LAVORARE CON LA PISTOLA ALLA TEMPIA di Antonio Calabrò

LAVORARE CON LA PISTOLA ALLA TEMPIA

di Antonio Calabrò

Articolo del 31 agosto 1991
da  ricerca.repubblica.it

PALERMO – “Città maledetta. E oramai quasi senza più speranza”. Si stringe nelle spalle, come se un brivido lo scuotesse a dispetto del gran caldo d’estate. E gira intorno gli occhi inquieti, come a cercare una risposta che non c’è: che fare, adesso che un altro imprenditore palermitano è stato assassinato per aver osato ribellarsi alle famiglie mafiose? Poi sbotta, con rabbia: “La tentazione è mollare tutto e andare via. Chiudere la fabbrica, prendere moglie e bambini e ricominciare daccapo. Ma altrove. Lontani da questa città, dalla sua violenza, dal nostro stesso dolore”. Poi si calma, accenna ad un sorriso: “E invece non posso proprio chiuderla, questa fabbrica. L’ha costruita mio padre. E ne dipendono i salari e la vita di più di cinquanta operai: alcuni, li conosco da quand’ero bambino. Così ancora una volta resteremo. Ma, lo confesso, la fatica è ogni volta più grande, più insopportabile”. È pomeriggio. Periferia di Palermo. Una strada dissestata e polverosa corre tra i capannoni, in un quartiere che solo per definizione burocratica si chiama “zona industriale”. E qui, in un ufficio ingombro di carte e disegni, l’uomo confida tutta la sua angoscia d’imprenditore siciliano. Ha poco più di quarant’anni, una laurea in ingegneria e metà della vita spesa per far funzionare l’azienda, in quest’inferno meridionale in cui tenere in piedi un’impresa è un azzardo molto più rischioso che altrove.

Già, il rischio. Che l’impresa sia una combinazione di rischio e innovazione lo dicono tutti i manuali di economia. Ma nessuna regola imprenditoriale prescrive che si metta in gioco la propria incolumità, come è successo due giorni fa a Libero Grassi e prima di lui ad alcuni altri industriali, costruttori, commercianti. Eccola qui, dunque, la peculiarità tutta meridionale del rischio d’impresa: un gioco di vita e di morte, che accompagna e stravolge – a Palermo come a Catania, a Reggio Calabria come in Campania – tutti gli altri parametri del giudizio imprenditoriale: la qualità dei prodotti, il costo del denaro, l’innovazione dei processi produttivi, le quote di mercato. E, qui, la morte. “In queste condizioni – racconta il nostro industriale – come si fa a pensare seriamente allo sviluppo delle aziende, come si fa a lavorare bene e ad essere competitivi? A Parma, a Ravenna, ad Ancona o a Prato, non c’è nessuno che spari agli industriali, non c’è nessuno che li minacci di morte”. Le voci della crisi Sono tante, in queste ore a Palermo, le voci della crisi. Impossibile raccogliere una testimonianza che possa essere accompagnata da un nome e un cognome. Paura, ma soprattutto un grande sconforto. Dietro la sicurezza dell’anonimato, si raccolgono comunque molti pareri. Che dicono tre cose.

La prima: in Sicilia, al di là dei “signori degli appalti”, esistono alcune buone imprese che potrebbero fare da motore dello sviluppo.

La seconda: la crescita economica ha bisogno di condizioni ambientali e di una rete di rapporti che permettano alle imprese di espandersi, ma l’ intreccio delle tangenti e delle minacce mafiose rischia di rendere impossibile ogni speranza di sviluppo.

