LE GRANDI FAMIGLIE DEL CRIMINE: LA CALABRIA Una triste giostra di morti

LE GRANDI FAMIGLIE DEL CRIMINE: LA CALABRIA Una triste giostra di morti
di Francesco Rosso

Articolo da La Stampa del 27 Marzo 1976

Potrebbe essere l’elenco telefonico di una città media e sono invece i necrologi dei calabresi ammazzati in trent’anni, spesso per futili motivi – I deliranti messaggi del “Sartana” dell’Aspromonte e l’incredibile “sfregio” vendicatore ad una bara.

Reggio Calabria, marzo.

Potrebbe essere l’elenco telefonico di una città media, e sono invece i necrologi dei calabresi fatti secchi in poco meno di trent’anni; a volte per grossi interessi di mafia, spesso per cause che si suol definire futili, un capretto, due chili d’olive, un quintale d’arance, portati via o dall’ovile, o dai campi di vicini, o parenti. Mille morti ammazzati nei villaggi e sulle mulattiere della Calabria, e ventuno nei due primi mesi di quest’anno nella sola provincia di Reggio; una voglia di sangue che non ha riscontri in nessun’altra regione italiana, né in Sicilia né in Sardegna, che pure sono sempre indicate come le più facili al delitto. Il primato lo detiene Reggio con la sua provincia, perché qui si accentra il grosso gioco degli interessi mafiosi, ma ci sono luoghi del Catanzarese che non scherzano. Un esempio è Crotone, dove la corte d’assise ha appena condannato a trent’anni Luigi Vrenna. e due suoi figli a pene un po’ più miti; accusa, l’assassinio dei fratelli Domenico e Salvatore Feudale, 19 anni il primo. 10 anni il secondo, perché pare che il loro papà avesse ucciso un figlio del Vrenna.

Ma questo è tipico in Calabria, si uccide non importa chi, purché vicino a colui del quale ci si vuole vendicare. Cerco di mettere un po’ d’ordine nella valanga di materiale cronistico raccolto cercando in archivi e conversando con la gente, ed è un’Impresa disperata: centrare tutta l’attenzione sulla faida di un determinato paese finirebbe non solo per snaturare le intenzioni di quest’indagine, ma per dare l’impressione che si tratti di fenomeni isolati, quindi da non considerare come tipici di tutta una regione. Ero partito per analizzare soprattutto la faida di Seminara, cinquemila abitanti, nota per la sua produzione di apprezzate ceramiche, e per i sedici morti i cui nomi potrebbero essere scritti su targhe e applicati sulle sedici piante che adornano la bella piazza principale dove spesso cantano lupara e mitra, perfino sotto le finestre della caserma dei carabinieri, appena defilata all’angolo della piazza in cui, finora, e chi sa per quanto tempo ancora, si sono dati battaglia i Facchineri e gli Albanese. Ma sarebbe giusto limitare l’indagine a questo campione, quando Cittanova, ma ancor più Guardavalle, offrono elementi per ben più meditate analisi?

Certo Seminara, presa come campione, può offrire molti elementi, anche folcloristici oltreché tragici, che possono invogliare ad una dettagliata descrizione dei fatti, perché dimostra, meglio di altre faide, come in Calabria agisca più l’impulso che il raziocinio. La faida di Seminara, incominciò con una frase incontrollata di Giuseppe Frisino, notoriamente mentecatto, rinchiuso più tardi in manicomio criminale, diretta a Giuseppe Gioffrè, il quale reagì con uno schiaffo. Il Frisina esce dall’osterìa dove si era svolta la scena, va a casa, afferra una pistola, torna all’osteria, spara e ferisce a morte il Gioffré. Incomincia la giostra dei morti e dei feriti. Il Gioffré muore, ma c’è subito chi lo vendica abbattendo, anche solo ferendoli, due amici del Frisina, che a loro volta si rifanno contro i Gioffré ed i loro parenti ed amici. Non c’è scampo per nessuno, né per le donne, né per i bambini.

I nomi non sono sempre gli stessi, ma ciò che conta è la suddivisione del paese in due clan distinti: quelli che combattono per i Frisina-Pellegrino, e quelli che fanno quadrato attorno ai Gioffré-Gallico. Oggi la bella piazza ha l’aspetto di un calmo palcoscenico agreste, coi vecchi sulle panchine a prendere il sole, i giovani nei bar e nelle osterie da cui escono bordate di musica fracassona: ma fra quella gente c’è sicuramente anche qualche comprimario giovane e spavaldo come quel Gioffré che, dalla latitanza sull’Aspromonte, scriveva lettere deliranti per estorcere denaro, e si firmava Sartana, o Ringo, a seconda dei momenti, lettere di questo tenore: «Un turbine di polvere, un grido di terrore: arriva Sartana, Vincenzo Domenico Gioffré, latitante di Seminara». C’è un ramo di follia, in tutto ciò, ma che si concreta poi in rapine ben preparate alla ferrovia calabro-lucana, o in assassinii eseguiti con freddezza da professionista del crimine.

