22 Luglio 1993 Bovalino (RC) Adolfo Cartisano, Lollò, fotografo, rapito, è morto per un colpo mal assestato alla nuca, il suo corpo ritrovato dopo dieci anni, grazie a una lettera anonima

Foto da Stop’ndrangheta.it

Adolfo Cartisano detto Lollò, fotografo di Bovalino (RC) venne sequestrato il 22 luglio 1993 davanti alla sua casa al mare. I sequestratori sorprendono Cartisano e la moglie Mimma in macchina. La moglie viene stordita con un colpo in fronte e abbandonata, mentre il marito viene sequestrato.
Nonostante il pagamento di un riscatto, il fotografo non viene riconsegnato alla famiglia. La famiglia decide allora di mobilitarsi e di far sentire la propria voce, scendendo più volte in piazza. Il clamore porta per la prima volta la Commissione parlamentare Antimafia a recarsi a Bovalino, dove i sequestri della ‘ndrangheta a scopo estorsivo erano stati già 18. Dopo pochi mesi dal rapimento vengono arrestati i sequestratori, ma non si riuscirà mai ad arrivare ai carcerieri.
Dopo i molteplici appelli della famiglia e le lettere scritte annualmente dalla figlia Deborah, nel 2003 giunge alla famiglia la lettera anonima di un carceriere che si dichiara pentito e implora il perdono della famiglia. Il carceriere indica il punto, fra Bovalino e San Luca, dove è sepolto il corpo di Lollò e imputa la sua morte ad un incidente di percorso. Il medico legale, infatti, dichiara come causa della morte un colpo alla nuca, causato da una caduta o da un colpo mal inferto. La famiglia risponde al pentito con una lettera aperta, come da lui richiesto, concedendogli il proprio personale perdono, ma chiedendogli di consegnarsi alla giustizia. La vicenda non ebbe seguito, ma gli avvocati dei condannati per il sequestro Cartisano dichiararono che poteva trattarsi della confessione di una persona in punto di morte. I funerali di Lollò Cartisano si sono svolti a Bovalino il 3 agosto 2003. (Wikipedia)

 

 

 

Foto ed articolo di: Stop’ndrangheta.it
Adolfo Cartisano, Lollò, rapito e mai più tornato.
(Bovalino, 9 maggio 1936 – 1993) è stato un fotografo italiano.
Lo hanno prelevato il 23 luglio del 1993. E’ il diciottesimo e ultimo sequestro a Bovalino. E’ morto per un colpo mal assestato alla nuca. Dopo dieci anni, una lettera rivela il luogo del suo sepolcro. Per il caso sono stati condannati in quattro.

Lollò Cartisano a Bovalino lo conoscevano tutti. Faceva il fotografo, amava la montagna ed aveva un passato da calciatore. Una vita tranquilla e felice. Ma non senza spine. Aveva subito richieste di mazzetta negli anni 80, alle quali aveva risposto con una secca denuncia, facendo arrestare i suoi estorsori. Un episodio che non ebbe ripercussioni. Ma presto i tempi cambiarono e Bovalino cadde nel vortice dei sequestri. Diciassette, in pochissimi anni. Fu la manifestazione del potere delle cosche della Locride, calate sul paese a saccheggiarlo.

Lollò è il diciottesimo e ultimo sequestrato. Era la sera del 22 luglio 1993. Stava tornando a casa insieme alla moglie Mimma Brancatisano, nella sua villetta in riva al mare. Il cancelletto era stranamente chiuso, sceso dall’auto per aprirlo è stato aggredito e caricato su un’auto. La moglie sarà abbandonata lungo la strada che porta in Aspromonte, legata ad un albero.

I Cartisano non sono una famiglia ricca, tanto che il sequestro apparve immediatamente anomalo. Quasi una punizione a chi aveva osato dire di no. Iniziò un lungo calvario, le telefonate, le richieste di riscatto, gli appelli. Ma accadde anche che Bovalino finalmente si svegliò. Grazie a Deborah, la figlia di Lollò, i giovani del paese decisero di scendere in piazza, animando il movimento “Bovalino libera”. L’obiettivo era quello di scuotere le coscienze, dentro e fuori la Calabria. Di far capire al mondo che Bovalino e la Calabria non erano terre di sequestratori, ma di sequestrati.

