Bivona (AG) 30 Maggio 1994 Ucciso Ignazio Panepinto, titolare di un impianto di calcestruzzo. 19 Settembre 1994 Uccisi Calogero Panepinto, fratello di Ignazio, e Francesco Maniscalco, operaio di 42 anni, presente all’agguato.

Nella foto Francesco Maniscalco   (Si ringrazia Giovanni Perna di Dedicato Alle Vittime Delle Mafie)

Ignazio Panepinto, 57 anni, imprenditore di Bivona ucciso il 30 maggio 1994.
Calogero Panepinto, 54 anni, fratello di Ignazio, ucciso il 19 settembre 1994 insieme al dipendente
Francesco Maniscalco, 42 anni.

Tre colpi di lupara, il primo alle spalle. Poi, quando fu a terra, altri due sulla testa, una vera esecuzione. L’hanno assassinato il 30 maggio 1994 tra le pietre della sua cava, come a voler anche far capire la ragione di quella ferocia. Per Ignazio Panepinto quel posto a Bivona era tutto quel che aveva. Per questo l’aveva sempre difeso anche a costo della vita, appunto. Gli investigatori inizialmente seguirono una pista sbagliata. Li insospettì il ritrovamento nella cava di tanto materiale esplosivo. Pensarono che la mafia degli attentati con i botti e delle macchine che esplodono avesse avvicinato Ignazio Panepinto perché interessata ai candelotti. Panepinto era diventato fornitore occulto di quei maledetti congegni? Era questa una delle domande che frullava nella testa della Procura di Sciacca quando vennero avviate le indagini. Molte cose tra l’altro lasciavano pensare che Panepinto conscesse i suoi assassini. Probabilmente quella mattina alla cava era arrivato in macchina con loro. Forse si era rifiutato di consegnare l’esplosivo? O forse semplicemente erano andati a dirgli che si stava dando troppo da fare, che aveva spinto troppo oltre i suoi affari entrando in zone che per lui erano off limits? Se voleva lavorare – devono avergli detto – come tutti, doveva sottostare a regole precise e le regole le stabiliscono le cosche.

Nell’agrigentino, negli anni Novanta, le cosche erano in guerra. Ognuno difendeva il suo. Ognuno ammazzava per difendere il proprio interesse. Forse Panepinto aveva disturbato qualcuna delle cosche con la sua intraprendenza di uomo d’affari? Tutte domande alle quali non si riuscì a trovare una risposta. Non ce ne fu il tempo perché quella cava vide presto altro sangue e a quel punto fu chiaro che l’obiettivo era l’azienda di calcestruzzo. Si voleva che chiudesse, e per sempre.

Era il 19 settembre dello stesso anno, il 1994. I killer tornarono in contrada Magazzolo, a pochi chilometri da Bivona. Qualcuno si era permesso di riaprire i cancelli e aveva rimesso in moto le macchine. Quel qualcuno era il fratello di Ignazio Panepinto, Calogero, di 54 anni. Dopo il primo agguato la cava rimase chiusa per quattro mesi e gli operai erano tornati a casa. Ma passata l’estate, a settembre, Calogero Panepinto aveva deciso di ricominciare. La mattina del 19 setttembre era la seconda giornata di lavoro. Era arrivato dinanzi ai cancelli della fabbrica in macchina col figlio, Davide, di 17 anni, e l’operaio Francesco Maniscalco, 42 anni di Santo Stefano di Quisquina con una moglie e due figli ancora piccoli. Avevano appena aperto gli sportelli della vettura quando sentirono arrivare il rombo di un’auto che si accostava in gran fretta. Era una Croma, si era fermata proprio davanti a loro. Si aprirono le portiere e scesero in tre. Non salutarono neppure, parlarono con le pistole e i fucili. Una pioggia di proiettili che non lasciò scampo. Il sangue tornò a scorrere dentro la cava. Il titolare e il suo operaio caddero insieme. Rimase colpito anche Davide, ma i killer per fortuna non si accorsero di averlo solo ferito gravemente. quando arrivarono i primi soccorsi, per Calogero Panepinto e Francesco Maniscalco non c’era niente da fare. Davide, invece, era privo di sensi ma vivo. Venne portato in ospedale e piantonato per giorni dai carabinieri al Civico di Palermo.

