Il siciliano. Giuseppe Fava, antieroe contro la mafia di Massimo Gamba

Il siciliano. Giuseppe Fava, antieroe contro la mafia
di Massimo Gamba
Sperling & Kupfer Editore
1^ Edizione: 9 novembre 2010

Pippo Fava era un giornalista a caccia di notizie. Un giornalista che aveva un «concetto etico» del suo lavoro. Un cronista coraggioso, se è vero che il suo omicidio è stato preceduto da numerose minacce, che però non sono mai riuscite a condizionare la sua attività. Eppure Fava non aveva la vocazione dell’eroe. Quando, giornalista e scrittore all’apice della fama, decide di tornare in Sicilia per raccontare la sua Catania, la semplice scelta di fare con passione il proprio mestiere diventa una sfida eroica, lanciata contro il sistema di potere mafioso che governa la città. Massimo Gamba racconta questa sfida, portata avanti prima con l’esperienza del Giornale del Sud e poi con quella de I Siciliani, rivista senza soldi e senza padroni, che fin dal primo numero esprime una forza di denuncia travolgente e diventa in poco tempo un insuperato esempio di giornalismo antimafia. Pippo Fava pagherà con la vita, e il potere criminale cercherà di ucciderlo una seconda volta, seminando sospetti, calunnie e menzogne sulla sua morte. Troverà giustizia solo dieci anni dopo, quando l’antieroe che amava la vita e odiava Cosa nostra si sarà trasformato, suo malgrado, in un eroe. Le pagine di questo libro ricostruiscono gli ultimi anni della sua vita, raccontando la lotta, titanica e disperata, in nome della libertà di stampa, unica arma che, ieri come oggi, può cambiare la realtà.

Prefazione di Gian Carlo Caselli
Riflettendo sulle vittime innocenti della violenza mafiosa, lo storico Salvatore Lupo ha scritto che dal loro martirio «nasce la sorpresa che, in un’Italia senza senso della patria e dello Stato, ci siano soggetti disposti a morire per il loro dovere, per questa patria e per questo Stato. Ad ogni funerale, ad ogni commemorazione prende forma l’idea di per sé contraddittoria delle vittime di mafia come rivoluzionari, in quanto portatori di legalità». Viviamo in un Paese nel quale agli occhi dei cittadini lo Stato si manifesta troppo spesso solo con i volti impresentabili di personaggi eccellenti che con il malaffare hanno scelto di convivere o peggio. Ecco allora che le vittime della violenza mafiosa rappresentano soprattutto straordinari esempi di credibilità e rispettabilità dello Stato. Operando come hanno operato, sacrificandosi fino alla morte, hanno restituito lo Stato alla gente onesta, che così riesce finalmente a dare un senso alle parole «lo Stato siamo noi».

Ciò vale anche – ovviamente – per Pippo Fava, cui è dedicato questo bel libro. Un solido riferimento anche per chi voglia affrontare il complesso tema dei rapporti tra le mafie, la cultura e l’informazione. Un libro che dimostra come nel nostro Paese il vero peccato sia non tanto il male, ma piuttosto raccontarlo. Perciò i giornalisti che si ostinano a far bene il loro mestiere rischiano. Additati (anche da certi colleghi) come «marziani», devono mettere in conto robusti tentativi di colpire la loro personalità e il loro lavoro. Quando poi osano l’inosabile, cioè esplorare e rivelare il lato nascosto del potere mafioso (quello che si vuol tenere fuori da ogni scena pubblica, quello dei rapporti torbidi con settori della politica, dell’economia e delle istituzioni), rischiano anche la vita.
si accontentano di una sorta di connivente ipocrisia civile. Quando addirittura non assecondano quella perversa «richiesta di mafia» che talora serpeggia in vari settori della società italiana, compresi alcuni segmenti della classe dirigente.

La storia tragica di Pippo Fava è la dimostrazione di tutto ciò. Nello stesso tempo è una dura condanna per coloro (e sono tanti ancora oggi, in ogni campo professionale) che, invece di provare a spezzare il giogo dei silenzi e degli accomodamenti, si accontentano di una sorta di connivente ipocrisia civile. Quando addirittura non assecondano quella perversa «richiesta di mafia» che talora serpeggia in vari settori della società italiana, compresi alcuni segmenti della classe dirigente.