Per Lollò fu pagato un riscatto di 200 milioni di lire, messo insieme grazie all’aiuto degli amici. Ma il fotografo non torno mai più. Per lungo tempo i Cartisano hanno continuato a lanciare appelli, a donare il perdono e a invocare pietà. Solo dopo dieci anni è arrivata la verità. Uno dei carcerieri ha spedito una lettera nella quale ha chiesto perdono e ha rivelato il luogo dove Lollò è stato seppellito: ai piedi di Pietra Cappa, il mistico monolite in Aspromonte, nelle alture che sovrastano San Luca. La morte di Lollò non è stata premeditata: un colpo alla testa, per tramortirlo e fiaccarlo, un colpo troppo forte.

Carmelo Modafferi, i figli Santo e Leo Pasquale e Santo Glicora (genero di Modafferi), tutti di Africo Nuovo, sono stati condannati perché ritenuti responsabili del sequestro del fotografo.

Dal 2003, Pietra Cappa è meta di un pellegrinaggio, una lunga camminata fino al sepolcro di Lollò. Lì la famiglia lo ricorda con una cerimonia. Con coraggio e grande forza i Cartisano hanno scelto la via del perdono. Nella casa di Lollò ogni estate campeggiano i bambini della Locride, mentre Deborah Cartisano anima da anni Libera Memoria, il ramo dell’associazione Libera che riunisce tutti i familiari delle vittime delle mafie.

 

 

 

Dal Blog: Mazara forever
Articolo del  27 Ottobre 2009
Adolfo Cartisano
Abbiamo appreso recentemente che la vita di un bravo e caro calciatore del Mazara dei tempi d’oro, stimato ed apprezzato da coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerlo, ha avuto un triste epilogo. Ci è parso doveroso inserire in questo blog notizie relative alla sua scomparsa.

Adolfo Cartisano, nasce a Bovalino il 9 maggio 1936. Mostra fin da piccolo una spiccata intelligenza e i genitori, falegname il padre e titolare di un piccolo esercizio commerciale la madre, fanno grandi progetti su di lui: farlo studiare, farlo diplomare, offrirgli un diverso status sociale. Nonostante una infanzia trascorsa nel bel mezzo della seconda guerra mondiale, riesce a diplomarsi ragioniere a Siderno e ad iscriversi all’università di Messina. La sua passione è il calcio, attività sportiva in cui dimostra doti che lo porteranno negli anni successivi a militare in squadre sempre più importanti, dal Locri al Castrovillari, al La Spezia in serie C ed al Mazara del Vallo in serie D, città in cui rimane fino al 1964.

All’età di 23 anni, calciatore dell’U.S. Mazara, serie D
Insieme al calcio, l’altra grande passione di Lollò, la fotografia, comincia a germogliare già dal 1962, anno in cui il futuro suocero, fotografo con uno studio già ben avviato, gli fa dono di una buona macchina fotografica. Lollò e Mimma si sposano nel 1963. Dopo il 1965 Adolfo comincia a frequentare lo studio del suocero e quasi senza accorgersene inizia a fare un praticantato da fotografo che lo porterà, nel 1974, ad aprire uno studio fotografico insieme alla moglie.
Nel 1973 compie il suo primo viaggio all’estero, a Spalato. Dai luoghi visitati vorrebbe portarsi via le cose più belle, i monumenti, i volti della gente, gli angoli urbani più suggestivi, e lo fa, questa volta, con perizia e professionalità: dispone di un’ottima macchina e del bagaglio tecnico-professionale trasmessogli dal suocero. Con il viaggio in Jugoslavia iniziano le peregrinazioni di Lollò intorno al mondo: lo fa nel periodo di riposo che ogni anno si concede dal quotidiano lavoro di fotografo per professione e quasi sempre accompagnandosi con il suo inseparabile amico Pepè Battaglia. Trasferisce ed immortala sulla pellicola le sensazioni, le impressioni, le situazioni ed i luoghi più vicini al suo animo: volti di bimbi, di ragazzi, di donne, di operai al lavoro, di animali, di persone colte nella esplicazione di determinate funzioni sociali (le attività lavorative, le cerimonie rituali, ecc.). Il gusto dell’avventura, della scoperta, della conoscenza e del confronto con altri popoli, altra gente, altri stili di vita influenza ed istiga la sua vis creativa ma nello stesso tempo lo induce a porre su un piano parallelo e paritario i “reperti” del suo girovagare per il pianeta. I volti di bimbi dell’Africa, dell’Asia, dell’America del Sud pur non perdendo la loro peculiarità diventano “i volti dei bambini del mondo”, il loro sorriso l’aspettativa di un mondo migliore; le persone “sorprese” nello svolgimento delle quotidiane attività lavorative diventano l’esposizione del “lavoro dell’uomo”, e perdono la loro singolarità per acquistare carattere di universalità.

