31 Marzo 1984 Nardò (LE). Uccisa Renata Fonte, 33 anni, assessore, la cui unica colpa era di aver creduto nei propri ideali.

Foto da: trnews.it

Il 31 marzo 1984, Renata Fonte, assessore del comune di Nardò (LE), cadeva assassinata per mano mafiosa. Si era battuta contro la lottizzazione e la speculazione edilizia del Parco naturale di Porto Selvaggio. Attraverso i microfoni della piccola emittente locale, Radio Nardò1, veicolava la sua lotta per la legalità, la democrazia, la giustizia. Quando è caduta sotto i colpi di pistola dei sicari, aveva 33 anni e due figlie piccole, che l’aspettavano a casa.
Tra le prime donne in politica nella provincia di Lecce, Renata è stata un personaggio scomodo fin dai primi incarichi istituzionali, assessore alle Finanze nel 1982 e nel 1983 assessore alla Cultura e alla Pubblica Amministrazione.
Dai tre livelli di giudizio sono stati individuati e condannati gli esecutori materiali e il mandante di primo livello, Antonio Spagnolo. Quest’ultimo, collega di partito di Renata e primo dei non eletti alle elezioni amministrative, avrebbe dato ordine di uccidere per risentimento nei confronti di Renata Fonte. Accanto ad una avversione personale di Spagnolo, la sentenza di primo grado della Corte d’Assise di Lecce dichiara la presenza di ulteriori personaggi, non identificati, che avrebbero avuto obiettivi non raggiungibili con l’elezione di Renata Fonte e la sua opposizione alle lottizzazioni e ai progetti edilizi che piovevano, in quegli anni, proprio in quelle zone che lei difendeva.

 

 

Fonte: liberanet.org

Nacque a Nardò (Le), il 10 marzo 1951. A diciassette anni incontrò Attilio Matrangola, sottufficiale dell’Aeronautica Militare di stanza ad Otranto, che diventerà suo marito nell’agosto 1968. Per diversi anni seguì il marito in giro per l’Italia, fino a quando, nel 1980, Attilio venne trasferito all’Aeroporto di Brindisi. Insegnò alle Scuole Elementari di Nardò, studiò Lingue e Letterature straniere all’Ateneo leccese. Forte degli insegnamenti di Pantaleo Ingusci cominciò a impegnarsi attivamente nella vita politica militando nel Partito Repubblicano Italiano, fino a diventarne Segretario cittadino. Partecipò alle battaglie civili e sociali di quegli anni anche iscrivendosi all’U.D.I. e dirigendo il Comitato per la Tutela di Porto Selvaggio, contro le paventate lottizzazioni cementizie. Decise di candidarsi alle elezioni amministrative nelle quali risultò eletta, divenendo la prima donna Assessore che il P.R.I. vanti a Nardò. Dall’Assessorato alle Finanze, in seguito passò a quello alla Pubblica Istruzione, Cultura, Sport e Spettacolo; contemporaneamente entrò nel direttivo provinciale del partito e divenne anche responsabile per la provincia del settore Cultura dei repubblicani. Sono anni di intensissime e sofferte battaglie in una Nardò travolta dalla violenza della lotta politica. In questo periodo Renata Fonte iniziò a scoprire illeciti ambientali e si oppose con tutte le sue forze alla speculazione edilizia di Porto Selvaggio. Renata Fonte combattè spesso sola e contro tutti. Venne assassinata a pochi passi dal portone di casa la notte fra il 31 marzo ed il primo aprile 1984, mentre rientrava da un Consiglio comunale. E’ il primo omicidio di mafia nel Salento e, per giunta, perpetrato contro una donna.
In memoria di Renata Fonte nasce nel 1998 l’associazione “Donne insieme” con l’intento di promuovere la legalità e non violenza sul territorio. Da una intensa collaborazione con la Procura Nazionale Antimafia, la Questura e il Pool Antiviolenza del Tribunale, nasce la “Rete Antiviolenza Renata Fonte”, primo centro antiviolenza, riconosciuto dal Ministero dell’Interno in collaborazione con il Ministero delle Pari Opportunità. Nel comune di Nardò (Lecce) sono state dedicate a Renata Fonte una piazza e la sala consiliare.
Nel 2009, in occasione del 25° anniversario della morte, è stata inaugurata al Parco di Porto Selvaggio una stele in memoria dell’impegno civile e politico di Renata Fonte.

 

 

 

 

Foto da:  torredibelloluogo.eu

Articolo del 17 Aprile 2009 da  legvaldicornia.wordpress.com

Nel nome di mia madre, Renata Fonte

Pubblichiamo questa conversazione (a cura di Zenab Ataalla, tratta dalla rivista online Women in the city) con Viviana Matrangola, figlia dell’assessora di Nardò Renata Fonte, assassinata dalla mafia nel 1984, per essersi opposta ad un’operazione di lottizzazione e speculazione edilizia selvaggia. Un modo per rendere omaggio alle vittime della mafia e della malavita che si sono battute per la legalità in questo paese.

Venticinque ani fa, il 31 marzo 1984, Renata Fonte, assessora del comune di Nardò, in provincia di Lecce, cadeva assassinata per mano mafiosa. Si era battuta contro la lottizzazione e la speculazione edilizia del Parco naturale di Porto Selvaggio. Attraverso i microfoni della piccola emittente locale, Radio Nardò1, veicolava la sua lotta per la legalità, la democrazia, la giustizia. Quando è caduta sotto i colpi di pistola dei sicari, aveva 33 anni e due figlie bambine piccole, che l’aspettavano a casa.

Tra le prime donne in politica nella provincia di Lecce, nipote di Pantaleo Ingusci, storica figura del Partito repubblicano leccese, perseguitato e arrestato durante gli anni del fascismo, Renata stata un personaggio scomodo fin dai primi incarichi istituzionali, assessore alle Finanze nel 1982 e nel 1983 assessore alla Cultura e alla Pubblica Amministrazione.
Presto dimenticata dai grandi media, ma non dalla sua gente e degli amici del Comitato per la Salvaguardia del Parco che Renata aveva fondato. Sono loro, che ad ogni anniversario organizzano un evento commemorativo per tenere viva la testimonianza dell’ impegno civile e politico di questa donna vitale e coraggiosa, e attraverso il suo ricordo l’impegno al dovere della denuncia e della ribellione contro tutte le mafie.

