I Testimoni di Giustizia. Storia di chi ha testimoniato contro le mafie

CARMELINA PRISCO

 

Articolo+Videointervista del 7 Ottobre 2012 da fanpage.it

L’odissea di una testimone di giustizia

di Vincenzo Sbrizzi

La storia di Carmelina Prisco che nel 2003 ha assistito ad un omicidio di camorra a Mondragone e ha testimoniato facendo condannare il killer. Questa scelta, però, le ha cambiato la vita.

Una “rosa nel deserto”. Così l’ha definita nel suo primo libro il magistrato antimafia, Raffaele Cantone. Era lui il pubblico ministero antimafia che raccolse la testimonianza di Carmelina Prisco. Non una testimonianza qualsiasi; un dettagliato e lucido resoconto di un omicidio di camorra. Carmelina fino a quel giorno non aveva mai avuto a che fare con la camorra. Era un’insegnante con una piccola ditta di pulizie con la quale provvedeva alle spese della sua numerosa famiglia. La notte tra il 13 e il 14 agosto del 2003 la camorra però ha bussato prepotentemente alla porta della sua vita e lei non ha abbassato la testa. In quella notte estiva, lei era in bici con le amiche e organizzava cosa fare per il ferragosto quando dei colpi di arma da fuoco squarciarono il suono delle loro risate.

Tra i tavolini del “Roxy bar” di Mondragone rimase ucciso Giuseppe Mancone, detto Rambo, spacciatore della zona. Ad esplodere i colpi mortali fu Salvatore Cefariello, di Ercolano, affiliato al clan Birra. In quel periodo i Birra stavano conducendo degli affari di droga con il clan Fregnoli, che a Mondragone ha sostituito il clan La Torre dopo il pentimento del capoclan Augusto, e gli inquirenti sospettano che quell’omicidio fosse un regolamento di conti affidato ai nuovi partners per testarne l’affidabilità. Carmelina con le sue amiche era praticamente a dieci metri dall’assassino. Vide tutta la scena e rimase paralizzata. Ma ricordava tutto del killer, scene come queste rimangono impresse. Chiamò i carabinieri ma non fanno in tempo a trovare il killer.

Il mattino seguente Carmelina fece quello che riteneva più giusto. Andò spontaneamente dai carabinieri, raccontò tutto quello che aveva visto. Fornì un identikit dell’omicida, disegnandolo di suo pugno. Dopo qualche mese il killer venne arrestato e lei si presentò al riconoscimento, incastrandolo. Lo stesso al processo. Tutto questo per lei fu normale ma da quel giorno la sua vita cmabiò radicalmente. Venne inserita nel programma di protezione dei testimoni di giustizia e dovette lasciare da un giorno all’altro tutto. Lavoro, famiglia, amici, tutto quello che aveva per andare in “stand by” per oltre tre anni. Tre anni durissimi passati tra una stanza d’albergo e l’altra, spostata come un pacco nemmeno tanto gradito allo Stato.

Chi doveva tutelarla, la trattava quasi come se fosse un collaboratore di giustizia, lei che con la camorra non aveva mai lontanamente avuto a che fare. Lei che con il suo gesto non aveva solo fatto arrestare un killer della camorra ma aveva abbattuto un muro d’omertà che da anni imperava nel casertano. A nove anni da quell’omicidio lei vive ancora a Mondragone. Senza alcuna tutela. Ma soprattutto senza quel lavoro e quella vita che si era costruita con tanta fatica. E’ disoccupata adesso e non sa come tirare avanti. Allo Stato verso il quale aveva dimostrato la sua lealtà non chiede che una possibilità che meriterebbe molto più di altri. Tutto quello che le resta è la sua dignità ma solo con quella anche una “rosa nel deserto” rischia di appassire.

L’odissea di una testimone di giustizia (VIDEOINTERVISTA).

Articolo del 31 Gennaio 2014 da  deapress.com

L’ingiustizia statale di Carmelina Prisco

di Giusi Giovinazzo

Un torrente di parole, un fiume in piena, un’ indomabile energia che va a schiantarsi contro il Sistema, della Camorra prima e dello Stato poi.

Oggi il nome di Carmelina Prisco compare nell’elenco dei testimoni di giustizia dello Stato italiano, quell’istituzione, quel grembo di legalità formale di cui lei oggi parla con rabbia, con l’insofferenza di chi si è visto togliere tutto. Persino la voglia di vivere.