Nel 1993 venne sequestrato a scopo estorsivo dalla ‘ndrangheta, ma, nonostante il pagamento di un riscatto, non venne mai liberato. Solo nel 2003, grazie ad una lettera anonima, il suo cadavere viene ritrovato. Il suo è stato l’ultimo sequestro perpetrato dalla ‘ndrangheta, che in seguito si concentra prevalentemente sul traffico di stupefacenti.

Venne sequestrato davanti alla sua casa al mare a Bovalino. I sequestratori sorprendono Cartisano e la moglie Mimma in macchina. La moglie viene stordita con un colpo in fronte e abbandonata, mentre il marito viene portato via. Nonostante il pagamento di un riscatto, il fotografo non viene riconsegnato alla famiglia. La famiglia decide allora di mobilitarsi e di far sentire la propria voce, scendendo più volte in piazza. Il clamore porta per la prima volta la Commissione parlamentare antimafia a recarsi a Bovalino, dove i sequestri a scopo estorsivo erano stati già 18. Dopo pochi mesi dal rapimento vengono arrestati i sequestratori, ma non si riuscirà mai ad arrivare ai carcerieri.

Dopo i molteplici appelli della famiglia e le lettere scritte annualmente dalla figlia Deborah, nel 2003 giunge alla famiglia la lettera anonima di un carceriere che si dichiara pentito e implora il perdono della famiglia. Il carceriere indica il punto, fra Bovalino e San luca, dove è sepolto il corpo di Lollò e imputa la sua morte ad un incidente di percorso. Il medico legale, infatti, dichiara come causa della morte un colpo alla nuca, causato da una caduta o da un colpo mal inferto. La famiglia risponde al pentito con una lettera aperta, come da lui richiesto, concedendogli il proprio personale perdono, ma chiedendogli di consegnarsi alla giustizia. La vicenda non ebbe seguito, ma gli avvocati dei condannati per il sequestro Cartisano dichiararono che poteva trattarsi della confessione di una persona in punto di morte. I funerali di Lollò Cartisano si sono svolti a Bovalino il 3 agosto 2003.

 

Lettera di Deborah, figlia di Adolfo Cartisano, sequestrato e ucciso nel 1993. Uno dei sequestratori, pentito, dopo 10 anni, svela dove si trova il suo corpo (Avvenire del 23 luglio 2003)

Carceriere di mio padre,
io vorrei incontrarti. È importante per me guardarti negli occhi, conoscere la persona che per ultima ha visto mio padre, che ha sentito le sue ultime parole, che ha condiviso con lui gli ultimi mesi della sua vita, quelli che a me sono stati sottratti.

Vorrei sentirti raccontare una storia che fino a questo momento avevo perso la speranza di poter mai conoscere in questa vita. (…)
Tu ci chiedi perdono, davanti a Dio e davanti agli uomini. Ecco, da quando la tua lettera ci è stata recapitata, la nostra vita non è stata più la stessa: la nostra famiglia si è ritrovata di colpo a rivivere tutto quanto era successo dieci anni fa. (…) Il dolore di una ferita che non si è mai rimarginata si è fatto sentire acuto come non mai. Quella paura che nostro padre non fosse più in vita, che per lunghi anni avevamo rifiutato di accettare, ora è diventata una certezza. Questa volta però alla sofferenza, al dolore indicibile di questa perdita così ingiusta e brutale, si è mescolata la speranza che tu ci hai dato – e oggi la conferma – di poter riavere le spoglie di nostro padre. Poter celebrare il momento dell’addio, poterlo accompagnare nel suo ultimo viaggio, poter piangere sulla sua tomba, andandolo a trovare ogni volta che ne sentiamo il bisogno, è per noi quel conforto umano che per troppo tempo ci è stato negato. (…)

