28 Settembre 1992 Castellammare del Golfo (TP). Ucciso Paolo Ficalora, proprietario di un villaggio turistico. Si era opposto alle prevaricazioni mafiose.

Foto dalla figlia Tiziana (per gentile concessione di Dedicato alle vittime delle mafie)

Paolo Ficalora, capitano di lungo corso, venne ucciso dalla mafia il 28 settembre del 1992 e per lungo tempo la sua morte, rimasta senza colpevoli e movente, lasciò spazio a supposizioni e illazioni.
A raccontare i veri motivi del suo assassinio è stato, nel corso del processo, l’ex boss di San Giuseppe Jato, Giovanni Brusca, collaboratore di giustizia. Paolo Ficalora fu vittima innocente di un agguato mafioso, concepito per punirlo per avere ospitato nel residence che gestiva, il superpentito di Cosa Nostra Totuccio Contorno, e per aver ‘osato’ tenere testa alla mafia, non piegandosi dinanzi l’arroganza di chi, sentendosi Dio in terra, si fa padrone della vita e della morte di Uomini i cui valori e coraggio, possono essere annullati solo annegandoli nel sangue. Paolo Ficalora, del suo ospite ignorava l’identità che scoprì solo successivamente.
Morì, assassinato vigliaccamente dal mafioso Gioacchino Calabrò.
Nel 2002, la vedova Ficalora, che per anni si era battuta per ottenere giustizia per la morte del marito subisce anche un’intimidazione: su un tavolo della sua abitazione trova un mazzo di fiori e alcuni proiettili.
La Corte d’Assise d’Appello di Palermo ha confermato la sentenza di condanna all’ergastolo per Calabrò, emessa in primo grado e condannato a dodici anni di reclusione con il rito abbreviato Giovanni Brusca. La sentenza ha trovato conferma definitiva in Cassazione nel 2004.
Al capitano Paolo Ficalora sono state intitolate quattro borse di studio. Il comune di Castellammare del Golfo, nel 2004, gli ha intitolato una strada. (Fonte: Lavalledeitempli.net)

 

 

Biografia dalla figlia Tiziana
per gentile concessione di Dedicato alle vittime delle mafie (pagina Facebook)

Paolo Ficalora, ucciso dalla mafia in Castellammare del Golfo il 28.09.92

In ogni contesto sociale vi sono uomini che, per le scelte di vita effettuate, hanno il dovere di avere coraggio, altri, invece, hanno il diritto di avere paura.
Grande è il merito dei primi che non si tirano indietro neppure a costo del massimo dei sacrifici in nome delle loro scelte, ma ancora più grande è il merito dei secondi quando affrontano impavidi i loro assassini difendendo la loro dignità di Uomini liberi.
Paolo Ficalora è stato uno di questi.
Nasce a Castellammare del Golfo il 20 Agosto 1933, primogenito di tre figli, in seno ad una famiglia modesta ma dignitosa, che assicura ai figli una vita serena ed una sana educazione.
Ha, sin dall’infanzia, un rapporto particolare con il mare, elemento che, negli anni, diverrà indispensabile alla sua esistenza.
Ultimata la scuola media a Castellammare, si iscrive presso l’Istituto Tecnico Nautico di Palermo, poi di Trapani, ove consegue, alla fine dei cinque anni di studio regolari, il diploma di Aspirante Capitano di lungo corso.
Finito il servizio militare, intraprende la carriera nella Marina Mercantile che lo porta al comando delle navi petroliere, in un tempo abbastanza breve, ma a prezzo di indiscrivibili rinunzie, sacrifici, privazioni di affetti a causa dei lunghi periodi di imbarco.
E’, così, costretto a lasciare, per il lavoro, la figlioletta a quaranta giorni dalla nascita, per riabbracciarla (dopo un lungo periodo  di imbarco, durante il quale ha la promozione a Primo Ufficiale) all’età di due anni, non vede nascere il suo secondo figlio e non è a casa quando, nel marzo del 1968 muore il padre, cui è particolarmente legato.
Non manca, però, di inculcare ai figli Piera, Maria, Tiziana ed Angelo, nati dal matrimonio con Vita D’Angelo, i valori della vita in cui egli crede: disciplina, doveri di buon cittadino, onestà, libertà di pensiero.
Nel 1968 viene licenziato solo per aver preteso di far valere i suoi diritti di lavoratore, che riesce comunque ad affermare dopo un lungo ma vittorioso contenzioso legale.
Nel 1978, forse stanco di peregrinare, decide di tornare a Castellammare del Golfo, paese d’origine dove la famiglia possiede un terreno; utilizzando i risparmi di una vita di duro lavoro ed i proventi della vendita di alcuni beni di famiglia, costruisce alcune unità abitative nel predetto terreno ed intraprende una piccola attività imprenditoriale nel settore del turismo.
A Castellammare, Paolo Ficalora, socialista utopista ma uomo libero, mantiene la propria indipendenza da ogni appartenenza politica e disapprova, pubblicamente, quando lo ritiene giusto, l’operato di certa politica.
Paolo, che, da marinaio, ha mantenuto alto il senso del dovere e dell’onestà rifugge dai compromessi ed assume, nei confronti della prevaricazione  mafiosa, di cui in quell’ambiente all’epoca era forte la presenza, palese atteggiamento di rivolta.
Prende posizione pubblicamente a favore dello Stato e di chi, per Esso, operava con assoluta coerenza anche fino alla morte.
Subisce, perciò, da parte di occulti criminali, una sorda e costante persecuzione: furti, incendi dolosi ed altri fatti descritti negli atti giudiziari.
Egli, che aveva affrontato e superato le intemperie dei mari di tutto il mondo, si trova a resistere solo (abbandonato anche dai parenti più stretti della sua famiglia d’origine) alla mafia ed alla illegalità.
Nel resistere alle pressioni mafiose da semplice cittadino, in un paese ove la prevaricazione mafiosa era la regola, soltanto perché, con il suo comportamento da uomo libero, dimostrava che era possibile ribellarsi al sistema consolidato della prevaricazione e della violenza.
Come sempre accade nei delitti di mafia, si è tentato con il più infame degli strumenti, la calunnia, di infangarne la memoria anche al fine (per troppo tempo, di fatto, raggiunto) di demotivare le indagini.
Come ha scritto il G.U.P. che ha condannato uno degli assassini “di certo al Capitano Ficalora si è, per oscuri motivi, voluto infliggere un supplizio ben più grave di quello estremo dallo stesso subito, tormento che, travalicando i limiti della esistenza umana, avrebbe coinvolto quanto di più nobile un uomo può avere: la dignità e l’orgoglio della propria onestà morale”.
Si è tentato altresì, con l’isolamento e la disapprovazione, di impedire all’eroica vedova di difendere la memoria del marito.
Il tentativo non è riuscito e, finalmente, dopo più di un decennio, un Giudice ha riconosciuto, non solo la falsità delle calunnie insinuate nei confronti della vittima, ma i meriti di chi, da sola, nell’ostilità o, nella migliore delle ipotesi, nell’indifferenza generale, ha impavidamente lottato alla ricerca della verità.
Orbene se è vero, com’è vero, che la lotta alla mafia non può prescindere dalla formazione di una contrapposta cultura della legalità contro la violenza e la prevaricazione mafiosa, in tale ottica, non solo debbono essere ricordati, ma esaltati e portati ad esempio per le future generazioni soprattutto quegli uomini che, senza avere un obbligo istituzionale, in nome della loro dignità di uomini liberi quotidianamente non accettano il giogo mafioso.