Quest’anno, al Parco di Porto Selvaggio è stata inaugurata una stele in memoria di Renata Fonte, e posta al cimitero la prima pietra del monumento funebre intestato ai valori della legalità, della democrazia e dell’antimafia.
Tra chi l’ha pensato, c’è Viviana Matrangola. Un nome che dice molto. Viviana, infatti, è una delle due figliole di Renata, la più piccola, all’epoca dei fatti aveva 10 anni. La storia, l’esempio di sua madre li porta impressi nell’impegno quotidiano a difesa dei valori che furono territorio della sua battaglia per la legalità, oltre che nel cuore.
È a lei che abbiamo chiesto di ricordare per le lettrici di women i momenti più importanti della sua relazione simbolica con la madre, nel solco di quella genealogia tra madre e figlia che, nella vicenda tragica di Renata Fonte e del suo impegno civico, ha significato per le figlie una difficile rielaborazione di memoria contro il vuoto dell’assenza del corpo e delle parole della madre.

Viviana Matrangola.

Mia mamma era nata a Nardò nel 1951. Per un po’ di tempo era vissuta lontano da questo paese, ma una volta rientrata con la sua famiglia si era dedicata subito alla vita civile della città. Ricordo la sua grande dedizione, ispirata agli ideali marxiani dello zio Pantaleo Ingusci, di cui traduceva anche i libri. Dopo gli incarichi di Assessore alle Finanze e alla Cultura ed Istruzione, era diventata segretario del Partito repubblicano di Nardò e, a sorpresa, nel 1982 aveva vinto le elezioni, portando in giunta comunale, dopo tantissimi anni, i repubblicani.
Dico “eletta a sorpresa” perché “nei piani” al posto suo avrebbe dovuto esserci un’altra persona, e solo dopo si capirà il perché.

Come membro del Consiglio Comunale, mia mamma lavorava senza sosta per la tutela e per la difesa del territorio di Nardò, in particolare per la salvaguardia di Porto Selvaggio che oggi, grazie al suo sacrificio, è un’oasi incontaminata di bellezza mediterranea, ma che all’epoca era oggetto di obiettivi completamente diversi.
In Consiglio comunale era agli atti una modifica del Piano Regolatore che avrebbe infatti permesso una speculazione edilizia del parco. A questo mia mamma si è opposta, e questo le è costato la vita.

Viene assassinata la sera del 31 marzo 1984, all’uscita di una seduta del Consiglio comunale di Nardò, con 3 colpi di pistola. Le indagini iniziano immediatamente, e in un tempo relativamente breve, nel giro di pochi mesi, vengono assicurati alla giustizia gli esecutori materiali e il presunto mandante: il primo dei non eletti, proprio quella persona attraverso cui gli speculatori di Porto Selvaggio avrebbero avuto la possibilità di fare il loro sporco gioco all’interno del Comune.

25 anni fa, non erano molte le donne in politica da queste parti, mia mamma è stata una delle primissime, era iscritta anche all’Udi, Unione Donne Italiane, e operava attivamente anche nel sociale, a favore dei diritti delle donne. Tutto questosuo malgrado l’ha fatta diventare molto probabilmente leader di un movimento politico e socio-culturale che aveva compreso che, anche in quel Salento considerato fino ad allora un’isola felice, in realtà stavano attecchendo i sistemi e i metodi mafiosi di cui oggi siamo a conoscenza.

Minacce. Mi chiedi se aveva ricevuto minacce. Si, ma noi, in famiglia, lo abbiamo saputo solo dopo la sua morte quando, nel corso delle indagini, ci è stato detto che aveva confidato ad una sua cara amica le intimidazioni e le pressioni cui era soggetta per desistere dalla difesa di quell’area che oggi, grazie al suo sacrificio, è il Parco Naturale di Porto Selvaggio. Da quest’anno, dal 31 marzo, anniversario del suo assassinio, all’interno del Parco c’è una stele dedicata a lei; un tributo doveroso da parte dell’amministrazione comunale nei confronti di una donna che ha speso la sua vita per la tutela di quel posto.

Per noi, per me e per mia sorella, mia mamma è stata e continua ad essere un modello. La sua morte ha aperto un vuoto enorme, la sua assenza è stata fortissima. Ma altrettanto lo era stata la sua presenza. Avevo 10 anni e mia sorella quasi 15 anni, ma l’imprinting che ci ha lasciato la personalità di nostra madre lo ritroviamo in qualunque cosa facciamo.
Crescendo, abbiamo ereditato l’immagine di una donna “femminile” a 360°, e nello stesso tempo combattiva e forte, che ha vissuto con una grandissima onestà intellettuale e ha svolto il suo lavoro con totale abnegazione.

Mia mamma è un modello non solo per noi, ma per tutte e tutti. In realtà lei, come tutte le altre vittime di mafia, non pensava di diventare un’eroina, perché faceva solo il suo dovere. Questo però fa capire l’ordinarietà di alcune vite che diventano poi vite straordinarie e modelli da seguire.
È in questa luce che, noi figlie, leggiamo la reazione del paese al suo assassinio. Sicuramente nostra madre ha vissuto e ancora vive nel cuore delle persone che l’hanno incontrata, e le hanno voluto bene. Ma c’è stata una volontà politica di dimenticarla. Per anni non si è fatto nulla per onorare il suo ricordo, forse perché ricordare una morte così tragica avrebbe significato automaticamente porsi delle domande.
Crescendo, io e mia sorella, con la caparbietà, la determinazione e l’ostinazione che abbiamo ereditate da lei, siamo riuscite a rimettere in piedi il suo ricordo, la sua testimonianza. Io, per esempio ho parlato di lei addirittura alle Nazioni Unite, a New York quando ancora a Nardò si taceva.

