I Testimoni di Giustizia. Storia di chi ha testimoniato contro le mafie

LUIGI LEONARDI

Articolo del 25 Settembre 2009 da  ilgiornale.it

Si ribella alla legge di Gomorra «I miei aguzzini? Tutti liberi»

CAMORRA Per i suoi quattro negozi pagava ai clan 6.000 euro ogni settimana

di Stefano Zurlo

La sfortuna è ben visibile sulla carta geografica. L’insegna del negozio Leolamp era proprio sul confine fra Scampia e Melito. Un incrocio caotico di periferie sformate. A chi toccava riscuotere il pizzo? «Un giorno – racconta Luigi Leonardi -sono entrati in cinque.

La zona è nostra, mi hanno bofonchiato senza tanti giri di parole. Tu ci devi pagare. Venivano da Secondigliano, come dire da Scampia, e sono rimasti lì, fra le luci e i lampadari per almeno un’ora. Poi, finalmente se ne sono andati, dopo aver fissato la tariffa: 2.500 euro la settimana. Con consegna, mi raccomando, puntualità, al sabato mattina».
Luigi Leonardi sperava fosse finita lì. Pia illusione. «Dieci giorni dopo sono venuti in due, due che poi hanno fatto una brutta fine: uno è morto in una sparatoria, l’altro è su una sedia a rotelle. Sono stati fin troppo chiari:  e noi chi siamo? Siamo peggio di quelli là? Come ti sei regolato con loro, ora ti devi regolare pure con noi. Facciamo 1.500 euro la settimana. Al sabato mattina».
Allora, alla fine del 2005, Luigi Leonardi era un giovane imprenditore di poco più di trent’anni. Aveva quattro negozi, a Chiaia, nel cuore di Napoli, e poi in tre località difficili dell’hinterland: Melito, Giugliano, Cardito. In più una fabbrica che riforniva direttamente i punti vendita. «Avevo ricavi altissimi, ero soddisfatto, innamorato del mio lavoro, e tenevo alto il nome della mia famiglia che da sempre opera in questo settore». Ma Leonardi non aveva fatto i conti con i clan, più famelici dei cani randagi che pure battono la zona. «Nel giro di pochi giorni c’è stata una processione di soldati dei clan nel mio ufficio. Quelli di Cardito, poi quelli di Ottaviano, infine il boss di Giugliano mi ha mandato a chiamare:  noi non ti abbiamo mai scocciato, tu adesso dai qualcosa pure a noi e sei a posto».
Per mettersi a posto, Leonardi versava circa 6.000 euro la settimana ai vari clan. «Lo so che può sembrare incredibile, ma io passavo il sabato mattina a preparare le buste. A volte questi signori si trovavano in cortile, bevevano un caffè insieme e poi passavano a riscuotere. Con la massima tranquillità. Li riconoscevo subito perché di solito venivano in due, in motorino, rigorosamente senza casco. Incassavano, salutavano come saluta il postino, se ne andavano».
Leonardi ha resistito quasi un anno, stringendo i denti, ma è stato inutile. «Mi dissanguavano, mi strozzavano un po’ alla volta, io non ce la facevo più, ma loro volevano i soldi. Sempre soldi. Altri soldi. Ho capito che il business era finito. Ho chiuso la fabbrica, ho chiuso Chiaia, ho chiuso Cardito, ho chiuso Melito, ho chiuso Giugliano, ho messo sul lastrico diciassette persone. Ho concentrato quel che restava ad Aversa. Ma non è servito. Non è servito a nulla».
Leonardi guarda smarrito il suo interlocutore. Ha paura di non essere creduto, teme che le sue parole possano apparire lunari se trasferite alle latitudini del Nord, a Milano o a Torino. Ma questa storia è un grido disperato che parte dalle viscere del profondo Sud. Un grido che racconta tanti, troppi fallimenti tutti insieme. Quello della scommessa imprenditoriale, che pure aveva tutti gli elementi per riuscire, e quello di una giustizia che non c’è e balbetta, mentre i clan battono il pugno sul tavolo.
«A giugno 2007 sono venuti in tre, su due motorini. Sono stati di poche parole: vieni con noi. Mi hanno portato al Terzo mondo, un quartiere degradato a Secondigliano e mi hanno chiuso in uno scantinato per una giornata intera. Mio padre, purtroppo, a suo tempo aveva fatto dei pasticci, si era indebitato ricorrendo alle cambiali e quelle cambiali sono finite nelle mani dei clan. Tu o tuo padre, mi ripetevano ci dovete pagare. Ventiseimila euro. Io non vi devo niente, no, tu ci devi dare quei soldi. Ma che pensassi, di stare a Beverly Hills?. Se no, posa questo negozio e vattene. Mi hanno puntato una pistola in fronte, mi hanno minacciato di morte. Non sapevo come fare. Per ore. Alla fine mi hanno liquidato così: Cominciamo dalla macchina e dalla moto che tieni. Le hanno valutate 13mila euro. Gli altri – è stato il loro congedo – ce li darai».
Qualche settimana dopo, Leonardi ha varcato la porta del commissariato e ha firmato la denuncia. La prima di una lunga serie. Ad accompagnarlo un avvocato messo a disposizione dalla blasonata associazione antiracket di Tano Grasso, Mediterraneo. Sì, proprio i campioni duri e puri della lotta alla camorra. Leonardi è tornato dalla polizia tante volte e ha riempito centinaia di pagine: «Mi mostravano album fotografici con le facce degli affiliati ai clan e li ho riconosciuti tutti. Ho dato nome e cognome senza esitazioni a trenta delinquenti che mi hanno minacciato e sequestrato e che mi hanno spremuto seicentoquarantamila euro». Una scelta coraggiosa, quella di Leonardi, da medaglia in una terra infestata dal cancro della criminalità organizzata. Invece, due anni dopo, Leonardi è solo. Come e più di prima.
«A gennaio 2008 l’inchiesta era finita, i nomi dei miei aguzzini sul tavolo del Pm, le denunce firmate. Ma poi non è successo nulla. Nulla di nulla. Nemmeno un arresto. Il Pm non mi ha mai chiamato, mai interrogato, mai ascoltato per saggiare almeno la mia lucidità. L’avvocato dice un giorno sì e l’altro pure che l’indagine langue, che la mia credibilità dev’essere verificata, per via di mio padre o di non so che altro. Ma io, io che devo fare? Ho perso tutto. La famiglia, gli affetti, il lavoro, la leggerezza della mia età: non ho più nulla. Se non la paura che mi sparino».