Le indagini sostennero l’ipotesi che Calogero Panepinto era stato ucciso perché aveva fatto lo “sgarro” di riaprire la cava, di essersi rimesso a fare affari e questo disturbava gli affari degli appalti pubblici, monopolio delle cosche. Quali affari? Forse quelli della canalizzazione della diga Castello o qualche altro grosso appalto che si stava realizzando in quella zona montana. Francesco Maniscalco, invece, morì perché aveva visto troppo e la mafia non lascia mai testimoni. Davide fu presto dichiarato fuori pericolo al reparto maxillo-facciale del Civico di Palermo, ma la sua vita sarà per sempre segnata da quella maledetta mattina di settembre.
Tratto dal libro Senza Storia di Alfonso Bugea e Elio di Bella

 

 

 

Articolo da L’Unità del 20 Settembre 1994
Killer dì mafia all’assalto
di Ruggero Farkas
Imprenditore e un operaio uccisi a Caltanissetta

AGRIGENTO. La concessione per la cava, l’azienda che estrae la pietra e la trasforma in calcestruzzo, i contratti con le imprese di mezza Sicilia facevano gola. Chi controlla gli appalti non può tollerare un mercato libero di uno dei materiali fondamentali per le costruzioni. E così è stata decisa la condanna a morte: Ieri, di mattina, nella cava vicino al ponte sul fiumiciattolo Magazzolo, tra Bivona e Alessandria della Rocca, nel profondo sud agrigentino, i killer mandati ad eseguire la sentenza non hanno fallito e hanno ucciso Calogero Panepinto, 52 anni, imprenditore che si occupa di movimento terra, proprietario dell’azienda, tre figli, e Francesco Maniscalco, 42 anni, operaio con due figli, che aveva la colpa di lavorare lì e di aver dato il benvenuto mattiniero al principale. E nella pioggia di fuoco è stato gravemente ferito anche Davide, 17 anni, uno dei figli di Calogero che collaborava col padre.

L’inseguimento.
Dinamica semplice quella ricostruita dai carabinieri di Cammarata. I Panepinto sono arrivati con la loro “Uno” nella piazzuola polverosa della cava. Dopo pochi minuti – forse li avevano seguiti fin da quando erano usciti da casa ad Alessandria- sono arrivati i sicari, a bordo di un’altra auto. Erano almeno tre. Hanno imbracciato il fucile e le pistole e hanno premuto il grilletto. Poi la fuga veloce e senza problemi. L’imprenditore e l’operaio sono caduti morti, subito. Davide Panepinto è caduto bucato al torace, alla testa e alla schiena, dai proiettili. Ma non è morto. Altri operai l’hanno trasportato all’ospedale “Attardi” a Santo Stefano di Quisquina, e poi i medi hanno ordinato il ricovero nel reparto di rianimazione del Civico, a Palermo. E’ arrivato in autombulanza scortato da due auto dei carabinieri. Ha la prognosi riservata. Il primario Antonino Cristina ha detto che “nonostante sia stato riempito di piombo potrebbe farcela perché i proiettili non hanno leso parti vitali”. E gli investigatori non hanno perso tempo. Il ragazzo era cosciente e lo hanno subito interrogato registrando le sue parole: doveva morire anche lui.
Una cava importante quella dei Panepinto. Rifornisce le ditte di costruzioni di un terzo della Sicilia occidentale, quasi tutte le più grosse ditte di Agrigento, Palermo e province. E che facesse gola ai corvi mafiosi che non potevano tollerare che un’azienda così grossa si inserisse nel mercato era già apparso chiaro nel magggio scorso. L’Ultimo giorno di quel mese i sicari avevano ucciso Ignazio Panepinto, 57 anni, fratello di Calogero, proprietario della cava. Stesso orario, stesso posto, stessa tecnica. forse stessi killer. L’imprenditore che nel proprio certificato penale aveva solo una denucia per detenzione abusiva di materiale esplodente – reato comunissimo tra i proprietari di miniere – è stato steso con due colpi di lupara. E da quel giorno a cercare di portare di nuovo l’azienda sul mercato, a cercare gli ordinativi di calcestruzzo, è stato il fratello. Che solo due giorni fa ha riaperto i cancelli della cava. Dopo quarantotto ore è scattato l’ordine di chiudere quei cancelli perché aperti senza permesso.