 

 

 

Articolo del 28 Settembre 2010 da gliitaliani.it
18 ANNI FA, L’OMICIDIO DI PAOLO FICALORA
di Sebastiano Gulisano

Avete mai visto la lama della falce della Morte
sfiorarvi e tagliare la vita della persona che più amate?
Io sì, io l’ho vista.
Vita D’Angelo Ficalora

1. Un morto di “serie B”
La serata è afosa, sebbene sia quasi mezzanotte e la piacevole brezza che spira dal mare attenui la calura estiva. La Peugeot 205 procede stancamente seguendo la luce dei fari mentre illuminano il viottolo che porta al Villaggio del Capitano, un complesso turistico in contrada Ciauli, nel comune di Castellammare del Golfo, alle porte della riserva naturale dello Zingaro. Alla guida dell’auto c’è il capitano della marina mercantile Paolo Ficalora, accanto a lui la moglie, Vita D’Angelo. Tornano da un’insolita cena, frutto d’un invito inatteso, a casa del loro commercialista.
«Ecco, siamo di nuovo al ranch, sei contenta?», chiede l’uomo fermando l’auto davanti all’ingresso del villaggio. Lei lo guarda, gli sorride, poi apre lo sportello e scende per aprire il cancello. E scoppia l’inferno: uno due tre spari… Infine, il colpo di grazia. Poi la notte inghiotte i sicari. Mentre la donna si dispera. È lunedì 28 settembre 1992.
«Voglio solo che mio marito sia riconosciuto vittima innocente della mafia. Non mi interessano i risarcimenti economici, ma pretendo che lo Stato certifichi la sua completa estraneità alla mafia». Le ci sono voluti più di dieci anni, ma alla fine c’è riuscita, la signora D’Angelo Ficalora, a restituire l’onore al marito assassinato. Almeno l’onore. La vita se la sono presa due killer di Cosa nostra, quella notte di fine settembre.
«Morto nella guerra tra clan rivali», scrivono i giornali del giorno dopo. «Morto nella guerra tra clan rivali», annunciano i Tg delle tv locali. «Morto nella guerra tra clan rivali», s’intestardiscono gli investigatori.

Prima ti ammazzano, poi ti diffamano. Una tecnica più che collaudata.«Tutto perché è stato ucciso con la stessa pistola che qualche tempo prima aveva ammazzato un mafioso ad Alcamo», ricorda la signora. E aggiunge, volutamente provocatoria: «Perché nessuno hai mai detto che il generale dalla Chiesa era mafioso? Non lo hanno forse assassinato con lo stesso kalashnikov col quale avevano ammazzato il boss Alfio Ferlito?!». Già, perché? Forse perché ci sono morti di seria A e morti di serie B. E il capitano Ficalora rientrerebbe in questa seconda categoria.

2. Una tranquilla famigliola
Quattro anni prima, proprio sul finire del 1988, un conoscente aveva chiesto ai Ficalora se fossero disposti ad affittare una villetta del ranch a una famiglia di suoi amici – marito, moglie e due bambini – che aveva l’esigenza di venire ad abitare in zona: stavano finendo di costruire la casa dove sarebbero andati ad abitare, su un terreno di loro proprietà, nei pressi di Calatafimi, a una ventina di chilometri di distanza.
Il capitano quelle dieci villette le ha costruite in altrettanti anni, proprio per affittarle e, dunque, è felice di avere degli inquilini anche in inverno. Sebbene la cosa sia insolita, quella coppia sembra gradevole, e i due bambini – un ragazzino e una ragazzina – li rendono anche rassicuranti: lui, Agostino D’Agati, 33 anni, è un imprenditore agricolo di Villabate, nel Palermitano; lei, Gioacchina Mancarella, 29 anni, è figlia di un costruttore edile, Pietro, la cui impresa sta edificando la casa in cui dovrebbero trasferirsi. Così gli dicono. La famiglia D’Agati pur abitando a un centinaio di chilometri di distanza, vuole seguire personalmente i lavori e restare unità, perciò intende abitare vicino.
Come di consueto, i Ficalora segnalano al commissariato di polizia di Castellammare la presenza della famiglia D’Agati in una delle villette di loro proprietà; gli agenti annotano la locazione nell’apposito registro.
I Ficalora durante l’inverno abitano a Palermo, dove la signora D’Angelo è direttrice didattica in una scuola elementare; però la domenica, specie se il tempo è bello, vanno volentieri al ranch. Vuoi perché hanno subìto vari danneggiamenti, vuoi perché c’è quella famigliola. Tre o quattro volte, tra gennaio e marzo dell’89, trovano un paio di persone che i D’Agati gli presentarono come «parenti», tali Gaetano e Salvatore. Gaetano, tra l’altro, è fissato con la caccia e il capitano, condividendone la passione, si ritrova a chiacchierare amabilmente con lui.
A metà maggio i D’Agati “completano la casa”, dicono, e lasciano il ranch.
Non li rivedranno più.
Non di persona, almeno.