Che fine ha fatto l’inchiesta? Quali approfondimenti sono necessari? Forse l’apparato investigativo non crede all’imprenditore con il volto pulito? «Ma se non mi credono adesso perché mi hanno creduto nel 2002? Allora denunciai un altro clan, quello che mi succhiava il sangue quando il mio quartier generale era a Nola. In quell’occasione ho riconosciuto quattro estorsori, li ho fatti arrestare, li ho fatti condannare a nove anni. Uno mi ha mandato la moglie a parlamentare: sa, mio marito mi ha detto di chiederle di togliere la denuncia, che poi quando esce vi aggiustate. No, non l’ho tolta e sono andato all’aula bunker a Napoli, con il cuore in gola, e ho confermato. Ho confermato tutto. Ho confermato parola per parola. Col cancelliere che mi guardava come un marziano e mi ripeteva: ma che fate qua? Ve ne dovete andare, è pericoloso. Risultato, ora sono solo. Abbandonato. Scaricato. Braccato dai criminali che possono farmi la pelle».
Non è retorica. È la cruda realtà di questa terra senza speranza. Assoggettata alla legge dei clan. «Venti giorni fa sono arrivati di nuovo, e sono andati giù piatti: sappiamo che hai parlato con chi non dovevi parlare. Mi si è gelato il sangue, l’indagine era segreta, ma loro hanno saputo. Mi sono precipitato dalla polizia: gli investigatori mi hanno incredibilmente detto di stare tranquillo, quelli secondo loro non sanno, avrebbero fatto un’affermazione generica, ma io mica bevo le favolette. Basta. Ora denuncio tutto con il mio nome, il mio cognome stampato sul Giornale. Così non posso andare avanti. Anche perché loro sono tornati. Ancora. Per l’ennesima volta. Hanno detto che gli dovevo altri duemilacinquecento euro, hanno fatto un giro, hanno scelto tre lampadari e mi hanno fissato il prossimo appuntamento: Passeremo a ritirare la merce a fine mese».