La voglia di ricordarla, i diversi riconoscimenti avuti da parte dell’amministrazione comunale, la stessa dedica all’interno del Parco di Porto Selvaggio, continuano a suscitare polemiche ancora oggi. Nonostante tutto, c’è chi ancora cerca di sostenere che Nardò non è una città mafiosa, che la presenza e l’attività dei gruppi antimafiosi, di Libera, di Don Ciotti, non sono necessari. A queste persone, dico che dovrebbero leggersi non solo le sentenze del processo, ma le motivazioni che hanno portato a riconoscere Renata Fonte vittima di mafia.
So bene che per loro, un passo del genere significherebbe ammettere che nei fatti hanno taciuto un sistema scorretto, non hanno fatto niente per opporsi ad opporsi all’illegalità a cui mia madre ha detto chiaramente di no. Ricordare, facendo rumore, significa anche porsi domande e interrogativi rimasti muti per troppo tempo.

Il senso della sua morte sta in quello che ci ha lasciato. Mia madre è stata una donna che ha combattuto per la giustizia, per la legalità, per la democrazia e per la libertà del suo territorio. È stata uccisa per questo, come hanno che persone che come lei hanno perso la vita per sostenere la battaglia di legalità.
Una vita umana persa è un’ingiustizia e deve essere intesa comunque come una sconfitta. Ma il fatto che noi tutti possiamo godere del Parco naturale di Porto Selvaggio ci dà in qualche modo il senso della sua morte, ci restituisce tutta la sua vitalità e la sua appassionata esistenza, ma sicuramente non colma e non colmerà mai il vuoto che lasciato in ognuno di noi.

C’è stato chi ha raccolto il testimone della mamma, ma c’è voluto del tempo perché tutto questo si verificasse. Prima del 1998, non su era fatto niente, e noi eravamo impegnate a metabolizzare ancora il dolore della sua assenza.
L’impegno affinché la sua memoria non cadesse nell’obliò è iniziato nel 1998, e ha messo in moto una macchina incredibile ed inarrestabile. Un gruppo di donne si sono aggregate nell’associazione “Donne Insieme”, nata nel 1998 con l’obiettivo di promuovere la cultura della legalità e della non violenza sul territorio.L’associazione ha creato una rete di collaborazione con la Procura Nazionale Antimafia, la Questura e il Pool Antiviolenza del Tribunale, dando vita alla “Rete Antiviolenza Renata Fonte”, cioè al primo centro antiviolenza, riconosciuto dal Ministero dell’Interno in collaborazione con il Ministero delle Pari Opportunità. Provvisto di numero verde gratuito, il centro si occupa delle donne vittime di violenze domestiche e di stalking, fornendo loro un sostegno a 360 gradi. Nel nome di mia madre si sono quindi costituiti movimenti di pensiero e corsi di formazione politica.
Questa nostra Italia è un Paese che dimentica troppo in fretta. Sono oggi responsabile dei progetti della Memoria sulle Vittime di mafia dell’associazione Libera e so per certo gli sforzi ed il lavoro enorme che è necessario per tenere vivo il ricordo delle vittime di tutte le mafie, per far si le oro storie diventino un simbolo, e siano ricordate.

Ci vuole uno sforzo enorme, giorno dopo giorno, anche quando si tratta solo di ricostruire la banca dati di tutte le persone assassinate dalle organizzazioni criminali mafiose, uccise per aver promosso la legalità e la democrazia di questo Paese senza memoria. Che ci appunta sul petto la medaglia d’oro in ricordo dei nostri famigliari uccisi, e dopo ci confina nel silenzio.
Le storie delle vittime di mafia e delle loro famiglie spesso sono storie di solitudine perché accanto alla fine non si ritrovano nessuno.
Per questo, per ogni storia riportata alla memoria bisogna sapere che dietro c’è un duro lavoro, frutto anche della fatica di metabolizzare il dolore e a trasformarlo in impegno per gli altri.

(www.womeninthecity.articolo21.com, 09/04/09)

 

 

 

Uccisa dalla mafia del cemento.
Don Ciotti: “Renata Fonte, giusta”

 

Articolo da L’Unità del 14 Aprile 1985
Gli affari ed i segreti di Nardò
di Mauro Montali

NARDÒ (Lecce) — Un’altra vicenda-simbolo della «nuova» questione meridionale degli anni Ottanta: ecco  questa cittadina salentina a pochissimi chilometri da uno dei più bei litorali italiani, ora mangiato dalla speculazione, col suo mistero di morte, di killer prezzolati, di mandanti e di moventi. Con un ravvicinatissimo binomio politica-affari a far da cornice a quest’altra sporca storia. Che merita d’essere raccontata dall’inizio.

C’è una giovane donna, Renata Fonte, assassinata sull’uscio di casa un anno fa, ci sono i suoi assassini, Marcello My e Giuseppe Durante, assicurati da tempo alla giustizia, c’è in carcere il «mediatore» dell’omicidio, costato quaranta milioni, Mario Cesari. E da tre giorni è finito in galera anche il presunto mandante: Antonio Spagnolo, assessore repubblicano.
Sembrerebbe un caso chiuso con una spiegazione plausibile sia pure del tutto grottesca: Spagnolo «voleva» assolutamente prendere il posto ricoperto dalla sua collega di partito Renata Fonte in Consiglio comunale e nella Giunta di centro-sinistra di Nardò.

Certo, le cose sono andate proprio cosi. «Ma c’è dell’altro, c’è dell’altro» mormora a denti stretti il giudice istruttore di Lecce Francesco Positano. Ma cosa? Il magistrato domani pomeriggio interrogherà Antonio Spagnolo e forse, il «puzzle» comincerà a ricomporsi. Finora quel che è emerso è solamente una mezza verità.

Che i rapporti tra Renata  Fonte e Antonio Spagnolo non fossero dei migliori è cosa arcinota. Due storie umane diversissime, le loro, finché un giorno non si incrociano tragicamente. Lei scopre la politica sull’onda ideale dello zio, Pantaleo Inguisci, bella figura di meridionalista e di antifascista, repubblicano storico e avvocato che negli anni Cinquanta — ricorda l’ingegner Pagliula, consigliere comunale di Nardò — non disdegnava di difendere i comunisti perseguitati. Scopre il fascino della vita pubblica e vuol fare qualcosa per porre fine alla speculazione edilizia della costa. Naturalmente, per tradizione e vocazione, non può che essere repubblicana.