A Seminara non parlano volentieri di queste faccende, e se qualcuno si lascia andare a mezze confidenze è per condannare la violenza, però facendo dei distinguo fra chi ha torto e chi ha motivi validi per vendicarsi. C’è poi l’infatuazione per il personaggio che sa crearsi un alone di gloria rusticana, quel matto di Ringo, o Sartana, ad esempio, che miete simpatie al clan dei Gioffré specie fra i giovani, ma c’è anche un notevole rispetto per il clan dei Pellegrino per il gesto «glorioso» di Salvatore, un tipo tutto fegato. Il 21 novembre 1971 era stato ucciso a lupara un Gioffré, e due giorni dopo stavano facendogli i funerali. Il corteo era già sulla piazza, diretto in chiesa, e da una viuzza laterale sbucò Salvatore Pellegrino col mitra imbracciato. La gente fuggì urlando, i portatori buttarono a terra la bara e se la diedero a gambe: pensate alla scena; i gruppi di donne in nero, gli uomini altrettanto neri, che occhieggiano dagli angoli delle case, anche da dietro la porta dei carabinieri, e Salvatore Pellegrino solo in mezzo alla piazza, con quella bara ai piedi: sforacchia il legno, per dispregio, con alcuni colpi, e se ne va, mentre il corteo si ricompone, i portatori si ricaricano la bara sulle spalle e le campane della chiesa riprendono a suonare a morto.

Ci sarebbe da farne un film di comicità nera, se subito non riprendesse il massacro: l’ultimo delitto della faida di Seminara è del febbraio dell’anno scorso, ed è un Pellegrino a cadere: era la conseguenza di un duplice assassinio precedente che sgomenta; sempre sull’armoniosa piazzetta, Alfonso Bruno, amico dei Gioffré, viene «sparato» mentre porta a cavalcioni il suo piccino di diciotto mesi, Giuseppe. Muore il piccino, il padre rimane ferito, ma per essere definitivamente ucciso un mese dopo.

Ci si sposta di qualche chilometro e si arriva nel cuore più caldo della violenza calabrese; il centro più famoso è Cittanova, quindici morti ammazzati in 10 anni, ma anche Taurianova non scherza: fra i due paesi, che distano poco più di cinque chilometri, ci sono stati undici omicidi in due anni. A Cittanova, deliziosa cittadina di dodicimila abitanti al centro di una piana coltivata ad olivi ed aranceti, quel giorno di domenica era una festa come tante; il giardino pubblico affollato, i vigili che dirigevano il traffico, i bar e le trattorie stracolmi. Ma era solo apparenza; nella caserma dei carabinieri il col. Giuseppe Montanaro teneva rapporto al cap. Candida ed al maresciallo Megali; il proposito, anche se non me lo hanno detto esplicitamente, era la intensificazione della lotta al banditismo ed ai latitanti nascosti sull’Aspromonte che è lì, a due passi dalla città. Un cartello giallo, di quelli turistici, indica la strada dello Zomaro, dov’è incominciata la faida fra gli Albanese ed i Facchineri, e dove gli omicidi continuano con una cadenza terrificante.

Incominciò Antonio Albanese il 23 ottobre 1964 uccidendo, pare per un maiale sfuggito al branco, Domenico Gerace, come lui allevatore di bestiame. Quattro mesi dopo, Antonio Albanese, scarcerato non si sa perché, fu sorpreso in un’osteria di Cittanova mentre giocava a «passatella» da Luigi Facchineri, parente del Gerace, e ucciso a revolverate. Si continua con questo ritmo, un morto degli Albanese, o del loro amici e congiunti, un altro morto dei Facchineri, o dei loro amici e congiunti. Il più bel centro lo fanno i Facchineri: riescono a far uccidere nelle carceri di San Pietro, a Reggio Calabria, da un sicario rimasto sempre ignoto, Giuseppe Raso amico degli Albanese, implicato in un certo numero dì omicidi e ferimenti. L’ignoto sicario è riuscito ad entrare nella cella di Giuseppe Raso, sparargli otto colpi di pistola tutti andati a segno, uscire ed eclissarsi. L’Ucciardone ha fatto scuola, evidentemente.