Articolo del 24 Novembre 2013 da  ilfattoquotidiano.it

Camorra, denunciò i clan. La famiglia lo lascia solo, lo Stato non lo risarcisce

di Antonella Beccaria

Luigi Leonardi, a causa delle estorsioni, ha perso due fabbriche di impianti di illuminazione, i negozi e la casa. Negli anni ha subito minacce ed è stato sequestrato. Le sue dichiarazioni hanno portato a due processi, per questo la famiglia, sospettata di essere vicina ai Di Lauro, non gli rivolge più la parola da 5 anni. Adesso l’imprenditore chiede che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia e un risarcimento

Ha 39 anni e da 5 non riceve dalla sua famiglia un messaggio, nemmeno un augurio per Natale. Ma fino a qualche anno fa le feste comandate, però, gliele ricordavano gli “esattori” della camorra, gli stessi che gli chiedevano il pizzo e che per l’occasione, oltre ai 6 mila euro a settimana, gli volevano imporre un’integrazione di 1500 euro. Luigi Leonardi, nato a Napoli nel 1974 e oggi riparato in una località in provincia di Salerno, a causa del racket ha perso le sue due fabbriche di impianti di illuminazione e i relativi negozi, distribuiti tra Cardito, Nola, Giugliano e Melito, nel Napoletano. Ed è accaduto nonostante si sia ribellato al “sistema” che cercava di stritolarlo presentando 18 denunce nell’arco di 12 anni. Denunce che hanno portato a due processi, il primo celebrato davanti al tribunale di Nola e giunto a sentenza di primo grado il 31 maggio 2010 con condanne per 63 persone e periodi di reclusione che vanno tra 5 ai 17 anni.

Il secondo processo, invece, è ancora in corso a Napoli. Partito a rilento con udienze rinviate per 5 volte a causa di difetti di notifica, sta entrando nel pieno e il 22 ottobre Luigi Leonardi racconterà davanti al collegio giudicante la sua vicenda che ha ricostruito in due incontri con ilfattoquotidiano.it, il primo a Sasso Marconi, in provincia di Bologna, e il secondo a Firenze, nella sede dell’Associazione stampa Toscana. Qui esordisce affermando che, rispetto ai testimoni di giustizia, “i pentiti hanno più voce in capitolo. Chi invece non ha mai voluto avere a che fare con i clan, avrebbe diritto almeno allo stesso tipo di protezione offerto ai collaboratori”.

L’affermazione trova ragione nel fatto che l’imprenditore napoletano, nel corso degli anni, ha subito diversi atti di violenza. Oltre alle intimidazioni dei clan napoletani di Secondigliano, Melito, Marano e Ottaviano, ognuno dei quali pretendenva la propria fetta sul fatturato di Leonardi, poi si è passati alle vie di fatto. Prima c’è stata l’auto dell’imprenditore sbalzata fuori strada al termine di un inseguimento. Poi un’aggressione, a metà 2009, a suon di spranghe di ferro che l’hanno fatto finire in ospedale con una diagnosi di cecità temporanea all’occhio sinistro. E ancora, nel settembre dello stesso anno, l’uomo è stato sequestrato e tenuto per 24 ore prigioniero nelle Case Celesti di Secondigliano, un rione ad alto degrado soprannominato “terzo mondo”.

“In quelle ore”, racconta Leonardi, “mi hanno puntato contro una pistola e mi hanno fatto vedere cambiali per un valore di 26 mila euro che ovviamente non erano mie. Ma pretendevano che le pagassi e per assicurarsi che lo facessi, nonostante li avessi già denunciati, mi hanno preso l’automobile e la moto, che secondo loro valevano la metà dell’importo che mi chiedevano”. Poi lo hanno rilasciato pensando di averlo “ammorbidito”. Invece l’imprenditore è andato avanti, presentandosi a carabinieri, polizia e sostituti procuratori ogni volta che lo convocavano per stendere un nuovo verbale. “Così, alla fine, mi hanno bruciato l’ultimo negozio che mi era rimasto, quello di Melito: in due ore se n’è andato in fumo l’ultimo pezzo della mia attività commerciale”.