E battagliera. Renata. Fa i comizi in piazza, entra nel comitato di difesa di Porto Selvaggio promosso dal comunisti, è molto sensibile al tema della pace. «Lasciatela fare», confida durante la campagna elettorale precedente Spagnolo ad un gruppo di amici. «Vedrete che si brucerà da sola». E invece contro tutte le previsioni viene eletta. Il suo diretto rivale ci rimane molto male. Ha speso fior di milioni per entrare in Consiglio.
Viene da Veglie, Antonio Spagnolo. È ricchissimo. Ha guadagnato i soldi trafficando in affari di ogni tipo. È amico di Mario Cesari, il mediatore dell’omicidio, il pescivendolo che d’inverno si trasforma in «consigliere» della speculazione. Questi quaranta chilometri di mare, adesso, sono deturpati da migliaia e migliaia di case e di ville abusive. Il meccanismo era molto semplice per costruirci sopra. Bastava andare da Cesari (ma come lui qui ce ne sono molti in giro) e farsi dire «dove» cominciare a gettare le fondamenta.

D’estate, poi, la Giunta comunale sanava tutto. È ovvio che in questo quadro i milioni giravano come coriandoli. Spagnolo si sente stretto a Veglie dove ha regalato al Pri la sezione. Vuole sbarcare a Nardò, il cui comune comprende tutta la costa, ed emergere. Ed allora anche qui compra a sue spese la sezione repubblicana. Ma è un tipo molto semplice: non fa i comizi, non parla, e quando lo fa dice: «Ho venuto a Nardò per portare la pace». E perde la sua battaglia elettorale.

Renata Fonte, forse anche con un po’ di presunzione, comincia una grande battaglia moralizzatrice. È assessore ai Lavori Pubblici e di speculazione per un po’ a Nardò non si sente più parlare. Ma dura poco. La Giunta si ribella e quasi d’imperio la spostano alla Pubblica Istruzione. Probabilmente anche qui da fastidio. E una sera, giusto un anno fa, due balordi, Marcello My e Giuseppe Durante, l’aspettano sotto casa e aprono il fuoco. È stato Cesari — diranno ai giudici — a commissionarci il delitto». E Cesari, arrestato, evidentemente comincia a parlare e fa il nome di Spagnolo come mandante.
Tutto chiaro quindi? «C’è dell’altro», ripete il giudice Positano. Che vuol dire il magistrato di Lecce? Che forse il cerchio si allargherà ulteriormente? È probabile.

Sono anni che andiamo denunciando — dice il segretario della Federazione comunista di Lecce, Sandro Frisullo — che qui nel Salentino opera un gruppo di pressione che punta all’edilizia come mezzo di facile arricchimento». E la lobbie, in questa parte di Mezzogiorno, milita tutta o quasi nel partito delle «mani pulite», ossia pel partito repubblicano. «È così — afferma l’ingegner Panteleo Pagliula — a Nardò ma anche a Gallipoli e a Copertino dove c’è una Giunta di sinistra e dove la notte i compagni devono fare la guardia ai lampioni e agli altri monumenti comunali altrimenti qualcuno li rompe».

Questo è, per così dire, lo scenario del delitto Fonte. Adesso si aspetta che Spagnolo vuoti il sacco. Intanto la gente a Nardò è  sgomenta e piange forse più di un anno fa la povera Renata. Al bar Tre Palme, ieri mattina, qualcuno ricordava che mentre Antonio Spagnolo veniva portato via arrestato dal commissariato di Nardò,  si è alzato un vento gelido, quello stesso che soffiò furiosamente durante i funerali della Fonte. E qualcuno ha commentato: «Pure la terra ha un’anima».

 

 

 

 

Nostra madre Renata Fonte
graphic novel
di Ilaria Ferramosca e Gian Marco De Francisco
001 Edizioni, 2013

In un graphic novel si ripercorre la storia di Renata Fonte, dall’impegno in politica alla lotta contro le ecomafie per salvare dalla cementificazione le coste del Salento, dai primi successi in politica ai sacrifici personali che ha dovuto affrontare, fino al suo assassinio per mano della mafia. Una figura simbolo, da ricordare. Prefazione di don Luigi Ciotti.

 

 

 

 

Fonte: lecceprima.it 
Articolo del 8 marzo 2018
L’intervista: “Mia madre Renata Fonte, prima politica italiana uccisa dalla mafia”
di Donatella Polito
In occasione della Festa della Donna, la storia straordinaria della donna uccisa nel Salento, ripercorsa insieme alla figlia che difende con forza la sua memoria

LECCE – Chi s’imbatte solo ora per la prima volta nella storia di Renata Fonte deve sapere che questo viso dallo sguardo tenace diventerà un’immagine difficile da scordare.

Lo sappia il viaggiatore, se e quando ‘lu sule, lu mare, lu jentu’ del gettonassimo Salento lo condurranno fino al parco naturale di Porto Selvaggio, un incanto di 1121 ettari tratteggiato da pinete e coste rocciose nel territorio di Nardò, in provincia di Lecce.

Lo sappia lui, e lo sappia pure chi resta là dov’è adesso, seduto a guardare attraverso i social le foto postate dagli amici fomentati da pizzica e tamburelli.

Perché quando una vita viene dedicata alla libertà di un luogo a costo del più estremo sacrificio, quando viene spesa per il benessere delle persone che ci abitano, votata all’esercizio del diritto comune di godere di aria, terra e mare anche solo per un attimo, allora diventa esistenza collettiva, e Porto Selvaggio diventa ogni spazio, ogni territorio, ogni persona da proteggere contro abusi, violenze e prepotenze.

Oggi è la Festa della Donna, e oggi tutte le donne le vogliamo celebrare attraverso lei, attraverso la vita brevissima eppur formidabile di una di loro: Renata Fonte, assessore alla Cultura e alla Pubblica Istruzione del comune di Nardò che il 10 marzo avrebbe compiuto 67 anni se tre colpi di pistola non l’avessero uccisa il 31 marzo 1984, per essersi opposta alle lottizzazioni cementizie sulla zona di Porto Selvaggio, mettendosi di traverso a quella che la sentenza di condanna dei colpevoli ha definito “ignobile fauna di pseudo industriali, possidenti, imprenditori edili, ‘benestanti’”.

Renata Fonte è stata riconosciuta vittima di mafia nel 2002. A lei il ciclo ‘Liberi sognatori’ in onda su Canale 5 ispirato al coraggio e all’impegno civile contro la mafia di uomini e donne, ha dedicato la fiction ‘Una donna contro tutti’.

