“VITTIME E RIBELLI. DONNE DI ‘NDRANGHETA da Lea Garofalo a Giuseppina Pesce” di Umberto Ursetta
Luigi Pellegrini Editore
Non si può capire la particolare natura della ’ndrangheta, se non si comprende il ruolo delle donne. Un importante aspetto che Umberto Ursetta riesce a cogliere con questo libro che va ad aggiungersi nella storiografia sulla ’ndrangheta a un altro testo fondamentale, quello di Renate Siebert. Ursetta, una vita a insegnare diritto, ricostruisce in modo scrupoloso fatti, circostanze, indagini e processi. Quello che ha scritto è un libro di cui si sentiva il bisogno e che merita di essere letto.
fonte: pellegrinieditore.com
Prefazione di Antonio Nicaso
È cambiato, anzi si è evoluto, il ruolo della donna nella ’ndrangheta, almeno nella comune percezione. Un sondaggio promosso dalla Fondazione Bellisario indica che il 28,7% degli intervistati vede le donne di ’ndrangheta come «una risorsa operativa e una forza lavoro qualificata», mentre il 20,6% pensa che esse rappresentino uno «strumento per sostenere e difendere i valori della cosca». Più complici che succubi, insomma, fortemente coinvolte nella gestione e nell’amministrazione delle risorse finanziarie. Donne sempre più istruite, trattano l’acquisto di armi, gestiscono conti correnti, si occupano di operazioni finanziarie, vigilano sulle estorsioni, creano imprese. E, soprattutto, crescono i figli nel rispetto di una tradizione violenta e criminale, li educano alla vendetta e li offrono all’esercito dei clan, condannandoli ad una vita nell’illegalità, una non-vita in cui tanti giovani ancora cercano e trovano il proprio futuro.È complesso il ruolo della donna in terra di ’ndrangheta. Può decidere di investire in interi settori di mercato, ma non truccarsi quando il suo uomo è in carcere. Può dare ordini di morte, ma non può permettersi di avere un amante o di lasciare il consorte, il marito designato. Concettina Labate, moglie e madre di cinque figli, vieneammazzata dal padre, un boss di Reggio Calabria, perché aveva intrapreso una relazione extraconiugale, disonorando l’intera famiglia.Lea Garofalo, ex convivente di uno spacciatore legato alla ’ndrangheta, viene invece uccisa e bruciata, alle porte di Milano, per aver deciso di collaborare con i magistrati.Nella mafia calabrese la donna esiste solo in relazione all’uomo.«Senza», scrive Roberto Saviano, «è come un essere inanimato. Un essere a metà». La ’ndrangheta è la più sicura roccaforte del maschilismo.In questa organizzazione, la donna può accrescere il potere del clan, seguendo la strategia dei matrimoni combinati, può essere una compagna fedele, una buona cuoca, una bella amante. Ma non può godere di troppa libertà, né esibire il potere. Maria Serraino guida un imponente traffico di droga a Milano, ma lo fa senza oscurare il figlio, capo riconosciuto della famiglia Di Giovine. «Era lei ad avere il potere», racconta la figlia Rita una delle prime collaboratrici di giustizia nella ’ndrangheta: «Era lei che decideva cosa fare e cosa non fare. Se decideva che un lavoro non si dovesse fare, allora non si faceva». Le donne di ’ndrangheta non prestano il giuramento di fedeltà, anche se quelle particolarmente meritevoli possono essere associate con il titolo di sorella d’omertà.
«Ma», precisa Antonio Zagari, «difficilmente si riconosce il titolo a chi non è già moglie, figlia, sorella, fidanzata, o comunque imparentata con uomini d’onore».
Anche se ci sono ancora famiglie che ritengono le donne inadeguate a svolgere ruoli operativi in seno alla ’ndrangheta («sono fimmine», dice il figlio di un boss di Palmi), ci sono madri o mogli di boss che masticano violenza, più o quanto gli uomini.
Maria Teresa D’Agostino, moglie di Carmelo Bellocco, fratello di Umberto, patriarca dell’omonima famiglia, partecipa a un summit nella sua abitazione di Granarolo dell’Emilia il 21 gennaio 2009 per decidere sull’eliminazione di un ex alleato. Parlando con il figlio Umberto, la donna spazza via ogni dubbio, sostenendo la necessità di fare piazza pulita, senza risparmiare nessuno, né donne, né bambini. «Li dobbiamo prendere pari pari» – dice – «Anche perché se non staremo noi con la pace non starà nessuno».
Dall’altra parte dell’oceano, Teresa Schirripa, madre di un trafficante di cocaina, riferendosi ad alcuni clienti insolventi, non usa mezzi termini: «Dovevamo farli a pezzi. Come Rambo, dovevamo fare, come Rambo. Perché loro non sanno chi siamo noi».
Vale per tutte l’esclamazione di Graziella Manfredi che, in una conversazione con il marito, coinvolto in una guerra di ’ndrangheta a Isola Capo Rizzuto, precisa, quasi stizzita: «mica sono ciota [sciocca]».
Conoscono, sanno ogni cosa, anche quando fingono di non conoscere o di non sapere. Per decenni, hanno goduto di una sorta di impunità connaturata, come la definisce Teresa Principato, magistrato del Tribunale di Palermo. «Sono state ritenute non socialmente pericolose e non rilevanti ai fini della configurazione della fattispecie associativa». Una sottovalutazione che ha portato un notevole vantaggio alle associazioni mafiose in genere, poiché le donne hanno potuto agire quasi indisturbate e, come documentano le ultime inchieste della magistratura, essere utilizzate in diversi settori.
Ma forse anche qui, pesa la nostra stringata memoria collettiva.
Dal 1999 al 2005 la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria indaga 594 donne. E nel 2000 un’indagine della Direzione investigativa antimafia rileva la presenza di 255 donne tra i 7.358 ’ndranghetisti schedati nella Provincia di Reggio Calabria. Dieci donne vengono condannate per associazione a delinquere dal 1880 al 1906 in Calabria e, nello stesso periodo, altre otto sono prosciolte in appello o in istruttoria.
Negli ultimi tempi, alcune donne, come Giuseppina Pesce, scelgono di puntare il dito contro i propri famigliari, per salvare i figli da un destino segnato. Se altre dovessero seguirla su questa strada, potrebbe finalmente essere superato il ruolo di subalternità in cui tante donne di ’ndrangheta hanno finora vissuto. Una conquista della società che potrebbe scuotere la ’ndrangheta dalle fondamenta e ferirla a morte, come nessuna indagine potrebbe mai fare.
Non si può capire la particolare natura della ’ndrangheta, se non si comprende il ruolo delle donne.
Un importante aspetto che Umberto Ursetta riesce a cogliere con questo libro che va ad aggiungersi nella storiografia sulla ’ndrangheta a un altro testo fondamentale,
quello di Renate Siebert.
Ursetta, una vita a insegnare diritto, ricostruisce in modo scrupoloso fatti, circostanze, indagini e processi.
Quello che ha scritto è un libro di cui si sentiva il bisogno e che merita di essere letto.
Articolo del 1 Luglio 2016 da ilmanifesto.info
Assassini di innamorati
di Angelo Mastrandrea
Mafie. Storia di Giuseppe Luzza, il ventiduenne trucidato dalla ’ndrangheta perché amava una ragazza che, per sua sfortuna, era la cognata di un boss del vibonese. La concezione proprietaria della donna radicata nella cultura diffusa mafiosa.
A 22 anni, l’esistenza di Giuseppe Luzza poteva essere riassunta in un solo aggettivo: irreprensibile. Per quale motivo, dunque, il giovane scomparve nel nulla, il 15 gennaio del 1994? L’unica foto che circola in rete lo vede in posa a torso nudo, probabilmente al mare, il volto poco più che adolescente, sereno, sotto una folta capigliatura scura. All’epoca era innamorato di una coetanea, a sua volta imparentata con un boss della ‘ndrangheta: Antonio Gallace, uno dei protagonisti della cosiddetta «faida delle Preserre vibonesi» tra i comuni di Gerocarne e Acquaro, ancora oggi non sopita del tutto. Da quasi trent’anni affiliati, familiari e a volte persone innocenti vengono catturati, portati nei boschi, interrogati sotto tortura, massacrati e sepolti senza lasciare tracce, andando a ingrossare le fila dei desaparecidos di casa nostra. Il 28 settembre del ’93, pochi mesi prima di Giuseppe Luzza, era toccato a Placido Scaramozzino, di professione parrucchiere: fu sequestrato, tramortito a colpi di zappa e, a detta di un pentito che aveva partecipato al rapimento, sepolto in una fossa scavata per l’occasione mentre ancora respirava.
«La zona del vibonese è conosciuta come quella dove le persone spariscono senza lasciare traccia», scrive Umberto Ursetta nel suo Vittime e ribelli, un libro nel quale ricostruisce numerosi casi di femminicidi e omicidi legati al codice d’onore della ‘ndrangheta: donne uccise perché tradivano il marito in carcere o perché volevano evadere dalla gabbia della logiche mafiose, uomini spariti nel nulla perché amanti della donna sbagliata, coppie di amanti trucidate per gli stessi motivi. Un lungo elenco che ha il suo acme nella scomparsa, a Milano e non in Calabria, di Lea Garofalo da Petilia Policastro, cittadina di minatori e ‘ndranghetisti, portata in televisione da Marco Tullio Giordana, ma pieno di vittime non assurte agli onori della cronaca: Annunziata Pesce da Rosarno uccisa dal fratello perché sospettata di tradire il marito, Giuseppina Stricagnolo di Cirò fatta ammazzare dal consorte detenuto in Germania, Francesca Bellocco da Rosarno eliminata dal figlio a causa di una relazione extraconiugale. Di Santino Panzarella da Acconia, frazione di Curinga, che aveva circuito la moglie del boss Rocco Anello che aveva il compito di proteggere, sarà ritrovata solo una clavicola nel luogo dov’era stato sepolto.
L’unico torto di Giuseppe Luzza fu quello di essersi innamorato di una ragazza che, per sua sfortuna, era la cognata del boss Gallace di Gerocarne, un piccolo comune del vibonese. Il codice di ‘ndrangheta non contempla i matrimoni misti con ragazzi “normali”, che provengono da una famiglia non affiliata, e neppure ha cancellato il delitto d’onore, come solo nel 1981 aveva fatto il diritto penale italiano. Inoltre, per la giovane erano già state stabilite nozze d’interessi con il rampollo di un’altra famiglia malavitosa, che sarebbero dovute servire a rafforzare i rapporti con quest’ultima. Per questo Luzza era un ostacolo che andava rimosso.
Boschi insanguinati
Ancora oggi, a caso risolto, Matteo non si stanca di raccontare quello che accadde a suo fratello, due anni più grande di lui. Erano cresciuti insieme e per lui andare in tutta Italia a raccontare la sua storia e impegnarsi contro la ‘ndrangheta che voleva cancellare ogni traccia della sua esistenza è un modo per continuare a tenerlo in vita. Lo ascolto a Polistena, nel palazzo confiscato ai boss Versace e consegnato alle associazioni antimafia, tra le quali Emergency che vi ha aperto un ambulatorio per gli africani di Rosarno e Libera, della quale lui stesso è referente per la Calabria. Non omette i particolari, ormai diventati verità giudiziaria grazie al fatto che tre dei sette componenti il commando che il 15 gennaio del ’94 lo prelevò da casa sua ad Acquaro, inviati dalle cosche della Piana di Gioia Tauro in uno “scambio di favori” con quelle del vibonese, si sono pentiti, svelando dettagli e retroscena dell’agghiacciante omicidio. Tra questi, pure il killer al quale fu affidato il compito di dare il colpo di grazia a Giuseppe: un ragazzo di 17 anni al suo “battesimo di fuoco”, una “prova di coraggio” necessaria per cominciare la carriera nell’organizzazione malavitosa.
