Agosto 1985, la città sfregiata dalla mafia – di Roberto Leone

Al centro della foto Ninni Cassarà con Roberto Antiochia e Natale Mondo

Trent’anni dall’omicidio di Ninni Cassarà. A pochi giorni dall’assassinio di Beppe Montana, la strage di via Croce rossa getta un’ombra funesta su Palermo: è l’inizio di una delle peggiori stagioni di violenza mafiosa

Articolo del 6 agosto 2015 da  palermo.repubblica.it

I dieci giorni che sconvolsero la questura di Palermo, iniziano al tramonto di una domenica di trent’anni fa. Sul molo di Porticello il commissario Beppe Montana cammina seguito dalla sua fidanzata. Ha ormeggiato il piccolo motoscafo con il quale ha fatto un giro navigando tra Casteldaccia e Porticello. Pensa che nessuno noti quella anonima imbarcazione con una coppia a bordo. Sembrano due innamorati in cerca di privacy in un giorno di festa. In realtà Montana è a caccia di nascondigli di latitanti: questo è il suo mestiere da capo della sezione catturandi della squadra mobile di Palermo.

I due killer che gli sparano tra la folla quella domenica 28 luglio del 1985, forse non sanno, o forse sì, che con quell’omicidio inizia una delle più terribili estati vissute da Palermo. Nel giro di pochi giorni esploderà il caso Marino, il pescatore  –  calciatore dilettante  –  favoreggiatore di mafia, morto in questura durante un interrogatorio. La squadra mobile verrà decapitata il 5 agosto proprio per la morte di quel giovane: firma i provvedimenti il ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro. E dopo poco più di 24 ore in via Croce rossa un commando armato di kalashnikov aspetterà l’arrivo di Ninnì Cassarà, vicequestore, capo della squadra investigativa e dal giorno prima alla guida della mobile. Una pioggia di piombo per uccidere un investigatore che era stato il motore delle inchieste più importanti sulla mafia, il braccio destro di Giovanni Falcone, l’uomo che a Caltanissetta aveva testimoniato al processo per l’uccisione di Rocco Chinnici, affermando in aula che il consigliere istruttore, eliminato in via Pipitone Federico con una autobomba il 29 luglio ’83, voleva arrestare i cugini Salvo, i potenti esattori di Salemi, da sempre grumo di potere all’ombra della Dc.

La strage di via Croce rossa, dove viene ucciso anche l’agente Roberto Antiochia tornato dalle ferie dopo l’omicidio di Beppe Montana per stare vicino a Cassarà, e scampa alla morte l’altro poliziotto di scorta Natale Mondo, assassinato quattro anni dopo, segna uno spartiacque nella lotta alla mafia e una frattura nella vita della città. Poche settimane dopo, l’inviato di “Repubblica” a Palermo, Franco Recanatesi, racconta dello scoramento profondo di inquirenti e società civile in un servizio dal titolo “1985, fuga da Palermo“. Sette anni dopo, Antonino Caponnetto il capo del pool antimafia ormai in pensione, dopo la strage di via D’Amelio gela l’Italia con il suo sconforto: “Tutto è finito, è finito tutto”, ma per molti quella sensazione era già conosciuta. Era la stessa provata in via Croce rossa alle 15 di quel maledetto sei agosto 1985. Poche volte sulla scena di un delitto si è vissuto un dramma collettivo come in quel budello che era una volta via Croce rossa. Decine e decine di volanti, auto civetta, poliziotti in divisa e in borghese. Una calca indescrivibile di clacson e sirene. Decine di uomini, tanti in lacrime, e poi pugni sbattuti sui cofani, urla di dolore, giornalisti schiaffeggiati. A pochi metri l’altra città, però, era pronta a festeggiare come raccontano Piero Melati e Francesco Vitale in “Vivi per morire”, un libro dedicato proprio all’anno spartiacque per Palermo, il 1985. Uno dei cronisti de “l’Ora” arrivato sul luogo della strage, entra in un bar per chiamare il giornale, appena in tempo per ascoltare un tizio che al bancone urla: “Ammazzaru ‘u sbirro, pago da bere a tutti”. Queste era la Palermo sulla quale Cassarà indagava come mai nessuno aveva fatto prima.