Oggi le fabbriche non esistono più e nemmeno i punti vendita. Erano stati aperti a partire dal 1997. Allora Luigi Leonardi, giovanissimo, aveva investito il denaro che con la madre era riuscito a mettere da parte, circa 75 milioni di vecchie lire. Con lui c’erano i fratelli e per i primi due anni tutto era sembrato andare per il meglio tanto che nel 1999 le imprese di famiglia erano riuscite ad accedere a un finanziamento regionale di 5 miliardi di lire per costruire un capannone industriale a San Giorgio del Sannio, in provincia di Benevento. Con la prima tranche da 1 miliardo e 200 milioni erano stati eseguiti i lavori edili e i contratti con i fornitori dei macchinari erano stati firmati. Ma a quel punto erano iniziati i problemi con i riscossori dei clan.

Problemi che sono l’inizio della fine e che portano alla rinuncia dell’importo restante del finanziamento, a una denuncia penale contro lo stesso Leonardi, accusato – e poi prosciolto – di essersi appropriato di denaro pubblico senza aver concluso il progetto presentato e al tentativo di contenere le richieste dei clan. Ai quali tuttavia non sono bastati gli oltre 70 mila euro che, in un primo tempo, l’imprenditore paga nell’arco di 11 mesi. “A un certo punto mi sono ribellato, ho deciso che di soldi, a loro, non gliene avrei più dati”, spiega. “Fare impresa vuol dire essere liberi, la ‘protezione’ che i camorristi invece offrono è esattamente il contrario della libertà d’impresa. Non si può accettare di finire in quella spirale, ogni cittadino dovrebbe denunciare, malgrado il prezzo da pagare”.

Il prezzo, per Luigi Leonardi, è stato elevatissimo. Con l’entrata in funzione del capannone del beneventano, contava di portare da 20 a 30 i suoi dipendenti, che invece hanno dovuto essere licenziati. Dai 250 mila euro a settimana che fatturava versando regolamente tasse e contributi, è passato a dover farsi bastare 200 euro al mese. Sfrattato dalla casa dove abitava, per un periodo ha occupato un appartamento sopra il negozio di Melito e ha trascorso anche un periodo dormendo in macchina. E ora che ha cambiato città e ha ripreso da libero professionista la sua attività, chiede solo che gli venga riconosciuto lo status di testimone di giustizia e la protezione dello Stato.

“Nel processo in corso a Napoli proveranno a farmi passare per un mafioso”, dice. Il cugino di suo padre, infatti, è Antonio Leonardi, arrestato a fine 2012 e sospettato di essere affiliato al clan Di Lauro. “Con la camorra, però, non ci ho mai avuto a che fare. Il paradosso di questa situazione è che so che se mi fossi rivolto a lui, i miei problemi si sarebbero risolti in un attimo, ma la mia scelta è stata quella di mettermi dalla parte della legalità”. Per questo la famiglia lo ha cancellato. “Ti stavi zitto e non succedeva niente”, gli hanno detto.

Invece lui ha parlato, prima con i carabinieri del nucleo operativo di Castello di Cisterna e poi con gli agenti della squadra mobile di Napoli venendo sentito in un primo tempo dal sostituto Luigi Alberto Cannavale e in seguito dal collega Francesco De Falco, che oggi rappresenta l’accusa contro i boss che Leonardi accusa. “Se rifarei tutto?”, afferma alla fine. “Sì, non mi pento di aver parlato, starei solo più attento a conservare meglio le carte”. Si riferisce alle fatture e ai documenti bruciati nel negozio di Melito, quelli che oggi gli impediscono di essere risarcito a causa di un altro muro che si è trovato davanti, la burocrazia. “Mi hanno detto che non avendo più alcuna pezza d’appoggio non posso dimostrare l’entità del danno che ho subito. E allora, per fare qualcosa, sto pagando di tasca mia perizie che accertino quest’altro sopruso. Anche a queste assurdità lo Stato dovrebbe pensare”.

Articolo del 25 Agosto 2015 da lacittadisalerno.gelocal.it

Lotta contro la criminalità organizzata: «Ho denunciato ma oggi non ho nulla»

Luigi Leonardi negli ultimi quattro anni ha cercato di riavviare le sue attività tra Cava e l’Agro. Ha incastrato i clan di Davide Speranza

Cinque clan denunciati. Due processi, uno a Nola che ha coinvolto 62 vittime e 63 arresti, l’altro a Napoli la cui sentenza in primo appello uscirà a ottobre contro 11 persone.