Non ci è stato restituito nostro padre vivo, ma ora tu ci restituisci, insieme con le sue povere ossa, una certezza nuova: quella che la sua vita non è stata immolata invano. La sua vita, unita a questi dieci interminabili anni del nostro patire, è stata offerta perché nel cuore stesso di un carceriere di ‘ndrangheta potesse nascere questa sete di perdono. Il coraggio di chiedere perdono. Questo coraggio comporta una vera forza di conversione, per condurre a un reale cambiamento di vita, che porta ad assumersi le proprie responsabilità di fronte a Dio e di fronte alla legge. Questo coraggio ti permetterà di poter guardare negli occhi i tuoi figli, di liberarli dal giogo della affiliazione mafiosa. E non dovranno più vergognarsi per te. Mi piace pensare che mio padre prima di morire abbia parlato con te, che le sue parole siano penetrate in profondità nella tua anima, che durante questi dieci anni abbiano maturato intimamente la tua capacità – oggi – di chiedere perdono. E se a questo possono in parte aver contribuito anche le mie dolorose lettere scritte sul giornale, è motivo di conforto il riconoscere che nulla va perduto. Io prego Dio intensamente di riuscire a perdonarti dal profondo del cuore.

So che la forza del perdono è la sola che può produrre conversione. Voglio arrivare a poterti dire: «Sì, io ti perdono, ed è per me anche una sofferta, intensa consolazione il riuscire a perdonare». Tu dici che sei malato, e non so se la tua malattia sia di tipo terminale. Se così fosse, io ho già la certezza che Dio ti accoglierà fra le sue braccia, e nel suo abbraccio potente cancellerà ogni tuo male, ogni tuo peccato, ogni tuo crimine, non importa quanto sia efferato. Dio è più grande del nostro cuore e in questa speranza io voglio pregare per te.
Tutte queste cose te le ho volute dire insieme con i miei fratelli e con la mia mamma, le cui lacrime sono l’offerta più grande di dieci anni di dolore

 

La lunga marcia della memoria: Bovalino, 22 luglio 2008 “Ogni volta che ricordiamo, la mafia viene sconfitta”. Con queste parole, pesanti come massi e vive come la speranza di giustizia, Don Tonio Dell’Olio conclude il momento di riflessione di questa giornata di marcia per ricordare le vittime della ‘ndrangheta. Assieme ai familiari di Lollò Cartisano, il fotografo di Bovalino sequestrato e ammazzato, e ad altre vittime della violenza ‘ndranghetista, abbiamo ricordato e reso omaggio ad uomini coraggiosi. Sul monte Pietra Cappa, nel cuore dell’Aspromonte, luogo dove è stato trovato il corpo di Lollò, ci siamo stretti attorno al dolore della famiglia Cartisano che su quella lapide ha ricostruito il proprio percorso di vita fondata sulla riluttanza delle logiche mafiose, sul ripudio dell’arroganza mafiosa, come aveva insegnato loro Lollò.

Una lunga camminata che sarebbe stata assai faticosa se non fossimo stati sospinti da una volontà superiore di resistenza e di opposizione verso il cancro che divora lentamente una terra tanto bella e profumata quanto dannata e marcia. La volontà di ricordare i caduti di questa guerra tra onesti e mafiosi ci ha portato per quegli aspri e desolati sentieri teatri di orrendi delitti. Il coraggio di affrontare i luoghi simbolo della ‘ndrangheta nasce dall’insaziabile bisogno di giustizia che ci portiamo dentro, un bisogno collettivo che unisce le diverse storie di vita raccontate là, all’ombra della maestosa Pietra Cappa e protetti dallo spirito dei dieci, cento, mille Lollò. Spiriti senza tempo capaci di donarci l’energia di andare avanti nonostante tutto, nonostante il vuoto.

Deborah Cartisano, figlia di Lollò, ha saggiamente detto che nella tragica esperienza del sequestro di suo padre lei e la sua famiglia hanno trovato nuovo senso alla vita. Capisco il significato di tali parole. Vedo l’essenza di questa frase nell’annuale pellegrinaggio della famiglia Cartisano sul quel luogo di memoria che custodisce il sacrificio di Lollò. Una camminata che fa paura all’ordine costituito mafioso il quale teme più di ogni altra cosa il risveglio delle coscienze dall’atrofia e dall’anestetica rassegnazione.