Era 33enne Carmelina, allora, quella notte dell’Agosto del 2003, quando davanti a un bar di Mondragone, il Roxy bar, Salvatore Cefariello, del clan Birra, fredda con un colpo di pistola Giuseppe Mancone, il “Rambo”, del clan dei Frognoli, subentrato ai Latorre.

Un regolamento di conti che ha a che fare con uno dei business più produttiviti delle Mafie: la droga. Ma Carmelina ancora dei soppalchi di questa vicenda non sa nulla. Sa solo che ha visto uccidere un uomo.

Appena il killer si allontana a cavalcioni su una moto e in compagnìa di un amico e un “Tutto a post? Hai fatto? Si, ho fatto”, Carmelina si nasconde in un vicolo e chiama la polizia. Attimi prima, Salvatore aveva appoggiato la pistola alla sua schiena, lasciandola con le parole congelate da quell’intimidazione.

43 chili in meno (dice lei) e un senso civico che da quelle parti fa pensare a una rosa nel deserto, come la definì Saviano in Gomorra. E da lì, inizia la via crucis della legalità, la penitenza di chi (da non crederci!) dà la sua voce alla giustizia e ne esce sconfitto. Spremuta e buttata via, forse ingenuamente dall’allora pubblico ministero Raffaele Cantone, dalla polizia italiana e soprattutto dai NOP, nuclei operativi protezione, introdotti dal decreto legge n. 8 del 1991; alla periferia della Commissione centrale, essi sono organismi esecutivi che mettono a punto un programma di mimetizzazione di chi si giudica in pericolo di vita per essersi esposto contro il potere dei clan.

Un giorno che significa una vita intera. Carmelina viene chiamata in caserma a tracciare la fisionomia del killer, poi la convocazione in tribunale, al processo che condannò il Cefariello all’ergastolo. E Carmelina Prisco alla diaspora, cioè al programma di protezione per testimoni di giustizia. Che non vuol dire collaboratore di giustizia, pentito. Per niente.

Da una casa all’altra, da una regione all’altra, da un NOP all’altro, sballottata da un’irresponsabile e disumano trattamento legislativo.

Sradicata e offesa, si sente dire di non rompere più i coglioni e di essere un peso per la società.

E intanto il dolore, la solitudine iniziano a fare il loro corso, logorandole  l’anima.

Carmelina si sente umiliata da chi dovrebbe tutelarla, offrirle una casa e un lavoro, come recita la legge del 2001, in cui lo Stato promette protezione e assistenza economica per garantire lo stesso tenore di vita a chi testimonia la giustizia, per la Giustizia.

E invece, barricata nelle mura domestiche, non ha nemmeno i soldi per comprarsi gli assorbenti, i ristoranti le danno come pasto gli avanzi e gli imprenditori della Calabria che non hanno ceduto alle richieste di pagare il pizzo si ritrovano con beni pignorati per 991 mila euro.

La recita istituzionale resta tale, su un pezzo di carta che non ci preoccupiamo di rendere attuativa; e come tutte le messinscene, la Regola si porta con sé un velo di ipocrisia e di sconforto. La potenza della legalità resta tale e non si creano le occasioni perchè si sviluppi in tutta la sua la sua virtuosità.

Dall’Umbria alla Liguria all’Emilia Romagna e il suo ispettore Verdi, si porta a compimento la distruzione del testimone di giustizia, il cui appassimento è direttamente proporzionale allo sgorgare della credibilità mafiosa. Se un testimone di giustizia tenta il suicidio per ben tre volte, allora non ci sono categorie metastoriche che ci diano conto del fallimento dello Stato contro la criminalità organizzata. Il problema è lo Stato, incapace, non all’altezza di gestire le sue responsabilità, e la società civile, ancora troppo collusa, omertosa con i Sistemi che la sorpassano. La colpa è nostra. Punto. Di chi sa e si gira dall’altro lato, di chi può e pensa alle strumentalizzazioni e alla carriera.