3. Il Trapanese è un “buco nero”
Castellammare del Golfo è in provincia di Trapani, terra di mafia, di massoneria, di logge coperte, di servizi segreti. A due passi da Castellammare, nell’85, è stata scoperta la più grande raffineria d’eroina mai individuata in Europa; poco più in là operava la cellula siciliana della Gladio; da quelle parti c’è la pista d’atterraggio servita per i più loschi traffici internazionali. La stessa pista che compare nell’inchiesta sull’omicidio di Mauro Rostagno, la cui scoperta potrebbe essergli costata la vita. Trapani è la provincia dei misteri, della loggia segreta Iside 2, inaugurata da Licio Gelli. Trapani è un “buco nero” sul quale le indagini sono sempre rimaste in superficie; è la patria di un pezzo di Cosa Nostra ancora più potente di quella palermitana, «un luogo dove la mafia ha in tutti i sensi un controllo capillare del territorio», sosteneva il giudice Giovanni Falcone.
«Da Castellammare partono più telefonate per gli Stati Uniti che per il resto d’Italia», mi confidò anni fa un investigatore che aveva fatto parte della Mobile della questura di Palermo al tempo di Beppe Montana e Ninni Cassarà. E per essere certo che avessi colto la vera essenza di quel particolare – le telefonate – mi ricordò i consolidati, secolari legami tra le famiglie mafiose del luogo e quelle degli States.
Nel 2003 il pentito Nino Giuffrè ha messo a verbale una storia che ha dell’incredibile. I picciotti di New York, negli anni Ottanta, erano diventati delle vere pappamolle, indegni della tradizione di Cosa Nostra. I vecchi boss newyorchesi decisero allora che, affinché diventassero veri uomini d’onore, c’era bisogno di mandarli a scuola di mafia. Dove? A Castellammare del Golfo. Roba da film. I magistrati palermitani che hanno interrogato il pentito forse hanno pensato la stessa cosa: roba da film. Ma con lo scrupolo che li contraddistingue, decidono di verificare. E dagli Usa arriva la conferma. Fonte: Fbi.

4. I “consigli” del capitano dell’Arma
Dopo una trentina d’anni trascorsi a bordo di navi di ogni stazza, dopo avere solcato buona parte dei mari del pianeta, il capitano Paolo Ficalora, a 52 anni, nel 1987, decide che è giunto il momento di restare coi piedi all’asciutto. Smette di navigare, vende i due appartamenti che aveva acquistato a Messina e si dedica al ranch. È un uomo tutto d’un pezzo, il capitano, uno che non sopporta le prepotenze, uno dei tanti senza padroni e senza padrini. Un cane sciolto. Ha faticato tutta la vita, ha tirato su le villette mattone dopo mattone: i terreni – trentacinquemila metri quadri a due passi dal mare – li aveva ereditati la signora D’Angelo, i soldi li hanno raggranellati piano piano, anno dopo anno, un imbarco dopo l’altro, uno stipendio dopo l’altro, un prestito dopo l’altro. Anche con l’aiuto dei due figli.
Ficalora, da anni, riceve pressioni affinché venda il suo ranch; ha subìto incendi, danneggiamenti, furti, ma non ha ceduto. Gli hanno persino ucciso il fedele pastore tedesco. Ha resistito.
Quell’area fa gola a tanti. È in una zona incantevole dal punto di vista paesaggistico: alle spalle la riserva dello Zingaro, di fronte il mare Tirreno. A Castellammare il piano regolatore generale è di là da venire e con una piccola variante quei terreni possono diventare un’autentica miniera, se intendi edificare. Altro che le dieci villette monofamiliari immerse tra i pini e gli ulivi. È ciò che pensa, probabilmente, chi vuole mettere le mani su quell’area.
«Negli ultimi tempi mio marito era preoccupato; lui che era sempre allegro, dalla battuta facile, sarcastico, pungente, reagì con stizza quella volta che gli chiesi cosa lo angustiava. Tu non sai le preoccupazioni che ho, mi disse. E poi silenzio. Io pensai che fosse preoccupato per le spese che avevamo affrontato, perché avevamo chiesto dei prestiti ai nostri figli per completare le ultime tre villette. Non potevo immaginare… Così come non capii quando mi chiese: Se dovessi morire, tu che faresti? Io lo guardai incredula e gli rigirai la domanda: e tu cosa faresti, se morissi io? Io resterei, fu la sua risposta». Mastica amaro la vedova Ficalora. Ma non smette di raccontare.
Racconta di quell’ufficiale dei carabinieri che un giorno va a trovarla e le dice che se suo marito non è ancora stato riconosciuto vittima innocente della mafia era perché «loro sono dappertutto». Loro chi? «Ma non ho avuto la prontezza di spirito per chiederglielo», ammette la signora. «Insieme a me c’erano mia figlia e suo marito. Viene a trovarmi questo capitano dei carabinieri per spiegarmi che io devo dare il giusto peso alle cose, devo scegliere: o le cose o la vita. Io gli ho risposto che le cose non mi interessano, ma che qui c’è il sangue di mio marito e io ho il dovere di restarci. E lui: Sì, lei dice così, però quando toccheranno i suoi figli lei si calerà anche le mutande. Questo, un capitano dei carabinieri, mi viene a dire. Io sono andata a fare la mia bella denuncia al magistrato. Ma il capitano è rimasto al suo posto».
Sono trascorsi dieci anni dalla prima volta che ci ho parlato, con la signora D’Angelo. Era presente anche la figlia, 32 anni, funzionaria in un ente pubblico. Sono andato a rileggermi gli articoli che ho scritto. Nel primo – gennaio 1995 – annoto: «Parlano anche di quello strano inquilino, uno che i magistrati conoscono bene, che ha abitato in una delle loro villette, durante i primi mesi del 1989. Non sapevano chi fosse, lo hanno scoperto dopo, vedendolo sui giornali, spiegano madre e figlia. Non dicono di più. I magistrati non vogliono». Ci ho messo cinque mesi a capire chi fosse quell’uno che i magistrati conoscono bene.