Ciò che ha reso speciale la giornata del ventidue luglio, alle pendici del monolite aspromontano, è stata la condivisione di diverse esperienze “da vittima” che ha permesso un sostegno spontaneo tra le sofferenze soggettive di ognuno. Vomitare il dolore per rendere partecipi anche gli estranei a questa sofferenza, per “non piangere da soli”, come ci ha chiesto Stefania Grasso. (…)

La Lunga marcia della memoria che ha attraversato il fortino della ‘ndrangheta sull’Aspromonte ha scosso le anime presenti e segnato quei luoghi, per troppo tempo simbolo di caustrofobica prigionia.

“Gli altri anni per la commemorazione di mio padre – ha dichiarato commossa la figlia di Lollò – andavamo solo noi familiari, chiusi nel nostro dolore, avvertivamo una certa cupezza. Quest’anno è stato magico perché non eravamo soli e abbiamo potuto condividere il nostro dolore con tutti i ragazzi che ci hanno accompagnato sulla tomba di papà”.
La condivisione della sofferenza è il primo passo di una rinascita collettiva di una comunità distrutta dal dolore. La sera a casa di Lollò, di fronte ad una luna emblematica, i familiari come ogni ventidue luglio, hanno invitato gli amici intimi per celebrare l’omelia in ricordo di Lollò. Ma quest’anno nuova luce e rinnovata energia hanno permeato i muri della casa voluta da Lollò e da cui è stato portato via da una ‘ndrina di Africo il 22 luglio 1993. Una messa mesta e partecipata. Don Tonio Dell’Olio ha saputo coinvolgere credenti, non credenti e incerti attraverso una celebrazione profondamente umana e carica di amore per la vita, mettendo in secondo piano le formalità della liturgia tradizionale. Il chiarore della luna che si specchiava sul Mar Ionio e l’agave simbolo di rinascita, hanno fatto da cornice all’incontro di preghiera in memoria di Lollò. Incontro che quest’anno ha visto la partecipazione di altri familiari delle vittime della ‘ndrangheta. Uniti per non dimenticare, uniti per ricominciare e ricostruire una comunità disgregata dalla prepotenza mafiosa.(…)

L’agave per far nascere il fiore muore. Dal suo fiore nasceranno nuove agavi, nuova vita. Coloro che hanno incarnato il sacrificio di una comunità, come le agavi, sono morti, ma la loro fine rappresenta l’inizio della rinascita, di una nuova vita all’insegna del ricordo ( dal latino re- cordare- riportare al cuore) e dell’impegno per non dimenticare chi con le sue spore di sangue e speranza ha impollinato la terra di Calabria, gettando la semenza dell’idea di libertà dal dominio mafioso.

 

 

 

 

LOLLO’ CARTISANO, L’ultima foto alla ‘ndrangheta. 
Un fumetto di Luca Scornaienchi & Monica Catalano.

Ed. Round Robin – Coll. Libeccio

Un romanzo a fumetti che racconta la tragica vicenda di Lollò Cartisano, fotografo di Bovalino sequestrato e ucciso dalla ‘ndrangheta. Un libro che attraverso il viaggio di un insolito protagonista di fantasia, il reporter Gino Durante, ripercorre gli itinerari e le strade che portano alla montagna di Pietracappa. Uno dei luoghi più suggestivi di tutta la Calabria, un luogo che Cartisano amava fotografare da tutte le angolature. La stessa montagna dove il suo corpo venne ritrovato dopo sedici anni di ricerche. Un viaggio all’interno di una terra dove le cosche condizionano ogni cosa e c’è chi ha deciso di resistere. Un racconto veloce, a tratti ironico e tragico al tempo stesso, dove la cronaca e le sensazioni più profonde dell’animo umano s’intrecciano. Una serie di flashback ripercorrono l’intera tragedia del rapimento: il sequestro, la mobilitazione e la nascita del comitato “Bovalino libera”, l’arrivo del capo della polizia Vincenzo Parisi, gli appelli di Giovanni Paolo II per chiedere la liberazione dei sequestrati fino al ritrovamento del corpo. Una storia che tocca il cuore. Una delle vicende più tristi della storia del nostro paese.

 

 

 

 

Deborah Cartisano al Trame Festival di Lamezia Terme il 22 giugno 2011

 

 

 

Foto di Lollò Cartisano nel servizio del Tg2 del 22 Luglio 2013
Storia di un giovane calciatore rapito e ucciso dalla ‘ndrangheta calabrese

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Calabria Nera – Delitti Irrisolti – La Vicenda del fotografo calciatore Lollò Cartisano
TeleMiaLaTv – Pubblicato il 26 apr 2016
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Fonte:  vivi.libera.it
Articolo del 20 luglio 2018
Lollò Cartisano, il volto fiero di chi non si piega alla prepotenza mafiosa
I sentieri della memoria
di Maria Joel Conocchiella

Adolfo Cartisano, chiamato da tutti Lollò, è un fotografo di Bovalino, nella provincia di Reggio Calabria. Un uomo buono, caparbio e coraggioso che ama la sua terra e rivendica il diritto a vederla libera. Sorriso accennato, occhi profondi e felici, il volto fiero di chi non si piega alla protervia mafiosa ma la affronta a viso aperto certo, che ci possa essere un futuro diverso.

Quando bussano alla porta del suo negozio di fotografia per chiedere il pagamento del pizzo, quest’uomo ostinato e profondamente libero, non ha bisogno neppure di pensarci. Denuncia.

Denuncia in anni in cui farlo era impensabile, quando la signoria territoriale della ‘ndrangheta aveva un elevato grado di fidelizzazione di un territorio succube e silente. Lollò denuncia e rende partecipe tutta la famiglia di questa sua piccola grande rivoluzione.

Era il 22 luglio di una calda sera d’estate del 1993, quando Lollò viene sequestrato mentre stava rincasando con la moglie Mimma, stordita anch’essa, abbandonata e legata ad un albero.

Da quel momento, sul fotografo grande appassionato di calcio, cade un buio silenzioso, la disperazione della famiglia si acuisce giorno dopo giorno, ma non pietrifica le loro speranze. La figlia Deborah tenace e ostinata proprio come il papà, tira le redini del comitato “Per Bovalino Libera”, che riversa nelle strade della città, allora conosciuta come la capitale dei sequestri di ‘ndrangheta, tantissimi giovani stanchi della paura, del silenzio e dell’omertà, stanchi dello stigma schiacciante della criminalità organizzata. Mostrano il dissenso, mostrano un altro volto di quella terra, quello fresco e genuino di chi si ribella.

Nonostante il pagamento del riscatto da parte della famiglia, di Lollò nessuna notizia.

Dopo le lettere aperte che ogni anno Deborah mandava ai sequestratori del padre, affinchè rivelassero il luogo in cui giaceva il suo corpo, in un giorno di giungo del 2003 arrivò una risposta che forse, in cuor loro, temevano di non ricevere mai. E’ del carceriere di Lollò che pentito, chiede perdono, rivelando il luogo che custodiva il corpo esanime del fotografo. Quel luogo è Pietra Cappa, monolite cangiante che sovrasta l’Aspromonte, soggetto prediletto dello stesso fotografo che amava immortalare questo immenso gigante buono, attraverso diverse prospettive.

Sui passi che il pentito descrisse per permettere il ritrovamento di Lollò, ogni anno, ogni 22 luglio, giovani e meno giovani da ogni parte d’Italia e non solo, percorrono i Sentieri della Memoria, marcia in ricordo dell’uomo, padre e marito brutalmente portato via agli affetti più cari, e di tutte le vittime innocenti della ‘ndrangheta. Quel sentiero di dolore e violenza si tinge dei colori vivi della speranza, dell’impegno e della responsabilità, quel luogo simbolo del potere occulto della criminalità, diventa catartico. Quel monte che ci guarda sornione scolpisce nelle nostre coscienze e nei nostri cuori, l’imperativo categorico di una memoria resistente e di un impegno effettivo per difendere la dignità e costruire una società ribelle e responsabile che ci permetta, come ci ha insegnato Lollò, di guardare in faccia le nuove generazioni. Il 22 luglio un grande abbraccio riscalda un sud che ha pianto, che soffre ancora ma che vuole iniziare a sorridere, un sud che inizia a raccontarsi dai luoghi delle sue contraddizioni, una Calabria che vuole scrivere una nuova storia e lo fa iniziando a riappropriarsi di quei luoghi che sono stati usurpati dalla violenza bruta della ‘ndrangheta.

Abbiamo gridato “l’Aspromonte è nostro”. Un grido liberatorio, un grido deciso, un grido che unisce chi non vuole abbassare la testa, un grido che si alimenta di memoria.