“ Vorrei salire su di uno sgabello con in mano un microfono al centro della piazza del mio paese ed urlare in faccia a tutti lo sdegno che provo per tutti loro! e vorrei dire in faccia a tutti quelli che ancora dubitano di me, quanto mi fanno pena per la loro pochezza…”: è lo sfogo, letterale, di Carmelina, oggi disoccupata, con un mieloma e una casa che cade a pezzi. La vita di un vegetale che, a dieci anni da quella testimonianza, chiede giustizia per l’ inconcepibile trattamento ricevuto dai NOP nel periodo del suo (improvvisato?!) programma di protezione e i suoi tre anni e mezzo di claustrofobia.

“E Libera?”-le chiedo-“non sei mai stata coinvolta in un’iniziativa che ti aiuti in qualche modo a ricollocarti nella società?”. In effetti si; qualche anno fa, ha lavorato sei mesi in un neo sportello del CEA a Mondragone. Ovviamente non tutto è filato liscio: la Salvestrini, presidente di Etica Verde, dopo aver proposto il contratto lavorativo, si rita indietro, ed è solo grazie all’ex dirigente di Libera della provincia di Caserta, Valerio Taglione, lei ha potuto ricominciare a lavorare, fino a quando i fondi cessano di arrivare e il CEA chiude i battenti.

Dopo esser stata “costretta”, nel 2007, a prendersi una pizzeria sull’orlo del fallimento, affrettata da un poliziotto senza scrupoli e la capitalizzazione che lo Stato “garantisce”, Carmelina dopo il primo giorno di attività si vede arrivare nel locale l’ASL, che le rimprovera le deficienze tecniche dell’attività. Tali camici bianchi propongono a Carmelina un do ut des perfettamente abbinato ai metodi mafiosi e al “contratto” precedente: dacci qualcosa di soldi, così tu dai una mano di pittura al locale e noi non ti creiamo problemi. Sento l’indignignazione così viva e ardente e irreprensibile di Carmelina al telefono, quando mi racconta dell’incontro. Minaccia di chiamare la polizia e di denunciare tutto, e loro cercano di sviarla. Si consulta con degli avvocati, che le consigliano di fare i lavori per mettere a norma il locale e poi svolgere la denuncia. E così fu. Ma intanto a Sora era girata voce che la proprietaria di quella pizzeria era la moglie di un camorrista, ed ecco che la macchina del fango si trascinò via con sé l’opportunità per Carmelina di (ri)costruirsi una normalità che sapesse di vita, di dignità. Il fallimento della pizzeria la costringe a svendere l’attività e a tornarsene al paese natìo, dove deve affrontare tre lutti familiari e, praticamente, tutte le spesse connesse.

Oggi, con un’operazione dell’utero alle spalle, un sistema di coagulazione inesistente, ha bisogno di mensili trasfusioni di sangue e plasma. Come se tutto ciò non bastasse, la spesa di tutte quelle medicine non mutuabili, necessarie e dispendiose.

La storia di Carmelina Prisco ha un che di assurdo, di non razionalizzabile, di non argomentabile. E così, lo spalancare gli occhi davanti ale sue parole non mi aiuta ad orientarmi in questa vicenda.

Senza se e senza ma, da quella metà di Agosto, Carmelina guardò il killer in faccia e lo riconobbe, pubblicamente, istituzionalmente. Senza rimurginare, senza fantasticare al poi.

Io invece mi trovo qui, con l’aura indiscussa dei miei ideali, a chiedermi da che parte stare.

Che modello di testimone di giustizia mi offre lo Stato? Che priorità mi esibisce il mio Stato, quello della legalità, quello che si riempie la bocca con belle parole come democrazia e uguaglianza? Quello della spending review e delle mutande verdi?

Oggi Carmelina si sente il mezzo che giustificò il fine, l’onestà per l’arresto di un affiliato e per la promozione dell’allora capitano Rubertà, del tenente Fiorentino, per l’encomio degli investigatori.

E allora continuo a chiedermi per quale giustizia vale la pena tifare, se Rita Atria si è uccisa, come pure quella Maria Concetta di Rosarno che bevve l’acido; se Lea Garofalo viene torturata e uccisa; se Francesco Paolo, Pino Masciari e Ignazio Cutrò sono sommersi da difficoltà economiche. Se Carmelina Prisco non si sente più viva.

Un coraggio solitario che rischia di implodere ma che, nonostante tutto lo schifo intorno, dimostra pure che “è possibile ricercare la felicità solo se coincide con la verità”(R. Saviano).

Per DEApres, Giusi Giovinazzo

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