanno effettuato accertamenti sui resti della donna, un ispettore che ha svolto le nuove indagini e Denise per riconsoca gli oggetti (alcuni monili) ritrovati accanto ai resti della mamma.
Il collaboratore ha raccontato in aula particolari raccapriccianti del delitto: “Mentre il corpo bruciava, spaccavamo le ossa con una pala. Le era entrata nella carne e lei aveva molti colpi in faccia, una parte della faccia era schiacciata”. Venturino ha raccontato del momento in cui vide, assieme a Rosario Curcio, un altro imputato, il cadavere di Lea in un appartamento dopo che la donna era stata uccisa da Carlo Cosco e dal fratello Vito. “Aveva dei colpi in faccia, i vestiti strappati sul petto e un laccio verde sul collo con cui era stata strangolata – ha spiegato -, c’era del sangue, aveva preso molti colpi in faccia, e la corda aveva lacerato la carne”. Lui e Curcio misero il corpo “in uno scatolone” e nei due giorni successivi in un magazzino nel monzese lo bruciarono e fecero sparire i resti.Ma non solo; Carlo Cosco, dopo avere ucciso Lea avrebbe avuto anche l’intenzione di ammazzare la loro figlia, Denise, perché dopo l’omicidio la giovane stava parlando con gli investigatori: “Se sono vere queste dichiarazioni che sta facendo, fate quello che dovete fare”.
‘ HO UCCISO IO LEA GAROFALO’. CONFESSA L’ EX COMPAGNO
TGLA7: Per la prima volta, nel processo di appello, Carlo Cosco, già condannato all’ ergastolo, ammette l’ assassinio. Ma la sua confessione non scioglie tutti i dubbi.
Articolo del 17 Ottobre 2013 da milano.repubblica.it
Milano si inchina a Lea Garofalo.
La figlia: onorate il suo coraggio
di Attilio Bolzoni
Funerali in piazza per la donna bruciata dai boss. “Mia madre ha avuto il coraggio di dire no alla mafia. Ricordatela per la giustizia di tutti”. La testimonianza di don Ciotti: “Abbiamo un debito con lei. Il problema è chi tace e lascia fare”.
Figlia di un boss, sorella di un boss e sposa di un boss, volevano cancellarla per sempre dalla faccia dalla terra. Aveva parlato. Volevano farla diventare niente, cenere. Di lei sono rimasti duemilaottocentododici frammenti ossei recuperati in un tombino. Scomparsa nel silenzio, uccisa con il fuoco in una Milano indifferente, una donna calabrese viene celebrata quattro anni dopo in quella stessa città che l’aveva inghiottita. Lea Garofalo sarà ricordata sabato 19 ottobre, a Milano, con un funerale laico e solenne, a due passi dal Duomo.
Storia di Lea. E di sua figlia Denise, che doveva avere il destino della madre perché aveva parlato anche lei e il padre aveva deciso come decidono quelli della sua razza. E dei Cosco di Petilia Policastro, uomini di ‘ndrangheta e di vendette. Storia anche di una Milano che s’inchina davanti al coraggio di una ragazza che non ha fatto finta di non vedere e di non sentire. “Lea, figlia di Milano”, ha titolato un quotidiano locale. Quattro anni, quattro anni che sembrano un secolo. Che cosa pensavano questi Cosco? Che sarebbero stati al riparo, intoccabili per l’eternità? Pensavano che i resti di Lea non si sarebbero trovati mai, che quella donna era solo e soltanto “loro”, un affare di famiglia?
La vita e la morte di Lea, torturata e poi bruciata alle spalle di un capannone alle porte di Monza nell’autunno del 2009, entra in una cerimonia pubblica, diventa memoria, le bandiere del Comune di Milano – che già si è costituito parte civile nel processo contro gli assassini – e quelle di Libera, il sindaco Giuliano Pisapia e don Luigi Ciotti, l’associazione partigiani d’Italia, gonfaloni dal Molise, dal Piemonte, dalla Calabria, dalla Brianza. Tutti in piazza Beccaria, alle dieci del mattino. Ci sarà, confusa fra la folla, anche Denise, la figlia di Lea, anche lei testimone di giustizia come la madre. Dal suo rifugio segreto lancia un appello, vuole in tanti a Milano. Otto righe che dicono tanto, tutto: “Lea, la mia cara mamma, ha avuto il coraggio di ribellarsi alla cultura della mafia, la forza di non piegarsi alla rassegnazione. Il suo funerale pubblico, al quale vi invito, è un segno di vicinanza non solo a lei, ma a tutte le donne e uomini che hanno rischiato e continuano a mettersi in gioco per la propria dignità e per la giustizia di tutti”.