Abbiamo dunque, il dovere di farci gelosi custodi di una memoria scomoda che febbrilmente ci sveglia dal torpore di una quotidianità inerte e inerme, una memoria viva che deve trasformarsi in fiamma morale che alimenti le nostre lotte civili e il nostro impegno sociale. Una memoria dirompente, faro delle nostre azioni. Una memoria che si innalza a pilastro, di verità e giustizia.

La ‘ndrangheta ha sottratto le carezze di un padre, i baci di un marito, le attenzioni e le coccole di quello che sarebbe stato un nonno amorevole e premuroso, ma non ha potuto portar via la sua essenza, il patrimonio immenso che quell’uomo felice ci ha lasciato. Lui ha vinto e grazie a lui, possiamo vincere anche noi continuando a camminare a schiena dritta e testa alta.

A venticinque anni dalla morte, Lollò vive. Lo vedi nell’amore della moglie Mimma, che silenziosa cammina vicino alla figlia. Lo vedi negli occhi vispi dei suoi nipoti, lo senti nella voce e nei pugni chiusi di Deborah che instancabilmente racconta la sua storia, lo vedi negli sguardi di chi, grazie al suo esempio, ha deciso da che parte stare.

Oggi, a te a Lollò, va il nostro impegno, la nostra fiducia di un futuro libero.

 

 

 

Fonte: corrieredellacalabria.it
Articolo del 23 luglio 2019
Il ricordo di Lollò Cartisano “cancellato” da una strada dissestata
di Francesco Donnici
Deborah, la figlia del fotografo di Bovalino sequestrato e barbaramente ucciso dalla ‘ndrangheta, ricorda gli appelli per riaprire il cammino dopo le frane a catena: «Se la memoria non si traduce in impegno concreto non ha senso che le istituzioni ne parlino»

BOVALINO Sono passati 26 anni da quel 22 luglio 1993, giorno della scomparsa di Adolfo detto “Lollò” Cartisano, il fotografo di Bovalino sequestrato e barbaramente ucciso dalla ‘ndrangheta. Il suo corpo sarà ritrovato solo dieci anni più tardi nelle campagne dell’Aspromonte. Da allora viene organizzata la marcia dei “Sentieri della memoria” per continuare a raccontare esempi di coraggio attraverso i quali questa terra può trovare la forza di ribellarsi e spezzare le catene dell’oppressione mafiosa. Quella di quest’anno sarebbe stata la sedicesima edizione di questo cammino che attraversa l’Aspromonte passando da San Luca, fino a Pietra Cappa in ricordo di Lollò Cartisano e delle vittime innocenti di ‘ndrangheta. Sarebbe stata, perché il “cammino di Pietra Cappa” non si è fatto. La sofferta decisione è stata presa dalla figlia, Deborah Cartisano, e dal coordinamento della Locride dell’associazione Libera – di cui la stessa è referente – che negli anni ha promosso l’iniziativa.

LE GRAVI CONDIZIONI DELLA STRADA «Da circa cinque anni – racconta Deborah – a seguito del crollo di un ponte lungo il percorso, si sono innescate una serie di frane a catena, tali da renderlo del tutto impraticabile. Le persone con scarsa capacità di deambulazione, ormai da anni erano impossibilitate a partecipare». Lo scorso anno, malgrado i rischi e le difficoltà, il cammino che dall’ottobre del 2003 aggrega centinaia di persone da tutta Italia e dall’estero, era stato fatto comunque, seppure nell’impossibilità di raggiungere il luogo del ritrovamento del corpo di Lollò Cartisano: «Qualche mese fa abbiamo fatto una perlustrazione, ma ci siamo resi conto che dopo le piogge di questo inverno l’intero percorso era diventato impraticabile. Non si può accettare di percorrere una strada del genere. Così siamo arrivati alla decisione di non farlo».
Negli anni precedenti, anche i rappresentanti dell’Ente Parco d’Aspromonte hanno partecipato al cammino riscontrando in prima persona le pessime condizioni in cui imperversa il percorso. Così, sia il presidente che il direttore si sono mossi per venire a capo di questa situazione, destando la Regione affinché stanziasse dei fondi per il ripristino del sentiero, senza però ottenere nulla. Gli appelli e le iniziative sono stati molteplici: «L’anno scorso avevamo portato all’attenzione dell’opinione pubblica il non essere riusciti a completare la marcia, ma anche in quel caso le Istituzioni sono rimaste silenti».
L’apertura è arrivata quest’anno da parte della neoeletta amministrazione comunale di San Luca che si è offerta di finanziare il ripristino della parte di percorso che insiste sul territorio del Comune. «Ma anche loro sono in difficoltà e non hanno abbastanza risorse per farsi carico di tutto il percorso. Per questo – continua Deborah – sarebbe opportuno che la Regione in primis risponda presente».