Lo fa sia pure tra mille difficolta, ma solo perché c’erano magistrati come Falcone e Borsellino. Riesce a farlo anche anche perché per la prima volta la squadra degli investigatori e soprattutto polizia e carabinieri (la Dia non esisteva), collaborano in modo del tutto nuovo. Con Cassarà e Pellegrino, il capo delle Mobile rimosso per il caso Marino, lavora il capitano Tito Baldo Honorati, carabiniere con gli alamari tatuati sulla pelle, alla guida del nucleo operativo. C’è il metodo comune, c’è lo scambio di informazioni, ma ci sono soprattutto rispetto e fiducia. Quella fiducia che Ninni Cassarà spesso raccontava di non avere in alcuni personaggi degli uffici di piazza della Vittoria.

La Mobile delle talpe, degli infiltrati, dei traditori: sospetti alimentata dai fatti. Dalla cattura vanificata all’ultimo minuto di alcuni importanti latitanti, sino al caso Marino, quella tortura portata sino alla morte quando sembrava che il giovane potesse fornire i tasselli mancanti che portavano ai killer di Beppe Montana. E poi lo stesso agguato a Cassarà: il poliziotto che dopo cinque giorni vissuti in questura, torna a casa all’improvviso e trova lo squadrone della morte già appostato nel palazzo di fronte.

Talpe, sospetti, veleni. Un clima che porta all’indomani della strage, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino a rinchiudersi con le loro famiglie nella fortezza dell’Asinara per scrivere le motivazioni del maxi processo. I due giudici sanno che non possono mandare al macero quella montagna di carte per le quali Montana e Cassarà hanno dato la vita. Passano quaranta giorni isolati dal mondo e alla fine, riceveranno anche il conto per le spese extra, dal ministero di Grazia e giustizia. Ma alla fine quello che era stato il “rapporto dei 162”, diventato poi la base della maxi-ordinanza d’arresto per i 366 mafiosi incastrati anche dalle rivelazioni di Tommaso Buscetta, si trasformeranno nel più grande processo alla mafia di tutti i tempi. Dentro ci sono tutti i padrini di Cosa nostra: da Michele Greco ai corleonesi allora latitanti Totò Riina e Bernardo Provenzano.

Nel blitz di san Michele, nemmeno un anno prima, il 29 settembre del 1984, finiscono in manette capi e gregari. La mafia è in ginocchio, titolavano i giornali. E Cassarà ironico: attenti che così spara meglio. Passano 15 giorni e, a quelle di Buscetta, si aggiungono le confessioni di Contorno. “L’Ora” in prima pagina pubblica un disegno con il boss dei due mondi che poggia la mano sulla testa del suo fido scudiero e dice: “Totuccio puoi parlare”. E Cassarà si arrabbia: “Così non faremo mai un passo avanti. Ma lo volete capire che la lotta alla mafia è un fatto culturale? Contorno non aspetta l’ok del suo boss per parlare, ma lo fa perché si fida dello Stato”. Preoccupato dopo l’arresto di Ciancimino e dei cugini Salvo: “Questa ce la faranno pagare, ragazzi. Aspettiamo un anno e poi ne parliamo “. Cassarà era così: uno con cui litigare, discutere, confrontarti, sapendo che avevi a che fare con una persona onesta e intelligente. Troppo per quella Palermo anni ’80 che aspettava la morte dello sbirro per potere festeggiare.

Ci vorranno le stragi di Capaci e via D’Amelio per scuotere tutto il Paese e riconoscere il valore dei “Disarmati” come Luca Rossi nel libro inchiesta-romanzo uscito nel ’92 chiama Cassarà, Falcone, Borsellino e gli altri morti nella guerra che lo Stato per decenni ha combattuto a metà.

 

 

 

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