Ma il colpo più duro lo hanno subito i Facchineri: il 13 aprile dell’anno scorso i fratelli Giuseppe e Michele Facchineri erano sulla soglia di casa, al sole: con loro c’era la moglie di Michele, incinta. Arrivano a bordo di un furgoncino tre sconosciuti che sparano a raffica senza pronunciare parola; Giuseppe rimane secco. Michele la scampa, sua moglie rimane ferita. Non sono riuscito a sapere se ha poi avuto il bambino: qualcuno dice di sì, altri di no. La donna, mi hanno detto, è ora sullo Zomaro. Gli assassini se ne vanno, incontrano per strada due fanciulli. Michele Facchineri, di tredici anni e suo fratello Domenico, di nove; non esitano un istante, e li trucidano: sono pur sempre due Facchineri. Il padre, Vincenzo Facchineri, a domicilio coatto all’Asinara, ottiene un permesso per i funerali dei bimbi: finite le esequie fugge sull’Aspromonte, ed è ancora lassù. Ma agli Albanese non basta ancora; il 17 dicembre dell’anno scorso è stato ucciso Marcello Marvaso, detto «Faccia d’angelo» perché «bello come Rodolfo Valentino» dicevano le ragazze, ed il 20 gennaio di quest’anno, è toccato a suo fratello Giuseppe. 24 anni, meno bello, ma anche lui fortunato in amore, cugini dei Facchineri e sicuramente legati alla spirale delle vendette.
Per ora, a Cittanova finisce qui, ma di latitanti che s’annidano sull’Aspromonte a meditare la loro vendetta, ve ne sono molti.

Ogni giorno, da Vibo Valentia si alzano in volo quattro elicotteri a perlustrare il monte dall’alto; decine di carabinieri rastrellano gli anfratti, i casolari, le stalle; ogni tanto ne beccano qualcuno, ma ci sono già pronti i rincalzi per occupare i posti rimasti vuoti. E si va avanti così, con tanti orfani, vedove, sorelle che hanno paura della morte eppure la evocano ad ogni istante. I carabinieri mi dicono che le donne di qui sono famose per la loro avvenenza e ferocia; soavi nell’amore, terribili nell’odio. Sono definite «le vestali della vendetta», ed è lo stesso fenomeno che si verifica in Sicilia ed in Sardegna. Ed è una vendetta che può essere feroce, come l’uccisione di Celestino Gullace, sempre di Cittanova, amico degli Albanese; lo costrinsero a ingoiare tutta la terra intrisa del sangue di una sua vittima, finché non ne rimase soffocato. Oppure ha momenti di delirio, come la faida di Guardavalle, tremila abitanti, sul versante ionico. Anche lì, all’origine della faida fra i Randazzo ed i Tedesco c’è una manciata di olive rubate nel 1955 da Giuseppe Gagliardi, nipote di un Tedesco. Fu ucciso durante una sparatoria in cui intervennero anche i carabinieri, e da allora non c’è più stata pace tra le due famiglie che, però, hanno atteso ventanni per vendicarsi. Avvenne il 31 dicembre 1974, ed il massacro durò due giorni, due giorni di fuoco, con il suo culmine al capodanno 1975; alla fine al cimitero sei morti, all’ospedale dieci feriti, un certo numero di vedove ed orfani e sull’Aspromonte un discreto numero di latitanti. Il paese è ancora come oggi istupidito da quella battaglia sanguinosa scaturita dal nulla, per un po’ di olive. Ma in Calabria queste cose accadono, e se si entra poi nel regno della mafia ne accadono di peggiori. Ma questo è un altro discorso.

 

 

 

Articolo di La Stampa del 25 Maggio 1975

Il processo per la “faida di Seminara” – Odio fra due clan, in tre anni 16 morti

di Guido Guidi

Una allucinante vicenda in corte d’assise a Palmi

Palmi, 24 maggio.
Il bilancio è allucinante: sedici morti ed altrettanti feriti nell’arco di trentasette mesi. A Seminara, un paesino di cinquemila abitanti tra l’Aspromonte e Gioia Tauro (niente locande, niente cinema, niente trattorie: soltanto una farmacia, la chiesa, la caserma dei carabinieri, una scuola), tutti sanno che queste sono le conseguenze di una guerra privata, per vendetta, tra due famiglie: quella degli autotrasportatori Gioffrè e quella degli agricoltori Pellegrino. Ma nessuno parla: qualcuno per paura, la maggior parte per una questione di principio. Anche Vincenzo Domenico Gioffrè, detto «Ringo», capo riconosciuto e temuto di uno dei due clan, non è venuto meno alla regola.

