I Testimoni di Giustizia. Storia di chi ha testimoniato contro le mafie

PIETRO IVANO NAVA

 

Articolo del 8 Aprile 1992 da  ricerca.repubblica.it
‘ COSI’ PAGA CHI AIUTA LO STATO’
di Giuseppe D’ Avanzo

ROMA – “Ero uno come tanti, forse più fortunato di tanti con un buon passato e un promettente futuro. Immaginate ora che in pochi minuti tutto è stato cancellato come per un colpo di spugna su una lavagna…”. Pietro Ivano Nava, 42 anni, milanese di Sesto San Giovanni, è un uomo in fuga dal 21 settembre 1990. Era un venerdì caldo e senza afa. Erano le nove del mattino. Nava, agente di commercio, era a bordo della sua Lancia Thema a quattro chilometri da Agrigento. Vide sul lato della strada una Ford Fiesta rosso-amaranto con la portiera aperta sul lato destro. Accanto un ragazzotto con il volto coperto dal casco. Più in là, un altro uomo. Sta scavalcando il guard-rail. Ha il volto scoperto, stringe nella destra una pistola. Insegue Rosario Livatino. Il “giudice ragazzino” di Agrigento è stato già colpito ad una spalla. Sta tentando la fuga in un vallone di erba bruciata e sterpi. Il killer della mafia lo braccherà come una bestia. Lo colpirà da lontano e, una volta abbattuto, sparerà ancora – quattro volte – per finirlo. Pietro Ivano Nava dalla sua Lancia Thema fa in tempo a vedere bene l’ assassino in faccia. Raggiunge Agrigento. Chiama la polizia. Dice: “Ho visto l’ assassino. Se lo trovate, saprei riconoscerlo”. E lo ha riconosciuto davvero Domenico Pace, l’ assassino. Lo ha riconosciuto una prima volta in Germania a Leverkusen, Colonia, dove Pace con il suo complice, Paolo Amico, è stato arrestato. Era il 9 ottobre del ‘ 90. E ancora durante l’ incidente probatorio. Ieri, per la terza volta, al processo contro i killer del giudice di Agrigento. Le domande della difesa Con serenità, senza nervosismo, Nava ha raccontato dinanzi alla Corte gli attimi che stanno riscrivendo la sua vita. Ha descritto fin nei dettagli quel volto che vorrebbe cancellare dalla sua memoria: “Capelli castano scuri, ondulati, pettinati all’ indietro, fronte prominente, lineamenti marcati. Sì, lui, proprio lui, Domenico Pace”. Nava ha confermato, spiegato, puntualizzato assediato dalle domande della difesa. Ha svelato: “Sì, in un primo momento ho detto di aver chiamato la polizia dal radiotelefono. Non è andata così. Il radiotelefono era guasto. Ho chiamato il ‘ 113′ dall’ ufficio di un mio cliente a Villaggio Mose. Ho nascosto questo particolare per evitare dei guai al pover’ uomo che lì ad Agrigento deve vivere e lavorare. Non mi pento di averlo fatto…”. Dura quattro ore e mezzo l’ interrogatorio di Nava. Quando nel pomeriggio Pietro Ivano Nava accetta di rispondere al telefono alle domande di Repubblica è sereno, come lo è stato nell’ aula-bunker di Rebibbia. Racconta: “Non mi sento un eroe, non mi sento una mosca bianca. Non sono né l’ uno né l’ altro. Sono un cittadino che crede nello Stato né più né meno come ci credeva Rosario Livatino. E lo Stato non è un’ entità astratta. Lo Stato siamo noi. Siamo noi che facciamo lo Stato. Giorno per giorno. Con i nostri comportamenti, la nostra responsabilità, le nostre scelte. Con la nostra dignità. Che avrei dovuto fare? Chiudere gli occhi? Tirare innanzi per la mia strada? No, non sono stato educato a questo modo. Mi sono comportato come mi hanno educato. E non rinnego nulla. Se potessi tornare indietro, lo rifarei. Alzerei ancora quel telefono…”. Pietro Ivano Nava è oggi un fantasma. Ha lasciato la casa di Monte Marenzo, un paesino della Bergamasca dove ha vissuto per dieci anni. E’ stato cancellato dai registri dell’ anagrafe, dall’ elenco telefonico, dal ricordo dei suoi familiari. Ha vissuto in un anonimo condominio della periferia romana, si è rifugiato su un’ isola del golfo di Napoli e ancora in un paesino dell’ Irpinia. E’ emigrato in Olanda. Per sfuggire alla vendetta della mafia, vive ora in un’ altro Paese europeo. Dice: “La mia vita è stata stravolta, sì. Ho 42 anni. Avevo degli amici che mi erano cari come fratelli. Non li vedo più, non ci si telefona nemmeno. Ho una famiglia. Posso vederla soltanto di tanto in tanto. Sempre all’ improvviso, sempre in fretta. Ho una compagna e due bambini di nove e quattro anni. Trascorriamo del tempo insieme. Quando è possibile, se le condizioni di sicurezza lo permettono. Avevo un lavoro. Ero il rappresentante esclusivo per il Mezzogiorno delle porte blindate della ‘ Dierre’ di Villanova d’ Asti. Mi hanno licenziato che non era passato neanche un mese dal quel 21 settembre ancora prima di sapere che inferno sarebbe diventata la mia vita. Semplicemnte non volevano guai”. La lentezza dello Stato “Avevo una società in nome collettivo in Campania, la ‘ Delli Cicchi-Nava’ . E’ stata sciolta due mesi dopo. Ero socio di un’ altra società. Anche questa finita. Guadagnavo molto bene. Avevo davanti un futuro senza nubi. Ora vivo di quel che mi passa lo Stato. Non può essere questo il mio futuro. Allo Stato non chiedo nulla, chiedo che non abbandoni la mia famiglia. La mia famiglia, in questa storia, non deve entrarci. Non deve correre nessun pericolo. Mai. Né oggi né domani. Finora non ho nulla da recriminare. Chi mi sta accanto ha fatto il suo dovere. A volte con efficienza, a volte con un’ esasperante lentezza burocratica. Io non sono un ‘ pentito’ della mafia o della camorra. A volte ho la sensazione che, per la macchina dello Stato, non ci sia poi tanta differenza tra un ‘ pentito’ e un testimone con un’ immacolata fedina penale”. E il futuro? Pietro Ivano Nava tace per un un attimo. Poi, dice: “Io ho perso le piccole cose, gli affetti, le consuetudini, i luoghi cari che fanno, di un uomo, un uomo. Ora voglio essere soltanto dimenticato. Chiedo di poter ricostruire la mia normalità, la mia anonima vita normale lontano da scorte e bunker. E non voglio passare da un tribunale ad un altro per ripetere la stessa dichiarazione già letta, sottoscritta, registrata, filmata. Un cruccio? Sì, non potrò più tornare in Sicilia. Mi piacevano i siciliani. Gente geniale, operosa, allegra, viva. Vivono in un contesto terribile. Hanno solo bisogno di un po’ di fiducia…”.

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