Quel che rimane di Lea Garofalo è arrivato all’obitorio civico di Milano, in una teca di zinco. Il primo a parlare a questi funerali così speciali per Lea e per Milano sarà Luigi Ciotti: “Abbiamo un debito con lei, abbiamo un debito con chi non c’è più e con chi è rimasto solo, ma il nostro problema più grande resta un altro: chi guarda e sta in silenzio, chi lascia fare”. Era cominciata così – lasciando fare – la spaventosa fine di Lea. Giovanissima, negli anni Novanta, si era innamorata di Carlo Cosco, un suo paesano, tutti e due della provincia di Crotone. Emigrano insieme a Milano, lui comincia a frequentare gli spacciatori di Quarto Oggiaro, uno dei tanti gironi della ‘ndrangheta esportata in Lombardia. Intanto nasce Denise, e intanto Carlo Cosco diventa sempre di più un piccolo capo del crimine.
Dopo qualche anno, Lea non ce la fa più. E lo lascia. Decide anche di collaborare con i giudici, raccontando le trame e i delitti dei suoi parenti (padre e un fratello uccisi) e quelli dei Cosco. Una pentita. E da pentita scompare per molto tempo. Poi, un giorno, Carlo Cosco viene a sapere dove abita – a Campobasso – e le manda un sicario, Massimo Sabatino, travestito da idraulico. Lea è con Denise, si salvano. È il maggio del 2009. Ma pochi mesi dopo cade in un’altra trappola. Carlo Cosco chiede di rivederla “per amore di nostra figlia”, lei accetta. È la sera del 24 novembre del 2009. È l’ultima sera di Lea. Milano, zona Arco della Pace, ore 18,30. Le telecamere dei negozi sono puntate sulle strade e riprendono in diretta il rapimento, una lupara bianca nel centro della città. Lea – che ha trentacinque anni – passeggia insieme con la figlia Denise – che di anni ne ha diciassette – in attesa di Carlo Cosco. Ore 18,35, madre e figlia si separano, Denise va con il padre e Lea si allontana verso la stazione centrale.
Ore 18,37, Lea viene ripresa per l’ultima volta dalle telecamere in fondo a Corso Sempione. Un attimo dopo la caricano su un furgone. Da quel momento Lea non esiste più. “È in vacanza in Australia”, dicono gli avvocati dei Cosco, quando arriva una denuncia “per sequestro di persona”. Lea è già morta. Portata in un magazzino, seviziata e “interrogata” dal padre di sua figlia per scoprire cosa aveva raccontato ai magistrati, poi la uccidono. In un primo momento Carlo Cosco prova a difendersi dicendo che non è stato un omicidio di ‘ndrangheta ma d’impeto, che i pentiti “stanno costruendo castelli di sabbia”.
In un primo momento gira anche la voce che Lea sia stata sciolta nell’acido, ma la verità su di lei affiora all’improvviso. Con un racconto dell’orrore di Carmine Venturino, un ragazzo che il padre di Denise ha spinto a corteggiare la figlia. Per controllarla, spiarla. Poi i due si fidanzano. Poi ancora Carmine confessa come è stata uccisa veramente Lea: legata, strangolata, bruciata in un bidone. I suoi resti ritrovati in quel tombino, un anno fa. Carlo Cosco voleva anche la morte della figlia, Denise stava parlando anche lei. Un’altra ribelle che Milano vuole onorare.
Articolo del 18 dicembre 2014 da milano.repubblica.it
Lea Garofalo, la Cassazione conferma i quattro ergastoli: c’è anche l’ex marito della vittima
Insieme con Carlo Cosco sono stati condannati al carcere a vita Rosario Curcio, Massimo Sabatino e Vito Cosco. Il corpo della donna venne bruciato nel 2009 e i resti furono trovati solo nel 2012.
Quattro ergastoli e 25 anni al quinto imputato. Si chiude con le più severe delle condanne il processo per la scomparsa, l’omicidio e la distruzione del cadavere di Lea Garofalo, la testimone di giustizia calabrese che aveva raccontato agli inquirenti fatti di una faida di ‘ndrangheta, uccisa e bruciata a Milano nel 2009. La Cassazione ha confermato le responsabilità di tutti e cinque gli imputati: il compagno Carlo Cosco, il fratello di questi Vito, Rosario Curcio e Massimo Sabatino sconteranno il carcere a vita. La pena più bassa è quella per Carmine Venturino, ex fidanzato della figlia di Lea, Denise, che in appello aveva ottenuto uno sconto per la collaborazione nel ritrovamento dei resti della donna.