5. Buscetta: «Gli chiesero di tornare»

La sera del 26 maggio del 1989 tutti i telegiornali aprono con la crisi di governo; a seguire, una clamorosa notizia: «Arrestato il pentito Contorno». E i giornali dell’indomani non sono da meno. Quelli siciliani, puntano direttamente sul «Pentito con licenza di uccidere».
Ai magistrati che lo interrogano dopo l’arresto, Totuccio racconta di essere stato in Sicilia, a Palermo, una prima volta, per una decina di giorni, durante il mese di marzo e una seconda a metà maggio (fino alla cattura). Di fronte alla Commissione antimafia cambia versione e colloca il primo viaggio nel mese di aprile. In entrambi i casi Coriolano ha mentito. E probabilmente ha mentito anche su altro. Sul perché del ritorno in Italia. «Gli americani mi hanno tagliato l’assegno e sono dovuto tornare», ha sempre sostenuto lui. Ma c’è chi sostiene il contrario. Don Masino Buscetta, ad esempio, anche lui negli States, anche lui sotto protezione (mai revocata). Tenete presente che, nel 1984, prima di iniziare la sua collaborazione con la giustizia, Contorno chiede e ottiene di incontrare il grande pentito. Solo dopo avere ottenuto la sua benedizione comincia a cantare. È dunque plausibile – per non dire certo – che prima di decidere di tornare in Italia, Coriolano abbia voluto consultare Buscetta. Lo pensano anche i giudici di Palermo. E vanno a interrogarlo.
Ecco un breve resoconto processuale, pubblicato dalla Gazzetta del Sud il 29 luglio 1989, a firma del cronista di giudiziaria Folorido Borzicchi: «Nei giorni scorsi, si ricorderà, vi venne letta la dichiarazione di Buscetta, raccolta in Usa dal presidente della corte d’Appello, Palmegiano, con la quale don Masino rivelava che Contorno era stato fatto tornare dagli italiani. Ieri mattina, alle 11, questa dichiarazione viene non più letta ma ascoltata così si sente il pugno sul tavolo di don Masino. Ho detto che fu fatto tornare! e giù il pugno». Buio completo, invece, su chi lo avrebbe fatto tornare. E, soprattutto, sul perché.

6. Le battaglie della vedova
La signora Vita D’Angelo, da quella sera del 28 settembre del 1992, ha un solo obiettivo: restituire l’onore al marito ammazzato da due killer e infamato nel più classico stile mafioso («marito infedele», «infame prezzolato», «corriere di armi per conto di Cosa Nostra»), vedergli riconosciuto che è stato solo una vittima innocente della mafia. Ma come fare? Da dove cominciare, quando le indagini non vanno oltre il «regolamento di conti tra clan rivali»?
Impiegherà mesi e mesi, la vedova del capitano della marina mercantile Paolo Ficalora, per ricostruire – prima nella propria memoria e poi “a verbale” – gli avvenimenti degli ultimi anni. E, ovviamente, nella ricostruzione della donna c’è posto anche per quella famigliola che prese in affitto una villetta del ranch alla fine del 1988 e per quei due “parenti” che, la sera del 26 maggio, lei e il marito, vedendo i Tg (e l’indomani sui giornali), riconobbero in Salvatore Contorno e Gaetano Grado. Nessuno le crede. Dopotutto, sul ritorno in Sicilia di Contorno hanno indagato l’Antimafia e tanti magistrati. Ci sono relazioni parlamentari, sentenze passate in giudicato. Dunque, la signora si sbaglia: non potevano essere Contorno e Grado, quei due. Punto.
Voi come vi sentireste?
Lei non si perde d’animo e continua la sua battaglia per la verità. Anche se intanto è additata come “rompiscatole”, “visionaria”, “pazza”. E forse rischia d’impazzire davvero, la vedova Ficalora, di fronte al muro di gomma che le si è parato davanti da quando ha messo a verbale quel nome: Salvatore Contorno.
Una sera di primavera del 1995 la signora rompe la consegna del silenzio impostale dai magistrati. Da Palermo va in onda Tempo reale, condotto da Michele Santoro. In una piazza del capoluogo siciliano ci sono l’inviato Sandro Ruotolo e diversi ospiti, tra i quali la direttrice Vita D’Angelo, 55 anni, da tre vedova di Paolo Ficalora. Ed è lì, davanti alle telecamere Rai, che la donna rende pubblico quel nome che rappresenta il vero e proprio tappo dell’inchiesta per l’accertamento della verità sull’omicidio del marito. Ora tutti sanno. Ma non succede nulla. Anche se, per la prima volta, in Procura c’è un pm, Gabriele Paci, che le crede.

7. Parlano i nuovi pentiti
Il 23 agosto del 1997, un quotidiano, riportando la notizia della collaborazione di Giovanni Brusca, scrive che il “boia di Capaci” sta svelando i retroscena dei delitti eccellenti e delle stragi… «Brusca – rivela la Repubblica – ha chiarito anche un altro “mistero”, quello relativo all’uccisione del capitano di lungo corso in pensione Paolo Ficalora, assassinato perché avrebbe dato ospitalità al pentito Totuccio Contorno».
Secondo Gioacchino La Barbera, un altro degli stragisti di Capaci poi pentito, il delitto sarebbe stato commesso da (o per conto di) Gioacchino Calabrò; sarebbe stato lo stesso Calabrò a dirlo, in sua presenza, ma senza specificare il movente. Calabrò: il custode della raffineria scoperta ad Alcamo dal giudice Carlo Palermo; l’uomo prima condannato poi assolto per la strage di Pizzolungo; il mafioso in contatto con Giovanni Grimaudo, Maestro Venerabile della loggia massonica coperta Iside 2, una piccola P2 trapanese che affratellava mafiosi, politici, funzionari di polizia e burocrati comunali.