La terza: di imprenditori, in Sicilia, finora ne sono morti parecchi e ogni volta ci sono state solenni promesse d’intervento delle autorità e sostanziali assenze dello Stato. Adesso, dopo l’ uccisione di Libero Grassi, si ripete la medesima rappresentazione. E poi? È antica, la consuetudine siciliana con la memoria. Impossibile dimenticare. Soprattutto quando è la violenza a fare da cemento ai ricordi. E così non c’è nessuno, tra gli imprenditori palermitani, che non sappia ricostruire il lungo elenco degli industriali assassinati, dall’omicidio molto misterioso del costruttore Piero Pisa, nove anni fa, alla spettacolare esecuzione di Roberto Parisi, nel febbraio ’85: era un “industriale del palazzo”, Parisi, addentro all’intreccio tra affari e politica. Ma perché sia stato assassinato, le indagini giudiziarie non lo hanno mai accertato. Tra le tante ipotesi, una tremenda: che Parisi, pur profondo conoscitore delle logiche del potere palermitano, avesse detto di no ad una richiesta pesantissima: ritrovarsi come azionisti di maggioranza i boss mafiosi. Il suo rifiuto sarebbe stato giudicato intollerabile. E dunque punito. Si commenta: «Già all’inizio degli anni ’80, i boss avevano cambiato strategia. Da alcuni di noi industriali non volevano più ” il pizzo” per la protezione. No. Pretendevano di diventare soci, in modo da avere una copertura legale per le loro attività illecite». Qualcuno aveva rifiutato: un piccolo industriale di Partanna, per esempio. Era morto. Così, lungo il corso degli anni ’80 scanditi dal terrore della “guerra di mafia”, moltissimi imprenditori hanno subito le imposizioni, hanno “pagato”. Talvolta con indifferenza, come se la tangente fosse una delle tante voci dell’elenco dei costi d’impresa. Più spesso con fastidio, ma con altrettanta rassegnazione.

Qualcuno ha detto di no e s’è ribellato platealmente. Luigi Salatiello, per esempio: aveva rifiutato di pagare una tangente per avere “protezione” alla Keller, la sua impresa di costruzioni ferroviarie, aveva denunciato le intimidazioni e aveva portato il caso in Parlamento (era deputato della Sinistra indipendente). Accanto ai rifiuti pubblici, non sono mancati altri rifiuti più discreti, ma altrettanto decisi. Ma stroncati dai boss. Piero Patti, imprenditore alimentare, era stato assassinato il 28 febbraio ‘ 85 di primo mattino, in centro, mentre accompagnava a scuola le sue bambine. E Gianni Carbone, due settimane dopo, negli uffici della sua azienda di costruzioni. Ricordi, ricordi. E una diffusa, crescente paura. Ucciso Francesco Paolo Semilia. Ucciso Luigi Ranieri. Non c’era mistero, dietro quelle morti, se non sull’identità degli assassini. Allora, alla fine dell’88, davanti al cadavere di Ranieri, il presidente dei costruttori, Nello Vadalà, aveva dato un segnale che avrebbe dovuto fare riflettere: “Gli imprenditori vengono uccisi non perché siano collusi, ma perché oppongono una disperata resistenza alle infiltrazioni mafiose nell’economia legale”.

Le pressioni sull’economia.
Interventi reali, dopo quella drammatica denuncia? Nessuno. E chi conosce le storie siciliane sa come si siano saldate vecchie e nuove alleanze tra mafia, pubblica amministrazione e imprese “discusse” e come siano contemporaneamente diventate sempre più pesanti le pressioni mafiose sull’ economia siciliana. Procede una vera e propria “normalizzazione mafiosa” che non tollera anomalie. Una riprova? L’assassinio a Catania di due dirigenti d’ azienda, Alessandro Rovetta e Francesco Vecchio, il 31 ottobre d’ un anno fa: avevano rifiutato di lasciare spazio, nella loro acciaieria Megara a false cooperative controllate dai clan mafiosi. Grande allarme, allora. La Megara era d’un gruppo di Brescia e s’era temuto che si scatenasse una fuga d’investimenti dal Sud. Così il governo aveva promesso interventi per “controllare il territorio”, risanare l’economia, proteggere gli imprenditori onesti.

“E invece – si commenta a Palermo, in fabbrica – eccoci nuovamente di fronte al cadavere d’uno di noi”. Il futuro è cupo: “Qualcuno in silenzio rinuncerà, chiuderà la fabbrica e andrà via dalla Sicilia. Qualcun altro continuerà mortificato a pagare tangenti e a tremare. Forse pochi, ancora, si opporranno, temendo il peggio. E si andrà avanti così. Come sempre. Sino al prossimo morto”.

 

Google foto

 

Leave a Reply

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *