24 settembre 2004 Locri (RC). Muore in ospedale Massimiliano Carbone, 30 anni, a seguito delle ferite riportate nell’agguato mafioso del 17 settembre. La famiglia ancora in attesa del riconoscimento della verità e di giustizia.

Massimiliano Carbone morì all’ospedale di Locri, il 24 settembre del 2004, a seguito delle ferite riportate in un agguato mafioso avvenuto pochi giorni prima, il 17 settembre. Aveva 30 anni ed  aveva avuto una storia con una donna sposata e più grande di lui. In pochi sapevano però che il figlio di quella donna era anche figlio di Massimiliano. Era nato quando Massimiliano aveva 25 anni. Il giovane era pronto ad assumersi le sue responsabilità, ma la donna non volle, preferendo continuare a far finta di nulla. A un certo punto, Massimiliano decise di uscire allo scoperto rivendicando la sua paternità per via legale. Ma qualcuno evidentemente volle evitare clamori. Il 17 settembre del 2004 Massimiliano stava giocando a calcetto con gli amici. In due lo aspettano sotto casa. Massimiliano e il fratello arrivano in auto, superano il cancello di ingresso e parcheggiano. Un bersaglio semplicissimo: partono così i pallettoni, esplosi da un fucile calibro 12 a canne mozze, che colpiscono il giovane al fianco.
Dopo due interventi chirurgici, la situazione precipita e inizia una lenta agonia. Massimiliano Carbone muore la mattina del 24 settembre. (Fonte: vivi.libera.it)

 

 

 

Tratto da Dimenticati di Danilo Chirico e Alessio Magro Ed. Castelvecchi

Massimiliano Carbone
[…] Massimiliano Carbone, trentenne di Locri. Una storia limite, nel bene e nel male. Una storia rimossa dalla coscienza collettiva perché scomoda. Ma non dimenticata, grazie al coraggio e alla tenacia di una madre da anni in cerca di giustizia e verità, spesso sola e controcorrente. Tutti sapevano nel quartiere della storia di Massimiliano con quella donna più grande di lui. Le voci circolano in fretta a Locri. Le visite frequenti in quella casa, solo e sempre quando il marito non c’era, erano più che una confessione. Ma in pochi avevano capito che il piccolo era proprio figlio di quel giovane uomo.

Non è più una questione di passioni, ma di scelte di vita. A venticinque anni, Massimiliano è pronto a fare la sua parte, ma la donna che ha dato al mondo il suo primo figlio (primo per Massimiliano ma non per la donna) tentenna. Il bambino glielo fa vedere in fugaci momenti rubati al menage familiare, nell’androne del palazzo dove abita. Anche la nonna Liliana Esposito ha il permesso di conoscere quel suo nipote segreto. Cercano di convincere la madre a dare al bambino il suo vero cognome, a lasciare tutto e a ripartire da zero. Ma come nelle peggiori fiction televisive, quella donna decide di continuare la propria vita e fare finta di nulla: forse è il prezzo che deve pagare per il suo adulterio, forse ha paura della reazione del marito. Resta quel bambino a testimonianza di un amore impossibile.

Il tempo passa, Massimiliano continua la sua vita, diventa presidente della cooperativa sociale Arcobaleno (che si occupa di affissione e lavaggio dei muri) e s’impegna nel mondo del volontariato. Vede suo figlio crescere, lo osserva da lontano, lo incontra anche. Ha già cinque anni e gli assomiglia molto, troppo. La situazione diventa esplosiva quando Massimiliano decide di uscire allo scoperto: è pronto a rivendicare la paternità del piccolo […] per via legale. Ma sarebbe uno smacco indelebile, e qualcuno decide di risolvere la pratica coi vecchi metodi. È il 17 settembre del 2004 e come ogni venerdì sera Massimiliano veste scarpette e pantaloncini e con gli amici s’impegna in una sfida a calcetto. È un appuntamento fisso, l’occasione migliore per colpirlo. Lo aspettano sotto casa. Uno fa la guardia alla via d’accesso e guida il killer, appostato dietro a un muretto che cinge il cortile interno del condominio. Gli basta salire su un masso per avere una visuale perfetta degli ultimi metri che conducono all’androne.

Massimiliano e il fratello arrivano in auto, superano il cancello, parcheggiano. Il bersaglio è a pochi metri, basta un solo colpo per ferirlo a morte. I pallettoni, esplosi da un fucile calibro 12 a canne mozze, si fanno largo sul fianco di quel ragazzone di trent’anni.

Attorno alle venti e venti l’arrivo in ospedale a Locri. Massimiliano ha perso molto sangue, lo operano d’urgenza per rimettere apposto l’arteria femorale. È grave, ma può ancora farcela. Segue un secondo intervento, poi la situazione precipita e inizia una lenta agonia.

Muore la mattina del 24 settembre. Il suo ultimo pensiero è per quel figlio segreto, le sue ultime parole sono per strappare una promessa alla madre Liliana: “Ma’, varditi u figghiolu”.

[…]

 

 

 

 

Articolo da La Repubblica del 7 Ottobre 2006
‘Ndrangheta, la madre di una vittima a Prodi
“Tutti noi attendiamo verità e giustizia”
Massimiliano Carbone fu assassinato due anni fa a Locri
Ora Liliana Esposito scrive al presidente del Consiglio

LOCRI (Reggio Calabria) – “Mario Congiusta, padre di Gianluca, ucciso a Siderno 17 mesi fa, la invita a portare un fiore sulle tombe dei nostri figli; sarei d’accordo, se non ritenessi eccessiva pena per lei quella di dare compito al suo portaborse di comprare fiori per i tanti morti ammazzati di Calabria, ‘terra prediletta’. A me, mamma di Massimiliano Carbone, ucciso due anni e dieci giorni fa a Locri, basterebbe il più piccolo dei suoi pensieri pieni di bonomia”. Queste le parole con cui la signora Liliana Esposito si rivolge in un messaggio al presidente del Consiglio, Romano Prodi.

“Almeno questo – aggiunge la donna – considerato che da un bel pezzo vacilla quella ‘fede’ raccomandataci personalmente dal signor Loiero il 7 luglio a palazzo Nieddu. Mario Congiusta, io stessa e tutti quanti attendiamo verità e giustizia, non soltanto promesse, ma concretate nei fatti, portiamo fieri, come la più alta delle onorificenze, la memoria dei nostri figli, i nostri ‘onorevoli figli'”.

Lunedì, a un anno dall’assassinio del vice presidente del Consiglio regionale della Calabria Francesco Fortugno, Prodi sarà a Locri per rendere omaggio alla tomba dell’esponente della Margherita. Fortugno è stato ucciso dalla ‘ndrangheta lo scorso 16 ottobre. Un omicidio che, per la prima volta in Calabria, ha provocato un movimento popolare contro la criminalità organizzata.

E nell’imminenza dell’anniversario parla la vedova di Fortugno, Maria Grazia Laganà: “E’ importante che i riflettori dell’opinione pubblica nazionale si stiano accendendo nuovamente sulla Locride e sulla Calabria a distanza di un anno dall’uccisione di mio marito”. “Una sola risposta – ha continuato – la magistratura, le forze dell’ordine e tutti gli organi amministrativi preposti devono fornire all’opinione pubblica italiana e calabrese: l’identificazione dei responsabili di migliaia di gravissimi delitti di mafia rimasti impuniti, la confisca dei patrimoni illecitamente accumulati, la risoluzione di ogni rapporto tra pubblica amministrazione e soggetti infiltrati dalla ‘ndangheta”.

“Sarebbe gravissimo ed inaccettabile – ha concluso la Laganà – che le indagini relative all’omicidio di mio marito non proseguissero in ogni direzione e si fermassero dinanzi al livello politico. E’ essenziale l’intervento diretto della Direzione nazionale antimafia nelle indagini”.

 

 

Pagine dedicate a Massimiliano:

Massimiliano Carbone – in Memoria.

 

Giustizia per Massimiliano Carbone

 

Per non dimenticare:
http://www.massimilianocarbone.org/

 

 

 

 

Tratto dal Blog

Gazzetta del Sud Venerdì 5 Ottobre 2007

Calabria

Locri Una madre coraggiosa e indomita. E per qualcuno, “infame”

Liliana Carbone: tre anni a caccia dell’assassino di Massimiliano

Mio figlio è morto per amore, lo sanno tutti.

Giustizia? Per la perizia balistica 22 mesi…»

Giuseppe Tumino

REGGIO CALABRIA

«Oggi sono 1105 giorni passati a rivedere i luoghi, a risentire quei passi veloci sulle sterpaglie; mi siedo ogni giorno accanto a quei vasi con cui ho protetto il sangue di mio figlio, pensando fosse utile per accertare una verità propedeutica a una qualche giustizia.

Vedo l’albicocco, tra i rami del quale sbucò una lupara vigliacca, estrema difesa di un killer emotivo, non un professionista, come disse un carabiniere profondo conoscitore di armi e assassini locresi. E le notti, ad aspettare che il nuovo mattino porti una novità, giusta e caritatevole».

Tre anni sono passati dall’omicidio di Massimiliano Carbone, imprenditore 30enne di Locri, colpito a sangue freddo in un agguato nel cortile sotto casa. Era sera, il 17 settembre del 2004, Massimiliano morì in ospedale una settimana dopo. Tre anni e nessun colpevole.

Da allora Liliana Esposito, maestra elementare, donna raffinata e coltissima, non si è fermata mai. L’hanno vista tutti incatenata

al tribunale, donna-sandwich per le strade, col microfono in mano e la foto del figlio al collo in centinaia di incontri e dibattiti, in mezza Italia, circondata da solidarietà e rispetto. A ripetere quello che a Locri tutti sanno: non si è mai limitata a chiedere genericamente giustizia, la maestra Liliana.

Lei ha fatto, da subito, il nome del presunto assassino. Nome e cognome.

– Signora Esposito, lei racconta una storia vera (c’è una sentenza civile) ma questo giornale non la può riferire: ci andrebbero di mezzo degli innocenti. Più d’uno, oltre al supposto assassino, peraltro mai arrestato.

«Mio figlio è morto per amore, lo sa lei, lo sanno tutti. Sa cosa ha scritto l’ex prefetto De Sena in una lettera di commiato che mi ha

mandato? “La credibilità dello Stato e delle Istituzioni si ha nell’assicurare alla Giustizia i rei, e nel fare in modo che nessuna madre debba piangere un figlio ammazzato”. Io aspetto risultati, in tanti aspettiamo risultati. Penso ai familiari di Renato Vettrice, l’operaio sparito nel nulla».

– Il nuovo prefetto, Francesco Musolino, l’ha già incontrato.
«M’è parso persona schietta, pacata e concreta. Da petulante e querula mamma di un morto ammazzato, gli ho chiesto perché mai a Garlasco le indagini avvengano in diretta, mobilitando le massime competenze del Ris. Volevo conto e ragione: le forze dell’ordine di altre regioni fruiscono di mezzi e risorse speciali, non a disposizione di quelli della Calabria, della Locride?».

– Lei ha sempre parlato di inspiegabili, clamorosi ritardi nelle indagini.
«Il povero figlio mio è colpevole persino di non essere morto subito: così le indagini sono partite una settimana dopo. Mi ricordo, a casa mia, un investigatore oggi sempre in tv quando si parla del delitto Fortugno: stava seduto davanti a me, a disagio, non sapeva che fare. Ho ottenuto una perizia balistica 22 mesi dopo, forse perché nel frattempo avevo restituito il certificato elettorale rendendolo noto ai giornali, forse perché ero rimasta per tre mattinate in piena estate sui gradini del Tribunale. Chiedevo attenzione, verità, giustizia, non avevo più nemmeno la forza di protestare.Guarda caso, quella perizia ribaltò i rilievi degli inquirenti».

– Indagini penali, ma anche una lunga battaglia civile, che la vede vincitrice. Ha mai fatto il conto delle spese?
«Ora saranno 21mila euro per tre avvocati e tre perizie di parte, senza contare i costi emotivi e umani. Sa cosa mi venne a dire una volta un’avvocaticchia? Che per me lo Stato ha speso un sacco di soldi. Per cosa poi? Non ci sarà nessuna condanna. Me lo disse un anno fa il giudice Carlo Macrì, dall’alto dei suoi 14 anni a Locri: tutto rovinato, hanno lavorato male nella prima settimana».

– Lei ha denunciato a più riprese di essere stata additata come “infame”. Anche all’interno dalla sua scuola. Come si vive da “infame” a Locri?
«Si sopravvive, ed è già tanto. Quando quell’uomo mi aggredì al cimitero, davanti alla tomba di mio figlio, un tale, galoppino di un’onorevole, disse che al Pronto Soccorso non ero affatto arrivata sanguinante. In questi giorni le strade attorno al Tribunale sono chiuse al traffico nei giorni di udienza del processo Fortugno, mentre auto blindate e con vetri oscurati vagano a spese del contribuente.

A me viene regolarmente chiesto di esibire i documenti ogni volta che mi avvicino alla caserma dei carabinieri di Locri. Non solo  ambivalenza di giustizia, ma persino ambiguità di relazioni civili. Sopravvivenza, appunto».

 

 

Massimiliano Carbone, un ragazzo di Locri. Parte 1

 

 

 

Massimiliano Carbone, un ragazzo di Locri. Parte 2

 

 

 

AnnoZero 16.10.2006 – Pretendiamo Giustizia per Massimiliano

 

 

 

Tg3 Calabria – “Non andremo a votare”

 

 

 

 

Video dal Corriere TV
Oltre l’inverno
di Massimiliano Ferraina, Raffaela Cosentino, Claudia di Lullo – Premio Anello debole

 

 

 

Fonte www.massimilianocarbone.org
Da “La Riviera “ – domenica 23 settembre 2007.
SIATE BUONI, 6 anni dopo
L’assenza e il perdono

“Figlio, ti dirò che la mia vita è stata una scala sconnessa,
di legno irto di schegge e di chiodi,
e che tante volte ho svoltato angoli paurosi e mi sono trovato nel buio.
Ma tu non arrenderti, e continua a salire, figlio mio,
perchè la mia vita non è stata una scala di cristallo”

Questi versi di Langston Hughes mi è parso chiamino alla vita.
Non sono certo io l’opinionista del lutto, nè ancora un’altra persona tra le molte depositarie del concetto di Legalità, eppure in queste ultime settimane sono venuti in tanti a domandare proprio a me se sia possibile dare perdono a chi ci ha ammazzato un figlio.
Sono tre anni esatti da quel 24 settembre in cui, alle prime ore del nuovo giorno tramontava la vita breve del mio Massimiliano, un “ragazzo di Locri”, con i progetti sani e le speranze belle di tanti giovani di buona volontà di questa nostra amata martoriata Locride, e la generosità del giovanissimo papà che due volte ha dato la vita.
In questi mesi, attraverso l’Associazione LIBERA, ne ho conosciute di madri! Molte hanno i capelli lunghi fino alla schiena, bianchi di dolore ineffabile su abiti sempre neri; tante maledicono fino ad avere la schiuma alla bocca. Ciascuna di noi misura l’assenza nello strazio dell’ingiustizia, così evidente e percepita da fare di sale i pensieri ormai asciutti di lacrime. Anche io credo che il dolore educhi, perciò seppure non lancio anatemi ed abominio, auguro un dolore, un piccolissimo insulto alla quotidianità,, anche solo per un motorino graffiato, che faccia torcere di rabbia chi ha alta la soglia della sofferenza ed infima la capacità di indignarsi di fronte all’ingiustizia di un omicidio.
Ho incontrato le Istituzioni, ho avuto più volte l’ossequio affettuoso del Colonnello Antonio Fiano, l’attenzione magnanima e concretissima del Prefetto Luigi De Sena, l’incoraggiamento e l’ammirazione del Prefetto Francesco Musolino. Queste sono le ragioni di forza che mi aiutano a sostenere il malanimo di certe personcine, mamme nonne educatrici, che sentenziano impietose sulle mie istanze di verità e di giustizia, e sullo stile con cui le porto avanti; pie donne, disinformate e ciniche anche dopo che il corpo santo di Massimiliano è stato disturbato, dopo due anni e mezzo , per “ Affari di Giustizia “.
Che cosa devo dire alle mamme addolorate che ho conosciute dalla tv e dai giornali, che devo dire a chi propone un giorno di digiuno come rinuncia propedeutica e necessaria ad alimentare lo spirito, che altro devo dire ai giornalisti del Tg1 e Tg2 e Tg3, Canale 5 e de La7 e addirittura a uno di Colonia? A me è stato detto che non ho il consenso della società civile, perchè non sono apparsa sufficientemente dolente, anzi polemica e pragmatica; ancora mi domando, giorno e notte, quale possa essere questa società cosiddetta “civile”che nega il suo consenso alla mamma di un morto ammazzato per cultura mafiosa, cioè per barbara primitiva incultura. Non mi convinco, io piccola vecchia signora stanca solo maestra elementare, delle tesi di Vollman, il criminologo che spiega il male come fattore di evoluzione; non posso , per questa stessa ragione, dare perdono: “per dono”, in regalo, non è umano e neppure naturale dare la vita del proprio figlio. Si può dare tutto ciò che ci appartiene, la nostra parte di aria e la nostra ecumenica quota di acqua , il pane, gli occhi, un rene, la mente, la nostra stessa vita, per Carità.”Misericordia sono venuto a cercare, e non sacrificio”dice Gesù citando il profeta Osea.
Ma non ”per dono” la Vita di un Figlio, quella non ci è appartenuta neppure il primo giorno del suo concepimento. Diamo invece misericordia, ed adoperiamoci, noi donne nello spirito della sorellanza, per costruire la concordia, l’armonia, la pace condizione di benessere e di vita.
Pace, per questa terra.
Misuriamo l’assenza con pacatezza, facciamoci vendetta attraverso la giustizia giusta, e allora perdoneremo il nostro dolore che ci dilania, e questo dolore che uccide piano piano si darà
“per dono”.
Liliana Esposito

mamma di Massimiliano Carbone,
un ragazzo di Locri e un papà generoso,
stroncato a 30 anni dalla menzogna e dalla violenza.

 

 

 

Articolo del 18 Ottobre 2010 da donnelibertadistampa.ilcannocchiale.it 
Per triste impertinente passione: Liliana Esposito Carbone, madre coraggio della locride, chiede ancora giustizia per la morte impunita di Massimiliano Carbone.
di Giulia Zanfino

Locri. La menzogna è un abuso. E’ il peggiore dei veleni. La più triste delle condanne, per chi è costretto a subirla. Perché se vivi in una terra di confine, non c’è Chiesa, non c’è Stato, non c’è istituzione che possa proteggerti. E per difendere un innocente che vive avvolto nella cortina della menzogna, da tutta la vita, resta solo il coraggio di chi si batte per la memoria e la varità.

A Locri c’è chi ricorda ancora Massimiliano Carbone, un giovane falciato da un proiettile nel giardino di casa, al ritorno da una partita di calcetto. Un trentenne ritratto della bellezza delle nostre terre, che ha vissuto la sua breve esistenza a Locri, trincea di confine dominata dalle leggi non scritte della ‘ndrangheta. Un giovane imprenditore onesto, appassionato di calcio, innamorato della vita, stroncato da una pallottola esplosa da un fucile calibro 12, nel settembre 2004, ancora oggi in attesa di giustizia. La sua triste vicenda non ha precedenti giuridici, nella storia dei delitti di ‘ndrangheta. Perché Massimiliano Carbone ha pagato con la vita il fatto di essere padre di una creatura, nata dall’amore con la donna di un altro uomo, in una terra dove, se ami la donna sbagliata, puoi pagare con la vita. Solo il sangue lava il disonore. Il silenzio complice fa il resto.

Lo spiegano bene Danilo Chirico e Alessio Magro, che nel libro “Dimenticati” narrano anche la storia di Massimiliano: “L’onore è tutto per lo ‘ndranghetista, è il rispetto dei suoi simili e la misura del proprio valore. Inutile dirlo, il metro con cui si giudica un uomo d’onore poco ha a che fare con le regole civili. Onore fa rima con dominio sessuale”, scrivono ancora gli autori. “Che le donne debbano sottostare al volere dell’uomo-padrone, che debbano restare chiuse in casa, ubbidire, subire un giogo fisico, ma soprattutto mentale, è il riflesso di una mentalità antica, che si è trasformata più e più volte, ma che resiste ancora oggi”. E che con tutta probabilità ha portato alla morte di Massimiliano, lasciando come segno indelebile del suo amore per la vita, quella creatura che non lo conoscerà. Perché quella del delitto d’onore è l’unica pista possibile, per arrivare all’assassino di Massimiliano.

Eppure questa vicenda giudiziaria è stata troppo a lungo sottovalutata. La Procura a Locri è sguarnita, e per fare la guerra alla ‘ndrangheta i mezzi insufficienti sembra vengano potenziati solo per arrivare ai mandanti dell’omicidio Fortugno. E’ Liliana Esposito Carbone, madre di Massimiliano, a battersi negli anni, perché il figlio non sia dimenticato. E perché a quella creatura nata da un atto d’amore, un giorno, venga consegnata la verità. Nella terra dei Cordì, dei Cataldo e dei Commisso, stretta nella morsa di un controllo serrato, dove non si preme il grilletto senza il consenso dei capibastone. Nella ricerca della verità sull’omicidio di Massimiliano Carbone, non si può prescindere da questo dato agghiacciante. Eppure non bastano le tante pagine di intercettazione in cui scorre l’orrore della mafia. Non basta l’esumazione del corpo di Massimiliano dopo mesi dalla morte, per fare un ennesimo, inutile e straziante, test del DNA che confermerà la paternità del bambino. Non basta l’aggressione subita da Liliana nel cimitero comunale, sulla tomba del figlio. Il caso è archiviato nel 2007. Liliana però non si arrende. Il ponte di San Giacomo è quel legame ideale tra lei e il figlio. Un ponte da cui Massimiliano è tornato, dopo l’esumazione, per consegnare alla madre la certezza che quella creatura è il segno del suo passaggio nel mondo. “Questa battaglia non la faccio in nome di un figlio, ma al suo posto” afferma Liliana a più riprese.

Dove sia lo Stato in questa vicenda delicata e tragica, è difficile dirlo. Liliana è sola. La sua colpa è quella di non arrendersi. Di battersi quotidianamente, per squarciare il sordo sudario dell’ipocrisia e del silenzio istituzionale, che coprono la morte di Massimiliano da troppo tempo. E negano la verità e la memoria alla sua creatura innocente, “abusata dalla menzogna”, incapace di difendersi. Liliana non ha strumenti per proteggere il bambino, in nome di quella promessa, sussurrata a suo figlio, sul letto di morte. La sua unica arma è la parola. La battaglia mediatica diventa un percorso di vita non voluto, ma necessario, per costruire un monumento alla memoria e alla verità di Massimiliano, e un anelito al cambiamento in una realtà pietrificata e offesa. L’unico strumento per proteggere il frutto di quell’ amore, che a Massimiliano è costato la vita.

A oggi, la lotta di Liliana è un manifesto dirompente, capace di scardinare regole intoccabili. Sacre. Questa sua lotta caparbia, intrisa di amore e coraggio, scorre nella pellicola “Oltre l’Inverno”, il documentario che il regista Massimiliano Ferraina, la dialoghista Claudia Di Lullo e la giornalista Raffaella Maria Cosentino hanno realizzato, per imprimere nella pellicola ciò che in molti non vogliono vedere. Nè sentire. E la storia di Liliana scorre come un fiume in piena, a Locri, nell’ambito della manifestazione “Storie di vita”, presso i locali della cooperativa “Mistya”, alla presenza dei ragazzi della “Gurfata”. E la pellicola scorre in un’atmosfera commossa e attenta. Non c’è spettacolarizzazione del dolore, non ci sono speculazioni filmiche, non ci sono sofisticazioni. Dalla pellicola trapela il profondo rispetto che gli autori hanno per questo spaccato umano disarmante. E fanno della lotta di Liliana un manifesto alla memoria e alla libertà, di tutte le vittime di ‘ndrangheta, dimenticate. Ma Locri non vuole vedere. Il pubblico c’è, ma viene da fuori. I locresi sono in pochi. Assenti le istituzioni, assente l’assessore alla Legalità. Assenti i cittadini. Assenti gli invitati illustri, che avrebbero dato riconoscimento a un evento importante, forte segnale di anelito al cambiamento. ” Non siamo delusi perché non ci aspettavamo condivisione” afferma Liliana, che da anni fa i conti con quel muro di gomma, che respinge ogni tentativo di cambiamento. Ma la triste vicenda di Massimiliano è una ferita ancora aperta sull’epidermide di queste terre. Anche se Locri non vuole vedere. Fare finta di niente significa essere complici.

 

 

 

Fonte: Gazzetta del Sud Sabato 24 Dicembre 2011
“Locri, il coraggio di essere Liliana Carbone”
di Giuseppe Tumino
La maestra cui nel 2004 la ’ndrangheta uccise il figlio Massimiliano parla della “sua” antimafia. Molto diversa da quella delle semplici parole
«La speranza è una fiammella che non spegnerò mai. E Buon Natale a chi ancora ha la forza di indignarsi»

REGGIO CALABRIA
In mezzo a tante parole, sovente ipocrite vista l’inattendibilità dei relativi pulpiti, questa intervista è in sé “Antimafia”. Liliana Esposito Carbone non usa sintassi estratte da formulari, non sgrana rosari di mali né suggerisce futuribili panacee. Nella Locri della faida e degli squali, in cui regnano i Cordì e i Cataldo, da sette anni e tre mesi semplicemente parla. Le hanno assassinato un figlio, e l’equazione è tutta qua, semplice e terrificante. Senza soluzione e senza giustizia. E le sue parole sono cunei acuminati, nella carne viva di chi nel silenzio acquiescente vive e prospera. Eccole.

– Signora Liliana, dall’omicidio di Massimiliano sono passati sette anni, che lei ha speso in battaglie, su tutti i media e su ogni ribalta. Dovesse sintetizzare in una parola quello che prova, che parola userebbe?
«Sconforto. E indicibile dolore al pensiero della vita impedita a mio figlio, e amarezza infinita per questa storia sottovalutata così a lungo, e imperdonabilmente».

– Per chi non lo ha conosciuto: chi era Massimiliano?
«Un ragazzo di Locri, un ragazzo generoso, donatore di sangue per i bambini talassemici, iscritto nei Registri internazionali dei donatori di midollo. Viveva domeniche frementi di tifo per la Reggina, era appassionato di studi storici sul Novecento, e devoto alla dolcissima fidanzata, un’avvocatessa reggina. Era un ragazzo che aveva i sogni, i progetti, gli affetti di un trentenne, angosciato dalle tante contraddizioni di questa nostra realtà, ma che si era creato un’attività pulita, aveva bella capacità di iniziativa e non si tirava indietro di fronte ai sacrifici».

– E quali colpe ha espiato con la morte?
«Era un giovane maschio, bellissimo e amabile, vittima di una triste, impertinente passione. Ha umiliato dei miserabili, proprio soltanto esistendo, e questi marziani autoctoni hanno tolto la vita a lui, pensando che la loro sciagurata esistenza sarebbe andata avanti ancora uguale e senza alcun rischio né disagio, forse anche per la solita sciatteria investigativa, di sicuro nell’acquiescenza dei tanti indifferenti, nell’omertà della “famiglia”, nel fariseismo inamovibile, nella “ipocrisia degna di altra epoca”, come affermò la Procura presso il Tribunale per i Minorenni. Massimiliano costituiva il parametro della loro pochezza. È stato un vero uomo che ha vissuto in fretta ma, come disse Garcia Lorca, non invano: ha fatto in tempo a piantare il suo alberello di limoni, a ricambiare lettere d’amore, a mettere al mondo suo figlio. Del mio Massimiliano vado fiera».

– Perché il suo assassino, o quantomeno i mandanti, non sono mai stati arrestati?
«Le indagini sono state insufficienti, in ogni caso intempestive; basti ricordare che la perizia balistica,
che ha smentito molte conclusioni del primo momento d’indagine, è stata effettuata 22 mesi dopo, in seguito alla memoria ex art. 90 proposta dai nostri legali».
– Lei è forse l’unica persona a memoria d’uomo, a Locri, ad avere fin da subito contribuito alle indagini.
«Dopo un delitto, è prassi che la famiglia della vittima venga sentita a proposito di eventuali situazioni di pregressa preoccupazione, e così ho indicato agli inquirenti quanto della breve vita di mio figlio conoscessi, avendo avuto sempre con lui un dialogo privilegiato; sono stata sua madre e amica e confidente, la qual cosa oggi mi abilita ad agire al suo posto e in suo nome».

– Chi le è stato realmente vicino in questi anni di battaglia?
«Amici che non mi hanno mai abbandonata, in tantissime giornate di dolore e rabbia, sono Demetrio
Costantino, presidente del Cids, persona di grande sensibilità e passione civile; e poi due coltissime
professioniste, da anni nostre consulenti tecniche di parte; i soci della cooperativa Mistya di Locri e de “La Gurfata”; la nostra caparbia e pervicace legale di famiglia, l’avv. Adriana Bartolo. Ma vorrei menzionare anche Massimiliano Ferraina, Raffaella Maria Cosentino e Claudia Di Lullo, gli autori del docufilm “Oltre l’inverno”, che racconta la mia quotidiana sopravvivenza a mio figlio. E mi porto nel cuore le parole di don Luigi Ciotti, per Massimiliano e per me».

– E chi invece le ha messo i bastoni tra le ruote?
«Vorrei glissare su questa domanda. Devo impegnarmi alla parsimonia nel disprezzo, c’è tanta gente che ne ha bisogno. Un inventario sarebbe prolisso, e l’esercizio richiede energia… Ma una menzione la meritano certi ambienti di Locri, alcune cosiddette “agenzie educative”, una parte di chiesa e di scuola. Le raccomando: ci tengo, alle minuscole».

– Qualche episodio di pubblica discriminazione?
«Buon gusto e buon senso pratico mi frenano, ma basterà ricordare che da qualcuno sono stata delegittimata come insegnante, poiché porto avanti istanze di giustizia, idee “in cui a scuola non si deve entrare”. Ho pure conosciuto “prudenti” parrocchie in cui imperversano educatrici alla religione e alla legalità in forte olezzo di ’ndrangheta. Inoltre, voglio proprio dire che in una importantissima
sala istituzionale di piazza Italia, a Reggio, mi fu detto testualmente: “Sappiamo che molti sanno, ma non parlano perché lei non appare abbastanza dolente, e dunque non ha il consenso della società civile”. Era il 13 ottobre 2006, e ancora mi chiedo che cosa mai sia questa “società civile”».

– Che significa vivere a Locri?
«Significa vivere in un luogo senza sicurezza, con una lunga storia di diritti negati e di giustizia miope. Non si fa caso al fatto che la morte e la vita siano disposte ad apparire al minimo pretesto, più
che altrove; e qui molta gente non ci vuole pensare, è permalosa ma è come nata morta, già senza alcuna speranza o desiderio di cambiamento. Ora sento che molti familiari di vittime si confortano a vicenda, ricevono fondi istituzionali, vanno a far visita agli ergastolani. Iniziative encomiabili. Ma qui da me, accanto alla mamma di Massimiliano Carbone, un qualunque morto ammazzato non eccellente, vengono solo gli amici della Casa della Legalità e della Cultura di Genova, quelli che ci mettono la faccia davvero, e quei ragazzi di “Ammazzateci tutti” che sono rimasti leali e coerenti.
E mi rasserena la solidarietà concreta di alcuni giovani scrittori e giornalisti calabresi, dei quali ammiro ideali ed interessi, e che condividono le mie istanze di verità, e che mi sostengono nel progetto di rivolgermi alla Suprema Corte per i Diritti Umani».

– Lei non è solo una madre coraggio, armata di forza della disperazione. Lei è educatrice ma soprattutto donna di gusti raffinati e cultura non comune. In una Calabria piena zeppa di antimafia a parole, in cui pezzi di istituzioni implodono un giorno sì e l’altro pure, c’è ancora spazio per la speranza?
«La Calabria conserva tante parti sane e ha tante risorse, i giovani di buona volontà possono ancora proiettarsi verso un’esistenza migliore, ma a tutti viene richiesto un impegno personale e concreto. Conosco molti validissimi Progetti di educazione alla legalità per aver preso parte ad alcune fasi della loro realizzazione, eppure credo che ancora si debba fare molto. Intanto, almeno, chiamare ogni cosa col suo nome: se sappiamo che esiste, questa malapianta, la ’ndrangheta, questa sonorità agghiacciante di ferraglia che sembra caderci in testa dal cielo, poveracci noi, indichiamola senza esitazione. Non temiamo che ci si allappi la bocca».

– In uno Stato debole come il nostro, in che misura in una terra come la Locride, la gente, la maggioranza silenziosa, è dalla parte della ‘ndrangheta, con opere o condiscendenza?
«In una contingenza sociale ed economica così difficile, la gente attende certezze e risposte ai suoi
bisogni; le difficoltà sono tali che spesso ci si ripara nel proprio individualismo e si prova a risolverle, senza consapevolezza né slancio per la realtà comune. Molti si adattano a quadri di riferimento di mafiosità perché la ‘ndrangheta “facilita” la soluzione dei loro problemi. Un giovane operaio della Locride mi ha detto che senza “l’aiuto di qualche compare buono” , i giovani sono tutti “come il cane del macellaio: lordi di sangue e morti di fame”. Solo la morte di Massimiliano, l’omertà, la negligenza e il cinismo di alcuni tra gli inquirenti mi hanno dato la misura della vita disgraziata dei calabresi, dei diritti a loro negati; prima vivevo relativamente tranquilla nella consuetudine, con i miei affetti e i miei interessi. Sotto una campana, in imperdonabile, egoistico qualunquismo».

– Ha senso, signora Liliana, che io le auguri buon Natale?
«Certo, ha un senso importante e bello. È un giorno che ricorda una nascita, io sento il momento del cambiamento più che quello della resurrezione, che sfiora una tomba. Voglio dare e ricevere l’augurio che presto possa nascere la buona volontà, in ognuno. Potremmo avere quella giustizia sociale che è condizione necessaria e propedeutica alla pace».

– E lei, a chi lo augura?
«Lo auguro a tutti quelli che sono capaci della memoria degli eventi, perché possano cambiare in meglio il comune futuro. Lo auguro a chi è capace di condividere la sofferenza d’altri, e soprattutto a chi è capace di indignarsi, perché ci si arrabbia per quello che si ha a cuore. A Locri queste sere sono piene di luci. Il 24 dicembre sono sette anni e tre mesi senza Massimiliano, io mi lascio dietro i tanti giorni della sua assenza e sto attenta che non si spenga il lumino che tengo acceso tra i fiori, sul suo sangue, qui sotto casa. La mia speranza è una cosa semplice ma resistente, come questa fiammella».

– Grazie.
«Grazie a lei, e ancora una volta grazie alla Gazzetta del Sud. Perché non dimenticate».

 

 

 

Articolo da Calabria Ora del 15 Settembre 2012
MASSIMILIANO CARBONE – OTTO ANNI SENZA GIUSTIZIA
di Simona Musco ( Locride@calabriaora.it )
(che ringraziamo per averci concesso di pubblicare l’articolo nel ns. sito)
Il Cids ricorda la scomparsa del giovane di Locri
Il 17 settembre del 2004 fu ucciso con un colpo di fucile vicino casa

A otto anni dall’agguato compiuto ai danni del trentenne di Locri Mssimiliano Carbone nessuno dei colpevoli è stato assicurato alla giustizia. Lo ricorda Demetrio Costantino, presidente del Comitato Interprovinciale per il diritto alla sicurezza, che a due giorni dal triste anniversario ha voluto spendere un pensiero per la famiglia di Massimiliano. «Egli con entusiasmo, passione, volontà aveva creato una cooperativa, divenendone presidente, con l’obiettivo di svolgere una sana attività imprenditoriale e contribuire alla crescita occupazionale, allo sviluppo economico e sociale per modernizzare e difendere un territorio sempre penalizzato – scrive in una nota – Non era una attività facile, considerato il contesto terribile esistente in un territorio ad altissimo rischio criminale con il triste primato per densità mafiosa, presenza di cosche, delitti compiuti e una devastante crisi economica e sociale che si ripercuoteva e si ripercuote sempre più sulle aziende, sulle deboli strutture produttive della Locride, sulle condizioni di vita e di lavoro dei giovani in particolare».
I sogni di Massimiliano, però, si sono spenti il 17 settembre del 2004, quando venne raggiungo da una fucilata esplosa da cecchino che si era appostato dietro un muretto del giardino, a pochi passi da casa sua. Un feroce agguato, messo a segno al rientro da una partita di calcetto. Massimiliano morì dopo sette giorni di sofferenza. Da allora, sua madre, Liliana Carbone, maestra elementare, lotta con tenacia e determinatezza, nonostante da otto anni sia costretta a convivere con un dolore che non trova spiegazione. Non ha cessato di chiedere giustizia, diventando, con le sue proteste, un punto di  riferimento della lotta per la legalità in Calabria.
«E’ inconcepibile che agguati di questa efferatezza restino senza colpevoli o anche possano esserci omicidi di serie A e B verso i quali graduare  attenzione e impegno – aggiunge Costantino – Da tempo il relativo fascicolo é pressola  Direzione Investigativa Antimafia di Reggio. C’era una pista iniziale
per individuare l’autore o gli autori ed è rimasta “cristallizzata”, congelata. Bisogna accelerare le indagini e approfondire le investigazioni per evitare che questo delitto resti impunito».
Nonostante le molte operazioni messe a segno nell’intera regione contro la criminalità organizzata, denuncia infatti Costantino, sono ancoramoltissimi i delitti rimasti impuniti e i colpevoli, probabilmente, sono ancora in giro lì fuori. «Lo Stato, nel  suo complesso – chiosa il presidente del Cids – non può abbandonare la famiglia Carbone congelando indagini, e non può sottovalutare gravissimi fatti di sangue. Il problema sicurezza riguarda tutti e tutti possono e debbono concorrere a risolvere il caso. Per questo chiediamo risorse e mezzi per le forze dell’ordine, agire tempestivamente, rendere giustizia
alle vittime e loro familiari».

 

 

 

Articolo da Calabria Ora del 19 Settembre 2012
L’INDIFFERENZA E’ ANCORA VIOLENZA “Otto anni senza Massimiliano”
di Simona Musco
(che ringraziamo per averci concesso di pubblicare l’articolo nel ns. sito)
Otto anni senza Massimiliano
L’appello di Liliana Carbone: «Non devono esistere morti di serie A e serie B»

«Quando non c’è memoria, quando addirittura c’è indifferenza, allora è ancora violenza». Liliana Esposito Carbone è una donna forte. Una donna piena di dignità, che non vuole star lì a farsi compiangere ma che porta avanti una lotta al posto di suo figlio, di quel figlio che da otto anni attende giustizia.
Massimiliano Carbone, un giovane forte, bello come un bronzo di Riace, è stato stroncato da una pallottola il 17 settembre 2004. Sette giorni di agonia in ospedale prima di morire, prima di lasciare a sua madre il compito di mantenere viva la memoria, di essere spina nel fianco di chi pretenderebbe che ci fossero morti di serie A e di serie B. Ma Liliana sa bene che non è così o meglio che non dovrebbe essere così. E allora lei non lascia spazio All’indifferenza. Sta lì, giorno per giorno, a combattere affinchè questo delitto, un delitto compiuto con modalità mafiose, non cada nel vuoto, affinchè faccia ancora rumore. «Chiedo che si ricordi mio figlio. La giustizia negata ad un ragazzo di Locri è negata a tutti i ragazzi di Locri – afferma – E’ una comunità che si vede negato un diritto primario, quello della sicurezza e della certezza della pena».
Massimiliano avrebbe avuto 38 anni. E’ morto il 24 settembre, giorno in cui sua madre compiva gli anni. Questo anniversario segnerà le 63 primavere per Liliana, una madre “infame” per alcuni, che forse avrebbero gradito di più il suo silenzio. Ma lei vuole dare l’esempio, vuole andare al di là delle belle
parole. Perché la speranza, la fede, non bastano più. «Si parla tanto dei giovani e poi ci sono quelli a cui la speranza viene negata oaddirittura viene negata la vita – sottolinea – Le indagini per la morte di mio figlio sono partite male e in ritardo, come è opinione di molti giudici». Massimiliano muore 13
mesi prima di altri delitti eccellenti, che hanno fatto molto parlare di sè. «Per mio figlio non c’è stata la stessa attenzione mediatica che c’è stata successivamente – commenta Liliana – una morte che non ha fatto scalpore. Ma perché? Ci sono morti più o meno importanti? Quando chiediamo giustizia deve essere prestata attenzione». Se non ci pensano le istituzioni a far mantenere viva la memoria di Massimiliano, allora, è sua madre a farlo. Perché il dolore, dice, ha una valenza altamente educativa. Liliana racconta delle indagini, partite molto dopo il delitto. Indagini alle quali la famiglia ha contribuito in ogni modo possibile. La pista si è immediatamente definita: Massimiliano, forse, ha pagato col sangue l’amore con la donna di un altro uomo, un amore che ha dato i suoi frutti. Dunque, quel 17 settembre 2004, un cecchino lo aspettò nel cortile di casa sua. Lui rientrava da una partita di calcetto. E lì un proiettile calibro 12 segnò il suo destino. Gli inquirenti hanno però voluto indagare a 360 gradi, scavando nella vita di quel giovane e scandagliandone ogni particolare. E così, prima che un nome finisse sul registro degli indagati ci sono voluti due anni, nell’ottobre del 2006. Liliana era stata aggredita al cimitero, sulla tomba di suo figlio. «E’ stata isolata questa pista e andava delineandosi un particolare movente, per cui quando sono stati compiuti alcuni passi in avanti questa persona ha cercato, per così dire, di tenermi buona – racconta – Io ho chiamato i carabinieri, ho denunciato tutto e a tutt’oggi il procedimento è in corso. Dopo l’iscrizione nel registro degli indagati queste persone chiesero la riesumazione del corpo di mio figlio, un’ulteriore violenza non necessaria. Una cosa per cui soffro e che qualcuno attribuisce addirittura a me. Ma non è così».
La protesta di Liliana non piace a tutti. Si è incatenata al tribunale, partecipa a tutte le manifestazioni contro la ‘ndrangheta e in ricordo delle sue vittime
con una foto del figlio al collo. La memoria è la sua missione. Ma per molti si tratta di esibizionismo.
«Non è così – precisa – è un modo per dialogare con mio figlio, la mia pietas, che non posso permettere a nessuno di giudicare».
Questa madre sa bene che le cose non vanno, che la parrocchia e la scuola non bastano se poi manca l’esempio, se la sub cultura mafiosa, quella che ti insegna che è meglio stare zitti e farsi i fatti proprio, continua a proliferare. Perché ciò che si ignora è che in questi casi si tratta sempre dei fatti propri.
«La vera educazione alla legalità è l’esempio pratico, la testimonianza della legalità – sottolinea – Io sono disullusa, vorrei quasi chiedere perdono a tutti quei ragazzi a cui ho parlato di speranza, perché non basta: il proprio destino devono costruirselo da sé».
L’indagato sarebbe stato scagionato da un alibi fotografico, mandato in onda nella puntata del 7 aprile 2008 di “Chi l’ha visto?”, su Rai 3. Una foto scattata alle 20,20 di quel 17 settembre, proprio mentre Massimiliano entrava in ospedale, presentata da persone che con l’indagato non avevano niente a che fare. La puntata era stata registrata il 24 gennaio 2008, quando Liliana e la sua famiglia appresero dai giornali dell’avvenuta archiviazione. La donna decise di incatenarsi davanti al tribunale, come forma di commemorazione e di protesta civile. «Chiederò giustizia finchè campo – dice senza il minimo dubbio – Ci sono tre magistrati importantissimi che vanno per le scuole a fare testimonianza per la legalità. Li ho contattati tutti, qualcuno ha anche ricevuto una mia lettera. Mi hanno detto che non sono competenti. A queste persone vorrei dire che è giusto preoccuparsi di insegnare la legalità ai ragazzi ma che devono ricordare che anche Massimiliano era un giovane di questa terra e che la sua eredità è una vita giovane di questa terra». Liliana vuole che quel video finisca in rete, affinchè si ricordi suo figlio. «Mio figlio era morto da 13 mesi quando i ragazzi marciavano su Locri senza ricordarsi di lui. Qualcuno era addirittura suo vicino di casa. questa disparità nell’attenzione, nell’impegno e nella memoria, è contorta e grave per i giovani – aggiunge poi – E’ tutto fermo, cristallizzato e congelato, perché nessuno ha voluto fare giustizia. Non ho mai visto le istituzioni compatte, ma solo singole persone». Se c’è da ringraziare qualcuno, quel grazie va all’ospedale di Locri e ai suoi medici. «È stato assistito in maniera straordinaria, in tutti i reparti in cui è stato e sono tanti – sottolinea la donna – vogliamo ringraziarli di cuore tutti. Hanno lavorato per  mio figlio, lo hanno accudito e amato per sette giorni. Non posso, invece, ringraziare le istituzioni, perché se dopo otto anni non c’è giustizia significa che non è stato fatto tutto il possibile. Ci sono, però, ufficiali e sottoufficiali dell’arma che ce l’hanno messa tutta, perché erano quelli che veramente volevano giustizia e che sono stati vicini alla famiglia». Eppure  ancora qualcuno le chiede pazienza. «Durante una manifestazione per la legalità – chiosa- un politico importantissimo, dopo avermi sentita parlare, mi si avvicinò con la scorta e mi disse di avere pazienza. Se mi avesse detto “coraggio” l’avrei presa come una frase convenzionale e avrei detto grazie, ma è la pazienza che ci ha ridotto a questo punto, l’assuefazione e la rassegnazione nel vedere mortificata la nostra intelligenza».

 

 

 

Articolo del 24 Settembre 2012 da  casadellalegalita.info
Locri, Giustizia negata. L’eredita’ di un cannemozze

Un altro anno è passato anche a Locri. Dal 24 settembre 2004 ad oggi ne sono trascorsi 8 di anni. Ancora, però, chi ha premuto il grilletto del fucile cannemozze resta protetto dall’omertà. Ancora, chi è stato il mandante di quell’omicidio, resta protetto dall’omertà. Ancora, per un altro anno, la ‘ndrangheta, con la succube e schiava comunità locrese, ha garantito l’impunità per l’omicidio, al mandante ed all’esecutore. Ancora, per un altro anno, la ‘ndrangheta, con la sua rete di insospettabili schiere di professionisti, tra notorietà e logge, ha fatto sì che, chi è sopravvissuto al piombo, non avesse Giustizia. Non c’è rispetto e nemmeno pietà per i vivi, oltre che per i morti, nella Locride, dove anche nel Palazzo, come nella comunità, si è scelto di percorrere la strada da “ominicchi”, piegati e succubi dei desiderata mafiosi…

Certo, Massimiliano Carbone non aveva un nome noto. Non era famoso. Non aveva amici importanti. Certo, per chiedere verità e giustizia, la sua famiglia si è rivolta allo Stato, e non a quel verminaio di masso-mafiosi che “un colpevole” lo avrebbe garantito, così come ha saputo fare per altri omicidi. Certo, se non ti inginocchi al padrino o alla madrina di quella terra, se non piangi ai loro piedi, se non li supplichi, non ti sarà mai dato nulla, perché lì, lo Stato, nonostante gli sforzi dei reparti investigativi, non vuole rompere gli equilibri che ‘ndrangheta e massoneria hanno da decenni imposto.

Ed allora, trascorso un altro anno, l’ottavo anno, chi ha premuto il grilletto la sera del 17 settembre 2004, appostato dietro ad un muretto, salendo su una pietra che ancora è lì, non ha un volto e non ha un nome. L’allora Procuratore di Locri, Carbone, non fece nemmeno fare alcun rilievo del RIS… Quella pietra, usata dal killer, nemmeno è stata repertata… L’allora Procuratore di Locri, Carbone, non considerò che, dalle indagini, da tutte le risultanze investigative, vi era un’unica, concorde, evidenza, che indicava mandante e movente. Vi erano i contatti, del mandante individuato dalle indagini, con i Cordì. Vi era un’armeria ben fornita nella sua casa. L’allora Procuratore di Locri, Carbone, non considerò nulla di tutto questo… considerò altro. Sì, l’allora Procuratore di quella “terra di mattanza”, considerò l’alibi fornito da colui che era indicato come mandante dalle indagini, dalle risultanze delle indagini. Un alibi che era un video dove il Martello era ad un compleanno che si svolgeva a qualche chilometro di distanza e, dove, più volte, si vedeva l’orologio le cui lancette indicavano un’ora, per cui, materialmente, sarebbe stato impossibile recarsi sul luogo del delitto e nel momento del delitto. Un alibi che non sta in piedi per un “mandante”… perché appunto non è l’esecutore materiale. Un alibi senza senso, perché un “mandante” non è l’esecutore. Ma, come considerò l’allora Procuratore di Locri, l’unico indiziato era “incensurato” e quindi il fascicolo andava archiviato. Poco, anzi nulla, contarono anche le intercettazioni del soggetto in questione con gli esponenti della cosca dei Cordì. Nessuna rilevanza al fatto che nelle intercettazioni degli ‘ndranghetisti emergeva anche il “costo” di qualche migliaio di euro da versare per far entrare in azione i “Ragazzi di Locri”, che nel gergo della cosca di Locri sta a rappresentare il “gruppo di fuoco”, alias i killer.

Massimiliano Carbone, ferito dal piombo sparato da quel fucile a cannemozze, non era un personaggio importante da scomodare le Autorità. Anzi, aveva osato anche aprire, senza padrini e padroni, una cooperativa di servizi, lì a Locri. Ed in certi territori, la libertà non è concessa. Affermarla è una sgarbo a coloro che si credono i “padroni” di quella terra. Un torto a quell’“autorità locale” che è mafia e massoneria… che non è quella dello Stato.
Massimiliano Carbone, ferito da quel piombo e dall’omertà, che poteva, se rotta, evitare che il sangue fosse versato, arrivò al Pronto Soccorso di quella Asl di Locri dei Fortugno-Laganà, infiltrata sino al midollo dalla ‘ndrangheta. Lì c’erano tutti per l’emergenza… o forse è meglio dire che Massimiliano all’arrivo trovò il personale allertato, pronto all’intervento d’urgenza, perché era stato allertato per intervenire a rimuovere i pallini di piombo del nipotino di MORABITO Giuseppe, “u tiradrittu”, ferito in un regolamento di conti ad Africo. Massimiliano arrivò prima nella sala operatoria già pronta. I pallini al giovane MORABITO li tolsero nella sala gessi. Massimiliano sopravvisse 7 giorni… Il 24 settembre si spegneva.

Massimiliano non era un ragazzo piegato dalla cultura mafiosa. La sua famiglia non era mai stata piegata dalla cultura mafiosa. Lui, da quella stanza di ospedale, chiese di proteggere l’eredità che lasciava. La sua famiglia non si piegò, non accettava la logica perversa di quella terra, la vendetta. Massimiliano e la sua famiglia volevano, ancora, e solo Giustizia. Lui esalò l’ultimo respiro. La sua famiglia non si è data pace ed è andata avanti nel chiedere Verità e Giustizia. Non si è stancata mai di pretendere che lo Stato tutelasse quell’eredità che Massimiliano aveva lasciato.

Ma, quell’eredità, quel figlio di Massimiliano, ancora oggi, nonostante sia stato sancito che debba sapere chi era suo padre, ancora oggi non lo sa. Ancora oggi, se da un lato non ci sono mandanti ed esecutori di quell’assassinio di mafia, il figlio di Massimiliano non conosce suo padre, non conosce i suoi nonni, non conosce la sua famiglia che mai si è piegata alla cultura mafiosa. Quel figlio, l’eredità di Massimiliano, resta prigioniero, complice la macchina giudiziaria di quella terra, profondamente permeabile alle esigenze di quella rete mafia-massoneria – benedetta e protetta dalla Chiesa – , della cultura mafiosa, dell’omertà e della complicità, che è la stessa che ha armato quel piombo fatale, il 17 settembre 2004. Erano solo 8 anni fa.

Per questo, oggi, ancora e sempre, stringiamo con un forte e sincero abbraccio la famiglia di Massimiliano, la sua mamma Liliana, donna e maestra che quella terra non merita, perché quella comunità che non si è schierata al suo fianco, lasciandola sola e quasi indicandola come anomalia da espellere, ha scelto di stare con Caino garantendone l’impunità… Il mandante e l’esecutore, la cosca ed i suoi potenti protettori sono colpevoli, ma altrettanto colpevole è quella comunità omertosa e complice che ha scelto di negare verità e giustizia ai vivi, anche a soprattutto a quel bambino, eredità vivente di Massimiliano.

A Locri tutti tacciono e tutti coprono. La comunità come la Chiesa si fanno complici del silenzio. I Palazzi della Giustizia, da quella ordinaria a qualla per i minori si piegano all’ingiustizia. Sanno ma non osano adempiere ai propri doveri. E’ per questo che in questa terra, la locride, nulla cambia. Non per un destino prefissato, per il fato o un volere divino, ma solo e sempre per la vigliaccheria di quella comunità tutta.

 

 

 

Articolo dell’11 Giugno 2013 da  lentelocale.it 
Liliana Esposito Carbone vince una battaglia nella sua guerra per ottenere giustizia e verità
di Gianluca Albanese

LOCRI  – Si arricchisce di una nuova e importante novità la vicenda umana e personale di Liliana Esposito Carbone, madre di Massimiliano, ucciso sotto casa mentre tornava da una partita di calcetto il 24 settembre del 2004. Una morte, quella del giovane locrese, per la quale non si conoscono ancora i nomi dei mandanti e degli esecutori del delitto.

Già, perchè l’inchiesta avviata a seguito della denuncia dei familiari della vittima è stata archiviata nell’ottobre del 2007. Una pietra sopra dalla quale, però, mamma Liliana non si è mai fatta schiacciare. Lei ha ben chiari come sono andati i fatti. Sapeva che il figlio, all’età di 23 anni aveva avviato una relazione con una donna di dieci anni più grande di lui. Una donna già sposata all’epoca. Dalla relazione, a metà del 1999 nacque un bambino. E quel  bambino è figlio di Massimiliano Carbone. Per dimostrarlo, Liliana ha intrapreso un lungo calvario fatto di denunce, appelli alle autorità e perizie a pagamento, e nell’aprile del 2005 ha consegnato ai Carabinieri un test di paternità firmato dal direttore del laboratorio Genoma di Roma, sulla scorta dei campioni biologici che lei stessa, con ferrea determinazione, aveva raccolto dopo l’omicidio di Massimiliano. E il risultato di quel test dice che Massimiliano è al 99,999% il padre del bimbo. Ma questo non basta per le autorità competenti. Non basta per esaudire il desiderio di Massimiliano, che nei sei giorni intercorsi dal colpo di fucile che un sicario nascosto dietro il muro di casa sua gli ha indirizzato al basso ventre (come a colpirne la virilità) al suo decesso, aveva raccomandato la madre di prendersi cura del bambino. Quel bambino che, all’atto della nascita, veniva denunciato all’ufficiale dello Stato Civile di Locri come figlio della donna con cui Massimiliano aveva avuto una relazione, e del marito. Per qualche anno sembra calare il silenzio sulla paternità, almeno fino quando la stessa non diviene oggetto del contendere. Perchè Massimiliano non ci sta a guardarlo da lontano, magari quando esce dall’asilo. Lo sente suo. E questo a qualcuno non va giù. La tensione, infatti, cresce fino all’agguato mortale di una sera di fine settembre. Da quel giorno in poi, la vita della maestra elementare Liliana Esposito Carbone non è più la stessa. Il dolore per un figlio ucciso nel fiore degli anni dopo una breve e laboriosa esistenza nella quale era stato anche donatore di sangue, forte del suo rarissimo gruppo ematico, dopo un po’ diviene stimolo per condurre una battaglia infinita, durissima ma combattuta con ferrea determinazione per ottenere giustizia e verità. Giustizia per il figlio e per il nipote. Giustizia per quello che definisce un delitto d’onore perpetrato con metodo mafioso. Cerca ogni occasione pubblica per denunciare la vicenda. La si vede a margine di importanti manifestazioni pubbliche e, col passare del tempo, la sua non è più una battaglia solitaria. Accanto a lei ci sono i familiari, i ragazzi della meglio gioventù di Locri e Mario Congiusta, uno che ha condiviso con lei l’atroce esperienza della perdita di un figlio per mano violenta. Attira anche l’attenzione di testate giornalistiche nazionali, oltre che locali. Di autori di documentari come “Oltre l’inverno” pubblicato sul sito del Corriere della Sera e visibile nel seguente link:

http://video.corriere.it/oltre-inverno/05dafdbe-dc5f-11df-be1f-00144f02aabc

Parla della sua storia con Prodi, Loiero e viene ricevuta dall’allora guardasigilli Clemente Mastella. Ma, ciononostante, non riesce ad avere giustizia. Solo, si fa per dire, il conforto dei dirigenti locali delle forze dell’ordine, dell’allora vescovo della diocesi di Locri-Gerace Bregantini e la sensibilità di alcuni giovani giornalisti e scrittori calabresi. La sua storia, della quale si è occupato anche lo speciale Tg1 andato in onda domenica sera, viene splendidamente narrata soprattutto in due recenti pubblicazioni: “Io parlo. Donne ribelli in terra di ‘ndrangheta” di Francesca Chirico (2013, Castelvecchi editore) e “Calabria Ribelle” di Giuseppe Trimarchi (2012, Città del Sole edizioni). Una vicinanza che le permette di sopportare meglio le innumerevoli insidie e difficoltà che si presentano lungo il suo cammino. Le supera tutte. Con la forza di una madre che non vuole cedere ai rilievi intempestivi del Ris, all’archiviazione della denuncia, all’aggressione subita al cimitero, agli sguardi torvi ricevuti e a qualche parola sopra le righe che è costretta a sentire. Va avanti, Liliana. E chi la conosce scopre che dietro l’aspetto apparentemente ruvido di indomita lottatrice per la giustizia e la verità, scopre una donna intelligente, coltissima, acuta, brillante nel suo amaro sarcasmo che utilizza come arma per continuare la sua battaglia. Lei che ogni giorno mette a posto i ritratti e i ricordi sul feretro di quel figlio tanto amato che non c’è più. Lei che dà da mangiare ai gatti che si aggirano nel cimitero. Quei gatti che Massimiliano amava tanto. Lei che dice di non poter vedere il nipote, nemmeno da lontano, da anni.

Dicevamo della novità. Tra la fine di maggio e l’inizio di giugno è stata depositata la sentenza del Tribunale Civile di Locri che dispone l’accoglimento della domanda di disconoscimento di paternità ex articolo 244 del Codice Civile relativa al nipote, presentata dal curatore del ragazzo, ormai quattordicenne. Una domanda che è stata accolta e che dichiara che il ragazzo nato nel giugno del 1999 non è figlio legittimo del marito della donna con cui Massimiliano Carbone ha avuto una relazione. Ma per Liliana, questo è solo l’inizio. La sua battaglia va avanti.

 

 

 

 

 

 

Articolo del 9 Settembre 2015 da  strill.it
Liliana Esposito Carbone, giustizia negata per l’assassinio del figlio
di Anna Foti

Ci sono storie di resistenza straordinarie in questa terra. Storie che si ha l’obbligo di raccontare e di non dimenticare nonostante, potendo scegliere, chi le abbia vissute avrebbe preferito non esserne protagonista. Liliana faceva la maestra elementare e avrebbe voluto solo vedere suo figlio compiere il trentunesimo compleanno, e tutti quelli successivi che la vita gli avrebbe donato, piuttosto che sopravvivergli e portarne una foto al collo.
La morte lo ha strappato a lei, al padre Franco, agli altri due fratelli, a quella vita brutalmente impedita, rimasta a meno di metà.  Avrebbe fatto a meno, Liliana, di una vita di lotta per la verità e la giustizia per la mostre del figlio, per quella cieca violenza che in Calabria turba la vita di tante famiglie, strappando affetti, condannando al dolore della perdita senza ritorno e, troppo spesso, anche senza la possibilità di una giustizia.
Ma invece quella guerra lei deve combatterla, non  può sottrarsi da madre, da nonna, da cittadina di questo paese troppo spesso impegnato in proclami che invochino, più che in fatti che rispettino la dignità e la memoria.
Non ha scelta, Liliana, perché è coraggiosa e determinata e la sua libertà di decidere l’ha già esercitata a monte quando ha deciso da che parte stare, quando ha deciso di non subire, di non tacere, di dire agli inquirenti tutto ciò che sapeva, di indicare loro una pista e di trovare anche le prove per sollecitare quelle indagini lente, tardive, lacunose.
La sua è coerenza limpida, a tratti ruvida, spigolosa e granitica allo stremo, ma sempre specchio di dignità e rara qualità; ecco perchè questa storia, nonostante l’amarezza e il dolore ne costituiscano la radice unitamente all’amore di madre, è oggi preziosa e irrinunciabile.
Lei è Liliana Esposito Carbone ed è la madre di Massimiliano, ucciso nel 2004 a Locri. Aveva solo trent’anni, suo figlio. Era il 17 settembre quando gli spararono sotto casa, in un agguato tesogli nel cortile. Massimiliano stava rientrando da una partita di calcetto con il fratello Davide. Un colpo al fianco, un lungo intervento prima di morire in ospedale dopo sette giorni di agonia, il 24 settembre.

“[…] Massimiliano Carbone, trentenne di Locri. Una storia limite, nel bene e nel male. Una storia rimossa dalla coscienza collettiva perché scomoda. Ma non dimenticata, grazie al coraggio e alla tenacia di una madre da anni in cerca di giustizia e verità, spesso sola e controcorrente.Tutti sapevano nel quartiere della storia di Massimiliano con quella donna più grande di lui. Le voci circolano in fretta a Locri. Le visite frequenti in quella casa, solo e sempre quando il marito non c’era, erano più che una confessione  Ma in pochi avevano capito che il piccolo era proprio figlio di quel giovane uomo. Non è più una questione di passioni, ma di scelte di vita. A venticinque anni, Massimiliano è pronto a fare la sua parte, ma la donna che ha dato al mondo il suo primo figlio (primo per Massimiliano ma non per la donna) tentenna. Il bambino glielo fa vedere in fugaci momenti rubati al menage familiare, nell’androne del palazzo dove abita. Anche la nonna Liliana Esposito ha il permesso di conoscere quel suo nipote segreto. Cercano di convincere la madre a dare al bambino il suo vero cognome, a lasciare tutto e a ripartire da zero. Ma come nelle peggiori fiction televisive, quella donna decide di continuare la propria vita e fare finta di nulla: forse è il prezzo che deve pagare per il suo adulterio, forse ha paura della reazione del marito. Resta quel bambino a testimonianza di un amore impossibile […]” (tratto da “Dimenticati” di Danilo Chirico e Alessio Magro – Castelvecchi)

Resta, appunto, e sopravvive anche a suo padre quel figlio che ad un certo punto Massimiliano avrebbe voluto riconoscere come suo. La sua intenzione, un diritto per lui ma un affronto per altri, lo avrebbe condannato: la punizione sarebbe stata la morte. Mamma Liliana è ancora lì a quel capezzale mentre promette al figlio di occuparsi del nipote segreto, ma è anche ogni giorno in trincea, in tutti i luoghi in cui in questi anni ha rivendicato il suo diritto di madre e di nonna, fiera e tenace, a vedere sancita la verità. Ogni giorno è al cimitero in compagnia dei gatti che si sono raccolti in questi anni vicino alla tomba di Massimiliano che tanto li amava.
Liliana non si è mai arresa, neppure dinnanzi all’omertà e alla indifferenza di tanti. Grazie alle parole di don Ciotti e di Giancarlo Maria Bregantini, all’epoca vescovo della diocesi Reggio Calabria Locri, all’impegno di Demetrio Costantino del Cids e di altri amici, la sua battaglia per la verità prosegue. Non rinuncia a dire quello che sa. Lo fa dal primo minuto. E’ stata sempre da sola a parlare e a fornire elementi agli inquirenti, a raccontare di quella storia con una donna più grande di cui Massimo era innamorato. Ha scritto alle più alte cariche dello Stato, ha protestato davanti al tribunale di Locri, alle ultime regionali non è andata a votare per protesta.
“Egregio Signor Prefetto. con sconforto che si accresce nel trascorrere degli anni e nella Giustizia negata, ancora una volta come dall’aprile 2006, rinuncio al mio diritto ed al mio dovere di cittadina in occasione delle prossime Elezioni Regionali”, così ha scritto nel novembre 2014. Erano trascorsi dieci interminabili anni e le indagini non avevano imboccato alcuna direzione utile all’accertamento di responsabilità. Ad oggi ne sono passati undici di anni e nulla è cambiato.
La quotidianità di questa donna, di questa madre calabrese, con la foto del figlio sul petto forzatamente racchiusa in un ciondolo, la sua fierezza quando parla di lui, uomo generoso e dedito al prossimo, impegnato professionalmente in una cooperativa di servizi sociali ed un appassionato tifoso amaranto, sono state raccontate nel documentario “Oltre l’Inverno” (http://www.oltrelinverno.blogspot.com) realizzato da Massimiliano Ferraina, documentarista, Claudia Di Lullo, dialoghista, Raffaella Cosentino,  giornalista freelance (Redattore Sociale, Il Manifesto).
Non sono stati mancati i tentativi di delegittimazione, che per una donna sono sempre più facili da esperire. Il più comune è stato: ‘Liliana Carbone, resa pazza dal dolore’, come ha ricordato Francesca Chirico nel suo libro di storie di donne ribelli in terra di ndrangheta, che come Liliana non hanno taciuto, “Io parlo” (collana Rx La terra vista dalla terra – Castelvecchi). Questa storia è anche tra quelle raccolte nel volume “Calabria ribelle – Storie di ordinaria resistenza” di Giuseppe Trimarchi (Città del sole edizioni).
Come tutte le terre in cui i diritti vacillano e la violenza è rimasta a lungo, a volte resta ancora, impunita, anche in Calabria vivono le madri coraggio come Liliana e come Angela che calabrese non era ma che in Calabria, nella Locride alla fine degli anni Ottanta, ha vissuto, con il dramma del sequestro del figlio Cesare, dolorosamente la sua maternità.
Proprio come raccontava lei, Angela Casella, per tutta Italia ‘madre coraggio’, scesa nella Locride per liberare il figlio in mano all’Anonima sequestri da oltre 500 giorni e morta nel 2011: ‘Combatto contro qualcuno che non vedo e non sento, ma che esiste e imprigiona mio figlio’.
Liliana Esposito Carbone invece combatte anche contro qualcuno che conosce e che ancora imprigiona la memoria, per molti vitale e per altri scomoda, di suo figlio Massimiliano.