8. Ucciso perché ostacolava i boss
Due processi e altrettante condanne: la prima, a 12 anni di carcere, nei confronti di Giovanni Brusca, reo confesso di essere il mandante dell’omicidio del capitano Paolo Ficalora; la seconda, nei confronti di Gioacchino Calabrò, boss trapanese, condannato all’ergastolo in quanto esecutore materiale del delitto.
«Di certo – scrive il giudice Giacomo Montalbano, nella sentenza che condanna Brusca, depositata il 3 gennaio 2003 – al capitano Ficalora si è, per oscuri motivi, voluto infliggere un supplizio ben più grave di quello estremo dallo stesso subìto, tormento che, travalicando i limiti della esistenza umana, avrebbe coinvolto quanto di più nobile ed elevato un uomo può avere: la dignità e l’orgoglio della propria onestà morale».
A mettere i Corleonesi sulla pista di Ficalora sarebbe stato un boss locale, Leonardo Cassarà (ucciso nel 1998): nell’89, avrebbe avvertito il clan di Riina della presenza di Contorno e Grado nel villaggio turistico. «La effettiva causale dell’efferata eliminazione del Ficalora – scrive il giudice Montalbano – risiede nell’essere costui entrato in rotta di collisione con gli interessi del Cassarà, riuscendo con la sua determinata azione di contrasto ad impedire che i poco chiari ed illeciti affari di un esponente di rilievo di Cosa nostra (lo stesso Cassarà, ndr) andassero in porto».
Il nome di Cassarà è tra quelli messi a verbale dalla vedova. Era lui che voleva mettere le mani sul ranch. È lui, secondo la ricostruzione processuale, ad avvertire i Corleonesi della presenza di Contorno e Grado a Castellammare del Golfo. E Cassarà sa bene che, così, ha decretato la condanna a morte del capitano.
«Dopo dieci anni di calunnie, è finalmente chiaro che mio marito è una vittima innocente della mafia. Restano, però, l’amarezza e il dolore per questo assassinio inutile». La professoressa Vita D’Angelo non riesce a non piangere ogni volta che parla del marito, Paolo Ficalora, ucciso la sera del 28 settembre 1992, proprio davanti ai suoi occhi. «Mio marito era orgoglioso della sua indipendenza politica e sociale, ed è morto senza sapere perché. Se ha fatto qualcosa che secondo i canoni della mafia non doveva, lo ha fatto inconsapevolmente».
Ci sono voluti dieci anni perché la verità emergesse in tutta la sua evidenza, dieci anni di calunnie nei confronti del marito («un supplizio ben più grave di quello estremo dallo stesso subìto», secondo il giudice Montalbano), di resistenze d’ogni tipo, di isolamento, di solitudine. Dieci anni in cui la signora ha persino rischiato di passare per visionaria, a causa d’un nome messo a verbale, quello dell’ex collaboratore di giustizia Totuccio Contorno.

9. Le bugie di Grado e Contorno
Anche Grado – che nel frattempo ha cominciato a collaborare con la giustizia – e Contorno vengono interrogati. Ecco le dichiarazioni di Gaetano Grado, del 29 dicembre del 2000: «Avevo conosciuto il Ficalora in quanto costui aveva affittato un villino a D’Agati Agostino, persona di Villabate a me molto vicina che avevo in precedenza affiliato (…). Il D’Agati nei primi anni 80 era proprietario di un terreno ubicato nella zona di Calatafimi, coltivato a vigneto, ed aveva deciso di cercare un appartamento da affittare per avere un punto di appoggio allorché si recava in zona. Fu proprio il Ficalora ad affittargli l’appartamento nella zona di Castellammare del Golfo, appartamento all’interno del quale io stesso sono stato a dormire alcune volte verso il finire degli anni 80, non ricordo allo stato esattamente in quale periodo. Il Ficalora, per quanto a mia conoscenza, era persona assolutamente estranea a Cosa nostra. (…) Io stesso ho parlato alcune volte con il Ficalora e ricordo di aver conosciuto anche la moglie di questi. (…) Escludo, per quanto a mia conoscenza che mio cugino Contorno Salvatore, una volta iniziato il suo rapporto di collaborazione con la giustizia, abbia mai trovato rifugio in Castellammare del Golfo ovvero in altre zone della provincia di Trapani».
Il 15 gennaio del 2001 anche Coriolano viene sentito dal giudice Montalbano. Ecco alcuni stralci della sua testimonianza: «Seppi della morte del Ficalora attraverso la lettura dei giornali. Tengo a precisare che non ho mai conosciuto il Ficalora ed escludo decisamente che quanto riportato dai giornali a proposito dell’assistenza datami dal Ficalora nell’89, corrisponda a verità. Escludo che Ficalora sia mai stato vicino al nostro gruppo o che ci abbia mai dato assistenza o aiuto. Preciso che io fui arrestato nel maggio ’89 e che nel corso di tale anno non mi sono mai recato in provincia di Trapani. Ho conosciuto invece D’Agati Agostino, un ragazzo molto vicino al nostro gruppo».
«Appare in realtà inspiegabile – scrive il giudice, nella sentenza che condanna Giovanni Brusca come mandante del delitto – il perché sia il Grado che il Contorno, nel loro percorso collaborativo, abbiano negato la circostanza relativa alla presenza del Contorno in Castellammare del Golfo a fronte delle lucide dichiarazioni della D’Angelo». E alla conferma proveniente da numerosi pentiti. Un mistero sul quale la Procura di Palermo ha avviato un’inchiesta che non è ancora approdata a nulla.

 

 

 

Articolo del 24 Giugno 2011 da avalledeitempli.net 
Morire dentro, di Giustizia – Intervista a Tiziana Ficalora
di Gian J. Morici

Questa è la storia di un uomo, di una famiglia, di una figlia che dopo vent’anni dalla scomparsa del padre, sente ancora dentro tutto il dolore che provò quel maledetto giorno, che cambiò la sua vita. Una storia come ce ne sono altre. Ma è anche una storia d’amore e dolore, di chi, tra disperazione e rabbia, si ritrova a riviverla in ogni minuto della propria esistenza, come non sarebbe giusto che accadesse.

L’uomo si chiamava Paolo Ficalora. Ucciso a Castellammare del Golfo, il 28 settembre 1992.

La donna che abbiamo intervistato, si chiama Tiziana Ficalora. È sua figlia.

Ficalora, capitano di lungo corso, venne ucciso dalla mafia nel 1992 e per lungo tempo la sua morte, rimasta senza colpevoli e movente, lasciò spazio a supposizioni e illazioni.

A raccontare i veri motivi del suo assassinio è stato, nel corso del processo, l’ex boss di San Giuseppe Jato, Giovanni Brusca, collaboratore di giustizia. Ficalora fu vittima innocente di un agguato mafioso, concepito per punirlo per avere ospitato nel residence che gestiva, il superpentito di Cosa Nostra Totuccio Contorno, e per aver ‘osato’ tenere testa alla mafia, non piegandosi  dinanzi l’arroganza di chi, sentendosi Dio in terra, si fa padrone della vita e della morte di Uomini i cui valori e coraggio, possono essere annullati solo annegandoli nel sangue. Paolo Ficalora, del suo ospite ignorava l’identità che scoprì solo successivamente.

Morì, assassinato vigliaccamente dal mafioso Gioacchino Calabrò.