Introduzione

PIPPO Fava è stato assassinato a Catania il 5 gennaio 1984. I nove giornalisti uccisi in Italia dalle mafie (otto solo in Sicilia) hanno perso la vita tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta del secolo scorso. L’ultimo è stato Beppe Alfano, ammazzato a Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, l’8 gennaio 1993.

Dunque raccontare la vicenda di Pippo Fava, come pure degli altri cronisti vittime di mafia, potrebbe sembrare un puro esercizio di ricostruzione storica. Utile al lavoro di elaborazione del nostro passato, indispensabile per coltivare la memoria, ma comunque un’operazione rivolta al passato, sebbene un passato ancora molto prossimo.

Nulla di più lontano dal vero. Ritornare oggi sull’esperienza di un giornalista come Pippo Fava, ripercorrere le mille difficoltà che ha dovuto affrontare per fare semplicemente il suo lavoro, apre continui squarci sulla realtà attuale, a volte in modo addirittura folgorante. Se è vero, infatti, che sono passati molti anni dall’ultimo omicidio, è anche vero che dall’inizio del nuovo millennio il numero di giornalisti minacciati o aggrediti dalle mafie è salito in modo progressivo e impressionante.

* * *

I dati forniti da Ossigeno per l’informazione – l’associazione nata nel 2008 proprio per monitorare e combattere questo fenomeno – rilevano che i giornalisti, i blogger, i fotoreporter, gli operatori tv che in Italia hanno subito minacce, pressioni o violenze nell’esercizio del loro lavoro erano 40 nel 2006 e sono diventati 423 nel 2017. Nel corso di questi dodici anni il loro numero complessivo è salito a 3.508. Sono decine i giornalisti sotto scorta o che ricevono una qualche forma di protezione da parte delle forze dell’ordine.

Questa realtà è distribuita oggi su tutto il territorio nazionale e non più solo al Sud, nelle aree tradizionalmente controllate dai poteri mafiosi. Il Lazio è la regione in cui negli ultimi anni si è registrato il numero più alto in assoluto di episodi violenti o intimidatori, e ai primissimi posti ci sono regioni come la Lombardia e l’Emilia Romagna.

La tipologia delle minacce si è arricchita di numero e raffinata per modalità. Ci sono i tradizionali messaggi minatori, le lettere con insulti o con proiettili; gli avvertimenti tramite l’incendio di auto o abitazioni; le azioni di stalking e le aggressioni fisiche vere e proprie, spesso sotto gli occhi delle telecamere, con ostentata arroganza. Ma ci sono anche forme di hackeraggio informatico o insulti e minacce lanciati sui social network, dove la cassa di risonanza è maggiore.

Poi c’è l’ampio universo delle minacce con veste giudiziaria, utilizzate anche dalla criminalità, ma soprattutto da quei poteri politici ed economici che non vogliono riflettori sulle loro attività. Parliamo delle «querele temerarie», quelle cause per diffamazione, del tutto pretestuose e infondate sul piano giuridico, intentate con l’unico scopo di intimidire il giornalista e bloccare le inchieste.

Il 90% di queste cause ha esito negativo; il 70% viene archiviato direttamente dal Gip, il giudice per le indagini preliminari. Ma il timore di dover pagare risarcimenti milionari, o anche semplicemente le spese legali, diventa uno strumento di pressione sempre più efficace e utilizzato, se si considera che il mondo del giornalismo si sta impoverendo ogni giorno di più; che molte inchieste sul malaffare sono condotte da giovani cronisti freelance sottopagati e privi di qualunque tutela; che anche i grandi editori, in crisi pure loro, sono sempre meno disposti a esporsi su questo fronte.

È questo il contesto in cui si deve muovere chi vuole indagare su quella vastissima zona grigia dove le attività criminali si confondono con quelle legali. Un contesto per molti aspetti peggiore di quello degli anni Ottanta e comunque non così lontano e diverso. Ecco allora che l’esperienza di Pippo Fava può diventare un modello di riferimento per i giornalisti che vogliono percorrere la stessa strada, un esempio per tutti coloro che hanno a cuore la libertà di informazione.