Per ovvie esigenze narrative, la trasposizione televisiva non è potuta entrare nel dettaglio di una storia che conoscere nella sua completezza fa bene all’anima. Prima ancora che per la vicenda giudiziaria dai torbidi risvolti relativi ai colpevoli del suo omicidio, questa “è storia del coraggio e dell’altruismo di una donna capace di sacrificare tutto, anche la vita, nell’inseguimento dei propri ideali (…) per affermare e garantire gli interessi e i diritti della collettività che l’aveva eletta a suo rappresentante”, usando le parole dell’ex Procuratore antimafia di Palermo Gian Carlo Caselli nell’introduzione al graphic novel ‘Nostra Madre Renata Fonte’ di Ilaria Ferramosca e Gian Marco  De Francisco.

Con Viviana Matrangola, figlia di Renata Fonte, che con la sorella Sabrina tiene accesa la memoria della madre e dal 2000 opera attivamente nell’associazione contro le mafie ‘Libera’ fondata da don Luigi Ciotti, abbiamo ripercorso i momenti più salienti della vicenda personale e poi giudiziaria successiva alla morte di una delle prime donne in politica negli anni Ottanta. Che poi è quella di una moglie e soprattutto di una mamma a cui è stato impedito di veder crescere le proprie figlie.

La verità processuale

Per l’omicidio di Renata Fonte sono stati esperiti i tre gradi di giudizio (la sentenza della Corte d’assise di Lecce del 16 marzo 1987 è stata confermata dalla Corte d’appello il 5 febbraio 1988 e da quella di Cassazione dell’8 novembre 1988). A commissionarlo è stato Antonio Spagnolo, primo dei non eletti nella lista del Partito Repubblicano nelle elezioni comunali del 1982, battuto proprio da Renata Fonte che militava nello stesso partito.

Condannato all’ergastolo, i giudici hanno definito Spagnolo “un uomo capace dunque di passare – letteralmente! – sul cadavere del suo avversario pur di raggiungere un obiettivo: è il trait d’union più idoneo anche per quella ignobile fauna di pseudo industriali, possidenti, imprenditori edili, ‘benestanti’ che attraverso di lui cercano di realizzare sempre più grandi profitti”.

Insieme a Spagnolo, sono stati condannati gli esecutori materiali Giuseppe Durante e Marcello My, il mandante di secondo livello Mario Cesari che commissionò loro l’omicidio per conto di Spagnolo, e il mediatore Pantaleo Sequestro.

Stando alla verità processuale, l’assassinio di Renata Fonte non è di tipo mafioso: i cinque condannati furono accusati di concorso in omicidio, non di associazione mafiosa. Solo nel 2002 la Commissione del Dipartimento Affari Civili del Ministero dell’Interno riconosce a Renata Fonte il carattere di vittima di criminalità mafiosa.

Signora Matrangola, quanto nella fiction ‘Renata Fonte – Una donna contro tutti’ corrisponde al vero e quanto invece è stato omesso della storia di sua madre?

La fiction che ha sicuramente il merito di aver fatto conoscere la storia della mamma a circa tre milioni di spettatori, strumento potentissimo di diffusione di quella memoria che noi faticosamente coltiviamo ogni giorno, ha avuto alcuni limiti dovuti ad esigenze di copione e durata. Il personaggio della mamma risulta un po’ appiattito. Non si dice che era un’insegnante, che era impegnata nella società civile, che denunciava le paventate lottizzazioni sul parco di Porto Selvaggio attraverso Radio Nardò Uno, che era accanto ad altri attivisti del comitato di tutela e salvaguardia di quel parco. Non emerge la sua personalità “a tutto tondo”, insomma, perché amava anche dipingere e scrivere prose e poesie dedicate alla sua terra. Ma più di tutto manca il riferimento allo zio Pantaleo Ingusci, l’ispiratore del suo impegno, storico di Nardò da cui aveva ereditato lo spirito mazziniano e a cui succede nella segreteria cittadina del partito repubblicano diventando il primo assessore, per di più donna!

Quindi sua madre non entrò in politica per realizzarsi professionalmente?

Assolutamente no. Renata non considerava la politica come strumento per fare carriera, come potrebbe apparire dalla fiction, ma come un modo per spendersi in prima persona per la sua Nardò. Ed è proprio per quello spirito di servizio e di abnegazione al proprio dovere istituzionale che diventa suo malgrado leader di un movimento di pensiero che aveva capito come nel Salento stessero attecchendo i sistemi di una cultura mafiosa. La sua coscienza democratica e la sua onestà intellettuale diventano il nemico da colpire da chi, invece, intendeva la politica come mezzo per raggiungere i propri interessi e asservire un certo tipo di potere. È stata una donna molto lungimirante. Aveva intuito come le complicità attive e passive fossero un modus operandi fra amministrazione pubblica e sistemi clientelari, fra mafia e politica.

Dalla storia raccontata in tv emerge una figura molto determinata, indipendente e straordinariamente lontana dalla visione della donna tutta casa e famiglia che nei primi anni Ottanta era predominante soprattutto nel Sud Italia. E in effetti da quello che lei racconta, si direbbe che sua madre fosse una donna ‘bella tosta’…

La fiction ha certamente il merito di aver messo in luce la lungimiranza di una donna – una delle prime donne in politica al sud, 34 anni fa! – in un contesto sociale dominato dai forti retaggi di una cultura maschile. Era una donna che tutelava i diritti delle donne, era iscritta all’Unione Donne Italiane e seguiva le attività del Consultorio locale. E questo molto prima che arrivasse la la legge contro lo stalking, la violenza domestica, il femminicidio e pure l’istituzione dei centri antiviolenza.

Poche ore dopo la messa in onda della fiction sui social è nato un dibattito seguente ad un post pubblicato su Facebook da suo padre, Attilio Matrangola, che ha parlato di “notevoli distorsioni della verità storica” e ha dichiarato che voi figlie, pur di riproporre la memoria della vostra mamma, avete prestato poca attenzione alla qualità del prodotto finale. Il suo commento?