Nel 2002, la vedova Ficalora, che per anni si era battuta per ottenere giustizia per la morte del marito subisce anche un’intimidazione: su un tavolo della sua abitazione trova un mazzo di fiori e alcuni proiettili.

La Corte d’Assise d’Appello di Palermo ha confermato la sentenza di condanna all’ergastolo per Calabrò, emessa in primo grado e condannato a dodici anni di reclusione con il rito abbreviato Giovanni Brusca.

La sentenza ha trovato conferma definitiva in Cassazione nel 2004.

Al capitano Paolo Ficalora sono state intitolate quattro borse di studio. Il comune di Castellammare del Golfo, nel 2004, gli ha intitolato una strada.

A parlare di Paolo Ficalora, è  la figlia Tiziana:

D:  Tiziana, ci parli un po’ di suo padre. Chi era Paolo Ficalora?

R: Paolo Ficalora, era un capitano di lungo corso, che fin da giovane si distinse per le sue capacità.  È stato il più giovane comandante della Marina Mercantile Italiana. Già all’età di 28 anni, era comandante di una nave petroliera… Un uomo tutto d’un pezzo. Ligio al dovere, coraggioso, ma sempre disponibile verso gli altri. In particolare verso i più deboli. E questo, anche quando andava contro i propri interessi.

D: Ricorda qualcosa in particolare?

R: Potrei citare un episodio. Era comandante di una nave traghetto, quando da sindacalista della Cgil, curò le trattative contrattuali per la categoria. Un contratto che venne firmato, ma che a lui costò il licenziamento. Nonostante fosse un ufficiale, si era schierato in favore delle fasce più deboli della categoria, senza far prevalere l’interesse degli ufficiali come lui. Un’imparzialità ed elevato senso di giustizia, che fin da allora iniziò a pagare sulla propria pelle.

D: Come finì quella vicenda?

R: Vinse il ricorso che aveva presentato e tornò a navigare…

D:  Questo suo ‘tornò a navigare’, più che ad un uomo che riottenne giustamente il proprio lavoro, mi lascia pensare ad un uomo che amava il suo lavoro…

R: Mio padre era un uomo di mare. Il suo lavoro, era, insieme alla famiglia, la sua vita. Purtroppo, i suoi lunghi viaggi erano per noi familiari causa di sofferenza. Abbiamo sempre sentito la sua mancanza. Fu anche per questo, che quando mia madre da dirigente scolastico ebbe assegnata la sede di Castellammare, mio padre pensò di smettere di lavorare e di godersi quella famiglia che per tanti anni aveva dovuto lasciare spesso…A volte, anche in momenti importanti per la vita di un uomo, come quando nacque mio fratello e lui non c’era… Io ebbi la fortuna che alla mia nascita si trovò a casa…anche se poi non lo vidi per parecchio tempo. E poi..poi quando tutto poteva essere diverso…

La voce di Tiziana si incrina. Limpida all’inizio della nostra conversazione, diventa improvvisamente roca. Lo sforzo per trattenere le lacrime, le impedisce a tratti di parlare.

D: Castellammare del Golfo. Cosa facevate a Castellammare del Golfo?

R: Come le dicevo, mamma nella qualità di dirigente scolastico ebbe assegnata la sede di Castellammare. Papà, che aveva anche un grande intuito, in attesa della pensione, pensò di realizzare un residence su terreni di nostra proprietà. Un lavoro che, nel farlo sentire vivo, gli avrebbe permesso di godersi la famiglia. Iniziò dunque con entusiasmo questa nuova attività.

D: Dopo il delitto, la sua morte rimasta senza colpevoli e movente, lasciò spazio a supposizioni e illazioni. Suo padre, ospitò in quel residence il superpentito di Cosa Nostra Totuccio Contorno…

R: Le indagini, non imboccarono subito la strada giusta. E poi, se si muore uccisi a Castellammare, si diventa automaticamente mafiosi… Intorno l’87/88, ospitammo una giovane coppia con due bambini. La famiglia, ci era stata presentata da un conoscente di mio padre, il quale disse che avendo quei signori comprato una proprietà da ristrutturare, avevano necessità di un alloggio temporaneo. Mio padre affittò loro la casa e, come previsto dalla legge, effettuò la comunicazione agli organi competenti. Fu durante quel periodo, che la coppia alla quale avevamo affittato casa, ospitò Contorno.  Chi fosse quell’uomo, mio padre lo apprese soltanto dopo il suo arresto, quando ne vide le foto… Ne rimase sconvolto… Iniziò a chiedersi perché…cosa ci facesse quell’uomo in casa nostra…

D: Torniamo all’uccisione di suo padre…

R: Il residence, fece subito gola alla mafia castellammarese. Incendiarono la pineta. Uccisero i cani. Papà, che era un uomo forte e non si sarebbe lasciato intimorire da nulla, continuò a portare avanti quel suo progetto. Alle intimidazioni, si aggiungevano le ‘difficoltà burocratiche’. Un ostruzionismo apparentemente immotivato, ma del quale mio padre comprese subito il movente. 12 anni dopo, componenti dell’Ufficio Tecnico comunale vennero arrestati per mafia. Mio padre, aveva inoltre avuto dei contrasti in merito ad una discarica sita nelle vicinanze della nostra proprietà. L’aver voluto realizzare un’attività senza aver prima chiesto il ‘permesso’ alla mafia locale e a quella ‘istituzionalizzata’, poneva un problema: si può permettere ad un uomo di dimostrare che si può far qualcosa senza la benedizione dei padrini locali? La risposta fu quel ‘no’ detto a colpi d’arma da fuoco… Fu poi Brusca, dopo il suo arresto, a chiarire la vicenda. Mio padre, era stato ucciso per dare un esempio. Era morto perché fosse chiaro a tutti, che non si può fare un’attività senza dar conto alla mafia e ai mafiosi che stanno all’interno delle istituzioni…

 

D: Parliamo degli aspetti processuali…

R: No! Di pentiti, dichiarazioni e quanto altro, non intendo più parlare. Esistono pagine e pagine di verbali… Sono stanca… Non ne posso più… Voglio solo iniziare a vivere una vita più tranquilla. Vorrei poter resettare il mio cervello… dimenticare tutto. Se solo ci fosse lo Stato, oggi forse non starei neppure qui a parlare con lei…

 

La voce di Tiziana è adesso rotta dal pianto. Parla piano, eppure quello suo è un urlo di dolore, di disperazione, di rabbia, che ti penetra dentro. Mentre ascolto le sue parole, interrotte dal pianto, è come se qualcosa dentro mi si rompesse. Un dolore tanto palpabile che finisce con il prenderti, con l’avvolgerti. È proprio mentre sta piangendo che entra la figlia. Una giovane ragazza, della quale non ho neppure il coraggio di chiedere il nome. Una ragazza, che vede ancora una volta la mamma piangere per un dolore che non sembra aver mai fine…

D: Cosa c’entra lo Stato in tutto questo?