Gli ultimi quattro anni della vita di Pippo Fava raccontano la lotta di un uomo, di un giornalista, contro il sistema di potere che ha dominato e controllato Catania dalla metà degli anni Settanta fino ai primi anni Novanta del secolo scorso. Un blocco di potere composito, in cui la criminalità organizzata si era alleata con importanti settori dell’imprenditoria e della politica, sotto lo sguardo silente, spesso connivente, di larghe fette delle istituzioni, del mondo delle professioni, dell’informazione locale.

Fava era un giornalista a caccia di notizie, pensate. Un giornalista che aveva un «concetto etico» del suo lavoro, figuratevi. Un cronista coraggioso, se è vero che il suo omicidio è stato preceduto da numerose minacce, che però non sono mai riuscite a condizionare la sua attività. Eppure Fava non aveva la vocazione dell’eroe. Sì, certo, era un idealista, un uomo di robusti principi morali, animato da una forte passione civile. Nel suo lavoro aveva sempre attenzione per le ingiustizie, le sopraffazioni sui più deboli, l’endemica povertà della sua terra. Si era spesso occupato di mafia. Era combattivo, coraggioso, perfino incosciente, avrebbe detto qualcuno. Ma era anche un uomo fortemente attratto dai piaceri terreni, come il cibo, le donne, lo sport, il mare. Aveva un’adesione piena, carnale alla vita e non era certo disposto a separarsene tanto facilmente.

L’avventura che lo condurrà fatalmente alla morte inizia nel 1980, quando un gruppo di imprenditori catanesi gli affida la guida di un nuovo quotidiano cittadino, il Giornale del Sud. Il direttore e il suo manipolo di carusi, i giovani che lui recluta per dare vita al giornale, cominciano a raccontare Catania, una città che sta cambiando sotto i loro occhi, una città in cui nessuno parla ancora di mafia, ma che conta cento omicidi ogni anno. Così Fava si trova a dover descrivere una criminalità che è divenuta parte di un blocco di potere più ampio, di cui essa stessa non è che una componente. E lui, cronista vero, deve raccontare tutto questo; semplicemente.

Solo che più lo racconta, più entra nelle pieghe del sistema di potere che governa la città, e più gli editori del suo giornale cercano di ostacolarlo, di fermarlo. Prima con timidi diversivi, poi con goffe intimidazioni, infine con censure sempre più esplicite e pesanti. Già, perché quel gruppo di imprenditori e politici che lo ha chiamato – è questo il gigantesco paradosso in cui Fava si è cacciato – in realtà è parte integrante proprio di quel blocco di potere che il Giornale del Sud ha iniziato a descrivere e smascherare.

Così l’esperienza è destinata a concludersi rapidamente.

Intanto, però, il gruppo si è formato: i carusi, che nel 1980 avevano poco più di vent’anni, si sono fatti rapidamente le ossa e sono pronti per una nuova avventura. Ma soprattutto è pronto lui, Pippo Fava, che si mette subito al lavoro per dare vita a un giornale tutto suo. Ha capito che solo così potrà scrivere quello che vuole, senza condizionamenti, senza censure. Nel dicembre del 1982 fa uscire il primo numero del mensile I Siciliani, con ancora nell’orecchio la voce dei suoi ragazzi che non si sentivano pronti, esprimevano dubbi, lo invitavano alla prudenza. E avevano la metà dei suoi anni.

Raccontare le inchieste de I Siciliani è come snocciolare, nella trama di un giallo, i potenziali autori e i possibili moventi di un assassinio che si sta per compiere. Sono tante le piste che vengono percorse dal giornale, e tutte vanno a comporre un mosaico in cui prende forma, in modo sempre più nitido, quel sistema di potere che tiene in pugno la città. Gli ultimi quattro anni della vita di Fava, gli anni del Giornale del Sud e poi de I Siciliani, diventano così un continuo processo di disvelamento che coincide con il racconto di Catania, una città in tumultuosa trasformazione che, quando si sentirà smascherata, lo ucciderà.