LA NASCITA DELL’INIZIATIVA Nel 2003 – a circa dieci anni dal sequestro di Lollò Cartisano che qualche tempo prima aveva deciso di denunciare i suoi estorsori – alla famiglia ed al Vescovo, che allora era Giancarlo Bregantini, arriva una lettera. L’inchiostro sul foglio è quello del carceriere di Lollò, che nel frattempo ha deciso di collaborare con la giustizia e, pentito delle sue azioni, indica dove poter trovare il corpo del fotografo di Bovalino.
«Appena ricevuta la lettera che ci permise di ritrovare i resti di mio padre – racconta sempre Deborah – Padre Giancarlo propose di fare un cammino in Aspromonte per posare una lapide sul luogo del ritrovamento. Il corpo è stato trovato a luglio 2003, il primo cammino è stato fatto qualche mese dopo, a ottobre». Già dal primo anno, il cammino di Pietra Cappa ha rappresentato per i familiari di Lollò Cartisano e delle altre vittime innocenti, un simbolo di grande speranza: «Speravamo di poter ritrovare il corpo di mio padre, seppure ci stavamo abituando ad un destino comune a tante famiglie che non hanno potuto riavere i resti dei loro cari». La lettera ha così acceso la fiamma della speranza che nella ‘ndrangheta ci fosse qualcuno che voleva cambiare «e quella marcia serve proprio a testimoniare il cambiamento di questo carceriere di ‘ndrangheta che chiede perdono».

IL VALORE DELLA MEMORIA Il percorso fino a Pietra Cappa non ricorda solo Lollò Cartisano, ma tutte le vittime innocenti di ‘ndrangheta. Non farlo significa disperdere il patrimonio dato dalla memoria che deve mantenersi viva e concreta: «Fare memoria significa anche riappropriarci del nostro territorio. Noi, anche come associazione Libera, sottolineiamo sempre che bisogna riappropriarci di quello che la ‘ndrangheta ci ha tolto ed i luoghi, in tal senso, sono fondamentali. Per anni l’Aspromonte è stato lo scenario preferito per nascondere i sequestrati, oltre che di molti “summit” di ‘ndrangheta. Tornandoci ogni anno vogliamo viverlo in maniera diversa. L’Aspromonte è nostro, – rimarca con forza – dei calabresi onesti che vogliono vivere questa terra in maniera pulita».
Di memoria ed antimafia le istituzioni parlano spesso, ma altrettante volte lo fanno in maniera autorefenziale senza tradurre le parole ed i proclama in impegno concreto: «Della memoria si parla troppo spesso in maniera astratta mentre invece i discorsi devono essere messi in pratica. Se intitoliamo una via ad una vittima di mafia e poi quella non viene curata, è piena di buche e non può essere percorsa, non si sta realmente facendo memoria. Allora che l’abbiamo messa a fare quella targa con quel nome? E così dev’essere per questa strada». Quest’anno, il ricordo di Lollò Cartisano e delle altre vittime innocenti è stato celebrato con una messa di Monsignor Oliva, vescovo di Locri-Gerace, nella casa della famiglia Cartisano: luogo dove fu sequestrato, non ultimo dove ne rimarrà viva la memoria. (redazione@corrierecal.it)

 

 

 

Leggere anche:

 

vivi.libera.it
Lollò Cartisano – 22 luglio 1993 – Bovalino (RC)
Una foto significa consegnare al futuro una parte della propria vita, di quello che si è visto, di cosa si è provato e di cosa si è sentito. Una foto non è mai impersonale ma porta con sé il mondo unico della persona che l’ha scattata. Così è stato per Lollò Cartisano. Sequestrato e ucciso dalla violenza della ‘ndrangheta.

 

 

Articolo del 20 marzo 2021

Lollò Cartisano: la memoria è il ponte per risolvere il conflitto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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