Come ho già avuto modo di chiarire, non commento le spiacevoli affermazioni di mio padre. Dico solo che fortunatamente, nonostante la volontà di molti di dimenticare perché fa più comodo, sono tante le persone che considerano Renata un esempio da seguire. Noi figlie non abbiamo mai chiesto a nessuno di raccontare la sua storia, lo facciamo ogni giorno in prima persona. Siamo sempre state contattate da altri quando si è trattato di scrivere di lei, di fare un film di dedicarle scuole, vie, piazze… Noi – ci tengo a dirlo – non collaboriamo sempre con chi ci chiede di ripercorrere la storia della mamma perché sappiamo che i rischi di strumentalizzazione sono in agguato.

Voi familiari siete stati contattati dalla produzione televisiva?

Sì. E siccome non amo il prodotto ‘fiction’ quando sono stata contattata da Pietro Valsecchi (produttore di Taodue, società di produzione televisiva che ha realizzato la fiction per Canale 5, ndr) per informarmi che avrebbe raccontato la storia della mia mamma e di altri “eroi borghesi” in tv ero terrorizzata. Mio padre da subito si è rifiutato di parlare con la sceneggiatrice e ha preso le distanze. Io ho deciso di collaborare per fare la mia parte, per non trovarmi a dover dire alla fine “il film non mi è piaciuto e io non ho fatto niente!”. E, mi creda, questa collaborazione è stata tutt’altro che semplice. Ricostruire i fatti con la sceneggiatrice che è venuta a Nardò per conoscere i luoghi e gli affetti di Renata, ascoltare i ricordi delle sue amiche, venire a conoscenza di dettagli anche processuali fino ad allora ignorati, rivedere le immagini dell’omicidio (all’epoca Viviana aveva 10 anni, ndr), sono state situazioni che mi hanno tolto il sonno per mesi. Per me è significato rielaborare il lutto con la consapevolezza di una persona adulta e di una mamma quale ora sono. Mi è costato dolore e fatica, la stessa che serve per consumarsi nell’impegno di mantenere viva la memoria. Ci tengo a dire che sulle scelte narrative, interpretative, di regia, montaggio e produzione non ho avuto alcun peso: non ho firmato alcuna liberatoria e nessuno ha ricevuto alcun compenso. Fare memoria per noi familiari delle vittime di mafia è un onore, dare voce a chi non ha più voce è l’unico scopo, l’unica ricompensa! Se abbiamo scelto di collaborare è stato per un dovere di memoria e di verità. Verità che ancora oggi viene distorta.

Da chi? Chi può avere tutt’ora l’interesse ad alterare qualcosa?

Chi ci tiene a detergere la propria immagine, a negare il carattere mafioso del delitto perché questo significherebbe ammettere complicità e connivenze con un sistema che, quando Renata è stata uccisa, non era limpido e trasparente. Quello di mia madre è stato il primo delitto politico, mafioso, nel Salento, ai danni di una donna: che piaccia oppure no.

Una verità processuale c’è: la Cassazione ha individuato e condannato i colpevoli dell’omicidio di Renata Fonte. Ma la “fauna di pseudo industriali, possidenti, imprenditori edili e ‘benestanti” di cui Spagnolo si è fatto “trait d’union” secondo sentenza, non è mai stata individuata. Lei che idea si è fatta in proposito?

Alcuni passaggi della sentenza fondamentali dicono che sicuramente il movente è legato ad una speculazione di Porto Selvaggio, perché Renata stava facendo perdere centinaia di milioni a chi aveva interesse. Spagnolo si è reso strumento consapevole mosso da un risentimento personale, ma anche da interessi più vasti. Questa è la verità processuale. Il movente è chiarissimo: Renata Fonte è stata uccisa per essersi opposta ad una speculazione edilizia. Ma ci sono persone che ancora adesso continuano a voler derubricare l’omicidio a un movente politico mettendo in discussione l’autorevolezza dei giudici e interpretando la sentenza a loro piacimento.

L’intervista: “Mia madre Renata Fonte, prima politica italiana uccisa dalla mafia”

“Persone”: a chi si riferisce?

Sono persone che sedevano nel consiglio comunale di Renata che come minimo hanno la responsabilità di averla lasciata sola, di averla osteggiata e calunniata pubblicamente, e questo è agli atti dei consigli comunali. Sono le stesse persone che oggi ipocritamente scrivono sui giornali “Renata noi non ti dimentichiamo”, ma continuano ad offendere la sua memoria e le sue figlie. Mi accusano di portare avanti la memoria di mia madre come vittima di mafia, qual è riconosciuta dallo stato italiano, sostenendo che l’omicidio ha “solo” un movente politico… Mi scusi, ma selezionare una classe politica per asservire ad un determinato potere (Spagnolo che doveva essere eletto al posto di Renata per agevolare certe situazioni) non è mafia? Quelle persone sono le stesse che si indignano quando don Luigi Ciotti viene a Nardò a ricordare la mamma e invoca la pedata di Dio per smuovere le coscienze, come fa sempre in ogni incontro. Nessuno mai si è indignato di quelle parole, tranne a Nardò. Questa cittadina, invece di accogliere l’invito a graffiare le coscienze per cercare verità e costruire giustizia, si offende. Perché dicono ‘Nardò non è una città mafiosa’… Ancora oggi c’è chi si ostina a dire che Porto Selvaggio non c’entra niente con la sua morte, perché c’era una legge del 1980 (la legge regionale n.21 del 1980 che attribuiva a Porto Selvaggio il carattere di ‘parco naturale attrezzato’, ndr) che lo tutelava. Ma quella era una legge ambigua per la stessa definizione che dava del parco “attrezzato”, e poi non definiva le aree di rispetto. Anche i giudici di Cassazione smontano completamente questa linea di difesa degli imputati. Negli anni ’83 e ’84 si giocava la partita, era allora che quella Commissione doveva stabilire con esattezza quali appezzamenti far rientrare o meno nella tutela del parco. È chiaro che le manovre speculative potevano essere fatte allora. Dunque, il fatto che ci fosse una legge non tutelava assolutamente il territorio.

Perché fino ad ora non si è potuto accertare quei nomi e quei cognomi?