In realtà Pippo Fava ha solo cercato di fare bene il proprio mestiere, che è quello di raccontare la realtà, la «verità», come lui diceva sempre, con un briciolo di enfasi retorica. Solo che in Sicilia a raccontare la verità si rischia di finire ammazzati. In particolare se sei l’unico a farlo; se sei, come Fava, dentro un sistema dell’informazione in cui domina incontrastato un editore unico, che detta le regole delle parole e, soprattutto, dei silenzi. Una stampa dove il conformismo, la viltà, l’omertà, la connivenza si confondono in un’unica, indistinguibile melassa. Un sistema in cui la sola voce fuori dal coro diventa un bersaglio visibile, scoperto, facile da colpire. È proprio l’isolamento il brodo di coltura entro il quale matura la decisione definitiva di uccidere il giornalista. Come accade in tutti i delitti di mafia «eccellenti», d’altronde. E l’esecuzione avviene esattamente un anno dopo l’uscita del primo numero de I Siciliani.

Una volta morto, Pippo Fava non può che diventare un simbolo della lotta contro la mafia. È normale, è giusto che sia così. Ma è bene ricordare che prima di condurre la sua battaglia su questo fronte, prima di conquistarsi sul campo i galloni di eroe antimafia, Fava aveva combattuto duramente per difendere la propria libertà di espressione, la sua e quella dei suoi ragazzi. Si era difeso in tutti i modi da chi voleva mettergli il bavaglio, anche quando le censure non sembravano avere a che fare con questioni di mafia. E la sua tragica vicenda insegna proprio che queste due battaglie, quella per la libertà di stampa e quella per la legalità, sono destinate a marciare sempre insieme e in definitiva a fondersi in un’unica, grande guerra contro ogni forma di potere corrotto e criminale.

Anni di indagini e di depistaggi sull’omicidio Fava non hanno condotto a niente, se non all’archiviazione di un’inchiesta per molti aspetti scandalosa. Solo le parole di un pentito – dieci anni dopo quel tragico 5 gennaio 1984 – hanno permesso di fare luce sul delitto e di celebrare tre processi, che comunque non sono riusciti a raccontare tutta la verità. Sono serviti, almeno, a individuare i «mandanti materiali» del delitto, anche se non quelli che hanno voluto davvero la sua morte. Ma nelle pieghe degli incartamenti giudiziari si possono intravedere – a volte vedere – i tanti responsabili della sua fine. A leggerli, gli atti del processo Fava sembrano tanto le pagine de I Siciliani, solo scritte troppi anni dopo.

 

 

 

Tratto da:

Frammenti d’Italia
La Repubblica che verrà vista da Sud
Storie di ieri e di oggi raccontate a piedi
di Sebastiano Gulisano

Giuseppe Fava, il siciliano
«Gli ultimi quattro anni della vita di Giuseppe Fava raccontano la
titanica e tragica lotta di un uomo, di un giornalista, contro il sistema di
potere che ha dominato e controllato una città, Catania, dalla metà
degli anni Settanta fino ai primi anni Novanta. Un blocco di potere
composito, in cui la criminalità organizzata si era alleata con importanti
settori dell’imprenditoria e della politica, sotto lo sguardo silente,
spesso connivente, di larghe fette della magistratura, delle forze
dell’ordine, del mondo delle professioni, della cultura e
dell’informazione locale. Un sistema che gestiva la città come un
perfetto meccanismo a orologeria del malaffare, in cui nessuno osava
intromettersi a disturbare il collaudato funzionamento».
Un incipit di rara efficacia, questo con cui Massimo Gamba apre il suo
libro Il siciliano (Sperling & Kupfer), in cui ricostruisce gli ultimi anni di
vita – «il contesto», direbbe Sciascia – di «Giuseppe Fava antieroe
contro la mafia» e riconsegna a noi tutti, al Paese, il profilo e la storia di
«un giornalista piuttosto anomalo in Italia. Un giornalista a caccia di
notizie pensate. Un giornalista che aveva un “concetto etico” del suo
lavoro, figuratevi. Un giornalista coraggioso», che «non aveva la
vocazione dell’eroe». «Un uomo di robusti principi morali, un
giornalista animato da forte passione civile». Non solo. Pippo Fava è
stato «un brillante e vulcanico intellettuale, che colleziona successi a
livello nazionale». Era infatti romanziere apprezzato, sceneggiatore
cinematografico (Palermo oder Wolfsburg di Werner Schroeter ha vinto
l’Orso d’oro a Berlino), autore teatrale e pittore. «Ma era anche un
uomo molto attratto dai piaceri terreni, come il cibo, le donne, lo sport,
il mare. Aveva un’adesione piena, carnale alla vita e non era disposto a
separarsene tanto facilmente».