Quello di Lea Garofalo fu un omicidio orchestrato con metodi e motivazioni mafiose per “cancellarla”, un caso di lupara bianca nei confronti di una donna che aveva scelto una strada diversa. “Oggi per me spero si chiuda un ciclo della vita e se ne apra un altro”, ha detto Denise Cosco incontrando in mattinata la presidente della Camera, Laura Boldrini. “Denise – ha scritto Boldrini quando ha appreso l’esito del processo – è già un emblema di coraggio e determinazione contro la sopraffazione mafiosa e di genere. Una violenza che, come dimostra questa sentenza, si può combattere e vincere”.
Secondo la Cassazione non ci fu alcun raptus, come in una tardiva e parziale confessione nel processo davanti alla Corte d’assise d’appello di Milano aveva sostenuto Carlo Cosco, sperando di evitare l’ergastolo e di scagionare i suoi sodali. Nell’udienza davanti alla prima sezione penale, il 5 dicembre, Cosco attraverso il proprio avvocato aveva avanzato nuovamente la richiesta di escludere l’aggravante della premeditazione. Il collegio si era riservato sulla decisione e oggi si è pronunciato per il rigetto dei ricorsi di tutti gli imputati. Confermando, quindi, quanto ricostruito dai giudici milanesi.
Cosco aveva preparato da anni il piano: Lea Garofalo doveva essere tolta “dalla faccia della terra non solo uccidendola, ma anche disperdendone ogni traccia materiale” perché lui non aveva mai “accettato” le sue “scelte” di “libertà” sia “rispetto alle regole di vita familiare sia rispetto a quelle imperanti in ambito criminale”: aveva ricostruito così il movente la sentenza d’appello. La donna, secondo la dichiarazione di Venturino, era stata strangolata con un cordino da Carlo Cosco e il suo corpo era stato dato alle fiamme. E i giudici non hanno escluso che “prima di essere bruciato e sbriciolato il corpo sia stato immerso in sostanze corrosive”. Tesi che confermerebbe parzialmente quanto accertato nel processo di primo grado, nel quale l’ipotesi era che la donna, della quale non era stata ancora rinvenuto il cadavere, fosse stata sciolta nell’acido.
I pochi resti sono stati rinvenuti in un tombino, in Brianza, nel novembre 2011, tre anni dopo la sua scomparsa. La Cassazione ha anche condannato gli imputati al pagamento delle spese processuali e al risarcimento alle parti civili, fra cui la figlia Denise e il Comune di Milano, città dove Lea voleva costruirsi una nuova vita, ma dove non è riuscita a scampare alla morte. “A Lea Garofalo le istituzioni e gli italiani devono ancora tanto. Ecco perché il modo migliore per ricordarla è approvare al più presto una legge che garantisca i testimoni di giustizia e le loro famiglie”, ha detto Giuseppe Lumia, componente della commissione parlamentare Antimafia.
Il coraggio di dire no. Lea Garofalo la donna che sfidò la ‘ndrangheta
di Paolo De Chiara
Editore: Treditre Editori, 2018
La drammatica storia di una fimmina ribelle calabrese che ha alzato la testa, non girandola dall’altra parte. Nata in un contesto di ‘ndrangheta, ha sentito il puzzo della criminalità organizzata sin dalla culla. Sua nonna, davanti ai morti ammazzati della sua famiglia, ripete in continuazione: «il sangue si lava con il sangue». Ma la giovane Lea è diversa, non è fatta di quella pasta. Capisce che l’unica strada da seguire è quella della Giustizia e si affida allo Stato. Il 24 novembre 2009, a Milano, dopo altri numerosi tentativi falliti, sei uomini si scagliano vigliaccamente contro una donna. Non solo a uccidono brutalmente in un appartamento ma ne devono cancellare anche il corpo, la bruciano, infatti, dentro un bidone in provincia di Monza. Ma non riusciranno a cancellare la memoria di una eroina che ha avuto la forza e il coraggio di dire No e che per questo ha vinto la sua battaglia: il clan è stato annientato con gli ergastoli. Oggi, Lea Garofalo, è ricordata in molte piazze, in molte città, in molte scuole. Perché la memoria, nel Paese senza memoria, è di vitale importanza. All’interno foto e documenti inediti.
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vivi.libera.it
Lea Garofalo
Milano è la città in cui Lea si trasferisce ancora giovanissima, la città in cui spera di costruire la sua vita, di far nascere sua figlia per farla crescere come una donna libera. La stessa città dove si sarebbe consumato il suo tragico destino.