 

 

 

 

Calabria Nera – Delitti Irrisolti – L’omicidio irrisolto di Massimiliano Carbone
TeleMiaLaTv
Pubblicato il 24 mag 2016

 

 

 

 

Massimiliano Carbone – Quotidiano del sud del 14 luglio 2016 – Pagine della Memoria

 

 

 

Fonte:  ecodellalocride.it
Pubblicato il 18 luglio 2017
Rocco Muscari – Gazzetta del sud

Locri (Rc): l’omicidio di Massimiliano Carbone, parla un pentito e si va verso una clamorosa svolta

Massimiliano Carbone fu ucciso perché «aveva avuto una relazione con una donna che interessava ai Cordì», e a sparare sarebbero stati tali A.C. e P.C.. Si tratta di un passaggio del verbale sintetico reso il 14 gennaio scorso dal collaboratore di giustizia Domenico Agresta davanti al sostituto procuratore Antonio De Bernardo della Dda reggina. Il 29enne Agresta è stato sentito nell’ambito del procedimento battezzato “Mandamento Jonico” in qualità di «persona indagata in procedimento connesso», e ha riferito al magistrato dell’antimafia reggina una serie di vicende che riguardano omidici commessi nella Locride, fra i quali quello dell’allora 30enne Massimiliano Carbone, ferito a morte da nel settembre del 2004 a Locri.

Dopo quasi 13 anni, potrebbe dunque essersi aperto uno spiraglio per le indagini sull’omicidio, irrisolto, del giovane imprenditore locrese, che la sera dell’agguato, un venerdì, stava rientrando a casa insieme al fratello dopo una partita di calcetto, un appuntamento sso. Massimiliano fu raggiunto da alcuni colpi di fucile esplosi da dietro un muro. Di quell’agguato il 29enne Agresta ha fornito una versione dei fatti racchiusa in poche ma significative righe.

Una versione che combacia, quanto al movente dell’omicidio, con la tesi da sempre sostenuto dalla signora Liliana Esposito, la maestra elementare mamma di Massimiliano, che da allora instancabilmente si batte per ottenere giustizia. Una versione che il collaboratore afferma di aver appreso in carcere da un soggetto legato alla famiglia Cataldo: «Mi ha parlato – si legge nel verbale – anche dell’omicidio di Massimiliano Carbone, che stando al suo racconto – ha sottolineato il collaboratore – aveva avuto una relazione con una donna che interessava ai Cordì. Mi disse – ha proseguito – che a sparare erano stati A.C. e P.C.». Ha aggiunto subito dopo: «Preciso che forse mi disse soltanto il nome Massimiliano, e che tornava da una partita di calcetto: lui lo diceva per criticare i Cordì che se la prendevano anche con persone comuni».

I familiari di Massimiliano, come detto, non si sono mai stancati di chiedere giustizia, alle istituzioni. Hanno lottato senza fermarsi mai, senza paura, con la speranza di conoscere la verità. Massimiliano Carbone ha avuto un figlio, oggi maggiorenne, nato da una relazione con una donna sposata. Un figlio che è stato legalmente riconosciuto dopo anni di battaglie legali portate avanti con coraggio da nonna Liliana, che ha continuato a lottare, contro ogni forma di oblìo e omertà, per avere giustizia. La storia di Massimiliano, vittima innocente di mafia, è stata raccontata in libri e documentari, e portata all’attenzione delle istituzioni di ogni ordine, in decine di manifestazioni pubbliche. Ogni anno si celebra una messa nella cappella “Nostra Signora di Lourdes” dell’ospedale civile di Locri, dove il giovane morì il 24 settembre del 2004 dopo una settimana di agonia. Ora una “scossa” che potrebbe squarciare il velo sull’omicidio di Massimiliano. Saranno necessari riscontri investigativi, ma sarebbe una svolta inattesa, e clamorosa.

 

 

 

 

LOCRIDE: PARLA IL PENTITO, NUOVE RIVELAZIONI SUGLI OMICIDI CARBONE E LA ROSA | IL VIDEO

TeleMia La Tv 18 luglio 2017

 

 

 

 

Fonte: reggio.gazzettadelsud.it
Articolo del 26 settembre 2017
«Dite a suo figlio chi era Massimiliano Carbone»

di Giuseppe Tumino
Lo sparo nel buio, le indagini fallite, la paternità riconosciuta. E la dedica al nipote con cui non ha mai parlato

Il dolore più irredimibile, quello di sopravvivere a un figlio morto ammazzato, la rabbia più profonda, quella di non aver mai visto i colpevoli in carcere. Di Massimiliano Carbone, imprenditore ucciso a soli trent’anni sotto casa con un colpo di fucile, a Locri tutti sapevano e sanno tutto quello che c’è da sapere: che era un bravo ragazzo e un onesto lavoratore, che ha avuto un figlio da una donna – allora come oggi – sposata. Anche di Liliana Esposito Carbone, maestra elementare, tutti sanno tutto, a Locri e non solo: le sue denunce, il suo coraggio, la sua erculea risolutezza nel chiedere giustizia, il fiume di trasmissioni televisive, saggi, libri, documentari, che grazie a lei a Massimiliano è stato dedicato. Tredici anni dopo, sedimentati dolore e rabbia, sotto la corazza c’è la donna lucida e colta di sempre, e nel suo sorriso amaro non c’è, non ci fu mai, e mai ci sarà, traccia di rassegnazione.

Signora Liliana, oggi ricorre il tredicesimo anniversario della morte di Massimiliano, ucciso a 30 anni, scrive lei, «perché colpevole di vita».

«Più che parole mie sono quelle dei tanti che hanno conosciuto la storia di mio figlio. “ha fatto invidia agli dei”, “sacrificatosi perché egli stesso volle”, “colpevole d’amore” e “punito perché amò”. Il racconto dei fatti ormai è relativo, questa vita spezzata non da una malattia né da un incidente ma dalla mano di ignoti ha commosso e indignato migliaia di persone, anche fuori dall’Italia. Tanti leggono i tanti libri che parlano di Massimiliano, si fanno ricerche, sono stati realizzati studi di sociologia e di criminologia a partire da questa vicenda, con contributi di docenti universitari, giornalisti di cronaca e di costume, criminologi e magistrati. Esistono analisi molto precise su questo contesto ad alta densità, se non proprio di mafia, di mafiosità. La morte violenta di mio figlio è stata studiata nella dimensione antropologico-culturale del delitto “per onore e dignitudine”. Ormai intorno a Massimiliano si è innalzato un monumento mediatico di compassione e di condivisione di desiderio di verità e di giustizia , finora negate a lui e al di lui figlio, oltre una tomba violata da richieste pretestuose di esumazione il 5 aprile del 2007. Ormai è inutile chiedere a me di mio figlio, la sua vita racconta di lui. Mi lasci riprendere le parole di Ghianni Ritsos: “Con le pietre del mio martirio avete innalzato questo monumento”».

Subito dopo l’agguato, con Massimiliano in ospedale ancora vivo e agonizzante, lei indicò subito agli investigatori probabili movente e presunti colpevoli. Quali sono oggi i sentimenti che rimangono in lei?

«Non ho indicato, e non avrei potuto farlo, alcun presunto colpevole; mi sono limitata ad indicare tutto ciò che riguardava la vita di mio figlio. E nella vita di mio figlio c’era una relazione con una donna sposata, e un figlio. Non potevo tacere. Mi chiede cosa provo? Sconforto. Non mi mortificano più l’indifferenza di molti e certe supponenze istituzionali. Si dica pure che sono petulante e ingenerosa, ma potrei fare altre mille volte l’elenco dettagliato delle insufficienze investigative. Negli anni sono transitati prefetti e ufficiali che non hanno mai conosciuto il nome di Massimiliano Carbone. Qui c’è tanto da fare, è una realtà difficile. Ma neppure io ricordo tutti i loro nomi. Sento però che ho il dovere di continuare a chiedere, anzi a pretendere, che si faccia luce in questa vicenda, anche per la comunità tutta, che ha diritto a sicurezza e verità. Devo ancora sperare, ed è anche una strategia di sopravvivenza, e con lealtà intellettuale ne faccio testimonianza ai tantissimi giovani che ogni anno incontro nei percorsi di legalità organizzati dall’associazione Libera, che propone la memoria delle vittime innocenti, e la custodisce e la coltiva».

Un verbale di “sommarie informazioni” fornite da un collaboratore di giustizia, che proprio noi della Gazzetta abbiamo pubblicato il18 luglio scorso, indica due nomi e una pista: Massimiliano sarebbe stato ucciso a causa di una donna che “interessava al clan Cordì”. È a conoscenza di qualche ulteriore passo investigativo? Sa se qualcuno in Procura ha ripreso o intende riprendere in mano il fascicolo archiviato?

«Quanto abbiamo appreso dal suo giornale e poi in rete, dove sono disponibili molte informazioni sulle persone menzionate, è per ora tutto quanto sappiamo. Naturalmente confido che vada tutto considerato e valutato con attenzione nuova. Tempo fa un ufficiale dei Carabinieri mi disse che questo delitto si sarebbe risolto “mettendo ordine in altri cassetti”, cioè nel corso di indagini per altri crimini. Potrebbe essere il momento, e dunque continuo a credere che ci siano investigatori determinati ad individuare i mandanti, che io non ho mai indicato per mancanza di mie certezze. Ma in realtà già le mie prime testimonianze (che ho reso il 21 settembre 2004 mentre nell’ospedale di Locri si tentava di salvare Massimiliano) avevano guidato gli investigatori a isolare l’origine dell’assassinio di mio figlio. In atto non mi consta essere state riaperte indagini né tantomeno praticate piste investigative alternative. Mi ritengo comunque libera di immaginarmi un’organizzazione del delitto che deve avere previsto un qualche consenso, se non, addirittura, concorso. Il 17 settembre 2004, la sera dell’agguato avvenuto nel cortile condominiale, era tempo di caccia, ed era noto che Massimiliano giocava a calcetto nel campetto accanto al cimitero, sempre allo stesso orario, ogni venerdì; inoltre il lampione della strada era stato rotto la sera prima, c’era una pietra per tirarsi su all’altezza del muretto di recinzione e, nascosta tra i rovi e le canne, una lupara».

Suo nipote è da poco maggiorenne. Ha avuto finalmente l’autorizzazione a incontrarlo? Gli ha mai parlato?

«Il figlio di Massimiliano ha 18 anni e somiglia a suo padre in modo impressionante. “La natura si è divertita in questa storia dolorosa”, scrisse un perito genetista, riferendosi al risultato massimo dei ripetuti test di compatibilità del dna. Forse la verità gli è stata proposta in modo distorto e pretestuoso, ma ad ogni modo penso che l’avrà acquisita così come paventato dal procuratore presso il Tribunale per i Minorenni di Reggio: “Verrà a conoscenza delle sue vere radici – scrisse – nel modo più becero, considerato il contesto degradato di Locri”. Gli hanno negato il diritto di essere amato. Riconosco la sua sofferenza, il suo lutto, le incertezze che lo agitano, dal momento che la verità gli è andata addosso come un carro armato senza che nessuno lo sostenesse. Di tanto ritengo responsabili tutti coloro che hanno giocato a far passare il tempo, non attuando decreti e sottovalutando decisioni che avevano impegnato magistrati ed esperti scrupolosi. Hanno voluto (pilatescamente? pusillanimemente?) che questo orfano bianco compisse la maggiore età, perché dal giorno successivo, una volta emancipato e soggetto a pieno titolo di diritto, potesse conseguire la patente, votare e… sbrigarsela da solo in merito alla tragedia della sua vita. L’ho amato, da piccolissimo, da quando lo vidi per la prima volta, avvolto nel lenzuolino bianco che era stato di Massimiliano, lo amo poiché persona unica e irripetibile e non certo perché io lo consideri una propaggine di mio figlio. Lo amo ma non gli ho mai parlato: non potrei mai affliggerlo dell’obbligo di compiere delle scelte. Aveva bisogno, ha bisogno di serenità, rassicurazioni, amore grande, e di aiuto a costruire quei ricordi che gli sono stati impediti. Gridateglielo, che suo padre l’ha amato fin dalla foto dell’ecografia, e già faceva progetti d’amore e di allegria, l’abbiamo atteso insieme, tra mille angosce eppure con il cuore pieno di gioia per lui, sangue nostro. E che nessuno mai gli dica “sei causa della morte di tuo padre”. Ditegli invece: “ti avrebbe preso per mano e accompagnato a giocare a pallone, e forse ora non tiferesti Juve, ma Inter, come lui”».