Fava è uno degli otto giornalisti assassinati dalla mafia in Sicilia, il
quinto per l’esattezza, ucciso con cinque colpi di pistola alla testa
esplosi a bruciapelo da Aldo Ercolano, nipote del boss Benedetto
“Nitto” Santapaola, la sera del 5 gennaio 1984.
Un lavoro prezioso, quello di Massimo Gamba, che, attraverso le
pagine del Giornale del Sud, del mensile I Siciliani, degli atti processuali,
delle testimonianze di amici, colleghi e familiari, racconta la Catania di
quegli anni, la «Milano del Sud» in cui «la mafia non c’è». Finché Pippo
Fava e i suoi carusi non scoprono e dimostrano che c’è, eccome. C’è al
punto che nell’estate del 1982 se ne accorge perfino il prefetto di
Palermo, Carlo Alberto dalla Chiesa il quale, poco meno di un mese
prima di essere ammazzato, lo denuncia in una memorabile intervista a
Giorgio Bocca: «Oggi mi colpisce il policentrismo della mafia, anche in
Sicilia, e questa è davvero una svolta storica. È finita la mafia
geograficamente definita della Sicilia occidentale. Oggi la mafia è forte
anche a Catania, anzi da Catania viene alla conquista di Palermo. Con il
consenso della mafia palermitana, le quattro maggiori imprese edili
catanesi oggi lavorano a Palermo. Lei crede che potrebbero farlo se
oggi non ci fosse una nuova mappa del potere mafioso?».
Alla fine dell’anno, sul primo numero de I Siciliani, mensile di proprietà
degli stessi giornalisti che lo scrivevano, Fava mette in copertina «i
quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa», cioè i padroni di quelle
«maggiori imprese edili» cui faceva riferimento dalla Chiesa: Carmelo
Costanzo, Gaetano Graci, Francesco Finocchiaro, Mario Rendo. Da
quel momento in poi, numero dopo numero, inchiesta dopo inchiesta,
Pippo Fava e i giovani redattori della rivista approfondiscono in
maniera continua, puntuale, incessante ciò che da cronisti, al Giornale del
Sud, avevano intuito raccontando le cronache catanesi. Svelano
convergenze d’interessi, collusioni, traffici, affari, complicità fra
establishment cittadino e clan mafiosi inaugurando una stagione di
giornalismo antimafia senza precedenti e senza pari in Italia.

«Fava – ricorda Gamba – aveva combattuto duramente per difendere la
libertà di espressione sua e quella dei suoi ragazzi. Si era difeso in tutti i
modi da chi voleva mettergli il bavaglio, anche quando le censure non
sembravano avere a che fare con questioni di mafia. E la sua tragica
vicenda insegna proprio che queste due battaglie, quella per la libertà di
stampa e quella per la legalità, sono destinate a marciare sempre
insieme e in definitiva a fondersi in un’unica grande guerra contro ogni
forma di potere corrotto e criminale».
Massimo Gamba ripercorre passo dopo passo, articolo dopo articolo,
inchiesta dopo inchiesta l’attività di Pippo Fava e dei
suoi carusi costretti a crescere troppo in fretta e, allo stesso modo,
racconta il giornalismo paludato dell’impero editoriale di Mario Ciancio
Sanfilippo, garante di quel sistema di potere catanese che prima ha
assassinato Fava e poi ha pervicacemente depistato le indagini
sull’omicidio. Fino al tardivo processo del 1996 che ha visto alla sbarra
esecutori e «mandanti materiali». «Ma nelle pieghe degli incartamenti
giudiziari, si possono intravedere, a volte vedere, i tanti responsabili
della sua fine. A leggerli, gli atti del processo Fava sembrano tanto le
pagine de I Siciliani, solo scritte tanti anni dopo».
Gennaio 2011