Due interrogazioni parlamentari di Luigi Di Maio del M5S. Questo il bilancio di un cammino faticoso che il napoletano Luigi Leonardi ha dovuto subire dopo aver denunciato le innumerevoli estorsioni a suo danno. Negli ultimi anni era molto conosciuto nella zona tra l’Agro nocerino e Cava dove era riuscito a far decollare per l’ennesima volta la propria azienda di illuminotecnica: risiedeva a Cava i da quattro anni. Poi la decisione di tornare a Napoli, vicino ai familiari, e di ricominciare ancora da capo. La sua è una storia infinita, cominciata con la prima richiesta di soldi, nel 2001, a Nola, da parte degli uomini del clan Russo. Luigi è un imprenditore promettente. Quattro aziende aperte: Leo Lamp, Gi- Max, Luci Alternative e Lucignolo Illuminazione. La prima filiera viene aperta nel 1997 a Melito. Nel giro di pochi anni, tra il 1997 e il 2002, tirano su due fabbriche e cinque negozi. Ottiene un finanziamento agevolato con la legge 488, attingendo a cinque miliardi delle vecchie lire. «Facemmo una serie di progetti, tra cui uno sul beneventano», racconta Luigi. «Poi sono cominciate le estorsioni ed è finito tutto». La prima avviene a San Vitaliano. «Arrivarono tre personaggi. Questa estorsione è scaturita in un maxiprocesso che ha riguardato il clan Russo. Tra i condannati, c’erano cinque dei miei estorsori. Hanno preso 14 anni a testa, però qualcuno sta già uscendo. Quel pomeriggio si presentarono in negozio. Ai clienti ordinarono di uscire fuori. “Ti sei messo a posto con i compagni della zona?” mi dissero. Iniziarono a contare le saracinesche. “Ci devi dare 500 euro a saracinesca al mese, 5mila euro a Pasqua, Natale e a Ferragosto”». Ma non riescono a convincere Luigi a pagare. All’altezza del carcere di Secondigliano la macchina di Leonardi viene sbalzata in aria. Il giovane si salva per miracolo, pur riportando ferite gravi. Dopo l’incidente, i camorristi tornano ancora, senza alcuna pietà. Su pressione dei familiari, Luigi paga. Ed è la fine. «Pagai solo la prima rata – scrive l’imprenditore napoletano nella sua deposizione – ma fu abbastanza per ritrovarmi tutti i clan dei territori sui quali avevo i negozi, portando la tesi che “a Nola non erano meglio di loro”».

Melito, Giugliano, Cardito, Napoli. Tutti i negozi subiscono lo stesso trattamento. Luigi e la sua famiglia sono costretti a vendersi mobili, quadri, macchine, orologi, vestiti per poter mangiare. «Il caso ha voluto che su San Vitaliano stessero indagando i carabinieri di Castello di Cisterna. Quando andai a denunciare, loro già sapevano tutto. Nel 2009 nell’aula bunker di Poggioreale, c’erano gabbie con 170 persone dentro. Dichiarai tutto. La settimana dopo, mi hanno incendiato il negozio di Aversa».

Dopo aver riaperto l’attività, Luigi si vede arrivare al negozio di Melito quattro persone: tre di queste appartenenti al clan Silvestri più Giuseppe Gennaro detto “Peppe ‘o Chiatt”, che dopo diverse intimidazioni lo sequestrano portandolo nelle “Case Celesti” costringendolo a pagare 30 mila euro di cambiali. Luigi denuncia tutti. Si separa dalla compagna, i familiari terrorizzati lo abbandonano. Vanno a processo undici persone. Sette arrestati e tre a piede libero.

Uno di questi minaccia suo fratello con una pistola in Germania: Luigi si è trasferito da poco a Cava iniziando una nuova vita e lavorando tra il Cava, Salerno e l’Agro nocerino. Poi l’incontro col pm Francesco De Falco ed è la svolta.
Viene chiamato a deporre. Il prossimo 21 ottobre la sentenza. Qualche intoppo ha continuato ad assillarlo: lo Stato gli ha rifiutato l’ingresso nel programma protezione testimoni. «Questi sono anni che a me non restituisce più nessuno. Mi aspetto giustizia».

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