R: Se lo Stato fosse presente, non potrebbero accadere certe cose. Ma anche dopo…anche adesso… Dov’è lo Stato? Perché non mi aiuta? Perche devono esistere familiari di vittime di mafia di serie A e altri di serie B? Prendiamo per esempio il caso di Paolo Giaccone,  medico, direttore dell’Istituto di Medicina Legale del Policlinico Universitario di Palermo,  ucciso da Cosa Nostra per non aver accettato di falsificare una perizia che avrebbe incastrato un killer della mafia. Lei lo sa che  l’Inpdap e la prefettura di Palermo hanno comunicato alla figlia Milly la sospensione del vitalizio per i parenti delle vittime della criminalità organizzata e del terrorismo mafioso, perchè il padre non sarebbe vittima del ‘terrorismo mafioso’’? Cosa significa non essere vittima del terrorismo mafioso, quando si viene uccisi per non aver accettato di sottostare alle richieste di Cosa Nostra e si viene assassinati per mano di Cosa Nostra? Perché lo Stato adotta due pesi e due misure?

D: Cosa significa ‘vittime di serie A’?

R: Basta vedere quali e in quanti casi lo Stato agisce in maniera o in tempi diversi, nel riconoscere lo status di vittime di mafia. Perché ci sono casi in cui, oltre al riconoscimento dello status, viene anche riconosciuto in tempi ragionevoli il risarcimento danni; e altri in cui gli anni trascorrono invano prima che si arrivi ad una sentenza? Oltre quello che sono gli aspetti economici nel dover affrontare le spese processuali – cosa che non avviene per le vittime del ‘terrorismo mafioso’, mentre la famiglia di Tiziana ha anche dovuto vendere una proprietà per far fronte alle spese. Ndr -,ci sono anche gli aspetti legati al travaglio interiore; al dolore che si rinnova di giorno in giorno, quando ci si ritrova in un’aula di tribunale a rivivere il proprio dramma; quando le udienze vengono rinviate anche di parecchi mesi, senza che si arrivi mai ad una conclusione. Mio padre, è stato ucciso vent’anni fa. La prossima udienza, per vederci riconosciuto il risarcimento, si terrà nel 2012… Mia madre, dopo l’ultimo rinvio di udienza, s’è sentita male… Ha dovuto rivivere momenti che, se anche fosse possibile, non le viene permesso di dimenticare…
D: Avete usufruito di agevolazioni, quali quelle di natura occupazionale?

R: Noi, intendo la mia famiglia, non abbiamo avuto bisogno di avvalerci del nostro status di familiari di vittime di mafia per potere ottenere un lavoro. Io sono un funzionario direttivo della Corte dei Conti e lavoro fin da quando avevo 22 anni (prima dell’omicidio del padre –ndr). Mio fratello, è entrato in Accademia da quando ne aveva 18.

D: Cosa chiede oggi allo Stato?

R: Allo Stato, chiedo che mi aiuti…Che si chiuda definitivamente questa vicenda. Che si concludano i processi… Io amo il mio lavoro, ma se ne avessi la possibilità, vorrei andar via da qui… Trasferirmi, poter dimenticare… Abbiamo troppo sofferto. Chiediamo soltanto un po’ di tranquillità; e così come noi, altrettanto chiedono tante altre  vittime della stessa violenza… Persone stanche di un passato di disperazione per quell’orrore che ha fatto irruzione  nelle nostre vite sconvolgendole  per sempre . Io piango ancora papà. Quel papà che prima era spesso lontano da casa per lavoro, e che poi mi hanno portato via in quel modo. Ma oltre lui, quel giorno, mi ha portato via anche il mio matrimonio. Ero sposata da poco. La mia bambina aveva solo due anni. Mio marito è una persona encomiabile, ma come si fa a reggere quando tua moglie alle 4 del mattino si reca laddove le hanno ucciso il padre? E io, come potevo trovare un momento di pace, quando vedevo mia madre disperata; quando mia figlia, che aveva due anni ed era legatissima a suo nonno, mi chiedeva: mamma, dov’è nonno? Come glielo spieghi che l’hanno ucciso? Le figlie di mio fratello, il loro nonno non l’hanno neppure conosciuto… Nessuno potrà restituirmi mio padre. Quell’uomo che non ha voluto accettare l’imposizione della mafia. Vorrei che lo avesse fatto… Oggi lo avrei ancora qui… Se solo mi sentisse, sarebbe in collera con me per quello che sto dicendo… Ma mi manca…e nulla potrà restituirmelo… Dopo vent’anni, ancora aspetto che lo Stato mi aiuti…che mi aiuti ad andar via da qui…

Il pianto chiude la conversazione. Non ho più il coraggio di porre altre domande. Perché ci sono vittime di serie A e vittime di serie B? Ma prima ancora, perché ci sono vittime? Dov’è lo Stato? Si può morir dentro di Giustizia?

Qualcuno riesce a non  morirne. Ci riescono coloro che hanno modo e volontà di intraprendere carriere politiche, giornalistiche o quanto altro risulti utile ad accendere i riflettori sul loro caso. E tutti gli altri? Le ‘vittime meno celebri di mafia’? Su di loro, solo il silenzio. Da una parte il silenzio e dall’altra, a volte  troppe parole. Da un estremo all’altro.

Ci sono casi che non fanno  notizia perché noi amiamo dimenticare. Vogliamo non ricordare le loro storie. Non vogliamo ricordare la storia di una giovane mamma – ma anche quella del resto della sua famiglia -, che un giorno di settembre di quasi vent’anni fa, ha perso il papà ed ha visto sconvolta la propria vita, per mano di uomini che si son potuti sedere ad un tavolo e arrogarsi il diritto di decretarne la morte, solo perché  lo Stato era latitante. Quello Stato, che ancora adesso continua ad essere latitante. A non sentire il grido di dolore di questa donna che chiede aiuto.