Dovrebbe esserci qualcuno che introduca nuovi elementi. Qualcuno che parli o che si penta. Intanto, che io sappia, Spagnolo è morto, e ha più volte cercato di parlare ma è sempre stato messo a tacere. Durante è in carcere per altre condanne per associazione mafiosa (l’omicidio Fonte fu propedeutico per lui per andare nell’organizzazione) e non so quanto gli convenga parlare o quanto sappia, perché probabilmente davvero non sa chi c’era dietro Spagnolo. Per esempio, non sono mai stati tracciati i denari con cui Spagnolo avrebbe pagato l’omicidio. Ci sono state delle lacune, molte. Ci sono state delle persone che a un certo punto sono entrate nell’istruttoria e poi sono sparite e non si sa perché. Ci sono state delle cose che non sono state approfondite.

Voi, come familiari, avete dei dubbi su chi potrebbe esserci dietro?

Noi crediamo ai giudici che parlano di soci occulti, e potrebbero essere più di uno, referenti politici e imprenditori. Il problema è che proprio perché si trattava di persone potenti dal punto di vista politico, il caso è stato chiuso. Per cui, lasciamelo dire, qui c’è una connivenza a diversi livelli: politica, giudiziaria e massoneria. Ma noi non ci fermiamo! È necessario fare chiarezza, fugare ogni dubbio, fare una ricostruzione della verità, lo dobbiamo a Renata prima che a noi stessi. La fiction se un merito ha avuto al di là del gradimento, è stato quello di smuovere le coscienze, di porsi degli interrogativi, di creare dibattito intorno alla vicenda. La sera della messa in onda sui social tutti pubblicavano foto di Porto Selvaggio… Mio marito l’ha definita “una fiaccolata virtuale”.

Lei e sua sorella siete impegnate in prima linea affinché l’esempio di Renata Fonte resti vivo e sia conosciuto dalle nuove generazioni, italiane e non solo…

Nel 2006, a New York, in qualità di responsabile di Libera Memoria e referente per i familiari delle vittime di mafia, ho rappresentato l’Italia ad una conferenza mondiale organizzata da Peaceful Tomorrow, associazione dei familiari delle vittime dell’attentato delle Torri Gemelle che hanno rifiutato la guerra come risposta all’attacco terroristico dell’11 settembre. Lì ho avuto modo di confrontarmi con le varie esperienze di violenza nel mondo, abbiamo costituito un Global Network for Peace, ho parlato di Renata alle Nazioni Unite quando ancora a Nardò suscita sdegno. In quella occasione ho conosciuto Marcia Scantelbury, giornalista cilena arrestata e torturata sotto il regime di Pinochet. La sua storia è quella di Blanca del libro ‘La casa degli spiriti’ di Isabelle Allende. Marcia mi ha detto che negli anni Ottanta in Cile Renata Fonte era un simbolo per le donne cilene. Un po’ come quando io e mia sorella descriviamo Berta Caceres (attivista honduregna per i diritti sociali e ambientali del Copinh, uccisa il 3 marzo 2016 per la sua attività di opposizione alla devastazione del territorio legata a una maxidiga finanziata da colossi occidentali, ndr) che lottava per difendere il suo fiume sacro, perché difendere il suo fiume significava difendere tutti i mari del mondo…  Un po’ come dire che Renata, tutelando e difendendo Porto Selvaggio, ha difeso e tutelato il fiume sacro di Berta e il suo lontano Honduras.

 

 

 

 

Fonte:  mediasetplay
Serie TV Mediaset: Liberi Pensatori
Quattro grandi storie italiane di impegno civile: Libero Grassi, Renata Fonte, Mario Francese ed Emanuela Loi. Vissuti tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’90, in un periodo denso di cambiamenti e trasformazioni sociali, ma anche di violenze e oscure trame, queste figure hanno semplicemente e coraggiosamente compiuto fino in fondo il proprio dovere di cittadini, di uomini dello stato o di giornalisti. Persone che sono diventate loro malgrado un esempio di grande valore civile per la società italiana, grazie alle loro battaglie per rendere il nostro un Paese migliore e pagando con la vita i loro ideali di verità e giustizia.

Renata Fonte – una donna contro tutti

Renata Fonte (Cristiana Capotondi), giovane donna madre di due bambine, all’inizio degli anni ’80 diventa assessore del comune di Nardò in Salento. La sua è la vita di una donna che cerca con fatica di conciliare passione ed impegno politico con i doveri della famiglia, fino ad entrare in crisi con il marito Attilio (Giorgio Marchesi) che parte per un lavoro in Belgio. Rimasta sola a combattere per le proprie figlie e per la difesa del proprio territorio preso di mira da forti e pericolosi speculatori edilizi, Renata Fonte verrà uccisa, e solo dopo molto tempo si riuscirà a scoprire grazie all’impegno del tenace commissario Gerardi (Peppino Mazzotta), i veri mandati della sua morte in un primo momento derubricata a delitto passionale.
Regia: Fabio Mollo. Cast: Cristiana Capotondi, Peppino Mazzotta, Marco Leonardi, Giulio Beranek, Anna Ferruzzo, Michele De Virgilio, Paolo De Vita.

 

 

Fonte: corriere.it
Articolo del 5 marzo 2020
Nardò, il sacrificio di Renata Fonte che si oppose al cemento: «Morì per la sua terra»
di Michelangelo Borrillo
L’omicidio della consigliera comunale di 33 anni, avvenne il 31 marzo del 1984: sicari l’attesero dopo che era uscita da una seduta in municipio. Le figlie: «le scoprì delle speculazioni. La sua battaglia rese possibile la creazione dell’oasi di Porto Selvaggio»

«Era un sabato, quel giorno. E la domenica saremmo dovuti andare al cinema a vedere “The day after”. Ma quel “giorno dopo” dura da 36 anni». Era il 31 marzo del 1984, un sabato. E il cinema era l’Augusteo di Nardò, il paese di Renata Fonte, la prima consigliere comunale e assessore donna del Partito Repubblicano Italiano locale. Quella sera Renata uscì dalla seduta del Consiglio comunale ma non fece mai rientro a casa. «Suonarono alla porta — ricorda Sabrina Matrangola, primogenita di Renata, che all’epoca aveva 15 anni — pensai che mamma avesse dimenticato le chiavi. E invece si presentarono un’amica di famiglia e un poliziotto in borghese». A pochi passi da quel portone tre colpi di pistola avevano posto fine, a soli 33 anni, alla battaglia politica di Renata contro la speculazione edilizia di Porto Selvaggio, sul litorale jonico che si affaccia su Gallipoli.