Ha parlato di Locri, “contesto degradato”. Da donna, madre, nonna, insegnante, e vittima di mafia, cosa è per lei la città in cui vive?

«Locri è bella, ricca d’arte e di cultura, è culla di diritto e storia, una città che rispetto perché qui è il cimitero. Qui molti mi sorridono e molti mi scansano. “Città di legalità” proclamata in corso di raffinatissime “cattiverie”, di partecipate celebrazioni piuttosto che di commemorazioni sentite, dove ancora sono giudicata perché “non mi so rassegnare” e da 13 anni chiedo che una santa messa (si celebra oggi alle 10,30 nella cappella dell’ospedale, ndr) sia momento comune di preghiera per chi porta nel cuore mio figlio Massimiliano, donatore di sangue per 11 anni, e giovane laborioso e mite. Un posto, come tanti altri, in cui l’amore è stato preludio a una condanna a morte».

Maestra Liliana, grazie.

«Ancora una volta, sono io che ringrazio voi. La Gazzetta del Sud in questi anni ha dato forza alla mia voce. Grazie, perché avete fatto entrare il nome del mio Massimiliano nella storia della Calabria».

 

 

 

 

Locri, quindici anni fa l’omicidio di Massimiliano Carbone
LaC TV – Pubblicato il 23 set 2019
Un delitto rimasto ancora senza colpevoli. Quindici anni fa a Locri veniva ucciso sotto casa l’imprenditore Massimiliano Carbone. La lotta di mamma Liliana continua alla ricerca di verità e giustizia.

 

 

 

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Articolo del 18 giugno 2020

I DUE KILLER SONO RIMASTI IMPUNITI

 

 

 

vivi.libera.it
Massimiliano Carbone
Alto, di corporatura robusta e di carnagione scura. Era un tipo taciturno, ma che credeva nella capacità degli esseri umani di fare del bene. Pochi e faticosi punti di riferimento, era un ragazzo molto meticoloso anche nella scelta delle sue amicizie.

È mio dovere, mio imperativo morale. È necessario. Non mi rassegnerò mai. Voglio la verità. La pretendo da cittadina per la comunità e non è retorica. Del mio dolore ho fatto strumento di legalità. La verità è necessaria alla Locride per tanti altri delitti.
Liliana Esposito Carbone – mamma di Massimiliano

 

 

Articolo del 20 marzo 2021

Liliana Carbone: «Se gli assassini restano impuniti, non potrà esserci futuro»

 

 

 

lacnews24.it
Articolo del 18 settembre 2021
Omicidio Carbone a Locri, mamma Liliana: «Giustizia negata, dopo 17 anni ancora nessuna verità»
di Ilario Balì

 

vivi.libera.it
Articolo del 22 settembre 2021
Oltre l’assenza. Il ricordo di Massimiliano Carbone
di Liliana Carbone

 

vivi.libera.it
Articolo del 22 settembre 2022
Massimiliano Carbone, colpevole d’amore

 

vivi.libera.it
Massimiliano Carbone – 24 settembre 2004 – Locri (RC)
Alto, di corporatura robusta e di carnagione scura. Era un tipo taciturno, ma che credeva nella capacità degli esseri umani di fare del bene. Pochi e faticosi punti di riferimento, era un ragazzo molto meticoloso anche nella scelta delle sue amicizie.

 

 

di Anna Foti -Ci sono storie di resistenza straordinarie in questa terra. Storie che si ha l’obbligo di raccontare e di non dimenticare nonostante, potendo scegliere, chi le abbia vissute avrebbe preferito non esserne protagonista. Liliana faceva la maestra elementare e avrebbe voluto solo vedere suo figlio compiere il trentunesimo compleanno, e tutti quelli successivi che la vita gli avrebbe donato, piuttosto che sopravvivergli e portarne una foto al collo.
La morte lo ha strappato a lei, al padre Franco, agli altri due fratelli, a quella vita brutalmente impedita, rimasta a meno di metà.  Avrebbe fatto a meno, Liliana, di una vita di lotta per la verità e la giustizia per la mostre del figlio, per quella cieca violenza che in Calabria turba la vita di tante famiglie, strappando affetti, condannando al dolore della perdita senza ritorno e, troppo spesso, anche senza la possibilità di una giustizia.
Ma invece quella guerra lei deve combatterla, non  può sottrarsi da madre, da nonna, da cittadina di questo paese troppo spesso impegnato in proclami che invochino, più che in fatti che rispettino la dignità e la memoria.
Non ha scelta, Liliana, perché è coraggiosa e determinata e la sua libertà di decidere l’ha già esercitata a monte quando ha deciso da che parte stare, quando ha deciso di non subire, di non tacere, di dire agli inquirenti tutto ciò che sapeva, di indicare loro una pista e di trovare anche le prove per sollecitare quelle indagini lente, tardive, lacunose.
La sua è coerenza limpida, a tratti ruvida, spigolosa e granitica allo stremo, ma sempre specchio di dignità e rara qualità; ecco perchè questa storia, nonostante l’amarezza e il dolore ne costituiscano la radice unitamente all’amore di madre, è oggi preziosa e irrinunciabile.
Lei è Liliana Esposito Carbone ed è la madre di Massimiliano, ucciso nel 2004 a Locri. Aveva solo trent’anni, suo figlio. Era il 17 settembre quando gli spararono sotto casa, in un agguato tesogli nel cortile. Massimiliano stava rientrando da una partita di calcetto con il fratello Davide. Un colpo al fianco, un lungo intervento prima di morire in ospedale dopo sette giorni di agonia, il 24 settembre.

“[…] Massimiliano Carbone, trentenne di Locri. Una storia limite, nel bene e nel male. Una storia rimossa dalla coscienza collettiva perché scomoda. Ma non dimenticata, grazie al coraggio e alla tenacia di una madre da anni in cerca di giustizia e verità, spesso sola e controcorrente.Tutti sapevano nel quartiere della storia di Massimiliano con quella donna più grande di lui. Le voci circolano in fretta a Locri. Le visite frequenti in quella casa, solo e sempre quando il marito non c’era, erano più che una confessione  Ma in pochi avevano capito che il piccolo era proprio figlio di quel giovane uomo. Non è più una questione di passioni, ma di scelte di vita. A venticinque anni, Massimiliano è pronto a fare la sua parte, ma la donna che ha dato al mondo il suo primo figlio (primo per Massimiliano ma non per la donna) tentenna. Il bambino glielo fa vedere in fugaci momenti rubati al menage familiare, nell’androne del palazzo dove abita. Anche la nonna Liliana Esposito ha il permesso di conoscere quel suo nipote segreto. Cercano di convincere la madre a dare al bambino il suo vero cognome, a lasciare tutto e a ripartire da zero. Ma come nelle peggiori fiction televisive, quella donna decide di continuare la propria vita e fare finta di nulla: forse è il prezzo che deve pagare per il suo adulterio, forse ha paura della reazione del marito. Resta quel bambino a testimonianza di un amore impossibile […]” (tratto da “Dimenticati” di Danilo Chirico e Alessio Magro – Castelvecchi)
Resta, appunto, e sopravvive anche a suo padre quel figlio che ad un certo punto Massimiliano avrebbe voluto riconoscere come suo. La sua intenzione, un diritto per lui ma un affronto per altri, lo avrebbe condannato: la punizione sarebbe stata la morte. Mamma Liliana è ancora lì a quel capezzale mentre promette al figlio di occuparsi del nipote segreto, ma è anche ogni giorno in trincea, in tutti i luoghi in cui in questi anni ha rivendicato il suo diritto di madre e di nonna, fiera e tenace, a vedere sancita la verità. Ogni giorno è al cimitero in compagnia dei gatti che si sono raccolti in questi anni vicino alla tomba di Massimiliano che tanto li amava.
Liliana non si è mai arresa, neppure dinnanzi all’omertà e alla indifferenza di tanti. Grazie alle parole di don Ciotti e di Giancarlo Maria Bregantini, all’epoca vescovo della diocesi Reggio Calabria Locri, all’impegno di Demetrio Costantino del Cids e di altri amici, la sua battaglia per la verità prosegue. Non rinuncia a dire quello che sa. Lo fa dal primo minuto. E’ stata sempre da sola a parlare e a fornire elementi agli inquirenti, a raccontare di quella storia con una donna più grande di cui Massimo era innamorato. Ha scritto alle più alte cariche dello Stato, ha protestato davanti al tribunale di Locri, alle ultime regionali non è andata a votare per protesta.
“Egregio Signor Prefetto. con sconforto che si accresce nel trascorrere degli anni e nella Giustizia negata, ancora una volta come dall’aprile 2006, rinuncio al mio diritto ed al mio dovere di cittadina in occasione delle prossime Elezioni Regionali”, così ha scritto nel novembre 2014. Erano trascorsi dieci interminabili anni e le indagini non avevano imboccato alcuna direzione utile all’accertamento di responsabilità. Ad oggi ne sono passati undici di anni e nulla è cambiato.
La quotidianità di questa donna, di questa madre calabrese, con la foto del figlio sul petto forzatamente racchiusa in un ciondolo, la sua fierezza quando parla di lui, uomo generoso e dedito al prossimo, impegnato professionalmente in una cooperativa di servizi sociali ed un appassionato tifoso amaranto, sono state raccontate nel documentario “Oltre l’Inverno” (http://www.oltrelinverno.blogspot.com) realizzato da Massimiliano Ferraina, documentarista, Claudia Di Lullo, dialoghista, Raffaella Cosentino,  giornalista freelance (Redattore Sociale, Il Manifesto).
Non sono stati mancati i tentativi di delegittimazione, che per una donna sono sempre più facili da esperire. Il più comune è stato: ‘Liliana Carbone, resa pazza dal dolore’, come ha ricordato Francesca Chirico nel suo libro di storie di donne ribelli in terra di ndrangheta, che come Liliana non hanno taciuto, “Io parlo” (collana Rx La terra vista dalla terra – Castelvecchi). Questa storia è anche tra quelle raccolte nel volume “Calabria ribelle – Storie di ordinaria resistenza” di Giuseppe Trimarchi (Città del sole edizioni).
Come tutte le terre in cui i diritti vacillano e la violenza è rimasta a lungo, a volte resta ancora, impunita, anche in Calabria vivono le madri coraggio come Liliana e come Angela che calabrese non era ma che in Calabria, nella Locride alla fine degli anni Ottanta, ha vissuto, con il dramma del sequestro del figlio Cesare, dolorosamente la sua maternità.
Proprio come raccontava lei, Angela Casella, per tutta Italia ‘madre coraggio’, scesa nella Locride per liberare il figlio in mano all’Anonima sequestri da oltre 500 giorni e morta nel 2011: ‘Combatto contro qualcuno che non vedo e non sento, ma che esiste e imprigiona mio figlio’.
Liliana Esposito Carbone invece combatte anche contro qualcuno che conosce e che ancora imprigiona la memoria, per molti vitale e per altri scomoda, di suo figlio Massimiliano.

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