Questa storia terribile che non è affatto conclusa perché la spirale della vendetta e dell’odio sembra destinata a continuare, è cominciata con un episodio soltanto in apparenza banale, anzi con una frase. «Noi siamo uomini e non abbiamo paura di nessuno» gridò Giuseppe Frisina uscendo dal bar e lasciò intendere che la battuta era per Domenico Gioffrè. Erano le cinque del pomeriggio di venerdì 17 settembre 1971: Domenico reagì con uno schiaffo, Giuseppe cavò di tasca la pistola e ferì Giuseppe, figlio diciannovenne di Domenico.

Fu la guerra, dunque. La reazione dei Gioffrè arrivò puntuale: tre settimane dopo, due omicidi. Alle 4 del pomeriggio del 7 ottobre 1971 viene ucciso Rocco Pellegrino che sta lavorando al suo distributore di benzina; alle sei del pomeriggio muore un contadino, Antonio Pietropaolo. I due sono ritenuti responsabili dalla famiglia Gioffrè di avere aiutato Frisina a fuggire: una colpa gravissima, un affronto da punire con la morte. Quarantotto ore dopo, terzo delitto: questa volta vengono colpiti i fratelli Di Rocco (Michelangelo e Pietro) e la madre, Maria Antonia.

Chi ha sparato? L’accusa non ha dubbi: Rocco Pellegrino e Fiorentino Staltari sono stati colpiti da Vincenzo Domenico Gioffrè detto «Ringo», 30 anni, alto, robusto, tracotante; gli altri dal fratello minore (27 anni) Giuseppe Vincenzo. «Ero sull’Aspromonte — ha spiegato oggi ai giudici per difendersi — e non potevo quindi essere a Seminara. Ero latitante perché avevo litigato con un brigadiere della polizia stradale». Nella realtà questa lite si era trasformata in un’accusa di aggressione al sottufficiale che lo aveva fermato per un normale controllo: Ringo è stato condannato a 16 mesi.

Il processo che è cominciato oggi viene circoscritto soltanto a questi episodi. Ma la storia della faida continuò dopo quelle sanguinose giornate dell’ottobre 1971. Nel pomeriggio del 14 novembre 1971 in piazza dei Martiri viene ucciso un pensionato, Domenico Gallico, 65 anni: si disse che avesse assassinato Antonio Pietropaolo, ma tutto è rimasto nell’ombra. Sconcertante è che Domenico Gallico era con un amico, stava parlando con lui: questo amico ha sempre «giurato» di non avere sentito neanche i colpi di lupara. Sette giorni dopo è il turno di Gaetano Gioffrè, 19 anni.

L’inverno portò a Seminara una tregua: ma era soltanto apparenza. Gli uomini erano in montagna e pensavano soltanto alla vendetta. La guerra tornò ad infuriare a primavera. Il primo a cadere è Domenico Gioffrè detto il Monco: gli spara alle spalle Salvatore Pellegrino che ebbe il coraggio di presentarsi ai funerali di Gaetano Gioffrè imbracciando un mitra con la conseguenza che i becchini lasciarono cadere la bara e fuggirono. Ma tre giorni dopo (22 marzo 1972) Vincenzo Gioffrè vendica il figlio Gaetano ed uccide Pietro Pellegrino.

Poi tocca a Rocco Surace che ha soccorso uno dei Pellegrino morente ed ad altri che sono rimasti coinvolti nella faida. Dalla spirale della vendetta non rimangono fuori neanche le donne: il 26 gennaio 1973 viene uccisa la vedova di Rocco Pellegrino. Infine quelli che cronologicamente sono gli ultimi due episodi: la sera dell’undici settembre 1974 viene ucciso un bimbo di 18 mesi che suo padre, Alfonso Bruno, portava a cavalcioni sulle spalle; la sera del 26 ottobre un killer spara ad Alfonso Bruno perché lui era l’obiettivo da raggiungere.

Questo il quadro della situazione: terribile, agghiacciante. Il presidente della corte d’assise oggi ha avvertito i giudici che non è un processo in cui sia facile trovare la verità perché tutti tacciono e tutti negano di sapere qualcosa. Nessuno si è costituito parte civile: i parenti delle vittime hanno altro cui pensare. Anche al pubblico di Seminara il processo non sembra interessare: ognuno preferisce non farsi vedere in aula perché potrebbe dare fastidio o a quelli del clan Gioffrè o a quelli del clan Pellegrino.

 

 

Foto da: reportdifesa.it

 

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