Il Salento non era ancora cool come oggi, ma la sua bellezza naturale faceva immaginare un radioso futuro turistico. E all’epoca lo sviluppo era fatto di cemento. «Quelli — ricorda Sabrina, insegnante di Italiano e Storia al Liceo Scientifico Sportivo di Lecce e madre di due gemelli, Edoardo e Renata — erano anni di intensissime battaglie sociali e politiche. Mamma aveva certamente scoperto qualcosa su oscure speculazioni edilizie a Porto Selvaggio. Aveva ricevuto minacce. Ma per amore della sua terra non si sarebbe mai fermata. Solo noi figlie le avremmo potuto chiedere di non insistere. Ma la vedevamo felice di lottare. E non lo chiedemmo mai». Il marito, Attilio Matrangola, invece, lo aveva fatto. Ma la passione di Renata per il Salento era più forte. Dopo una vita in giro per l’Italia — da Como a Catania, passando per Cagliari — al seguito di Attilio, esperto di radar negli aeroporti, per Renata il rientro a casa nel 1980, con il marito trasferito a Brindisi, rappresentò un momento di non ritorno. «Da una parte cominciò a insegnare alle Scuole elementari di Nardò, dall’altra — ricorda Sabrina — mise in pratica gli insegnamenti di Pantaleo Ingusci, “zio Lelè”, un antifascista che incarnava gli ideali mazziniani. All’epoca venivano prima le idee, poi il partito. E mamma cominciò a impegnarsi nel locale Pri — diventandone segretario cittadino, consigliere comunale e assessore a Pubblica istruzione e Cultura — e nelle battaglie sociali con il Comitato per la Tutela di Porto Selvaggio». Quattro anni prima, in realtà, una tutela al territorio era già arrivata, con l’istituzione del Parco Naturale di Porto Selvaggio e Palude del Capitano. «Ma quel parco — spiega Viviana, la figlia più piccola di Renata — venne definito come “attrezzato”. E dietro quell’aggettivo si poteva nascondere di tutto». Viviana, quel sabato di 36 anni fa, aveva 10 anni ed era a casa della nonna.

Da una decina di giorni papà Attilio era stato trasferito per lavoro in Belgio. «Mi dissero — ricorda Viviana, architetto e madre di Sveva Renè — che mamma aveva avuto un incidente. Solo alcuni giorni dopo scoprii la verità leggendo il titolo di un giornale a casa di amici: assessore assassinata». Quel delitto ebbe una risonanza nazionale: il primo omicidio di un politico donna nel Salento, una giovane madre, insegnante, ambientalista. Si pensò subito a un delitto passionale, per l’assenza di Attilio. Poi, però, grazie alle indagini dell’allora commissario di Nardò, Rocco Gerardi, vennero in breve tempo individuati e condannati nei tre gradi di giudizio l’esecutore materiale dell’omicidio Giuseppe Durante (ergastolo), chi lo aiutò, Marcello My, gli intermediari Mario Cesari e Pantaleo Sequestro, e il mandante di primo livello, Antonio Spagnolo (ergastolo), collega di partito di Renata e primo dei non eletti alle amministrative. Che aveva come movente l’ingresso in Consiglio comunale. «Ma nelle conclusioni delle sentenze — spiega Sabrina — emerse il possibile coinvolgimento di terzi, il cui movente era garantirsi qualcuno che favorisse le progettate speculazioni. Per questo ancora oggi noi figlie ci chiediamo se i colpevoli di quell’omicidio di 36 anni fa sono solo i cinque condannati». La battaglia di Renata, però, certamente è stata vinta. È diventata il genius loci di Porto Selvaggio, un luogo da preservare non solo per la bellezza naturalistica ma anche per la sua valenza scientifica, punto in cui l’uomo di Neanderthal lasciò spazio all’Homo sapiens come dimostrano i reperti custoditi nel Museo della Preistoria di Nardò «che forse non sarebbe nato — come spiega la direttrice Filomena Ranaldo — se fosse andato avanti il modello di lottizzazione, anche delle sole aree contigue al Parco, osteggiato da Renata».

Il cui ricordo si è trasmesso nel tempo anche grazie all’impegno delle figlie e in particolare di Viviana che ha ricoperto ruoli di responsabilità nell’associazione Libera di don Luigi Ciotti. Nel 2002 Renata è stata riconosciuta vittima della mafia, prima e unica amministratrice donna uccisa, e le sono stati dedicati un film, «La posta in gioco», e una fiction, «Renata Fonte-Una donna contro tutti». Nel frattempo quel Salento a rischio cementificazione è diventato meta ambita grazie alla bellezza naturale rimasta intatta e alla riscoperta delle tradizioni, dal muretto a secco alla Taranta. «Che già 40 anni fa — conclude Viviana — mamma voleva valorizzare dando vita a un museo delle tradizioni popolari». Non c’è dubbio, Renata aveva visto molto lontano. Più in là della guerra nucleare ipotizzata da quel «The day after» che per lei è rimasto un film mai visto.

 

 

 

Leggere anche:

 

vivi.libera.it
Renata Fonte – 31 marzo 1984 – Nardò (LE)
La vita di Renata non si può racchiudere in poche parole. Una vita spinta dall’amore: per le sue figlie, per la sua famiglia, per le altre donne e per la sua terra. Che ha difeso con tutta sè stessa.

 

editorialedomani.it
Articolo del 21 marzo 2022
Un Porto Selvaggio per Renata, uccisa dalla mafia del cemento
di Sara Pasculli – Associazione Cosa Vostra

 

bari.repubblica.it
Articolo del 14 Marzo 2022
Renata Fonte, è morto a 92 anni il mandante dell’omicidio che sconvolse il Salento: porterà con sé i misteri che ancora avvolgono il caso
di Biagio Valerio
Antonio Giovanni Spagnolo si è spento nella sua Veglie, è stato condannato come l’unico mandante dell’omicidio della consigliera comunale che fu uccisa da due sicari a 33 anni. Ma molti misteri ancora sembrano irrisolti.

 

 

 

 

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