Nessuna denuncia.
I fratelli Panepinto non avevano mai denunciato estorsioni, minacce, attentati. Chi li conosceva ad Alessandria sostiene che sicuramente non erano degli antimafiosi, dei fieri oppositori del rachet. Ma questo no ntoglie che in Sicilia, nella parte più ombreggiata, nel territorio sconosciuto della mafia paesana, quella più spietata e primitiva, si continui a sparare a dettare legge con la violenza e la lupara. Si uccide senza badare all’età e al numero delle vittime. Anche quelli di ieri erano omicidi annunciati, dopo il delitto di maggio. Ma come spesso avviene nessuno li ha evitati. Forse anche per colpa delle vittime che non hanno parlato. Due mesi fa, sempre in provincia di Agrigento un latro imprenditore, Salvatore Bennici, era stato ucciso sotto agli occhi del figlio reso impotente da una pistola puntata alla tempia. Lui però aveva parlato. Non era servito a niente.

 

 

Tratto dall’Articolo “Processo Face-off: 5 condannati un assolto
di Calogero Parlapiano

… E pensare che nel 1995, nell’ambito dell’operazione Vespri siciliani, l’impresa dei fratelli Panepinto, ritenuti vittime delle estorsioni, era stata messa sotto tutela, con la presenza di militari 24 ore su 24. Questo perché nel maggio del 1994 il padre dei tre fratelli, Ignazio Panepinto, era stato ucciso in un agguato di stampo mafioso, mentre nel settembre dello stesso anno, in un altro agguato fu ucciso un loro zio, Calogero, che però nulla aveva a che fare con l’impresa edile dei nipoti. In quell’agguato venne anche ferito Davide Panepinto, figlio di Calogero, e ucciso un operaio, Francesco Maniscalco, che in quel momento si trovava con loro. Storie di sangue, storie che difficilmente emergono dall’entroterra siciliano.ù

 

 

 

Articolo del 22 Marzo 2013 da  agrigentotv.it
Agrigento, omicidi mafiosi anni 90: confermato ergastolo per Fragapane

Ergastolo per Salvatore Fragapane, boss di Santa Elisabetta, riduzione di pena da otto anni a sette anni e quattro mesi per Luigi Putrone, boss e sicario empedoclino poi passato nella schiera dei collaboratori di giustizia. E’ questa la sentenza emessa dai giudici della Corte di Assise di appello di Palermo presieduta dal giudice Giancarlo Trizzino che ha dichiarato inammissibile, “il ricorso della difesa del boss Salvatore Fragapane, che aveva appellato la condanna all’ergastolo. Accoglimento parziale per il ricorso di Putrone. In primo grado davanti al Gup del Tribunale di Palermo, Vittorio Anania, il processo si era concluso così: cinque condanne, una all’ergastolo, tre a trent’anni ed una ad otto anni (con beneficio accordato ai pentiti) tre assoluzioni da ogni accusa.  Processo celebrato con il rito abbreviato, a carico di otto imputati accusati a vario titolo di una serie impressionante di delitti, undici per la precisione, commessi nell’agrigentino nel periodo più cruento, gli anni 90, della storia mafiosa provinciale. Ergastolo per Salvatore Fragapane, ritenuto responsabile come mandante degli omicidi di Giovanni Panarisi e Giuseppe Randisi; Filippo Panarisi; Amedeo Gentile, Giuseppe Barba e Vincenzo Sambito; trent’anni di carcere per Calogero Salvatore Castronovo accusato dell’omicidio di Filippo Panarisi; 30 anni anche a Joseph Focoso per l’omicidio di Giuseppe Barba; 30 anni a Giovanni Pollari per l’omicidio di Ignazio Panepinto. Per lo stesso omicidio otto anni sono stati inflitti a Luigi Putrone che ha beneficiato della particolare legislazione dei pentiti. Fragapane è stato anche condannato a pagare una provvisionale di 50 mila euro ai familiari di Giuseppe Randisi e Amedeo Gentile. Anche Putrone dovrà pagare una provvisionale di 50 mila euro ai familiari di Salvatore Greco.  Gli assolti  sono: Giuseppe Fanara, Mario Capizzi e Giuseppe Renna (da ogni accusa). Assoluzione anche per Giulio Albanese (prescrizione); Fragapane per gli omicidi Panepinto e Collura e tentato omicidio di Filippo Panarisi; Castronovo che era accusato dei delitti Barba e Russello; Focoso assolto per il delitto Russello; Renna per il delitto di Giuseppe Mallia. In appello sono giunte solo le posizioni di Fragapane e Putrone, le altre sono divenute definitive.

 

 

 

 

 

Dedicato Alle Vittime Delle Mafie

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