A Giuseppe Luzza, condannato a morte dalle cosche perché non era uno di loro, fu riservata una sorte analoga a quella toccata pochi mesi prima al parrucchiere Scaramozzino: «Portarono mio fratello fra i boschi, scavarono una fossa e lo buttarono dentro, cospargendolo di benzina. Mentre bruciava vivo, i più grandi misero una pistola in mano al minorenne e gli chiesero di fare fuoco». Il killer gli scaricò addosso l’intero caricatore, superando la prova del fuoco di uccidere un altro uomo senza mostrare esitazioni. Poi riempirono la fossa di terra e ricoprirono il cadavere affinché i poveri resti non fossero mai più ritrovati. Il caso sarebbe stato archiviato come l’ennesima lupara bianca se, appena due mesi dopo, uno degli autori dell’efferato assassinio non si fosse pentito e avesse fatto ritrovare il corpo indicando agli inquirenti dove scavare. Era il 21 marzo del 1994, primo giorno di primavera. Una giornata che sarà poi consacrata da Libera alle vittime innocenti delle mafie.
Questioni d’onore
Al processo, tre pentiti del commando che aveva sequestrato Giuseppe Luzza, tra i quali il ragazzo di 17 anni che aveva finito il ventiduenne di Acquaro, hanno raccontato che Antonio Gallace non aveva accettato il fidanzamento della sorella di sua moglie con un “ragazzo normale” e aveva deciso un’azione eclatante per dimostrare «chi comanda sulla famiglia e sul territorio». Nella sentenza che ha condannato quest’ultimo all’ergastolo come mandante dell’assassinio si parla di «visione distorta delle ragioni di onore familiare». Il vocabolario mafioso la indica con un sostantivo, «dignitudine», che non è altro che un sinonimo di «reputazione ‘ndranghetistica». Se un affiliato la perde, si sgonfia tutto d’un colpo: non è più un uomo di rispetto e svanisce qualsiasi timore reverenziale nei suoi confronti. È l’adesione a queste regole, oltre a una concezione proprietaria della donna, che spinge a commettere efferate uccisioni. Sull’adesione al codice d’onore e sul maschilismo di cui la ‘ndrangheta, secondo l’esperto di mafie Antonio Nicaso, è «la più sicura roccaforte», si innestano poi gli immancabili affari, vera ragion d’essere delle cosche malavitose. Per non veder compromesso tutto ciò, Gallace ordinò l’eliminazione del giovane fidanzato della cognata.
Il killer chiede perdono
Ventidue anni dopo, il killer all’epoca diciassettenne è stato condannato a 21 anni di reclusione e dal carcere lo scorso Natale ha pure inviato una lettera alla famiglia invocandone il perdono. La famiglia Luzza se l’è vista recapitare a sorpresa e Matteo è convinto che l’assassino, «se avesse avuto un lavoro e l’opportunità di frequentare una biblioteca», forse non avrebbe ucciso suo fratello. Come a dire che la sottocultura che alimenta la ‘ndrangheta si sconfigge a scuola e offrendo opportunità ai giovani, sottraendoli a un destino segnato.
Piuttosto, quello che ha fatto più male alla famiglia Luzza è stato l’atteggiamento di molti loro concittadini: «In paese dicevano che Giuseppe non si era fatto i fatti suoi, che era andato a donne o che comunque qualcosa doveva aver fatto per essere stato punito in quel modo», quasi a giustificare i carnefici e colpevolizzare le vittime facendo loro «provare un senso di vergogna». È anche su questa capacità di invertire l’onere di attribuire le responsabilità che si regge il controllo sociale, e dunque il potere, delle organizzazioni mafiose.