Ma a chi chiede aiuto? Ad un muro di gomma, sul quale rimbalza l’eco dei suoi pianti?

Guardo l’orizzonte di questo mare africano. Ripenso ad una voce roca di pianto; ad un grido silente di disperazione; mi chiedo: Chi ha avuto la sventura di nascere in questa terra, tanto bella quanto crudele, che cosa può fare? Possiamo anche dire che andare via è un atto di codardia. Ma quando un sistema è corrotto, e tutti tacciono per evitare di essere ingoiati da questo mostro, qual è la linea di confine?

I codardi siamo noi. Tutti quelli che con il nostro silenzio permettiamo che tutto questo accada; quelli che stiamo a guardare; quelli che non abbiamo il coraggio di urlare che la mafia è una cancrena, che lo Stato è assente; quelli che permettiamo che esistano vittime di serie A e vittime di serie B.

No Tiziana, suo padre non sarebbe in collera con lei. Lui capirebbe…

 

 

 

Fonte: mafie.blogautore.repubblica.it
Articolo del 23 aprile 2019
Paolo Ficalora, il “capitano” ribelle
di Emanuel Butticè

Era il 28 settembre 1992 quando il buio della notte veniva illuminato dai colpi di arma da fuoco esplosi contro Paolo Ficalora, Capitano di lungo corso della Marina mercantile ucciso sotto gli occhi della moglie. Siamo nel pieno della stagione del terrore, gli anni della Cosa nostra stragista, dei corleonesi di Riina e della mattanza per le strade della Sicilia.

Paolo Ficalora ha pagato con la vita l’essersi messo contro gli interessi dei mafiosi. Chi lo ha conosciuto a Castellammare del Golfo ricorda un uomo buono, onesto e profondamente innamorato del mare. Non navigava più ma non riusciva a stare lontano dalla sua terra. Amava la pesca e il profumo della salsedine. Paolo non era solo un capitano di lungo corso. Paolo era un visionario ed aveva capito che il turismo sarebbe stato il futuro. Tanto certo di questo da creare, sul suo terreno in contrada Ciauli a Scopello, un piccolo residence da affittare ai turisti, a pochi passi dalla meravigliosa baia di Guidaloca. Un’iniziativa unica per quegli anni in una realtà che scoprirà il turismo soltanto negli anni duemila.

Quel residence però attira gli interessi di alcuni boss locali e di qualche colletto bianco. Inizia così un lungo periodo in cui Paolo Ficalora subisce intimidazioni di ogni tipo. Resiste per anni alle pressioni mafiose che volevano sottrargli il piccolo villaggio turistico. Era un uomo dalla schiena dritta, non aveva paura e non avrebbe mai permesso alla mafia di sottargli ciò che aveva creato.

Tra tanti c’è un episodio in particolare che sancisce la condanna a morte emessa dai corleonesi nei confronti di quel Capitano “ribelle”. Paolo Ficalora affitta una villetta del suo residence ad una famiglia composta da genitori e figli piccoli ed apprende dopo, dai giornali, che questa famiglia ha avuto come “ospite” il super pentito di Cosa nostra Totuccio Contorno, di cui Ficalora ignora, ovviamente, l’identità. Contorno infatti veniva spostato continuamente in incognito. Per i mafiosi sanguinari è l’occasione perfetta: un affronto così non poteva restare impunito. A sparare nel cuore della notte, mentre il Capitano Ficalora stava aprendo il cancello di casa, il boss locale Gioacchino Calabrò, condannato all’ergastolo per l’omicidio Ficalora e per la strage di via dei Georgofili a Firenze.

Da subito è chiaro che ad essere ucciso è un innocente, totalmente estraneo ad ambienti mafiosi, ma per lungo tempo la sua morte rimane avvolta in un mistero circa il movente. Iniziano le illazioni, le supposizioni e con il tempo la storia di Paolo e della sua famiglia passa nel dimenticatoio. Una “vittima di serie b”, circostanza che porta alla famiglia ancora più sofferenza.

Così come per Peppino Impastato e tante altre vittime innocenti. Uccisi due volte: dal piombo mafioso e dal silenzio della società civile. Si arriverà alla verità e ad una piena giustizia soltanto anni dopo, a seguito di lunghi iter giudiziari. A raccontare il movente del delitto Ficalora, nel corso del processo, è stato il collaboratore di giustizia di San Giuseppe Jato Giovanni Brusca, lo stesso che azionò il telecomando che fece saltare in aria il tratto di autostrada tra Capaci e Isola delle Femmine, in cui persero la vita Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Rocco Dicillo, Vito Schifani e Antonino Montinaro.

A Paolo Ficalora sono state intitolate diverse borse di studio e la città di Castellammare del Golfo gli ha dedicato una via nel 2004.

Questa è la storia di una famiglia che non si è mai arresa. La vedova Vita D’Angelo e i due figli Angelo e Tiziana, per anni, hanno cercato la verità nelle aule giudiziarie, sfidando a testa alta la potente mafia castellammarese. Questa incessante ricerca di verità e giustizia ha scatenato anche gravi intimidazioni nei confronti della moglie, dirigente scolastico a Palermo, città in cui la famiglia risiede. Avvertimenti in puro stile mafioso. Ma il coraggio e la determinazione della vedova e dei figli, che non si sono mai arresi, hanno avuto la meglio sulla violenza di Cosa nostra e su tentativi meschini di insabbiare i fatti.

Per restituire l’onore a Paolo Ficalora ci sono voluti dieci anni. Con sentenza definitiva la Cassazione ha chiuso questa vicenda criminosa. I figli e la moglie in tutti questi anni hanno tenuto vivo il ricordo del “Capitano buono” incontrando la società civile allo scopo di non dimenticare chi, con coraggio ed onestà, è stato assassinato solo per non aver accettato le prepotenze mafiose.

Dopo 26 anni la città di Castellammare del Golfo ha ricordato con affetto e commozione il suo cittadino vittima innocente di mafia. L’anno scorso il paese si è stretto intorno alla famiglia, che vive a Palermo ma continua a frequentare Castellammare nel periodo estivo, con una cerimonia solenne alla presenza delle autorità religiose, militati e civili, oltre a numerosi studenti e associazioni locali. Una memoria finalmente ritrovata se pur dopo tanti, troppi, anni.

 

 

 

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Articolo del 30 settembre 2020
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